Carlo Freccero – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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La “Dittatura della Maggioranza” https://www.carmillaonline.com/2013/07/14/la-dittatura-della-maggioranza/ Sat, 13 Jul 2013 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7494 Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00

di As Chianese

ChianFreccIl reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)

Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto [...]]]> Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00

di As Chianese

ChianFreccIl reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)

Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto proditoria nella modalità risolutiva poi adottata, un limite puro ma già in odore di spuria giustificazione. Per ottenere certe particolari inquadrature, negli angusti spazi degli studi di registrazione forniti dalla Rai, Negrin chiese ai macchinisti di cooperare con l’arredatore affinché fosse la scenografia – la cartapesta e il compensato – ad adattarsi e “muoversi” a seconda delle esigenze della macchina da presa e non viceversa. È una richiesta assolutamente “cinematografica”, all’epoca quantomeno tacciabile di mera vezzosità autoriale. Un ghiribizzo. Per una televisione italiana che aveva addirittura già adattato Delitto e castigo (1963) e I Buddendrook (1971) facendo propria la volontà di perseguire la nobile utilità sociale di biblia pauperum.
In studio, per quelle che furono anche le raffinate messe in scene di Anton Giulio Majano, tutto invece era già allestito su tre robuste pareti, lasciando uno spazio comodo ma fatalmente distante alle possibili soluzioni di regia da adottare. Così Negrin richiese la costruzione e l’arredamento di una “quarta parete”, piazzando i mezzi tecnici al centro esatto della scena, fin dentro l’azione. Ottenne in questo modo una profondità e un dinamismo mai percepiti prima sul piccolo schermo italiano, optando per l’utilizzo di telecamere imbracate sulle spalle dell’operatore e confidando nell’abile capacità mimetica dei microfonisti.
La coraggiosa rinuncia alla macchina fissa servì, quasi da sola, ad attuare una rivoluzione semi-copernicana della percezione stessa dell’azione in una finzione scenica televisiva di largo consumo; lasciando ad altri l’utilizzo di quelle ingombranti macchine fisse che, per stretta volontà degli ingegneri costruttori, riuscivano a realizzare scarsi movimenti, dai novanta centimetri da terra fino ad un’altezza massima di un metro e settanta. L’escamotage era quindi compiuto, la porta sonoramente spalancata.

La soluzione è, idealmente, la progenitrice tecnica di quelle riprese effettuate oggi su L’isola dei famosi dove, accettando la schizofrenia del reality e della tv che rappresenta e celebra se stessa, va in onda una realtà modificata nella sua “mediatica” percezione, mossa unicamente dallo share. Se, come ha affermato Jean Cocteau, “il cinema è la morte al lavoro”, la televisione italiana degli ultimi quattordici anni potrebbe essere stata una strenua, quanto incompiuta, “prova tecnica di resurrezione”. Sull’Isola non esistono pareti arredate ma grandi scenari naturali, l’habitat stesso è inusuale per la finzione. Ancora telecamere mobili e operatori posti nel centro esatto dell’azione, con concorrenti/interpreti che fingono pedissequamente di ignorare l’apparato tecnico e le maestranze che li circondano ogni giorno. La schizofrenia da indurre allo spettatore non è di quelle da considerarsi blande, giustificabile con la sola e abusata “sospensione dell’incredulità”. La “quarta parete” non è più da annettere, da costruire e arredare, ma è assolutamente la prima da abbattere per provvedere, poi, a eliminare l’intero concetto di teatro di posa o studio di registrazione.
La scenografia è una natura resa ostile e perigliosa solo nella narrazione (si pensi a La fattoria), mentre interpreti ed elementi decorativi del set, nella loro libera intercambiabilità affidata al televoto nazional-popolare, vengono messi sullo stesso e identico piano. L’esagerato seno al silicone, esposto da ogni angolazione dalla concorrente di turno del Grande Fratello, nega di per sé la reale utilità di ogni funzionale scenografia di sorta. La protesi è il significante, la sua assoluta ed essenziale (utilitaria) “plastificazione”.
Arriverà a sostituire anche la trama, il filo logico degli stessi eventi. Se “il medium è il messaggio”, la televisione che rappresenta e giustifica se stessa arriva al punto culminante di esser fruita dai suoi stessi realizzatori e viceversa. Ogni ideale “parete” è stata così abbattuta; telecamere nascoste inquadrano corpi da réclame fingendosi colpevolmente, celatamente, calate in un contesto reale e quindi altamente scabroso. Non c’è il pudore dei b-movie scollacciati di quella che fu la “nuova commedia” nostrana degli anni Ottanta, non si rende necessario neanche il pretesto della doccia o l’infantile gioco del dottore e l’infermiera. La barzelletta da caserma dei militari onanisti. Il “buco della serratura” si nobilita nel formato 16:9 della tv al plasma, rigorosamente comprata a rate e collegata al relativo decoder.

