Carlo Coccioli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 11 Mar 2025 22:55:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Santi subito, di Antonio Veneziani https://www.carmillaonline.com/2022/05/09/santi-subito-di-antonio-veneziani/ Mon, 09 May 2022 20:38:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71587 Fve editori, Milano 2022 pp. 112, € 17

Esce oggi questo particolarissimo testo del poeta Antonio Veneziani, una raccolta di testi poetici, sotto forma di invocazioni ad alcuni personaggi dell’immaginario, gli ultimi, o forse gli unici, santi possibili. Ognuno di loro, infatti, potrebbe essere inserito nella nostra rubrica Santi subito, personaggi da ri(s)valutare. Di seguito ne pubblichiamo alcuni, Allen Ginsberg, Jim Morrison, Marco Ferreri, Amelia Rosselli, Nico. Gli altri sono: Marylin Monroe, Henry de Toulouse-Lautrec, Carlo Coccioli, Basquiat, Copi, Pedro Lemebel, Dario Bellezza, Divine, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. [...]]]> Fve editori, Milano 2022 pp. 112, € 17

Esce oggi questo particolarissimo testo del poeta Antonio Veneziani, una raccolta di testi poetici, sotto forma di invocazioni ad alcuni personaggi dell’immaginario, gli ultimi, o forse gli unici, santi possibili. Ognuno di loro, infatti, potrebbe essere inserito nella nostra rubrica Santi subito, personaggi da ri(s)valutare. Di seguito ne pubblichiamo alcuni, Allen Ginsberg, Jim Morrison, Marco Ferreri, Amelia Rosselli, Nico. Gli altri sono: Marylin Monroe, Henry de Toulouse-Lautrec, Carlo Coccioli, Basquiat, Copi, Pedro Lemebel, Dario Bellezza, Divine, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. I “santini” sono stati realizzati da Emanuela Del Vescovo, Simone Lucciola, Pietro Contento, Francesco La Penna (MB).

ALLEN GINSBERG

Mi congratulo, sempre che mi sia permessa questa confidenza indegna, con te Santo Allen, grande cantore della beltà, del sesso, dell’essere contro il sistema, della strada, delle piccole cose.
Tu che scrivi: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia”.
Tu che hai santo il cazzo, il culo, la bocca, la testa, le mani, gli occhi, il naso, i sogni, i sorrisi e la merda, aiuta, chi come me ti prega: a sopportare la ferocia dell’amore, spesso spinoso come il guscio di una castagna selvatica; la povertà d’animo di certe persone, ipocrita come la buccia di mela tirata a lucido; la mancanza perduta che sbiadisce i giorni come pioggia imprevista.
Tu che hai provato ad ampliare l’area della coscienza, tu che nel sudario leccavi le biglie di Jack, tu che guidavi sbronzo con Peter sui boulevard, tu che non hai mai amato le bandiere; aiuta noi, tuoi devoti a non spaurire di fronte alla magia della parola; a combattere con tutte le forze i pregiudizi razziali e sessuali, a sorprendere preghiere su cappelli a larghe falde e dentro a scarpe di gomma, magari un po’ puzzolenti; a salutare, con molta attenzione, i cani in branco all’alba, soprattutto se hanno le bocche larghe e polverose.
Tu, Santo Ginsberg che hai operato miracoli in tutto il globo terrestre e sei stella mattutina come Marlowe, Kabir5, Whitman, Wilde, Bellezza, Penna, l’amico Burroughs; aiuta i tuoi devoti, dal cuore infranto, dal culo rotto, dal cazzo stanco, a non tradire mai la gioia anche se minima, aiutali ad asciugare le lacrime dal cielo con
mani lievi, ma sicure; insegna loro a posare il corpo, senza fretta, su pance che avvicinano alle favole, a farsi imprigionare dalla libertà di un battito di ciglia.
O Santo Allen, tu che riuscivi a cogliere negli intonaci del Kansoso di Benares, la sanscrita preghiera dei leoni per recitarla poi a camerieri, spingendoli a sfogliare Platone e Buddha, aiutaci a sfilarci la pelle con grazia.
O Santo Allen, aiuta chi come me ha idee smagliate e lotta con la pagina bianca ed ha una vita stanca; aiuta chi spetala l’erranza e chi si attorciglia alle braccia cravatte sgualcite, che però contengono le mappe di isole dove la commare secca è morta stecchita.

