Carso – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’Officina del macello: la “decimazione” nella Grande Guerra italiana raccontata da un graphic novel https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/lofficina-del-macello-la-decimazione-nella-grande-guerra-italiana-raccontata-da-un-graphic-novel/ Tue, 12 Jan 2016 22:30:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27732 di Armando Lancellotti

officina del macellobluGianluca Costantini, Elettra Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Eris, Torino, 2014, 127 pagine, € 15,00

Il graphic novel Officina del macello, di Gianluca Costantini, artista visivo e disegnatore e di Elettra Stamboulis, autrice del testo e i quattro brevi saggi che lo accompagnano riportano alla luce un episodio tanto tragico quanto poco conosciuto della storia italiana di un secolo fa: la decimazione, avvenuta nell’estate del 1917 a Santa Maria la Longa, nelle immediate retrovie del Carso, della Brigata Catanzaro, rea di rivolta [...]]]> di Armando Lancellotti

officina del macellobluGianluca Costantini, Elettra Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Eris, Torino, 2014, 127 pagine, € 15,00

Il graphic novel Officina del macello, di Gianluca Costantini, artista visivo e disegnatore e di Elettra Stamboulis, autrice del testo e i quattro brevi saggi che lo accompagnano riportano alla luce un episodio tanto tragico quanto poco conosciuto della storia italiana di un secolo fa: la decimazione, avvenuta nell’estate del 1917 a Santa Maria la Longa, nelle immediate retrovie del Carso, della Brigata Catanzaro, rea di rivolta armata e ammutinamento.

Si tratta di vicende storiche al contempo note e sconosciute, come avviene per molte delle pagine più cupe e negative della storia italiana: si pensi alla brutale repressione militare “piemontese” del brigantaggio meridionale, alle campagne coloniali in Libia o nel Corno d’Africa, al razzismo d’oltremare e metropolitano, alle stragi efferate conseguenti alle operazioni di polizia coloniale, ai campi di concentramento del duce, ai crimini di guerra in Jugoslavia, ecc.
“Note e sconosciute”, si diceva e – si badi bene – l’incongruenza ossimorica è solo apparente, trattandosi di tracce mnestiche che giacciono semi-inconsce in un angolo buio della coscienza collettiva, che solo in rare occasioni vengono strappate alla latenza dell’oblio per riapparire all’orizzonte della consapevolezza.
E così è noto agli studiosi e si legge nei saggi specialistici come in quelli manualistici che il Regio Esercito italiano – unico tra gli eserciti belligeranti – ricorse più volte alla barbara pratica punitiva della decimazione dei suoi stessi soldati, ma poi questa primitiva concezione della disciplina militare, che meriterebbe studi ed analisi approfondite, passa in subordine a vantaggio di altri aspetti della Grande Guerra che maggiormente richiamano l’attenzione di studiosi ed opinione pubblica negli anni del centenario del primo conflitto mondiale ed altrettanto dicasi di questioni quali la diserzione, la renitenza alla leva o il destino dei prigionieri di guerra italiani, ecc.

officinamacello2La Brigata Catanzaro, ricordano Giulia Sattolo e Matteo Polo nelle pagine che aprono il volume, era formata dal 141^ e dal 142^ reggimento di fanteria, costituiti rispettivamente a Catanzaro e a Vibo Valentia nel gennaio e nel marzo del 1915. I fanti della Brigata erano prevalentemente calabresi e di seguito anche siciliani, pugliesi, lucani e molisani, insomma meridionali e contadini – estrazione sociale questa che accomunava le fanterie di tutti gli eserciti belligeranti – strappati dai campi e dalle loro povere case, arruolati e spediti al fronte dalla ferale decisione di un governo e di un sovrano interventisti in un paese in maggioranza neutralista e per combattere sul fronte del Carso, in una regione non meno lontana e sconosciuta dei paesi da cui provenivano i nemici a cui sparare e per ragioni non meno incomprensibili di quelle che portarono Cadorna a concepire ed ordinare le interminabili (ben dodici), inutili e sanguinosissime battaglie sull’Isonzo.
Insomma buona “carne da cannone”, mandata verso un macello quasi certo, evitabile solo con una consistente dose di fortuna e conseguenza di una guerra immaginata e propagandata come veloce ed immediata e trasformatasi invece in una gigantesca immobile fornace che inghiottiva vittime a milioni su tutti i fronti.

