Carmine Castoro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze https://www.carmillaonline.com/2017/12/29/42201/ Thu, 28 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42201 di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa girare vorticosamente due ratio superiori: la fossilizzazione e la futilizzazione dell’essere umano nel suo tragico apparire, l’era glaciale di un eterno presente e l’irrilevanza di ogni sua manifestazione» (p. 17).

Fiumi di parole di esperti a proposito di disastri ambientali o stragi terroristiche, colate di bile anti-immigrati da parte di populisti a caccia di facile consenso, improvvisi allarmi medici che strizzano l’occhio alle multinazionali farmaceutiche, criminologi che con incredibile sicumera pontificano in ogni tipo di trasmissione, programmi d’informazione che insistono con loop di esecuzioni, liti finite nel sangue, cadaveri di cui pateticamente si maschera il volto al pari delle targhe automobilistiche dei vip… Gli schermi televisivi e del web grondano di Male in tutte le sue sfumature. Si tratta di un Male mediatizzato «astorico, vitreo, untuoso, travisato da una precisa congettura: che sia sbarazzabile e barattabile in quanto lembo lercio e putrefatto della nostra vita. Ed è così che circola come moneta sonante nel Sistema, rendendoci rispetto a esso […] solo dei “devianti” o degli “ovvianti”: gente pericolosa, o corpi fiaccati da tempi troppo veloci che però devono aggiustarsi come “si” vuole che “si” sia» (p. 18).

Di certo la paura è diventata una merce, e «anche per la paura, soprattutto per la paura e la malvagità, siamo dentro quella che Lipovetsky [Una felicità paradossale, Raffaello Cortina, 2007] ha battezzato come la fase III del capitalismo. Se la I era caratterizzata dall’inizio della produzione di massa, da oggetti di lusso ancora a preponderanza borghese, con la seconda si entra nella società dell’abbondanza, del desiderio, quella che consolida le marche e il packaging ma su vasta scala e per tutti, dove inizia a prevalere il funny, l’offerta seduttiva e tattile, giovanile, divertente, la logica-moda, gli oggetti-faro, l’ostentazione, la distinzione [Mentre] è nella III che si installa l’Homo Consumericus, intrappolato in una “economia di varietà e di reattività” dove la rimessa e l’assortimento delle merci è massimo, il retail è una garanzia, ma dove lo spirito del consumo attracca e mette tende in ogni ripostiglio, in ogni rimasuglio della vita, diventandone la concimazione, e dove si vagliano molto i tempi, la comunicazione, la soggettività, il conatus verso un certo prodotto, e il maremagno dell’esperienza è oggetto di sempre nuove passioni, tonificazioni, modellistiche, rivelazioni e rilevazioni. “Tutto accade come se, da ora in poi, il consumo funzionasse come un impero, senza tempi morti e senza confini”. La vita, de-simbolizzata, de-socializzata nei suoi legami comunitari forti, de-conflittualizzata si trasferisce armi e bagagli nelle sue effervescenze mediatiche, nel personalismo del mordi e fuggi, dell’usa e getta, nelle accelerazioni frenetiche di ciò che va comprato e sentito intimamente, nelle taglie su misura che di ogni bene e servizio – e stato dell’anima – la Grande Sartoria del Tele-Capitalismo sforbicia, abbozza, delinea» (pp. 12-13).

In tale terza fase del capitalismo, continua Castoro, la cultura si presenta come vero e proprio investimento finanziario obbligato a essere redditizio ed è in tale contesto che «la paura diventa un aggregatore di effetti, un pacemaker, uno dei tanti pneumotoraci che ci aiutano a inspirare, che ci fanno sentire vivi, e che fanno nelle nostre coscienze un baccano tintinnante di quattrini [e il] Male diventa, allora, un circuito parallelo, di modalità, di temporalità, di condizioni d’uso rispetto alla realtà: due linee che procedono all’infinito e che non si incontrano mai. Per questo diventa zimbello, suspense, aspettativa: meglio godersi il fotoromanzo a puntate del furfante di turno o del Man in Black che difende qualche loggia filo-governativa che pensare a sradicarne le fonti di alimentazione e diffusione. Il Male, dunque, soffice pagliericcio su cui si appoggia il Potere, sconfessato finanche dal nostro destino, si riduce a pulsantiera di opzioni pulp» (pp. 13-14).

