cartoni animati – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “…Tre cose belle ha il mondo”: Love, Death & Robots. https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/tre-cose-belle-ha-il-mondo-love-death-robots/ Fri, 18 Jun 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66778 di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad [...]]]> di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad – ebbe, mai dimenticato quasi due decenni dopo, un meno riuscito e meno fortunato seguito, Heavy Metal 2000 – almeno la colonna sonora restava notevole comprendendo Voivod, Pantera, Bauhaus e affini – che però aveva offuscato l’immagine ancora vivida del predecessore, lasciando un po’ d’amaro in bocca  ai fan e molta voglia di un remake degno.

L’idea solleticava da anni la fertile mente di David Fincher, regista di video di gruppi appropriati come Aerosmith e Nine Inch Nails, passato poi al cinema con il terzo episodio della saga di Alien e il fortunato noir Seven, consacrato nel 1999 da Fight Club, adattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, e confermato autore interessante soprattutto da film personali e provocatori come Zodiac (2007), ispirato alla vera storia del Killer dello Zodiaco, e  L’amore bugiardo – Gone Girl (2014), dal best-seller di Gillian Flynn. A lui si era poi affiancato Tim Miller, regista e sceneggiatore proveniente da un cinema più leggero e disimpegnato come quello dei Marvel Comics con Deadpool (2016) o della saga di Terminator, con l’ultimo episodio Dark Fate (2019). Il progetto, supervisionato da un’esperta di animazione, la Jennifer Yuh Nelson di Kung Fu Panda 2 e 3, e prodotto e distribuito da Netflix, si è trasformato nel 2019 nell’ottima serie, già giunta al momento attuale alla seconda stagione, che prende il titolo di Love, Death & Robots.

Il piccolo miracolo di cui si diceva all’inizio consiste nell’aver saputo – come già fu per l’illustre antecedente – coniugare perizia tecnica, innovazione visuale e consistenza tematica in un percorso grafico attraverso numerosi classici della short-story fantascientifica, spazianti dall’avventuroso-action al riflessivo-sociologico, dallo splatter all’erotico. La serie sa cogliere perfettamente quella dimensione del testo breve e brevissimo che è una piacevole consuetudine della migliore tradizione fantastica, in cui il racconto – esauribile in una singola seduta di lettura – emerge, da Poe in poi, assai maggiormente del romanzo, come espressione più tipica e meglio realizzata del weird&eerie, del sense of wonder, della sospensione dell’incredulità necessaria perché il meccanismo fantastico e speculativo funzioni davvero. L’efficacia di questa formula è confermata da altre recenti e riuscitissime serie antologiche di film a episodi tenute insieme da una coerenza di carattere tematico, come Black Mirror, letterario come Philip K. Dick’s Electric Dreams, o atmosferico-scenografico come Tales from the Loop.

Gli episodi di Love, Death & Robots, dalla durata variabile compresa fra un minimo di sei minuti e un massimo di una ventina, spaziano oltre che attraverso le diverse declinazioni tematiche della fantascienza, anche attraverso tutte le possibilità dell’immaginario visuale dei comics e dei cartoni animati. Dal disegno caricaturale e umoristico, a quello astratto e stilizzato, fino al realistico e all’iperrealistico del live-action, derivato dal full motion video tipico di molti videogiochi, che utilizza foto di attori reali per trasformarle in disegni in movimento. I risultati sono piacevolmente variegati ed efficaci.