«La Brigata Catanzaro all’atto della mobilitazione del 24 maggio 1915 […] fu inviata in Friuli dove fu inquadrata nella Terza Armata, la famosa “Armata del Carso”, agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta. Infatti la Brigata fu impiegata per oltre due anni sul fronte del Carso, salvo due periodi, prima a Oslavia, nell’inverno del 1915, poi sull’Altopiano di Asiago, durante la Strafexpedition» (p. 12).
I fanti della Brigata Catanzaro combatterono quasi sempre in prima linea, rendendosi protagonisti di atti di grande coraggio e valore che portarono al conferimento della Medaglia d’oro e della Medaglia d’argento al valor militare rispettivamente al 141^ e al 142^ reggimento, ma quei medesimi soldati subirono ben due brutali decimazioni e furono i protagonisti del più importante episodio di rivolta armata nell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale.

La prima decimazione avvenne come conseguenza di uno “sbandamento” della 4^ compagnia del 141^ reggimento, durante la battaglia sul monte Mosciagh nel maggio del 1916 sul fronte degli Altipiani di Asiago e Folgaria, dove la Brigata era stata trasferita per rafforzare la difesa contro la Strafexpedition austriaca. Lo sbandamento avvenne a seguito di «una azione di guerra senza esiti positivi causata anche dalla confusione generata da un improvviso temporale che fece disperdere i soldati nel bosco nei pressi del monte Mosciagh» (p. 9). Ma il codice penale militare prevedeva la punizione esemplare ed inflessibile – come preteso da Cadorna – dello sbandamento delle truppe in battaglia e pertanto «il colonnello Attilio Thermes […] ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per un 1 sottotenente, 3 sergenti e 8 militari di truppa da estrarre a sorte nella ragione di 1 a 10» (p. 13), esecuzione che avvenne il 29 maggio 1916.

officina del macello 4La seconda decimazione fu invece conseguenza della rivolta armata verificatasi il 15 luglio del 1917 a Santa Maria la Longa, dove la Brigata Catanzaro era stata trasferita il 25 giugno per un periodo di riposo. Sono soldati sfiniti da due anni di combattimenti e di vita indecente nelle trincee, stravolti dalla fatica e dall’incubo della morte sempre incipiente; sono uomini raggirati dalle retoriche parole dei superiori ormai rivelatesi vuote di senso e dalle promesse mai mantenute di politici e politicanti; sono contadini esasperati che decidono di sostituire alla rassegnazione l’insurrezione quando – ancora una volta al contrario di quanto a loro prospettato – arriva l’ordine di ritornare a combattere nelle trincee di prima linea.

L’episodio di Santa Maria la Longa può essere interpretato come paradigmatico epifenomeno di un malessere strisciante e crescente che non conosce frontiere o confini, che corre veloce di trincea in trincea, attraversando la “terra di nessuno” e scavalcando il filo spinato, che passa da un esercito all’altro in quel cruciale, epocale 1917. «In Europa c’erano focolai politici di ispirazione socialista. Che anche i fanti» della Brigata Catanzaro «potessero essere a conoscenza di quanto stesse accadendo non lo sappiamo. Sappiamo solo che la maggior parte di loro era analfabeta, che la politica sicuramente era l’ultimo dei loro pensieri, ma non per questo che fossero degli sciocchi, anzi» (p. 9).
Una situazione comune a molti fanti dei diversi eserciti stipati dentro alle trincee, che sempre più frequentemente andavano ribellandosi, ammutinandosi, rifiutando di eseguire gli ordini o, come nel caso della Brigata Catanzaro, rivolgendo le armi contro quegli stessi ordini. Questi atti, anche quando non dettati da precise e consapevoli scelte politiche – situazione in assoluto più frequente nelle trincee della Grande Guerra, se si ritiene che la spontanea ribellione di masse di soldati disperati ed esasperati per le promesse tradite da alti comandi e governi non possa ricevere patente di politicità – venivano brutalmente repressi dai codici penali militari di tutti i paesi belligeranti, nessuno escluso, anche da quelli dei nemici che si fronteggiavano sul fronte del Carso: italiani ed austriaci.

Come apprendiamo dagli studi sull’argomento – tra i più recenti segnaliamo Nicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014 ed in particolare i saggi di Christa Hämmerle e Federico Mazzini (capp. V, VI, pp. 141-183) [recensione su Carmilla] – il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza delle punizioni erano elementi comuni ai due schieramenti, ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (Nicola Labanca, Oswald Überegger, op. cit, p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (Nicola Labanca, Oswald Überegger, op. cit, p.175).