JIM MORRISON

Mi congratulo, sempre che mi sia permessa questa confidenza indegna, con te Santo Re Lucertola, che hai oltrepassato infinite porte, sempre con la purezza e la limpidezza dei giusti.
Tu che hai provato l’entità fisica e mentale di tutti i personaggi che diventavi sul palcoscenico, aiuta i tuoi poveri fedeli scissi, sbreccati, che si tagliano le vene per capire fino in fondo la consistenza del sangue, ad abitare, senza ornamenti, le loro anime e i loro corpi.
Tu che ogni giorno compi il miracolo di ridare speranza e respiro a qualche sfigato, come me; tu protettore degli schizofrenici, degli alcolizzati, degli eroinomani, risucchiati dai buchi, dei bipolari gravi, tu che hai detto che: “Nessuno uscirà vivo da qui” ed è semplice verità, aiutaci a rimanere vigili e vitali fino all’ultimo respiro, aiutaci a non annegare il nostro sorriso nella pioggia, neppure in quella estiva.
Tu, elettrico sciamano, tu re acido, tu imbevuto di sensi di colpa, più del più pio chassidim, consiglia i tuoi devoti in modo che riescano a scansare il senso del peccato, e fa’ in modo che i desideri d’amore non si trasformino, sempre o quasi, in cenere.
Tu che racconti sorella morte come pallida donna, salvaci dalla signora in nero e dai muri che ci sovrastano e ci imprigionano, permettici di giocare e offrici improvvisi rapimenti.
Tu che “avevi un sorriso da tenersi stretto” parole di John Desmore, aiutaci ad essere sereni, ogni tanto, quel poco che basta; anche se siamo costretti ad addossarci il feretro del mondo in piena New York, o nella Beirut sventrata, o nella gelida Mosca, o nella impossibile Roma.
Tu che hai buttato giorni come lattine vuote di birra; tu che restavi muto per lunghissimo tempo, di fronte a una parete umida e scrostata; tu che volevi vivere cento anni in un’ora.
San Morrison aiuta chi ti venera a capire che le risate degli amanti sono sempre portate via da qualche macchina, nave o aereo, che la violenza altro non è che un mozzicone mal spento. Tu che guidavi la voce nell’arsura del ricordo, guidaci fra le braccia smisurate dei cipressi. Tu, che come perfetto interprete artaudiano del disagio
offrivi coppe di lacrime agli amici; tu che con malinconici blues svelavi la magia di certe attese, aiuta i tuoi devoti a scrollarsi dai capelli la rabbia; a sopravvivere ai tradimenti e alle defezioni, ad accarezzare e afferrare l’effimero.
Allontana il letale sorriso degli stupidi, dilaziona il dolore e infrangi
gli orologi, tutti, tu stella lucente, tu puoi.

MARCO FERRERI

San Marco Ferreri, nel 150, in Cappadocia, dirige il circo Nitrato d’Argento, con settanta giumente turche, settanta cavalle baie, settanta leonesse, settanta gatte d’angora, settante volpi rosse, settanta pantere nere, settanta tigri del Bengala; questione di batticuore? Bizzarrie di santo?
Il circo Nitrato d’Argento Marco Ferreri lo porta nella tasca interna del rosso mantello, sta infatti racchiuso in un guscio di noce. Ulteriore stravaganza, lo possono vedere solo i poeti, i puri di cuore, i liberi di mente.
I santi sono strani.
San Marco Ferreri ricompare a Parigi nel 1643, dove aiuta la pia e buona Maria Magdalene de Blémont ad avere una vita. Maria Magdalene possiede: un ditale, un ago, una piuma d’oca.
San Marco Ferreri, conoscendo il terso animo di Maria Magdalene, inscena uno spettacolo nel quale passa ben settecento volte nella cruna dell’ago.
Nel frattempo è sopraggiunto anche il cavaliere Sebastian Salazar de Quechua1, che, esausto, si è fermato per chiedere un po’ d’acqua; ne sorbisce un ditale.
Salazar, profondamente impressionato, chiede la mano di Maria Magdalene, recitandole la poesia: “Io allevo una mosca / dalle ali d’oro, / dagli occhi di fuoco. / Vaga nella notte / come una stella; / ferisce mortalmente / con il suo bagliore rosso, / con i suoi occhi di fuoco.”
Con la piuma d’oca, Maria Magdalene Salazar Bondy compone il capolavoro, ancora inedito, Lo scrigno delle parole, dal quale hanno attinto e attingeranno tutti gli scrittori che, con le loro magiche parole, hanno saputo e sapranno innalzare il canto del mondo.
San Marco Ferreri, protettore della gola e della spola, dei cavalli scossi e dei cavalieri senza cavallo, dei fallofori, degli eccessivi, dei sans papier e dei senza fissa dimora, trascorse l’ultima vita terrena nascosto dietro un obiettivo, ritmando la sua preghiera quotidiana con un Ciak.
Gli fu strappata la lingua, come succede ogni giorno a tutti i dissidenti.
Fu per questo, forse, che si rifugiò nel cinema, saggiando i desideri più segreti, aprendo anime e tastandole con mano sfrenata, eppur casta, inseguendo, senza vergogna, poemi dissoluti.
I miracoli, le vite, i sorrisi, i sogni, i sospiri, i silenzi, i cammini di San Marco Ferreri furon più di settantamila e chi lo venera non morirà: di miseria, di fame, di discordia, di rabbia, di guerra, di bugie, di crepacuore. Anzi, non morirà affatto.