I diciotto cortometraggi della prima stagione più gli altri otto della seconda attingono ai testi dei più significativi autori, classici e recenti, della fantascienza angloamericana. Fanno decisamente la parte del leone con numerose short-stories i più prolifici e famosi John Scalzi e Joe R. Lansdale, ma si piazzano bene anche i britannici Alastair Reynolds, autore di Hard SF e di Space opera, e il sodale, anche lui britannico e space operistico, Peter F. Hamilton, il sino-americano Ken Liu, l’ex cyberpunk statunitense Michael Swanwick, l’italo-americano premio Locus e Nebula Paolo Bacigalupi. Si segnalano storie che spaziano dall’umoristico-elegiaco (Three Robots), al surreal-demenziale (When the Yogurt Took Over), al cyberpunk (The Witness), alla parabola femminista più o meno scontata (Sonnie’s Edge o Good Hunting), all’ucronia (Alternate Histories o The Secret War), all’horror erotico (Beyond the Aquila Rift), al dark-fairy-tale natalizio (All Through the House), al SF noir in stile Blade Runner (Pop Squad).

Fra i classici non si staglia particolarmente Harlan Ellison con Life Hutch, racconto del 1956 – come spesso Ellison, piuttosto sadico e iperviolento – su un prevedibile malfunzionamento robotico all’interno di una cabina di salvataggio che crea grossi problemi ad un naufrago aereospaziale su un pianeta alieno. Il problema più che nella storia in sé sta nella realizzazione grafica piuttosto piatta e priva di suspense del regista Alex Beaty. Un vero capolavoro invece l’altro classico, The Drowned Giant, l’episodio in assoluto migliore della serie, diretto dallo stesso Tim Miller e tratto da un assiomatico racconto di uno dei più grandi autori postmoderni che abbiano onorato la fantascienza: James G. Ballard, scrittore spesso, ma non in questo caso, ampiamente sacrificato o edulcorato nella larga maggioranza delle trasposizioni cinematografiche dalle sue opere. Pare che Miller abbia perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard riuscendo finalmente ad ottenere da loro l’autorizzazione all’adattamento del famoso racconto: non se ne saranno certo pentite.

A differenza dei lungometraggi tratti dai suoi principali romanzi, nessuno dei quali rigorosamente fedele allo spirito ballardiano – vuoi il troppo patinato Crash di David Cronenberg (1996), vuoi l’irresoluto High Rise, La rivolta di Ben Wheatley (2015), vuoi il caotico The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss (2000), vuoi, anche al di fuori della fantascienza, il caramellato L’impero del sole (Empire of the sun) di Steven Spielberg (1987) – la trasposizione animata del racconto breve scritto nel 1964 cattura senza infingimenti l’immaginario drastico del Bardo di Shepperton e lo riporta correttamente alle sue radici simboliste e surrealiste con un gusto figurativo, un ritmo letargico e un’atmosfera rarefatta davvero rari.

Tim Miller ha già confermato l’avvio di una terza stagione che vedrà anche il ritorno del trio di simpatici robot apparsi al debutto della serie (Three Robots: l’eredità di Robbie de Il pianeta proibito o della coppia R2-D2 e C3PO dello Star Wars originale sembra infinita…) e che, riprendendo la struttura molto più coesa della seconda stagione rispetto alla prima, sarà ancora composta da otto puntate. Su questo punto la critica non è concorde: chi sostiene che la prima stagione era più innovativa e varia per stile e argomenti e considera la seconda un passo indietro verso un maggiore conformismo visivo e tematico, chi al contrario la accusa di dispersività e di eccessiva disparità fra episodi efficaci e mediocri e preferisce la seconda stagione più sintetica, organica e compatta. In realtà, considerando lo show nel suo complesso, si può affermare con obbiettività che il livello medio di entrambe le stagioni è, come si è già detto, più che soddisfacente e la risonanza acquisita da Love, Death & Robots, con tanto di logo stilizzato divenuto iconico tra i fan, sembrerebbe suffragarlo..