Un recente dossier sulle “nuove forme di dipendenza patologica” ha sottolineato come l’utilizzo di siti Internet pornografici gratuiti, veda oggi un incremento di visioni in streaming e di upload di filmati assolutamente amatoriali, realizzati con cellulari moderni e senza prevedere alcun tipo di intenzione preliminare. Il voyeurismo, premeditato o estemporaneo che esso sia, quindi abbatte la parete della forma, elimina il canone di bellezza, spodesta la drammaturgia e prescinde, diabolicamente, dal concetto stesso di responsabilità (il cyberbullismo). Pensare che questo scenario possa essere scaturito da una lettura in chiave profetica, più che criticamente distopica, del film Videodrome (1983) di David Cronenberg, oggi è quanto mai legittimo.
Quasi utilizzassero il principio del periscopio, le telecamere o gli obbiettivi degli smartphone emergono dalla “finzione” per spiare retroscena di delitti agghiaccianti e a sfondo rigorosamente sessuale, ponendo l’indagine e l’introspezione al grado zero dei codici inquirenti e informativi del reportage. Il fine ultimo potrebbe essere quello dello snuff-movie. Il voyeurismo patologico, applicato ad accadimenti di cronaca nera, come il delitto Scazzi, rischia d’essere inserito nel novero identico delle motivazioni del reality. Ne determina lo schema e la liturgia, facendo del dramma reale una messa in scena dove è il colpevole a essere selezionato per mero decadimento empatico.
Così il piccolo schermo ci costringe all’invito a cena con delitto, a un’interminabile sessione collettiva di Cluedo dove fioccano pruriginose accuse, infamie, più che sensati profili psicologici degli imputati, anamnesi di sorta e ricordi edulcorati delle vittime. Nel caso dell’assassinio di Sara Scazzi l’intrusione della televisione è assimilabile a una sorta di pretestuoso, quanto ovviamente disfunzionale, accanimento terapeutico. È il cugino della vittima a giocare a carte scoperte, fra lauti cachet per ospitate nei salotti pomeridiani e pressanti richieste di partecipazione ad Uomini e Donne. E così che, partendo da un delitto atroce, si arriva infine al sorriso tonto ma rassicurante di Lele Mora, alla narcosi narcisista del danaro cash e dell’esposizione mediatica immediata.
Si giunge così in tv, accantonato e quasi vilipeso il merito, al di là del bene e del male. Gli stessi assassini, d’altronde, a più riprese sono comparsi inizialmente sul Servizio Pubblico per dirsi innocenti e chiedere chiarimenti di sorta, giustizia assoluta al “tribunale catodico” composto da disperati spettatori. È il foro degli ultimi, la corte di ladri e imbroglioni, che giudica il delitto più grande assolvendo il proprio status, legandolo alla necessità del campare e mai al piacere. Come in M – Il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang, s’attende la confessione pietosa, il mostro che si rivela bambino abusato o il ghigno sardonico a reti unificate.