AMELIA ROSSELLI

Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegratevi della vicinanza di Sant’Amelia, protettrice dei malati di Parkinson e dei violinisti, dei coloristi e degli anarco-comunisti, di enigmatici memorialisti e di granitrici sessual scambisti, di Fate Morgane e di Farfalle, le più strane. Uno dei primi miracoli di Sant’Amelia fu proprio quello di
ridare vita a migliaia di farfalle imprigionate su sadici spilloni, con la lettura di una sua sola poesia, eccone un frammento: “una musica insonne ci farà / sentinella nell’ora vertiginosa / mentre un sole pallido sfilerà / reti.”
Sant’Amelia protettrice dei perseguitati dalla CIA e dal Mossad e da qualsiasi servizio segreto, aiutaci ad allontanare la guerra, il sangue, la smania di potere, tu sorella di Rachmaninoff, tu che facevi ritmare le parole tra Campo dei Fiori e Piazza dell’Orologio, aiutaci a conquistare chi amiamo, tienici stretti gli amici, allontana da noi gli importuni, i noiosi, gli spocchiosi e soprattutto chi vuole ferirci nell’animo e nel corpo, e rendi impotente chiunque voglia sezionarci la mente e magari con “lacrime e sangue su cristallo, la serenità sfasciata e a rammendar l’esistenza, laicamente” aiutaci, tu che puoi.
Rallegratevi fratelli e sorelle, perché Sant’Amelia saprà, impromptu, farci raggiungere, anche ai confini del mondo, la persona amata, lei rabdomante della parola ci guiderà dentro tutti i vocabolari e sceglierà con noi la parola giusta, sempre, e ci aiuterà a spolverare gli specchi dai nostri segreti.
Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegratevi perché Sant’Amelia lei così vera, così nuda e cruda, ci insegnerà a non piangere per i tradimenti e ci dispenserà dallo scrocco di avverbi e aggettivi.
Rallegratevi fratelli e sorelle, visto che lei riusciva ad apprezzare le rigide zinie abbarbicate ai muriccioli di sasso e le dalie rosse come gocce di sangue, saprà indicarci la via per arginare lo sfaldamento della natura.
Sant’Amelia ci sorveglierà per aiutarci a non porre speranza in persone dal cuore troppo duro e dalla testa troppo tenera. Sant’Amelia ci permetterà di dare animo alla carne, ci aiuterà a non aggrapparci al danaro, ma ci concederà di averne tanto da non
doverci prostituire.
Rallegratevi, amici, perché Sant’Amelia ci indirizzerà mentre ficchiamo le mani tra aggettivi e avverbi per spiegare la nostra ansia d’amore, perché è a noi vivi che tocca tenere la porta aperta e la poeta, sorella, Amelia, ben lo sa; e allora insieme “dentro una casa sibillina, lasciamoci sfuggire la morte, ubiqua”.
Rallegriamoci tutti, Santa Amelia è tra noi, al bar del Fico, su un foglietto ho trovato scritto: “Traluce nello specchio, / predestinata, l’alba: di lente figure, / in un angolo la notte / ci farà tremare di dimenticate febbri d’amore”.
Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegriamoci tutti, perché Santa Amelia ci svelerà il segreto dell’acqua che ci scivola fra le dita e del sangue che appanna la semplicità.