Nulla deve rovinare al felicità di consumo del cittadino-telespettatore, pertanto è la miseria stessa a essere trasformata in intrattenimento. Se la prima polarità è indicata dallo studioso in Barbara D’Urso – «Mater Lacrimarum italiana per antonomasia, rappresentante più in vista e più costante nei suoi effetti tragicomici di quella “tv del dolore” che ha veramente subornato la nostra cognizione dei drammi umani negli ultimi anni» -, la seconda polarità indicata da Castoro è quella dell’ISIS. Tanto la star della tv del dolore, quanto la compagine fondamentalista dispensatrice di terrore, «sono, nei fatti, l’idea corrente di bene e di male che ci facciamo […] I padroni della videocrazia imperante rincorrono, con una banale iconografia della paura, attentati e calamità che non sanno illustrare – figurarsi prevenire – con un’adeguata informazione civica e poliedrica, e le cui manifestazioni più tremende preferiscono spalmare sul nulla di ore e ore di dirette costellate da racconti-routine, imbarazzanti opinionisti, imbarazzati inviati, cifre e probabilismi, videuzzi di reporter amatoriali trasmessi a go-go come se nella loro oscena ipervisibilità potessimo attingere le ragioni di una violenza che, invece, ancora sfuggono a molti. Si ripetono le solite etichette: tragedia immane, inferno, apocalisse, scenario inquietante, atmosfera irreale, “una triste pagina di storia che rimarrà nella nostra memoria”, immagini che si soffermano su barelle, feretri, gente disperata, familiari impotenti, soccorritori che si sentono male, senza che un bandolo arrivi mai a dipanare una matassa che resta ingarbugliata e autoreferente, dentro un’attesa che risulta ansiogena e stordente» (pp. 18-20).

Nei media mainstream contemporanei prevale una temporalità limitata all’istantaneo o votata al flusso inarrestabile, frammenti privi di storia o scorrimento magnetico ipnotizzante, choc verbali e/o visivi o colata priva di contenuti interessanti. Ciò che manca, sostiene Castoro, è «la temporalità “media”, quella dell’osservazione partecipata, della raffinazione delle emozioni, delle analisi complesse, dei punti di sintesi, delle letture allargate governate dalla serietà e dalla reale competenza di chi parla, e non dei soliti “vip” narcisi e mistificatori a microfono sempre aperto». Ma, soprattutto, continua lo studioso, «manca l’elemento “di fuga”, quello che dopo la comprensione ci spinga a una trasformazione democratica dell’esistente e a un upgrade etico e deontologico di tutti, in tutti i campi della vita pubblica e privata. Vorrei ignorare come funziona la gru che solleva le lamine d’acciaio accartocciato o il macchinario che le trincia – a Corato o in qualsiasi altro deragliamento – e sapere prima, molto prima, delle pastoie che arretrano verso frontiere medievali intere fette del nostro paese o del pianeta in cui ho avuto la sorte di nascere» (p. 21).

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Nemico (e) immaginario. I mostri del neocapitalismo. I morti viventi tra consumismo e capro espiatorio https://www.carmillaonline.com/2016/09/06/nemico-immaginario-mostri-del-neocapitalismo-morti-viventi-consumismo-capro-espiatorio/ Tue, 06 Sep 2016 21:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33033 di Gioacchino Toni

deadset334Martino Doni, Stefano Tomelleri, Zombi. I mostri del neocapitalismo, Edizioni Medusa edizioni, Milano, 2015, 84 pagine, € 10,00

«Il mito dello zombi è capace di raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele: le caratteristiche essenziali degli zombi seguono parallelamente e nel contempo trasfigurano i dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo» (p. 10).