La realtà viene strumentalizzata, posta in modo tale da influenzare coscienze e intimi giudizi; la sua rappresentazione diviene dibattito e crea sterile divisione. Si giunge così alle estreme e irrimediabili conseguenze (il caso di Meredith Kercher), da intendersi fallacemente come fisiologica, processuale, “fine dei giochi”. La “quarta parete” è divenuta indispensabile nel solo e risibile plastico della scena del crimine, esposto durante Porta a Porta come vuoto centro dell’azione. Dove, appena un attimo prima, a ogni suono di campanello gentile, si discuteva simpaticamente di diete per l’estate, situazioni politiche da sbrogliare e suicidi di imprenditori, iniezioni di fiducia e di botox, precariato ed operai disperati.
La (s)drammatizzazione è la pietra filosofale del nostro tempo. Lo share ha vestito i panni vistosi del Re Mida e accettato di buon grado la sua mitica e dorata maledizione. Non è metallo nobile ciò che la dittatura della maggioranza elargisce, né pane per denti sani o panacee assolute.

Negli anni Sessanta e Settanta il ritardo tecnico che accettava di evitare, con difficoltà non imbarazzata, le riprese in esterni era l’inautentica ma possibile discolpa della televisione “da camera”. Quella simile al crepitante “caminetto”, magari col corpo spigoloso in legno, dal riflesso catodico capace di creare familiare aggregazione.
Quelle scene dalla fotografia terribile, accentuate negli sceneggiati da un bianco e nero impietoso, per le quali si ricorreva ad una mini-troupe estranea alle stesse maestranze in studio, erano la summa di un posticcio innegabilmente tangibile. Deposito sul fondo del prodotto. La rappresentazione di un falso possibile ma ben tollerato. La clava di cartapesta brandita minacciosamente dal forzuto Maciste, presente in tanti peplum nostrani.
Eppure questo limite, nel codice genetico dello sceneggiato originale (verrebbe quasi da dire nel format), fungeva già da impianto teatrale della narrazione e permaneva nella recitazione enfatica degli stessi attori, come una necessità travestita da punto assoluto di forza. L’influenza del teatro e, soprattutto, della letteratura richiamavano direttamente alla “cultura alta”. Erano parte attiva di quel capitale intellettuale da investire e non da sperperare, la parete da costruire e giammai da abbattere.
Le lunghe pause riflessive di Gino Cervi nei panni di Maigret, che in realtà servivano all’indimenticato attore per spirare i molti “pizzini” incollati alle pareti con le battute da recitare, travestivano d’arte un chiaro bisogno umano. Mostrare il trucco era il vero peccato, smascherare la truffa necessaria per un intrattenimento non fine a se stesso, quasi didascalico nel suo innocente perpetrarsi.
Il gioco di prestigio per la gioia stupita di ogni invitato alla festa catodica.

Rompere l’incanto non è crimine da poco. Abbatte il desiderio, spingendo allo sconforto del “realismo”, verso lidi mai prima lambiti. Mostra al sospiroso spettatore, dalle ultime fila dei posti seduti, le screpolature sui talloni della ballerina di fila dell’avanspettacolo da strapese. Le calze smagliate, il belletto steso per coprire graffi e imperfezioni. Il resto è perversione. Eppure, novità assoluta, al borghese dalle ultime fila – omarino rigorosamente “ad una dimensione” – quel decadimento svelato ed esibito piace. Diviene forma di abietta, lasciva, soddisfazione. Scoprirla è pruriginoso quanto eccitante, violarla gli è oggi necessario. Riprenderla, conservarla in video, è opera di testimonianza preziosa. È l’archivio digitale, un tempo su Ampex, della condizione umana.
Non è la misura della speranza di Borges, liricamente lenitiva, (l’amabile imperfezione che muove la bellezza naturale). Piuttosto il Mondo nuovo di Huxley, “Comunità, Identità, Stabilità”. Concetti emanati, diktat da attuare. Le ultime righe di George Orwell, quelle rivelatrici e necessarie del 1984 ipotizzato e già passato: “…tutto era a posto, la lotta era finita. Era riuscito a trionfare su se stesso. Ora egli amava il Grande Fratello”.