Ricostruiamo sommariamente i fatti avvenuti tra la notte del 15 e il mattino del 16 luglio 1917 con le parole di un testimone degli stessi, Giuseppe Mimmi (1885-1966), sottotenente della 2^ compagnia del 142^ reggimento di fanteria della Brigata Catanzaro. [la testimonianza è tratta da La Grande Guerra. 1914-1918, gruppo editoriale L’Espresso]

«Come ho già detto, ci avevano promesso un lungo riposo, dopo gli ultimi eventi bellici, del quale avevamo assolutamente necessità, se non che improvvisamente, il 3 luglio venne l’ordine di ritornare in linea, durante la notte, per riparare ancora una volta, alle deficienze altrui. Il fante non apprese la comunicazione con il consueto rassegnato stoicismo e passò all’offensiva».

Risulta chiaro dalle parole del sottotenente quali siano le cause immediate della rivolta: la stanchezza, l’esaurimento delle forze e la delusione per l’ennesima promessa tradita. Si evince poi, dalle parole che seguono, che l’insurrezione avrebbe dovuto avere soprattutto un significato dimostrativo.

«La sera, eravamo ancora alla mensa, quando giunse trafelato un porta ordini del comando di reggimento, ad avvertire, che la truppa si era ammutinata nei baraccamenti del 141°. Accorremmo subito, mentre una nutrita sparatoria si udiva dalla parte dove era scoppiata la rivolta. Nella baracca della mia compagnia, trovai ancora un discreto numero di uomini, che al buio, radunai dietro un greppo, per evitare i colpi, che ininterrotti partivano dall’altro lato della strada, ma nella confusione del momento, non mi fu possibile procedere ad un appello, neppure sommario dei presenti. Molti ne mancavano e si erano uniti ai rivoltosi. Intanto la sparatoria aumentava di intensità ed alla fucileria, si erano aggiunti gli scoppi delle bombe a mano e degli spezzoni di gelatina, ma doveva trattarsi di una dimostrazione senza scopi più cruenti, perché non si udiva il sibilo radente delle pallottole, segno evidente, che sparavano in aria. […]
Nel frattempo la notizia era giunta ai comandi di divisione e di corpo d’armata e numerosi ufficiali si erano precipitati a S. Maria la Longa, per rendersi conto della situazione».

Da Udine il Comando d’Armata fece arrivare una compagnia di carabinieri, 4 mitragliatrici, 2 autocannoni ed iniziò una battaglia che causò una decina di morti e una trentina di feriti. Riportato l’ordine, prese il via la repressione punitiva.

officina del macello 99«Per tutta la notte la sparatoria continuò violenta, per diminuire verso l’alba, fino a cessare del tutto. Alla distribuzione del caffè, ognuno era tornato al suo posto, come se nulla fosse accaduto e nessuno dei militari della mia compagnia fu trovato negli accantonamenti del 141°.
L’increscioso episodio di indisciplina era così venuto a cessare, ma le ripercussioni troppo gravi, per la forma e per il luogo dove era avvenuto, perché non dovesse avere conseguenze severamente tragiche ed esemplari. Il Comando Supremo dispose infatti l’immediata decimazione. […] Quello che avvenne di poi, non posso descriverlo con esattezza nei macabri particolari, perché fortunatamente non fui obbligato ad assistervi, ma so che i designati vennero ammassati nel recinto del cimitero, con la faccia rivolta al muro e dietro di essi, ad una ventina di passi, i plotoni di esecuzione. Alle spalle di questi, sezioni di mitragliatrici dei carabinieri, pronti a far fuoco se i giustizieri non avessero seguito gli ordini perentori. Alle prime scariche, non tutti caddero e gli scampati cercarono di fuggire, tentando di scavalcare il muro; ne seguirono le scene più selvagge, poiché entrarono in azione le armi automatiche, che con le loro raffiche raggiunsero i fuggiaschi. Alla fine dell’autentico macello, un ufficiale dei carabinieri, diede con la rivoltella il colpo di grazia agli agonizzanti».

Ventotto furono le vittime della decimazione e conseguente fucilazione. Significative, infine, le riflessioni complessive dello stesso Mimmi sull’accaduto.

«Penso invece, che sarebbe stato necessario indagare sulle cause che hanno determinato le rivolte, avvenute tutte nelle unità dislocate nel basso Isonzo e sul Carso, le quali non hanno mai dato segno di pusillanimità e si sono battute sempre eroicamente. Se gli alti comandi non si fossero limitati a vedere le cose dal trincerone del caffè Dorta, ma avessero ascoltato le giuste lamentele dei combattenti, sarebbe stato facile impedire tanti deplorevoli eccessi».