Lo abbiamo visto sullo schermo, lo zombi è bulimico, non mangia per [...]]]> di Gioacchino Toni

deadset334Martino Doni, Stefano Tomelleri, Zombi. I mostri del neocapitalismo, Edizioni Medusa edizioni, Milano, 2015, 84 pagine, € 10,00

«Il mito dello zombi è capace di raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele: le caratteristiche essenziali degli zombi seguono parallelamente e nel contempo trasfigurano i dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo» (p. 10).

Lo abbiamo visto sullo schermo, lo zombi è bulimico, non mangia per nutrirsi ma per continuare a farlo così come, fuori dallo schermo, nella società contemporanea il consumo di merce è finalizzato alla reiterazione del consumo stesso. Altre caratteristiche che si ritrovano nei morti viventi sono la mancanza di sentimenti, l’apatia ed il riprodursi per contagio ma, soprattutto, lo zombi non è identificato come individuo: è massa indifferenziata proprio come sono percepiti i migranti che  sbarcano sulle coste europee o che vengono bloccati presso i nuovi e vecchi confini delle fortezze occidentali. Secondo René Girard (La violenza e il sacro) l’indifferenziazione è la «caratteristica principale del sacrificio, a cui è consegnato il capro espiatorio di una folla i cui componenti si sentono eguali e uniti contro il nemico comune» (p. 12).

Edward Said (Orientalismo), ad esempio, ha ben ricostruito come in occidente il mondo arabo sia da tempo percepito e raccontato come massa indifferenziata e di ciò troviamo conferma quotidianamente sui diversi media. In televisione alle vittime occidentali di una guerra, o di un cataclisma, viene concesso l’onore di essere ricordate come individui; quando i numeri lo consentono, i media elencano i nomi dei caduti e non mancano di ricostruirne le vite spezzate. Quando a morire sono barbari extraoccidentali i media si accontentano di generici riferimenti alla massa indistinta, si limitano a riportare, quando lo fanno, i freddi numeri dei defunti. Il fatto che i pervasivi media nostrani concedano lo status di “individuo” soltanto agli occidentali non manca di determinare importanti ricadute sulle modalità con cui si guardano gli altri.

Tornando al saggio di Doni e Tomelleri, con cui continuiamo la serie “Nemico (e) immaginario“, in esso si sottolinea come ci sia «un elemento sottaciuto da tutti, nel mito degli zombi, che va fatto emergere, a cui va data la giusta dimensione e attenzione; l’unico modo infatti per interrompere l’iperproduzione metastasica dell’oppressione è dar voce all’oppresso. Per questo lo zombi è sempre muto, anonimo, stupido, inascoltabile» (p. 12).

Anche la folla in trepidante attesa dell’apertura di un Apple Store per accaparrarsi l’ultima novità tecnologica lanciata su mercato (ammesso che sia la tecnologia ad interessare e non il mero status simbol offerto dal logo), che si presenta anonima, atomizzata ed “affamata di nuova merce”, può essere ricondotta, secondo i due studiosi, alla metafora degli zombi. «Il sospetto è che quella folla, sia alla caccia di qualcosa o di qualcuno che il mito nasconde e rende muto» (p. 12).

Il living dead è certamente un prodotto dell’industria culturale commerciale ma è anche metafora delle relazioni e dei processi sociali e l’analisi proposta dal saggio intende essere «uno studio di decifrazione dello zombi in quanto unità discorsiva carica di emozioni e di senso, consapevole o inconsapevole, voluta o non voluta, che si costruisce attivamente all’interno delle relazioni sociali, trasformandosi col tempo e nelle culture, per incarnare desideri e paure di un’epoca» (pp. 13-14).