L’unico appunto possibile, almeno rispetto alla gloriosa tradizione da cui la serie deriva, riguarda la colonna sonora che tradisce quasi totalmente quell’Heavy Metal da cui avrebbe dovuto originarsi, attestandosi invece su una neutralità estremamente spuria ed eterogenea (country-blues, elettronica, disco, perfino l’immancabile Walkiria di Wagner, lo Star Spangled Banner e la Kalinka del Coro dell’Armata Rossa): un soundtrack di puro commento intradiegetico quindi, o al massimo di sottofondo atmosferico privo di particolari connotazioni. Questo si che è davvero un passo indietro, almeno per chi, come me, appartiene alla vecchia generazione, assuefatta ad associare l’overdrive delle chitarre distorte con quello dei motori delle astronavi…

 

 

 

 

 

 

 

 

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Alla ricerca del Goldrake perduto https://www.carmillaonline.com/2018/06/30/alla-ricerca-del-goldrake-perduto/ Fri, 29 Jun 2018 22:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46666 di Paolo Lago

Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake. La vera storia del robot giapponese che ha rivoluzionato la TV italiana, note introduttive di M. Gusberti, P. De Benedetti, con un saggio di G. Di Fratta, Società Editrice La Torre, San Marco Evangelista (CE), 2017, pp. 660, € 24,50.

Il recente saggio di Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake, possiede veramente uno sguardo enciclopedico. Al centro di questo studio, infatti, non vi è solo la figura di Goldrake o la serie di cartoni animati Atlas Ufo Robot, ma numerosi risvolti culturali e sociali [...]]]> di Paolo Lago

Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake. La vera storia del robot giapponese che ha rivoluzionato la TV italiana, note introduttive di M. Gusberti, P. De Benedetti, con un saggio di G. Di Fratta, Società Editrice La Torre, San Marco Evangelista (CE), 2017, pp. 660, € 24,50.

Il recente saggio di Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake, possiede veramente uno sguardo enciclopedico. Al centro di questo studio, infatti, non vi è solo la figura di Goldrake o la serie di cartoni animati Atlas Ufo Robot, ma numerosi risvolti culturali e sociali di un periodo, perlopiù quello degli anni Settanta e dei primi Ottanta, con estensioni dell’analisi anche agli anni Cinquanta e Sessanta. Il lavoro di Nicora è sicuramente il più corposo (660 pagine) fra gli svariati saggi dedicati a Goldrake o agli anime giapponesi in generale: come l’autore scrive in conclusione, «il libro avrebbe potuto essere più corto? No, anzi avrebbe potuto essere più lungo», testimonianza di una ricerca durata dieci anni. Lo sguardo enciclopedico dell’autore si esplica nell’analisi a tutto tondo di un preciso milieu culturale e sociale attraversato da un certo tipo di generi, di trasmissioni televisive, di opinioni, di modi di sentire. Non si tratta quindi soltanto di un libro su Goldrake ma di una summa enciclopedica sull’intero sfondo sociale e culturale nel quale la serie di cartoni animati si trova inserita. Perché, come nota l’autore, «la ricerca del nostro tempo perduto è una ricerca continua», proprio «come le nostre passioni, che nascono e non muoiono mai».

Si comincia quindi con una serrata disamina del cinema di fantascienza americano e giapponese degli anni Cinquanta, soprattutto incentrata su Ultimatum alla Terra (1951), diretto da Robert Wise. Se la cinematografia di fantascienza americana ha avuto un notevole impatto su quella giapponese, è anche vero che quest’ultima mette in scena delle opere peculiarissime, segnate in maniera evidente dalla sua storia recente e dal disastro atomico, nonché impresse in una differente matrice culturale. Dopo il grande successo di Godzilla (Gojira, 1954), diretto da Ishiro Honda, si realizzano interessanti esperimenti, fra cui Gli uomini spaziali atterrano a Tokyo, (1956) diretto da Koji Shima, che presenta figure di alieni a forma di stella marina con un unico occhio al centro. Un altro interessante film giapponese di fantascienza è, secondo la traduzione italiana del titolo, Forza di difesa della Terra (1957), diretto da Ishiro Honda, che esce negli Stati Uniti col titolo The Mysterians e in Italia col titolo I misteriani. In esso è presente la figura di gigantesco robot, di nome Mogera, «che sbuca improvvisamente dalle viscere della terra e avanza distruggendo ogni cosa con la sua mole imponente e sparando raggi dagli occhi».