Il saggio di Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Fucilazione e decimazione nel diritto italiano del 1915-1918, che nella parte conclusiva del volume (pp. 103-114) segue la “narrazione grafica” degli avvenimenti appena ricostruiti, chiarisce quali fossero (o non fossero) i presupposti giuridici delle feroci procedure punitive adottate dall’esercito italiano durante la Grande Guerra.
In un paese che col Codice Zanardelli del 1889 l’aveva cancellata dal codice penale ordinario, la pena di morte rimaneva nel codice penale militare, come avveniva in tutti gli altri paesi di inizio Novecento. Le tipologie e le procedure della pena capitale all’interno del Regio Esercito possono essere così articolate: «fucilazione per sentenze emanate da tribunali militari, in base a processi regolari secondo le norme del tempo; fucilazioni costituenti esecuzioni sommarie da parte direttamente di ufficiali o per ordine degli stessi nella flagranza di particolari reati; fucilazioni eseguite con il metodo della “decimazione”». (p. 104)

La fucilazione a seguito di un regolare processo avveniva poi con un colpo al petto nel caso di reati giudicati gravi, ma non infamanti o con un colpo alla schiena in caso di reati non solo gravi, ma anche disonorevoli, come il tradimento o lo spionaggio.
Decisamente più ardua è la legittimazione della fondatezza giuridica delle fucilazioni sommarie, per le quali l’inappellabile giudizio del superiore gerarchico, dell’ufficiale che reprimeva in loco e sul momento reati quali lo sbandamento, l’ammutinamento, la diserzione o simili valeva come verbo assoluto e «la morte discendeva dalla decisione insindacabile di un solo uomo, quasi come se un singolo fosse eretto a Dio, da solo assumendo la responsabilità di stabilire che un altro individuo meritava la morte». (p. 106)

officinamacello1Ma ciò che sfugge ad ogni possibilità di giustificazione o comprensione è la pratica della decimazione. «In forza dell’art. 251 del codice penale per l’esercito, al Comandante Supremo era conferita la facoltà di emanare circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra», facoltà di cui si servì Cadorna per introdurre surrettiziamente la decimazione all’interno del codice penale militare italiano. Si tratta di un palese caso di “militarizzazione” del potere legislativo, fenomeno, con accentuazioni diverse, avvenuto in tutti i paesi belligeranti.
Di decimazione ve ne erano poi di due diversi tipi, quella che per ragioni “economiche” – cioè per non “sprecare” un numero eccessivo di forza combattente – colpiva un soldato ogni dieci di un gruppo interamente considerato colpevole dell’atto grave di indisciplina e quella – non a caso definita “aberrante” – che, nell’impossibilità o difficoltà di individuare i colpevoli, decimava un’unità militare, con il rischio, pressoché certo, di colpire anche degli innocenti.
«La decimazione di questo tipo era perciò quanto di più lontano si potesse immaginare da un principio fondamentale della civiltà giuridica» (p. 109), quello che vuole che la responsabilità penale sia solo ed esclusivamente “personale”. «La pena cessava di costituire una reazione fondata sulla responsabilità propria e personale dell’autore del reato, mentre assumeva la ben diversa e aberrante veste della “sanzione esemplare”». (p. 109)
La Brigata Catanzaro, pertanto, subì entrambi i tipi di decimazione, quella “economica” a seguito dei fatti del luglio 1917, quella “aberrante” dopo gli eventi del maggio 1916.

Di queste tragiche vicende tratta con grande forza visiva ed efficacia narrativa il graphic novel di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, che scelgono il linguaggio della narrazione grafica, del fumetto di realtà e di ricostruzione storica per ricordare e riproporre pagine poco conosciute, ma importantissime, della nostra storia.


  •  I saggi presenti nel testo sono di: Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Giulia Sattolo, Massimo Vitale, Matteo Polo, a cui si aggiunge una bibliografia ragionata di Elettra Stramboulis.
  • I due autori del libro hanno collaborato anche alla realizzazione di altri graphic novels come Diario segreto di Pasolini, BeccoGiallo, Padova, 2015; Arrivederci, Berlinguer, BeccoGiallo, Padova, 2013; Cena con Gramsci, BeccoGiallo, Padova, 2012; L’ammaestratore di Istanbul, Giuda edizioni, Ravenna, 2013.


 

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Una trincea, molte prospettive: per una storia transnazionale della Grande guerra https://www.carmillaonline.com/2015/07/30/una-trincea-molte-prospettive-per-una-storia-transnazionale-della-grande-guerra/ Thu, 30 Jul 2015 21:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24134 di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale [...]]]> di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale e mondiale, se non addirittura globale, e dalla periodizzazione più ampia (la guerra combattuta 1914-1918 all’interno della più lunga crisi 1907/1911 – 1923)» (pp.14-15). Consiste piuttosto nell’approccio con cui il gruppo di storici italiani e austriaci, coordinato dai due curatori, ha affrontato il tema della Grande guerra sul fronte sud-occidentale e nelle finalità che si è proposto di conseguire.