NICO

Santa Nico, protettrice di usignoli, allodole, cinciallegre, voci bianche, rockettari, cantori gregoriani, ugole liriche; di tatuati e tatuatori, delle donne dalla pelle di luna e di chi non ha fortuna.
Santa Nico santificò la sua vita con gli amici Andy Warhol, Candy Darling, Holly Woodlawn, Lou Reed; a New York tramontava, oltre la strada, il ventesimo secolo.
Si martirizzava con spilloni e mollette, nascondeva nelle fossette dei bagni ero e morfina, donna divina.
Già nel periodo Assirobabilonese, Nico: dettava “usignolo lunare”, si contornava di poeti, danzatori, di suonatori di ocarine del desiderio, di rollatori che svelavano segreti, di organisti che pizzicavano, con tocco celestiale, animo e carne.
Una sera coperta di veli d’oro, d’argento e rame, con piume fra i capelli si strappò la pelle di braccia e gambe, dopo averci scritto: “C’è un tempo per nascere e uno per morire, / un tempo per piantare e un tempo per sbarbare il piantato. / C’è un tempo per uccidere e uno per curare, / un tempo per demolire e un tempo per costruire. / C’è un tempo per piangere e uno per ridere, / un tempo per gemere e uno per ballare.”
La offrì ai presenti e fu subito miracolo: i ricchi calpestarono i loro vestiti, i poveri si strapparono gli stracci che indossavano e tutti si abbracciarono, si baciarono e si abbigliarono di rugiada e coralli.
Era il 1612: Nico, travestita da uomo, era in pellegrinaggio verso Roma, insegnava a un saltimbanco, mangiatore di fuoco, ad incendiarsi i capelli rasta, senza che prendessero fuoco. Suonarono insieme viole d’amore e sitar e tutto si fermò, ed il silenzio si mise ad ascoltare.
Le principesse: Carmilla, Millarca, Mircalla2, gelose fradice, la fecero cercare e poi condannare per stregoneria.
Mentre la stavano conducendo al rogo, Nico intonò: Femme fatale e tutti gli animali: uccelli, giraffe, cicale, pesci, persino i cani, risposero. Le piante e le foreste inneggiarono all’assoluto.
Passò una Balena Bianca e Santa Nico le saltò in groppa. Le tre sorelle Carmilla, Millarca, Mircalla si convertirono e diventarono le sue coriste.

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Le voci di una Livorno ribelle e corsara https://www.carmillaonline.com/2018/05/27/le-voci-di-una-livorno-ribelle-e-corsara/ Sat, 26 May 2018 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45937 di Paolo Lago

Luca Falorni, Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni ottanta a oggi, Agenzia X, Milano, 2017, pp. 261, € 15,00.

Il recente libro di Luca Falorni, Voci possenti e corsare, trae il titolo da un verso di una canzone della cantautrice livornese Alessandra Falca, Livorno: le «voci possenti e corsare» sono le «urla del porto», le voci, cioè dei lavoratori portuali, che lo stesso Falorni, in una introduzione di carattere autobiografico, descrive come caratterizzate da un volume altissimo e scomposto, ascoltate mentre, da piccolo, una volta accompagnò il [...]]]> di Paolo Lago

Luca Falorni, Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni ottanta a oggi, Agenzia X, Milano, 2017, pp. 261, € 15,00.

Il recente libro di Luca Falorni, Voci possenti e corsare, trae il titolo da un verso di una canzone della cantautrice livornese Alessandra Falca, Livorno: le «voci possenti e corsare» sono le «urla del porto», le voci, cioè dei lavoratori portuali, che lo stesso Falorni, in una introduzione di carattere autobiografico, descrive come caratterizzate da un volume altissimo e scomposto, ascoltate mentre, da piccolo, una volta accompagnò il padre portuale a una assemblea dei lavoratori. Del resto, come ricorda lo stesso Falorni, anche lo scrittore livornese Carlo Coccioli diceva che «tutti i livornesi urlano troppo, sempre, senza motivo». È quindi la città di Livorno la vera protagonista del libro, una città che il lettore troverà molto diversa dalla ‘banalizzazione’ «degli anni novanta del cinema “postveltroniano” del noto regista Paolo Virzì […], annacquatore di costumi e usi labronici, tanto quanto inventore di una città immaginaria in cui le vie sono vuote a tutte le ore, in cui la politica non è niente più che un manifesto sbiadito o una battuta scherzosa in bocca a qualche personaggio secondario».