Non è difficile, grazie anche ai suggerimenti espliciti contenuti in alcuni film, individuare analogie tra le orde di morti viventi che abitano gli schermi e le folle di consumatori che vagano nei megastore od anche, suggeriscono gli autori, con le moltitudini di minatori ricoperti dal fango fotografati da Sebastião Salgado. Doni e Tomelleri intendono indagare proprio questa somiglianza riscontrabile «tra i morti viventi dei film, fumetti e canzoni, e i soggetti peculiari del nostro attuale modo di produzione (che per comodità chiamiamo neocapitalismo, qualunque cosa significhi questa formula accomodante e di per sé abbastanza vacua), cioè noi, perché questa storia riguarda tutti noi, siamo tutti coinvolti nella trasformazione dell’essere umano in un morto che cammina» (p. 15).

L’attrazione contemporanea per gli zombie coincide con un’epoca in cui l’intera esistenza dell’essere umano è sempre più imbrigliata all’interno di meccanismi standardizzati ed alienanti, dunque il saggio indaga le forme simboliche prodotte da tale mutazione e tali forme simboliche sono in grado di riflettere quella massa senza vita all’interno della quale l’essere umano si sente fagocitato.

La storia dello zombi è lunga e variegata e fin dalla sua comparsa, comunque, questa figura ha a che fare con l’oppressione sociale; l’idea che qualche forma di potere possa sottrarre l’anima/il pensiero al popolo rendendolo schiavo ha attecchito facilmente tra la popolazione haitiana. Lo zombi può essere pensato come black hole capace di risucchiare «indistintamente le mistificazioni del progresso, per divenire infine lo specchio ustorio della libertà occidentale» (p. 19).

La figura dello zombi nasce in seno a quella cultura vudù che «forniva al proletariato haitiano l’opportunità di rileggere la propria vicenda in chiave postcoloniale, inoltre procurava i mezzi di elaborazione culturale della condizione oppressiva che stava vivendo: l’operaio subissato, abulico, alienato, dissanguato… è sotto l’effetto di una potente magia. È lo zombi» (p. 24). Nonostante l’origine haitiana, la figura dello zombi che si è imposta a livello universale negli ultimi decenni è decisamente riplasmata dall’uomo bianco; se la zombificazione nella tradizione haitiana deriva dalla magia nera, nella “versione internazionale” essa diviene una sorta di malattia contagiosa.

Dal libro The Magic Island (1929) di William Seabrok deriva una figura dello zombi interpretabile come espressione della nuova condizione di schiavitù in cui versa la popolazione haitiana: «gli zombi sono cadaveri ai lavori forzati, privi d’identità, di memoria, completamente alienati e asserviti, gli occhi sbarrati e lo sguardo assente» (p. 27). Nel libro di Seabrok si racconta anche di uno stregone che si fa assumere dalla “Haitian American Sugar Company” insieme ad un gruppo di braccianti-zombi sfruttati fino allo sfinimento. La leggenda vuole che questi lavoratori schiavizzati, una volta venuti a contatto con cibo salato, rompano l’incantesimo che li aveva zombificati e riattivando le coscienze decidano di sottrarsi allo sfruttamento e di far ritorno alle rispettive tombe. La credenza popolare vuole infatti che la ripresa di coscienza avvenga grazie all’assunzione di alimenti come la carne ed il sale, cioè cibi solitamente inaccessibili ai poveri. A proposito di questo racconto, Doni e Tomelleri evidenziano come la questione nodale sia contenuta proprio nelle premesse della vicenda: «lo zombi serve a far soldi. Lo zombi è il plusvalore che consente allo spregiudicato investitore di speculare sulla produzione. L’accumulazione primitiva del capitale non poteva avere un’immagine più calzante» (p. 27).