Infatti il libro si prefigge di studiare il primo conflitto mondiale «da una prospettiva, se non inedita, certamente innovativa, e per la prima volta perseguita in maniera consapevolmente sistematica, quanto meno nelle intenzioni e nelle modalità» (p.15). La prospettiva è quella di “una storia transnazionale”, che sia in grado di abbandonare e oltrepassare gli approcci nazionali e soprattutto i nazionalismi che quegli approcci motivano e di cui si alimentano. Un punto di vista diverso non solo e non tanto perché mette a confronto voci di studiosi provenienti dalle due parti di un confine che fu un fronte della Grande guerra, ma soprattutto perché non intende tener conto dei confini nazionali, o degli steccati storiografici tradizionali, considerandoli irrilevanti e procedendo ad una ridefinizione dell’approccio e del campo di indagine affinché questi siano, insieme, italiani e austriaci, transnazionali appunto.
Ma, procedendo con ordine, per prima cosa la Grande guerra, sostiene Labanca sulla scorta della storiografia più recente, va intesa come un conflitto europeo, mondiale, globale e totale.
Europeo perché, nato da una crisi regionale (balcanica) sfociata – come è noto – nella dichiarazione di guerra di Vienna a Belgrado, si trasformò in poche settimane in una guerra europea e subito mondiale, disponendo le grandi potenze continentali immediatamente coinvolte – ad eccezione proprio dell’Austria-Ungheria – di estesissimi imperi coloniali. Ebbe così inizio «una guerra in cui i processi di globalizzazione e totalizzazione si fecero immediatamente evidenti» (p.9) e per cui è opportuno aggiungere al concetto di guerra mondiale quello di “guerra globale”, che non si limita a qualificare l’estensione quantitativa del conflitto a più continenti, ma definisce il tipo e la modalità del coinvolgimento dei paesi belligeranti, che fu appunto “totale”, riguardando ed attraversando in tutte le direzioni l’intera società, le istituzioni politiche e gli apparati economico produttivi come mai prima d’allora.
Per quel che riguarda la periodizzazione, il libro lascia intendere che la più corretta sia quella che vede il conflitto del 1914-1918 come il momento più tragico e cruento di una ben più lunga crisi che parte con la rivalità franco-tedesca per il Marocco (1905/1911) e prosegue con la crisi economica del 1907, con l’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina del 1908, con la guerra italo-turca per la Libia del 1911 e le due guerre balcaniche del 1912 e 1913, con la corsa anglo-tedesca agli armamenti navali nel Mare del Nord e che non si conclude definitivamente con il novembre del 1918, ma solo con il trattato di Losanna del 1923 tra la Turchia e le potenze dell’Intesa.
Passando dalla periodizzazione generale a quella particolare, cioè italiana, per un verso risulta più corretto considerare anche per l’Italia la datazione 1914/’18; nonostante, infatti, il conflitto sul fronte carsico-alpino-trentino inizi solo il 23 maggio del ’15, l’Italia, pur non combattendo, era stata già in precedenza profondamente coinvolta nella guerra e l’aspro scontro interno al paese tra neutralisti ed interventisti che precedette la dichiarazione di guerra lo dimostra chiaramente. Per un altro verso, però, la datazione 1915/’18, che compare nel titolo del libro, risulta più efficace nel focalizzare l’attenzione sulla guerra degli italiani e degli austriaci sul fronte sud-occidentale, che ancora oggi è il più trascurato dalle grandi ricostruzioni storiche internazionali della prima guerra mondiale, prevalentemente concentrate sul fronte franco-tedesco. Inoltre, quella tra il 1915 e il 1918 fu per l’Italia “la guerra”, non essendo le truppe italiane impegnate, se non in misura limitatissima e trascurabile, su altri fronti, a differenza dei soldati degli altri più importanti paesi belligeranti, Austria-Ungheria compresa.
Così definito e delimitato il campo d’indagine, gli autori lo affrontano – lo si diceva sopra – con un approccio transnazionale, che vuole superare gli stereotipi, i pregiudizi e le deformazioni nazionali e più spesso nazionalistiche, ma anche le contrapposizioni, create proprio nel periodo bellico e poi conservate e rafforzate per molto tempo dopo la guerra. Inoltre, l’assunzione di un’ottica transnazionale passa attraverso la consapevolezza che nelle relazioni tra stati, istituzioni, popoli diversi, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, esiste sempre una zona di scambio e di intreccio, come l’area comune tra due insiemi in parte sovrapposti e cioè un territorio che non è quello definito, diviso, circoscritto da frontiere, dogane e confini, poiché li trascende, in quanto essi risultano sostanzialmente irrilevanti per la mappatura di questa regione intermedia, su cui si esercita lo sforzo di indagine di questo volume di storia transnazionale.