Quella che viene fuori dal libro di Falorni è una città vera e verace, che sa di mare e di porto, di voce della gente comune, di strade, di disagio e dolore, di ribellione. Perché, come leggiamo nel sottotitolo, si tratta della «Livorno ribelle», una Livorno corsara che ha sempre combattuto contro l’indifferenza e il vuoto diffuso, sollevando la testa, lottando. Infatti, il libro, è dedicato a una cronistoria della lotta per gli spazi sociali a Livorno (raccontata da svariate testimonianze di chi ha vissuto in prima persona quei momenti), una lotta effettuata da un gruppo di giovani che, fin dagli anni ottanta, ha combattuto, in aperto contrasto con il potentato locale – prima il PCI, poi il PDS – per cercare degli spazi sociali dove poter svolgere attività politica, culturale e artistica connotata da una chiara impronta antifascista. L’introduzione del libro, intitolata Ironici volti sulle rovine, è dedicata a un racconto prevalentemente di carattere autobiografico: Falorni racconta la sua ‘educazione sentimentale’ politica e culturale a Livorno fino alla scelta, nel 2002, di lasciare la città per trasferirsi a Milano e svolgere nel capoluogo lombardo la sua professione di insegnante di Lettere. Una situazione insostenibile – quella di sentirsi un «topo nella gabbietta» quando la gabbietta è tutta la città – ha determinato la decisione di trasferirsi a Milano: «Orrore, terrore, raccapriccio, pensavo all’epoca, meglio morire solo in un andito buio alla Bovisa, stramazzare sulla Comasina, marcire nella Brianza velenosa, che finire così». Livorno, quindi, oltre che come culla e madre, appare anche sotto le vesti di prigione provinciale vuota e insostenibile, quasi come la gretta e fatua provincia tratteggiata dalla penna di Balzac nella Comédie humaine, in cui tutti sanno tutto di tutti e ognuno ha un suo ‘rispettabile’ e incasellato ruolo sociale. L’autore, in questo modo, intende anche sfatare il mito di Livorno «isola felice», propagandato da una fatua opinione pubblica e dai «boiardi di partito». Disagio sociale, disoccupazione giovanile, «crisi sistemica del porto già dai fine anni ottanta, a cui sarebbe seguita la progressiva dissoluzione di tutto il tessuto sociale cittadino»: altro che isola felice! Luca, insofferente a ogni tipo di incasellamento, ha preferito ‘perdersi’ nella metropoli e da lì, anni dopo, raccontare con queste pagine alcuni indelebili momenti della storia underground livornese. Nel suo scritto autobiografico l’autore, con note malinconiche e doloranti, ricorda anche gli amici che non ci sono più, tanti compagni di strada che non ce l’hanno fatta, anche e soprattutto falcidiati dalla piaga dell’eroina che negli anni ottanta – gli anni del ‘riflusso’ in cui le persone cominciavano a chiudersi in casa, complici le nuove televisioni private, piuttosto che lanciarsi nel marasma vitale delle strade – mieteva le sue vittime soprattutto fra i giovani. E, in questi momenti, la scrittura di Falorni mi ha fatto pensare al recente romanzo di Alessandro Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, uscito nel 2016 (cronistoria autobiografica di un’educazione sentimentale e politica, stavolta proprio a Milano), in cui lo scrittore ricorda con note dolorose tutti gli amici falcidiati dall’eroina.