Proprio questo cinema di fantascienza è il migliore background per la nascita del primo robot dei cartoni animati giapponesi, Mazinga Z (1972), seguito da Il Grande Mazinga (1974), frutto della fantasia di Go Nagai. L’idea per la creazione del robot venne a Nagai da una sua esperienza quotidiana: guardando una strada in cui gli automobilisti erano imbottigliati nel traffico, si immaginò che alle loro auto spuntassero braccia e gambe in modo da consentirgli di scavalcare facilmente la coda. Curiosa è anche l’origine del nome di Mazinga, il quale rimanda quasi ad una antica divinità, poiché risulta composto da due ideogrammi: ma che significa «demone» e jin, che significa «dio». Una novità assoluta rispetto agli altri robot dei film di fantascienza, poi, è la modalità di pilotaggio di Mazinga: non si tratta, infatti, di un robot che si muove autonomamente, ma viene guidato da un pilota posizionato in una cabina interna allo stesso robot, come se si trattasse di un velivolo o di un’automobile alla quale fossero spuntate braccia e gambe. Il plot degli episodi è sempre lo stesso: Mazinga deve affrontare delle battaglie all’ultimo sangue contro dei mostri mandati dai terribili nemici che vogliono impossessarsi della Terra.

Sul medesimo schema narrativo è costruita anche la successiva serie di Ufo Robot Grendizer (nome originale di Goldrake), sempre realizzata da Go Nagai, trasmessa in Giappone per la prima volta il 5 ottobre 1975. A pilotare il robot incontriamo Daisuke Umon (che nella versione italiana verrà rinominato Actarus), il cui vero nome è Duke Fleed, principe del pianeta Fleed, fuggito sulla Terra a bordo di Ufo Robot Grendizer dopo che la sua patria è stata distrutta dalle truppe di Re Vega. La prima puntata si apre con il ritorno in Giappone di Koji Kabuto (Alcor), l’ex pilota di Mazinga Z, che si dirige al Centro di Ricerche Spaziali del professor Umon (Procton) a bordo di un disco volante da lui stesso progettato. Atterra nei pressi della fattoria Shirakaba (Betulla Bianca) e fa la conoscenza dei membri della famiglia Makiba: Danbei (Rigel), un simpatico ranchero, il piccolo Goro (Mizar) e la bella Hikaru (Venusia). Come nelle precedenti serie di Mazinga, la trama è tutta incentrata sugli scontri fra i mostri inviati dal terribile nemico che intende conquistare la Terra, in questo caso Vega, e Grendizer, il quale naturalmente trionferà sempre. L’analisi rigorosa di Nicora abbraccia ogni sfaccettatura della serie, dalla sigla giapponese ai manga, fino a spingersi ad un competente focus sulla «Mazingsaga coreana», cioè sul cinema di animazione sudcoreano che giunge a creare un lungometraggio avente come protagonista un robot autoctono sulla falsariga di Mazinga, Robot Taekwon V.

Lo sguardo critico dell’autore si sposta quindi sulla fortuna estera di Grendizer, a cominciare dalla Francia, paese attraverso il quale la fama della serie animata è poi stata traghettata in Italia. È merito di Bruno-René Huchez, impiegato presso un’azienda giapponese in Francia dedita all’import-export fra Giappone e Francia, l’aver scoperto, a Tokyo, facendo zapping alla TV, gli anime di Mazinga e di Grendizer. Dopo una serie di vicissitudini legate alla produzione e all’acquisto della serie, finalmente Grendizer approda su Antenne 2, nel luglio 1978, con il nome di Goldorak.