Lavoro oltremodo necessario se è vero, come sostiene nelle Conclusioni l’altro curatore del volume, Oswald Überegger, che, sul piano degli studi storici, Italia e Austria vivono “schiena contro schiena” come due vicini che vicendevolmente si ignorano ed in particolare ciò accade per la storia contemporanea, preferendo gli italianisti austriaci occuparsi quasi esclusivamente dei territori italiani ex asburgici, trascurando lo studio della storia del resto del paese e privilegiando, invece, i contemporaneisti italiani lo studio della storia della Germania. La ricerca storica bilaterale o comparata, pertanto, non ha compiuto molti passi avanti negli ultimi decenni, rimanendo un interesse limitato quasi esclusivamente alle regioni di confine tra i due paesi e non andando al di là del format culturale tradizionale del convegno di esperti, poco capace di produrre effetti duraturi o interessi allargati ai non specialisti. Una reciproca ignoranza, quindi, che conserva e tramanda gli stessi stereotipi formatisi durante la guerra e che, per la parte austriaca, consistono nella lettura dell’intervento italiano a fianco dell’Intesa come un “tradimento”, nel mancato riconoscimento della vittoria italiana, che va a confluire nella leggenda dell’esercito imperial-regio “invitto sul campo” e della “pugnalata alle spalle”, distorsioni della realtà negli stessi termini prodotte e diffuse, durante e dopo la guerra, anche in Germania. Ovviamente alle storture e ai pregiudizi austriaci fanno da contraltare quelli italiani, che amplificano ed estremizzano l’astio di origine risorgimentale verso l’Austria eterno “nemico oppressore” e “carcere dei popoli” o che producono la leggenda per la quale i soldati italiani avrebbero sempre combattuto in condizioni di inferiorità numerica e di minore disponibilità di mezzi; luogo comune utile certamente per esaltare l’eroismo bellico, ma che capovolge la realtà dei fatti.
E ancora, risulterà forse quasi incomprensibile per un lettore italiano che questioni ampiamente trattate, anche nella semplice manualistica del nostro paese, come quella delle differenze interne e della complessità degli schieramenti interventista e neutralista, in termini di motivazioni e scopi dell’una o dell’altra scelta e come quella della netta prevalenza dei neutralisti, sia nella società sia tra le forze politiche, a fronte però di una scelta interventista del governo e della corona, continuino invece ad essere argomenti sostanzialmente ignorati dal lettore austriaco (il libro, infatti, è pubblicato in entrambe le lingue) e – secondo Überegger – anche da qualche storico.
Proprio nella rimozione di tali incrostazioni si esercita un approccio storico comparativo, multilaterale e transnazionale, che a seguito della convergenza, dell’intreccio e della integrazione di prospettive e sguardi diversi intende dare il via ad un lavoro che produca nuove e più complete letture di una materia che viene al contempo risagomata e ridefinita, grazie all’abbandono di confini e steccati nazionalistici, per troppo tempo rispettati e replicati.
Con questa metodologia e con questi obiettivi, si articolano e si susseguono le sei sezioni del libro, ognuna focalizzata su un aspetto particolare della Grande guerra e composta di due capitoli, uno “austriaco” ed uno “italiano”, per complessivi dodici contributi di altrettanti storici, specialisti del primo conflitto mondiale, i cui nomi vengono indicati solo nell’Indice, ma non in corrispondenza dei singoli capitoli, quasi che si intenda presentare il libro come il frutto del lavoro di un autore collettivo, di un vera e propria attività di équipe.
E così, di capitolo in capitolo, metaforicamente attraversando più volte il fronte ora in una direzione ora nell’altra, si conoscono analogie, parallelismi, divergenze o convergenze tra Italia e Austria-Ungheria riguardo alle scelte politiche e di governo, alle modalità di organizzazione e di mobilitazione bellica dell’economia, alle condizioni dei soldati, ai cambiamenti culturali e all’organizzazione della propaganda di guerra, ecc.