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Battlestar Rai4 https://www.carmillaonline.com/2012/03/19/battlestar-rai4/ Mon, 19 Mar 2012 06:19:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4233 di Alessandra Daniele

Rai4.jpgAlias, Angel, Ashes to Ashes, Battlestar Galactica, Boardwalk Empire, Breaking Bad, Caprica, Dead Like Me, Doctor Who, Farscape, Life on Mars, Lost, Mad Men, Misfits, Rome, Sanctuary, Supernatural, 30 Rock, Torchwood, Warehouse 13, Weeds, Whitechapel. Cos’hanno in comune queste serie, oltre a essere fra le migliori e/o i più amate degli ultimi quindici anni? Sono state, o sono ancora tutte trasmesse in chiaro, e spesso in esclusiva, dalla Rai4 di Carlo Freccero. Milioni di persone che non avrebbero potuto o voluto procurarseli diversamente, li hanno avuti a disposizione a orari decenti, senza ritardi, censure, o cancellazioni improvvise, con [...]]]> di Alessandra Daniele

Rai4.jpgAlias, Angel, Ashes to Ashes, Battlestar Galactica, Boardwalk Empire, Breaking Bad, Caprica, Dead Like Me, Doctor Who, Farscape, Life on Mars, Lost, Mad Men, Misfits, Rome, Sanctuary, Supernatural, 30 Rock, Torchwood, Warehouse 13, Weeds, Whitechapel. Cos’hanno in comune queste serie, oltre a essere fra le migliori e/o i più amate degli ultimi quindici anni? Sono state, o sono ancora tutte trasmesse in chiaro, e spesso in esclusiva, dalla Rai4 di Carlo Freccero. Milioni di persone che non avrebbero potuto o voluto procurarseli diversamente, li hanno avuti a disposizione a orari decenti, senza ritardi, censure, o cancellazioni improvvise, con un solo break pubblicitario, e spesso a pochi mesi dalla messa in onda nei paesi d’origine.
Una piccola rivoluzione per il torpido e melmoso panorama televisivo italiano. Perché, anche se noi tendiamo a dimenticarlo, quella degli scaricatori è ancora una minoranza, la battaglia per l’egemonia culturale ed economica si combatte là fuori, nei media mainstream, e la sta ancora vincendo Don Matteo.
Per questo Rai4 è diventata importante, e così insieme a un pubblico crescente ha attirato anche gli squali. Una rete Rai che guadagna ascolti con un palinsesto di qualità non poteva che dare fastidio a Mediaset, in particolare a Mediaset Premium, che oltretutto, dopo il fallimentare The Event, quest’anno ha preso un’altra inculata con l’altrettanto fallimentare Alcatraz.
E così, sono partiti i sicari. I soliti sparamerda, col solito pretesto abbastanza becero da catturare l’attenzione del loro pubblico grufolante, e indurlo a una cacofonia di grugniti che dia la scusa per intervenire ai collaborazionisti piazzati ai vertici Rai dal governo Berlusconi.
L’obiettivo palese è far fuori Carlo Freccero, epurarlo di nuovo come ai tempi dell’editto bulgaro, e fare di Rai4 un’altra repellente discarica di guitti rincoglioniti, marchette, e leccaculo. Un’altra Rai1 dalla quale tutto il pubblico con un minimo di attività cerebrale residua fuggirà disgustato. O al massimo un’altra rete tematica pseudoculturale, Raiduecoglioni, con una audience dello zerovirgola, che non sia più di nessun disturbo per le reti berlusconiane.
Nessuno deve osare sottrarre spettatori a Mediaset e al suo costante flusso coglionizzatore di reality, propaganda, polizieschi, e televendite. Il sacro traliccio Tv di Cologno è la fonte primaria del potere politico-economico della classe dirigente berlusconiana di fatto ancora al potere, chi lo tocca cade fulminato, come sa bene il sobrio Monti, che infatti se ne tiene rispettosamente alla larga.
Carlo Freccero invece sta dando battaglia al Colognalismo, e nel suo settore la sta anche vincendo. Perciò è nel mirino, e i sicari che più si battono contro le intercettazioni che sputtanano il loro boss, adesso brandiscono come un tonfa la registrazione delle parole di Freccero che si sono meritati: “Fascisti, siete un giornale di merda”.
So say we all.

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