L’analisi si focalizza quindi sull’Italia. La vocazione filologica (in senso positivo) del libro di Nicora fa sì che non si passi subito a parlare di Goldrake ma che si prepari il suo arrivo con una sottile disamina della «TV dei Ragazzi in Italia prima di Goldrake». La Rai degli anni Cinquanta, la «TV dei Ragazzi», le varie trasmissioni e programmi educativi, le prime serie a puntate (basti ricordare Zorro, Lassie, Rin Tin Tin, Furia) fino ai cartoni animati di Braccio di Ferro, di Braccobaldo, del Gatto Silvestro, degli Antenati e ai fumetti in TV di Gulp! e SuperGulp!. Ancora una volta, il saggio si presenta come una specie di enciclopedia della cultura e dello spettacolo italiani degli anni dai Cinquanta ai Settanta. La ‘scoperta’ italiana di Grendizer si deve a Nicoletta Artom, una funzionaria Rai che si batté, appunto, per portare la serie animata giapponese, ‘filtrata’ attraverso la traduzione francese, su Rete Due, dove debuttò il 4 aprile 1978, col nome di Atlas Ufo Robot. Una curiosità: da dove esce questo «Atlas» (nome con il quale viene identificato il disco volante di Goldrake) del titolo italiano? Ebbene, deriva – sembra non per un errore – dal nome apposto sulla copertina del raccoglitore contenente il materiale descrittivo inviato in Italia. «Atlas», infatti, in francese significa «guida», «collezione di mappe geografiche», «raccolta di tavole figurate» (si pensi all’italiano «atlante»). La voce di Actarus (nome che deriva dalla versione francese Arcturos) è affidata a Romano Malaspina, quella di Alcor a Giorgio Locuratolo mentre la sigla di testa è composta da Vince Tempera (e suonata da musicisti del calibro di Ares Tavolazzi e Ellade Bandini) e cantata da Michel (Alberto) Tadini.

È subito un enorme successo: la Rai viene inondata di lettere di bambini che ‘scrivono’ a Goldrake chiedendo curiosità e retroscena sui personaggi e sulla trama. Il grande successo possiede comunque anche un altrettanto grande strascico di polemiche. Il principale fautore di queste ultime è Silverio Corvisieri, appartenente a Democrazia Proletaria e membro della commissione di Vigilanza Rai, il quale definisce Goldrake come «antidemocratico e violentissimo». Viene fatto inoltre appello agli schieramenti politici e Goldrake è bollato ‘di destra’ (Dario Fo chiama in causa il fascismo), anche a causa dell’odio per i ‘diversi’, gli abitanti del pianeta Vega, identificati come nemici. Ciò non è del tutto vero – ribadisce Nicora – se pensiamo che Actarus è egli stesso un ‘diverso’, ‘immigrato’ sulla Terra dal Pianeta Fleed, e combatte come un ‘partigiano’ assieme ai terrestri contro le violenze del ‘regime’ di Vega. Molti giornalisti, intellettuali, e personaggi dello spettacolo si schierano poi a favore di Goldrake: basti ricordare Luca Goldoni, Oreste Del Buono, Gianni Rodari, Marco Ferreri.

In fin dei conti, non ci si può elevare più di tanto a ‘censori’ perché i bambini e i ragazzi sanno già selezionare ciò che fa parte della fantasia e ciò che, invece, fa parte della realtà: ciò che si vede in Atlas Ufo Robot fa esclusivamente parte del regno della fantasia, dell’immaginazione e, anzi, esso ci potrebbe servire (a tutti, indistintamente adulti e bambini) per sconfiggere la violenza silenziosa, la crudeltà e la dolorosa assuefazione ad essa che si cela nella realtà di tutti i giorni. Probabilmente, anche l’immaginario di Goldrake fa parte di quella «immaginazione al potere» che, sulla scorta di Marcuse, diviene una delle parole d’ordine degli studenti del Sessantotto e, poi, degli anni Settanta (la sigla di Goldrake – c’è da dire – veniva cantata dagli studenti durante le manifestazioni). Una immaginazione attraverso la quale si possono potenziare le istanze di liberazione dai meccanismi di schiacciamento della quotidianità e della nuda realtà, una immaginazione che adesso ritroviamo, come una madeleine proustiana, grazie al bel libro di Massimo Nicora.

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