Per esempio, nella prima sezione (I governi e la politica) Martin Moll e Daniele Ceschin, rispettivamente per la parte austriaca e per quella italiana, affrontano il tema della deriva autoritaria e della militarizzazione della politica e dei governi verificatesi in entrambi i paesi, seppur con modalità e tempi diversi. Moll sostiene che fin dal 1914 sia stata imposta una vera e propria dittatura militare e governativa attraverso l’emanazione da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe di numerose ordinanze speciali, che attribuivano immediatamente forza di legge agli atti dell’imperatore stesso, sospendendo l’attività legislativa del Reichsrat (il Parlamento), che limitavano le libertà fondamentali dei cittadini, che sottoponevano a stretto controllo le associazioni e i partiti politici, che comprimevano i diritti sindacali, che censuravano la stampa e la pubblicistica in genere. Ma tutto questo avvenne in Cisleitania, cioè la “parte austriaca” e sotto governo viennese dell’Impero austro-ungarico dopo l’Ausgleich dualistico del 1867, non in Transleitania, cioè la “parte ungherese” dell’impero, dove il governo continuò ad operare prevalentemente su base parlamentare. Un giro di vite repressivo che colpì anche gruppi etnici considerati inaffidabili, soprattutto in zone vicine al fronte: è il caso dei ruteni della Galizia, che sospettati di essere filorussi, vennero massacrati e degli sloveni della Bassa Stiria, che, nonostante la distanza della regione dal fronte, furono sottoposti ad arresti di massa, perché accusati di essere filoserbi. Da ciò si evince che i vertici militari e governativi austriaci nutrivano una sorta di aprioristica sfiducia nei confronti di certi segmenti della popolazione, nonostante la mobilitazione nell’estate del 1914 si fosse svolta senza difficoltà anche nelle regioni con minore presenza tedesca o ungherese.
Una pregiudiziale ed ottusa sfiducia che invece in Italia era provata dallo Stato maggiore del Regio Esercito e dagli alti ufficiali di carriera soprattutto nei confronti dei soldati, dei milioni di contadini coscritti e che portò all’adozione di misure repressive terroristiche da parte di Cadorna, come nella terza sezione del libro (I soldati e i combattimenti) spiega Federico Mazzini.
Quando il 21 novembre del 1916 l’ottantasettenne Francesco Giuseppe morì, lasciando il trono al pronipote Carlo I, la stretta autoritaria venne allentata. Il nuovo imperatore inaugurò un nuovo corso in politica interna che ridusse la censura sulla stampa, che fece riprendere le attività del Parlamento il 30 maggio 1917, che rivalutò il movimento dei lavoratori, nel tentativo di trovare nella socialdemocrazia austriaca una forza politica capace di contenere le crescenti proteste operaie o gli eventuali sussulti rivoluzionari. A questo si aggiungano i tentativi di Carlo I di addivenire ad un compromesso con i nemici e di negoziare la pace. Progetti questi, secondo la lettura di Moll, che fallirono sia per la scarsa disponibilità dei nemici, sia per le forti pressioni in direzione opposta dell’alleato tedesco, dagli aiuti militari ed economici del quale dipendeva la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria. Il nuovo corso “liberale” di Carlo I, quindi, non riuscì a risolvere i gravissimi problemi da cui il paese era ormai schiacciato, né ad evitare la sconfitta e lo smembramento dell’impero.
Anche in Italia, spiega Ceschin, a seguito dell’entrata in guerra, come in generale in tutti i paesi coinvolti nel conflitto, si verificarono fenomeni analoghi a quelli austriaci di rafforzamento autoritario dell’esecutivo e parallelo indebolimento delle prerogative parlamentari, di militarizzazione sia della società sia della politica, di aumento esponenziale della repressione e del controllo sociali, il tutto preceduto dallo scontro tra interventisti e neutralisti, di cui si nutrirono le forze antisistema (liberale), che divennero capaci di condizionare le scelte politiche nazionali e che alla lunga, dopo la guerra, confluirono nel fascismo. Tuttavia, dall’integrazione delle due letture, austriaca ed italiana, degli stessi fenomeni, si deduce che in Italia fu meno forte, o forse ebbe meno successo, il tentativo di instaurare un “assolutismo bellico”, che invece si realizzò più efficacemente in Austria. Secondo Ceschin in Italia, una volta esautorato nella sostanza dei fatti il Parlamento, si formò una sorta di “diarchia imperfetta”, costituita dall’esecutivo e dallo Stato maggiore, cioè dal potere politico e dal potere militare, da Roma e Udine, sede del Comando Supremo Generale dal 1915. Una competizione tra due poteri, quindi, in cui quello militare progressivamente si impose su quello politico, come dimostra, per esempio, il fatto che dopo il successo austriaco della Strafexpedition nel 1916 il governo Salandra cadde, mentre Cadorna rimase al suo posto. L’esecutivo poi era internamente indebolito dalla volontà del ministro Sonnino di assicurare alla politica estera da lui guidata ampi spazi di autonomia o indipendenza dal resto del governo. E proprio Sonnino fu a tal punto l’uomo forte del governo durante l’intero conflitto – tanto da rimanere al suo posto di ministro degli Esteri nonostante l’avvicendarsi dei governi