A seguire l’introduzione dell’autore incontriamo uno scritto di Silvano Cacciari (Attaccare il dispositivo di controllo) che traccia un quadro delle occupazioni livornesi da un punto di vista più strategico-politico, legato alla gestione, anche sociale, del territorio. Uno degli errori più grandi, secondo Cacciari ma anche secondo molti altri intervistati, è stato quello di offrire indiscriminatamente troppo spazio ai tossicomani i quali, nella prima occupazione del 1989 (quella di Villa Sansoni, come vedremo), hanno preso in mano le redini della gestione del luogo dando adito all’opinione pubblica, movimentata dall’egemone partito locale, che considerava la Villa come una sorta di ricettacolo di ‘drogati’. Come nota Cacciari, «in Villa ci siamo dovuti confrontare con maggioranze schiaccianti di eroinomani in assemblea per la gestione del posto, forse il nostro è stato uno dei pochi collettivi che è stato politicamente sgomberato dai tossici!». Un’altra problematica affrontata è costituita dalle dinamiche di interrelazione col partito egemone in città, perché «il Pci all’epoca rappresentava esattamente il contrario di una forza popolare, era in realtà una forza di occupazione del territorio», un «dispositivo di controllo»: «Quando noi facevamo politica, organizzavamo un’azione, anche quando facevamo le feste, ci trovavamo sempre in mezzo i funzionari del partito». È facile quindi capire perché nel 2014, assistendo da Milano alla clamorosa sconfitta del PD nelle elezioni cittadine e alla vittoria dei pentastellati (comunque poi rivelatisi una specie di «Armata Brancaleone»), Luca afferma di aver euforicamente brindato con un «ottimo rosso piemontese» del 2003.

Dopo le dichiarazioni di Cacciari, è Franco Marino, pseudonimo di un redattore di “Senza Soste”, importante giornale livornese di controinformazione, a tracciare una sintesi di «dieci anni di movimento a Livorno (2001-2011)». Nel 2001, infatti, un gruppo di giovani rioccupa una palazzina che era stata la sede storica del centro sociale «Godzilla». Inizia poi un periodo di importanti lotte sociali che sfociano in cortei ed esperienze di piazza come il gigantesco corteo contro la base militare americana di Camp Darby, nel 2003, o la grande manifestazione, nel 2006, contro il rigassificatore offshore, una enorme nave gasiera che sarebbe stata ancorata al largo della città, fino alla nascita del «Mal», il Movimento antagonista livornese.

Cominciano quindi le testimonianze, anima e cuore pulsante del libro di Falorni, rigorosamente divise in blocchi cronologici e precedute da una mappa dei luoghi attraversati dal movimento livornese attraverso gli anni. Il primo gruppo di testimonianze comprende gli anni dal 1980 al 1993 ed è raccolto sotto il titolo Questa storia non mi piace! – lo stesso di un documentario di Falorni sugli spazi sociali a Livorno dal 1980 al 1993 (l’autore, infatti, è anche un bravo videomaker). Le testimonianze qui raccolte sono tratte proprio dal documentario-intervista. Già dagli anni ottanta, come osservano molti intervistati, si cercava – da parte del Collettivo spazi sociali che si riuniva nel Palazzo Rosciano occupato – uno spazio sociale che fosse un centro di aggregazione politica e culturale. La prima importante occupazione (dopo quella, passeggera, dell’ex Istituto Pascoli) è quindi quella, nel 1988, di Villa Sansoni, una villa ottocentesca nella frazione di Ardenza, nella zona sud della città, località in passato «sirena e adescatrice» di pittori postmacchiaioli. Come già ricordato, l’esperienza dell’occupazione svanisce nel ‘riflusso’ provocato dall’eroina. Come afferma Massimo M., «l’eroina pesò parecchio sul movimento degli spazi sociali, la città stessa in un certo periodo era stata affossata da chi si faceva le pere. Livorno era particolarmente nel mirino e non credo che ciò sia successo per caso. C’era stata una strage, anche di gente in gamba che avrebbe potuto dire la sua». La seconda, importante occupazione cittadina è poi quella del «Godzilla», che prende il nome dal mostro del cinema giapponese di fantascienza. Inaugurato nel dicembre del 1990, lo spazio sociale è il frutto di un’occupazione e di un accordo con l’amministrazione locale: all’interno di esso, nel corso degli anni, vengono avviati significativi progetti politici e culturali, come il gruppo di studio su Foucault o le prime sperimentazioni sulla comunicazione informatica. Purtroppo, anche l’esperienza del Godzilla decade più o meno per gli stessi motivi della fine dell’occupazione di Villa Sansoni: l’incapacità di contenere l’invasione da parte dei tossici e gli attacchi dell’amministrazione locale che, appunto, vedeva il centro sociale come un ‘ricettacolo di drogati’.