cover_zombi_medusaNel saggio ci si sofferma su una canzone del 1975 del musicista nigeriano Fela Kuti intitolata Zombie (come l’album che la contiene): i morti viventi sono i poliziotti ed i militari descritti come cadaveri privi di volontà che hanno subito un lavaggio del cervello finalizzato a fargli compiere crimini efferati. Si tratta di «terribili macchine di morte e di auto-immolazione: l’apoteosi del robot docile middle class intravisto da Mills nelle sue immaginazioni sociologiche. L’impiegato, il represso, l’emarginato, divenuto strumento cieco e sordo, che uccide, distrugge, reprime e muore senza pause, senza lavoro, senza senso (no break, no job, no sense). Apoteosi della banalità del male, della indisposizione al pensiero» (p. 38). E sappiamo come il sonno della ragione generi mostri.

Nella canzone Coffin for Head of State, Fela Kuti se la prende invece con le religioni (cristiana ed islamica), definite “organizzazioni mangiasoldi” che portano stordimento nelle coscienze africane. Nel pezzo il coro ripete insistentemente quel waka waka, che compare anche in un canto camerunese di fine anni ’40, portato nel 2010 alla ribalta internazionale in una versione pop dalla cantante colombiana Shakira come inno dei Mondiali di cacio sudafricani. La versione-tormentone che ha spopolato a livello globale, rivolgendosi ad un pubblico abituato a consumare senza farsi troppe domande, ha perso per strada la complessità originaria. «Gli zombi, che siamo tutti noi quando restiamo incantati dalle sirene dello show, non hanno dubbi, sono fruitori e merce al tempo stesso del nonsense» (p. 43).

Dunque, sostengono gli autori, una musica di denuncia e rivendicazione in grado di incidere a livello sociale, nel giro di pochi decenni, perde le sue caratteristiche: «il linguaggio rimane diretto, ma i livelli si sono parificati, gli attivisti e i militanti sono diventati puri consumatori, non vi è più consapevolezza di quello che un tempo si chiamava il “messaggio”. Nel mondo globalizzato, in preda a scosse da assestamento finanziario post Lehman Brothers, il “messaggio” fa parte del pacchetto, e quindi è del tutto ininfluente. La cultura, per farla breve, è stata zombificata» (p. 44).

Il potere ha fatto proprie le forme della contestazione rendendole obsolete, banali e ridicole. Lo stesso accade per il conflitto che, soprattutto grazie alla televisione, è stato trasformato in una messa in scena “evasiva”, d’intrattenimento tra uno spot e l’altro, non di rado con la complicità, spesso involontaria, di chi, forse cresciuto a dosi massicce di rappresentazioni televisive, si è prestato, credendosi protagonista, a fare da comparsa in uno spettacolo che lo ha fagocitato all’interno del processo di zombificazione. «L’opposizione è divenuta soltanto ridicola; la critica sociale è divenuta incomprensibile; il conflitto sociale è in continuazione procrastinato, sottaciuto, minimizzato. La politica si trasforma in farsa, il dibattito in idiozia mediatica, la dialettica in pernacchie e corna, i programmi e i decreti diventano barzellette ecc.» (p. 44). In scritti precedenti ci siamo soffermati sulla messa in finzione della realtà [su Carmilla] e sul depotenziamento del dissenso operato soprattutto dalla televisione [su Carmilla].