Salandra, Boselli, Orlando – che Ceschin parla di una sorta di “lungo governo Sonnino”. All’interno di questa “diarchia imperfetta” entrambi i poteri mostrarono velleità o “vocazioni totalitarie”, che sempre Ceschin legge come manifestazione di un fenomeno di ben più lungo corso: la repressione sociale e la militarizzazione della politica iniziate con quella “crisi di fine secolo” che proprio nel Sonnino di Torniamo allo Statuto aveva trovato uno dei principali teorici e che si sarebbero realizzate più tardi con il fascismo. Una svolta si verificò con Caporetto, sia a livello politico con la fine del governo Boselli, sia sul piano militare con l’allontanamento di Cadorna, sostituito da Diaz, ma soprattutto fu il Parlamento che provò a rientrare in possesso delle proprie prerogative e ad equilibrare il potere fino ad allora esercitato dalla diarchia formata dall’esecutivo e dallo Stato maggiore. Ma questo non comportò come conseguenza un allentamento della stretta repressiva: per quanto, come è noto, l’accorciamento della linea del fronte, dall’Isonzo ritornato sul Piave, permettesse un miglioramento delle condizioni dei soldati, per esempio con turni di licenza più frequenti, il controllo e la repressione politica e sociale contro i cosiddetti “caporettisti” e i “disfattisti” addirittura aumentarono, come testimoniano gli arresti dei socialisti massimalisti Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, allora rispettivamente segretario del PSI e direttore dell’Avanti.
Come per l’argomento oggetto della prima parte, sommariamente ricostruito, così per gli altri cinque temi che compongono il libro il confronto e l’integrazione delle analisi e delle prospettive austriaca e italiana consentono la costruzione di un quadro ampio e molto ricco, come, per fare un ultimo esempio, nel caso della interessantissima terza parte (I soldati e i combattimenti), dove Christa Hämmerle e Federico Mazzini considerano e mettono a confronto le esperienze dei soldati dell’una e dell’altra parte del fronte. Numerosi sono gli elementi comuni ai due eserciti: la mobilitazione fino all’ultimo uomo disponibile, che portò l’Austria-Ungheria a coscrivere 9 milioni di soldati da schierare sui diversi fronti e l’Italia a mobilitarne 5 milioni, da impiegare sull’unico fronte su cui combatteva; la netta prevalenza dell’elemento contadino tra i soldati semplici, così come l’importanza degli ufficiali di complemento; lo spaesamento dei contadini-soldati che provavano un forte senso di «perdita del proprio ruolo sociale e la sensazione di venir meno ai propri doveri, in particolare verso gli anziani e le donne che dovevano sostituirsi al coscritto» e, per finire, altrettanto uguali erano le orribili condizioni in cui austriaci e italiani combattevano e vivevano (o sopravvivevano) sia sul Carso e basso Isonzo sia sull’alto Isonzo e sulle Alpi. Ma da un lato – per passare alle differenze – vi era un esercito composto da undici nazionalità (tedesca, ungherese, ceca, slovacca, slovena, croata, serba, rutena, polacca, rumena e italiana), che parlavano undici lingue diverse, per quanto il tedesco rimanesse la lingua ufficiale dei comandi militari, e che professavano religioni differenti, con i cattolici in maggioranza, a cui si aggiungevano evangelici, ortodossi, mussulmani ed ebrei. Differenze queste – nazionali, linguistiche e religiose – non presenti nell’esercito italiano. Di particolare interesse il confronto tra i sistemi di disciplina e repressione interni ai due eserciti, dal quale emerge come il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza o la brutalità delle punizione fossero elementi comuni ai due schieramenti – a questo proposito gli austriaci reintrodussero pene corporali come i “ceppi”, per un massimo di sei ore o i “lacci”, per tenere legato – per esempio ad un albero – un soldato per un massimo di due ore – ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (p.175). Ed infine, ad ulteriore conferma del disprezzo e del pregiudizio con cui il governo italiano e il Comando supremo consideravano i propri soldati, non va dimenticato che ai 600 mila prigionieri italiani, la metà dei quali catturati a seguito di Caporetto, venne negato dall’Italia qualsiasi tipo di aiuto, al fine di fare passare l’idea che il prigioniero fosse da equiparare ad un disertore o ad un disfattista o ad uno “scioperante di guerra” e per addossare alla sola Austria le colpe di un trattamento disumano o vendicativo. La conseguenza di questa scelta scellerata, insieme ad altri fattori come l’alto numero di internati e le difficoltà austriache a provvedere ad essi, fu la morte di circa 100 mila soldati italiani in prigionia.

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