Dopo la significativa occupazione del Teatro delle Commedie, nel 1993, un teatro abbandonato e lasciato in disuso dall’incapace amministrazione locale, si passa alla seconda sezione delle testimonianze raccolte nel libro, Uovo strapazzato (1993-2010). Nel novembre del 2001, un gruppo di giovanissimi, una nuova generazione dedita alla ricerca di spazi sociali, rioccupa la palazzina del vecchio Godzilla mentre una parte del collettivo, più legata all’ambiente dello stadio, crea al primo piano della palazzina il Centro politico 1921. Di nuovo, vengono avviate iniziative culturali e politiche (personalmente, ricordo un interessante ciclo di seminari su Impero di Negri-Hardt tenuto da Silvano Cacciari) in una temperie socio-politica complessa: Genova 2001, manifestazioni contro la base americana di Camp Darby e contro il progetto del rigassificatore, le varie «sagre del precario» organizzate all’interno della Fortezza Nuova, un altro bellissimo spazio cittadino – una fortezza medicea circondata dai canali – abbandonato alla decadenza dall’amministrazione locale.

Si arriva dunque all’ultima sezione del libro, Il posto più difficile del mondo (Livorno ribelle oggi). La scena degli spazi sociali oggi è dominata da due importanti luoghi: il «Teatrofficina Refugio (Tor)» e la «Caserma occupata». Il primo, occupato nel 2006, è un teatro dove vengono organizzati concerti, spettacoli, mostre, iniziative culturali ed artistiche, anche con ospiti importanti a livello nazionale: si tratta probabilmente del luogo, al momento attuale, più culturalmente attivo e vitale della città. La Caserma (una vecchia caserma in disuso), occupata nel 2011, è sede di diverse iniziative, soprattutto di carattere musicale nonché del Critical Wine che ogni anno, in dicembre, vede riuniti produttori vitivinicoli provenienti da ogni parte d’Italia. A fianco di questi spazi occupati è poi doveroso ricordare altre strutture che sono attive a Livorno con un progetto di militanza sociale, politica e culturale sul territorio, come l’Associazione don Nesi nel quartiere di Corea (che nasce nel luogo dell’ex villaggio scolastico creato coraggiosamente negli anni sessanta da don Nesi per aiutare famiglie e ragazzi in condizioni di disagio), la Federazione anarchica, gli Orti Urbani di via Goito, un pezzo di amena campagna nel centro cittadino sottratto (per ora) all’edilizia selvaggia.

Il libro di Luca Falorni è perciò sicuramente un importante tassello, frutto di un lavoro certosino, nella ricostruzione di un periodo storico importante (e, direi, non solo underground) per la città di Livorno. Dopo la lettura viene spontaneo chiedersi quanto sia assurda la logica da sempre sottesa agli apparati di ‘potere’ e controllo: spazi gestiti da giovani, culturalmente e politicamente attivi, vengono contrastati e osteggiati fino allo sgombero da parte di amministrazioni locali (dappertutto, non solo a Livorno) che non riescono a tollerare che quella stessa cultura sia gestita (meglio) da un “altro da sé”. È una logica assurda perché queste strutture non riescono a rendersi conto di quanto bene facciano, invece, questi spazi alle realtà urbane contemporanee, attraversate da complessità sociali sempre più intricate. Il totale svelamento di questa assurda logica è quindi probabilmente il principale punto di forza del libro di Luca. Un punto di debolezza è però, a mio avviso, l’eccessiva nota malinconica e ‘dolorante’ con la quale molti degli intervistati, soprattutto legati al mondo artistico, rievocano il periodo in questione, come se dolori, rancori, insoddisfazioni personali facessero oggettivamente parte di uno spazio e di un tempo. Come se, in fin dei conti, tutte queste esperienze passate fossero state un grande fallimento. Ma, forse, questa nota malinconica fa da sempre parte, fino in fondo, dell’anima di Livorno, città di porto, disincantata, profondamente ferita nel corso della storia, fino alle terribili distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. E, nonostante tutto, perdute in mille malinconie, le «voci possenti e corsare» riescono sempre a risollevare la testa, a cantare, a urlare, a parlare, adesso anche a un pubblico più vasto, grazie al bel libro di Luca Falorni.

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