Questo processo di banalizzazione della vita, sostengono gli autori, è in corso da diverso tempo e non accenna ad esaurirsi, anzi pare trionfare incontrastato. «Le masse di morti viventi che assediano il centro commerciale nel film di Romero, sono le stesse che riempiono gli ipermercati di oggi […] È una sorta di processione ossessiva, una muta istituzione sociale che assume i tratti del rito religioso […] dove una massa indistinta di pellegrini si muove tra carrelli della spesa, navi da crociera, pacchetti vacanze, ristoranti a “tema”, dove ambienti, arredamento, personale e oggetti richiamano alla mente paesaggi naturali o futuristici, modi di vita di altre parti del mondo […] Una moltitudine si muove indifferenziata sotto i cori delle radio commerciali, che con i loro slogan scandiscono il ritmo della celebrazione, che si consuma nel gesto della mera presenza, indipendentemente dall’acquisto della merce o dalla loro convenienza utilitaristica. Perché merci diventano gli stessi partecipanti, contenitori di promozioni, occasioni, grandi affari, saldi, tessere magnetiche per l’accumulazione di punti, sanzione di una fedeltà che vincola all’eterna ripetizione di un desiderio di desiderio, di un consumo di consumo, in un eterno ritorno senza tregua» (pp. 45-46).

Come i fan delle popstar appaiono del tutto disinteressati al messaggio veicolato dalle canzoni (ammesso vi sia), allo stesso modo gli individui consumano quotidianamente merci del tutto privi di scrupoli critici: «l’assenza di riflessione è condizione indispensabile del neocapitalismo, la trasformazione in zombi è il prerequisito necessario per accedere alla macchina mitologica del consumo» (p. 46).

Dunque, si sostiene nel saggio, ciò che accomuna i consumatori e gli zombi pare essere la fame insaziabile, la bulimia cronica fine a se stessa; lo zombi morde senza mangiare e digerire, il consumatore acquista e spesso non “consuma” nemmeno la merce, la butta (e la ricompra). Il nutrimento coincide con lo scarto, come testimoniano le discariche sempre più debordandi. «Ma se il nutrimento coincide con lo scarto, esso non nutre più: ecco la fame infinita. Il consumatore zombi non smette di consumare, perché in realtà non consuma affatto. Quel che fa è trasformare in continuazione se stesso in oggetto di consumo, stordendo la propria facoltà critica e immaginativa e adempiendo a quei rituali di sottomissione che nei film sugli zombi caratterizzano tutte le creature morte: muoversi in massa, seguire un ritmo comune, indirizzarsi nella medesima direzione, sbranare senza tregua» (pp. 46-47).

Abbiamo visto come sia diffusa l’identificazione della figura dello zombi con quella del consumatore compulsivo ed a proposito di ciò, sostengono gli autori, il «coinvolgimento nella realtà sociale si è liquefatto: è rimasto soltanto il consumo come gesto meccanico che milioni di zombi compiono quotidianamente» (p. 53). L’identificazione del morto vivente con l’uomo medio massificato e consumista, però, sostengono Doni e Tomelleri, non può esaurire la questione dello zombi contemporaneo; esso non è soltanto un’immagine. «Se gli zombi rappresentano così bene le nostre paure e le nostre angosce collettive è perché sono una viva e potente riproposizione contemporanea di ciò che l’antropologo René Girard […] ha definito il meccanismo del capro espiatorio» (p. 57). Secondo Girad il capro espiatorio (o processo vittimario) indica una persecuzione collettiva (o con risonanze collettive).

I morti viventi ispirano il terrore per la disfatta della civiltà e del progresso, per il caos primordiale che si esprime con l’insorgere della persecuzione. La massa zombi dà immagine alla folla assetata di persecuzione e così come le folle accorrevano, tra Medioevo ed inizio della modernità, ad assistere allo spettacolo garantito dall’esecuzione delle streghe, della vittoria del bene sul male, altrettanto, suggerisce il saggio, il morto vivente sugli schermi richiama una moltitudine di spettatori desiderosi di assistere allo scontro finale tra vivi e non morti. «A richiamare una così numerosa massa di persone è sempre lo stesso Leitmotiv: il sacrificio. Il legame tra il mostro e il suo sacrificio è antico, e rimanda alla struttura stessa del meccanismo del capro espiatorio» (p. 59).

Indipendentemente dalle cause che portano alla comparsa degli zombi, il loro arrivo annuncia una modificazione della scena sociale e porta la distruzione della civiltà, il ritorno alla barbarie primordiale. «Gli zombi minacciano ciò che costituisce la conquista più alta e preziosa della civiltà occidentale: le buone maniere. Essi rappresentano il venir meno di ogni ritualizzazione e progressiva standardizzazione delle emozioni e dei comportamenti corporali […] Gli zombi mettono fine a ogni regola o codice di comportamento. Si assiste alla perdita di ogni differenza e di ogni ordine gerarchico […] Il senso della civilizzazione era quello di tenere a bada gli appetiti, certo, ma non per bon ton, bensì per tenere a bada ciò che gli appetiti a loro volta trattenevano a fatica: l’angoscia della morte. Il grande spettro della civiltà occidentale era addomesticato dalla cura per i particolari, dai rituali minuziosi, dalle sottili distinzioni tra caso e caso, dai distinguo e dai diversi riguardi dell’argomentazione, dal ben vestire e ben conservare. In questo contesto, spazzato via dalla società dei consumi del neocapitalismo, la morte era una specie di malattia da rimuovere, e la violenza era soltanto spettacolarizzazione mediatica. Ora gli zombi incarnano la morte in un modo singolare: sono vittime di altri zombi, che si trasformano in una folla di persecutori con un forte tratto vendicativo. Sono vittime di una morte violenta, e a loro volta, mimeticamente, fautori dello sterminio catastrofico della civiltà umana» (pp. 60-61).

Nei film di zombi viene esplicitata la crisi dell’ordine sociale determinato innanzitutto dalla crisi della gerarchia. Una moltitudine indifferenziata che si muove in maniera inconsapevole, priva di regole, rituali e codici compartimentali. La crisi sociale messa in scena tende ad essere spiegata attraverso cause morali e di tali cause sono accusati proprio gli zombi. Le loro colpe consistono nel trasgredire all’origine culturale ed al modello gerarchico. Si tratta di una moltitudine aperta, priva di responsabilità e di individualità, questi living dead non si curano del loro aspetto e delle conseguenze delle loro azioni, si muovono in maniera omologata, non aspirano all’autorealizzazione e, quel che è peggio, sono contagiosi. Gli zombi sono da eliminare, dicevamo, solo liberandosi di questi esseri mostruosi si può sperare in una rinascita della civiltà.

Lo sterminio appare pertanto come l’unica soluzione, tanto che nell’immaginario proposto dai videogiochi gli zombi sono da intendersi come surrogati di vite umane, in tal modo si giustifica la violenza dispiegata nei loro confronti. Gli spettatori provano piacere nell’assistere all’eliminazione degli zombi sullo schermo e ciò fa dei morti viventi il capro espiatorio: un colpevole consustanziale alla sua colpa. La colpa diviene un attributo ontologico, «è un anatema, nel senso neotestamentario, cioè una maledizione del capro espiatorio: si riscontra di riflesso nell’indifferenza o nella curiosità distratta che suscita il diverso […] lo stigmatizzato, che è abbandonato, ghettizzato, marginalizzato e infine escluso dalla vita sociale delle persone dette normali» (p. 65). Con il temine “stigmatizzato” Erving Goffman (Stigma. L’identità negata) indica colui che è talmente destinato alla propria vittimizzazione da finire col scimmiottare i “normali” finendo, tragicamente, per rafforzare in essi il desiderio di escluderlo dalla comunità se non di eliminarlo definitivamente. Proprio come avviene agli zombi che pur sembrando viventi non sono che la parodia di ciò che erano prima di morire.

La deformità fisica del corpo decomposto del living dead segnala la sua mostruosità morale, i morti viventi, continuano gli autori, «diventano il simbolo di una cultura che si racconta senza fondamento, posta in fragile equilibrio sull’orlo del proprio collasso, come se tute le interpretazioni fossero equivalenti e possibili. In questo modo la rappresentazione persecutoria è completa e il processo vittimario si può realizzare nella sua finzione artistica: nonostante tutto, gli uomini devono sopravvivere, mentre gli zombi, proprio per le loro colpe incancellabili, meritano di essere sterminati» (pp. 67-68).

- The Walking Dead _ Season 6, Episode 7 - Photo Credit: Gene Page/AMCSecondo Doni e Tomelleri l’elemento centrale della figura dello zombi è dato dal fatto che esso è un mito ma, sottolineano i due, non si deve dimenticare che gli zombi esistono. «Il mito serve non tanto per nascondere, ma per mitigare e giustificare la loro realtà, serve per trasformare le vittime reali in personaggi di finzione, di cui magari si dice anche “è tutto vero”, ma senza crederci troppo; serve per non rovinarci l’appetito o la digestione durante i telegiornali, serve per non turbare il sonno, per farci alzare sufficientemente bendisposti la mattina: il mito trasforma la vittima in mostro che è lecito e divertente abbattere, il mito maschera l’ipocrisia e la vigliaccheria nella pruderie del politicamente corretto e nel buonismo della domenica mattina. Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in deformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica l’egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e inneggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali. Gli zombi sono tutti coloro che non sono “noi”, soggetto collettivo medio aggrappato a quel po’ di benessere che il neocapitalismo concede a chi ha la ventura di nascere in un paese con un prodotto interno lordo decente. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me, così come il morto è il non-me del sopravvissuto, generatore del senso del potere. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» (pp. 70-71).

Il mito dello zombi è dunque affrontato in questo libro al fine di decostruire il racconto di una società occidentale globalizzata che sente di vivere sull’orlo del precipizio, «giustificando così le proprie debolezze e la propria volontà di potenza e di domino sul mondo» (p. 81). La percezione della crisi e dell’incertezza nel mondo occidentale induce alla ricerca del “nemico”, del capro espiatorio, della vittima.

Però, si sostiene nel saggio, la forza di cui dispone il capitalismo può divenire la sua debolezza. «La capacità di trasformare ogni critica, anche la più radicale, in un nuovo prodotto commerciale, un libro di successo, un film, uno slogan, un marchio è la sua invulnerabilità ma anche la sua stessa fine. La volontà di dominio è tale che non rimane più nulla da dominare. Il neocapitalismo non può che divorare se stesso, in un’estrema, disperata autofagocitazione» (p. 83).

Ecco allora che alla ricerca di un colpevole su cui sfogarsi, l’immaginario occidentale lo trova nel mito degli zombi. «Il fatto stesso che identifichiamo lo zombi con il consumatore del centro commerciale, cioè con qualunque clone di noi stessi, è un’ulteriore conferma del meccanismo vittimario. La persecuzione collettiva si compie nella sua totale assenza di sensi di colpa, quando il persecutore si traveste da vittima. Ecco che il capitalismo diventa vittima di se stesso, e di fronte al proprio dominio totalizzante, si racconta sull’orlo del collasso, in una condizione catastrofica, quasi dovesse chiedere aiuto per risorgere. Intanto, le vittime del capitalismo proliferano, i persecutori, ignari, continuano indisturbati la propria opera di sterminio» (p. 84).

Ed a proposito di vittime del capitalismo, il saggio si conclude ricordando che tra il 2000 ed il 2013 sono circa 8000 gli esseri umani morti tentando di raggiungere il Canale di Sicilia. Nel solo 2014 hanno perso la vita circa 3500 individui nel Mar Mediterraneo e nei primi mesi del 2015 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo ammontano ad almeno 2800. Il massacro continua. I dati sarebbero tragicamente aggiornabili fino ai nostri giorni. Si tratta di morti che si perdono in mare come nel processo di banalizzazione televisiva in cui, come scrive Carmine Castoro, la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (Clinica della TV, p. 49) [su Carmilla].

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Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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