carceri speciali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/02/28/il-mondo-della-prigione-tra-alterita-e-realismo-storico-la-morte-di-francis-turatello-2-2/ Tue, 28 Feb 2023 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76073 di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

La morte di Francis più che l’inizio della fine sembra essere la puntuale registrazione di una trasformazione interna al mondo della prigione e della illegalità retrodatabile di almeno un paio d’anni quando, sia all’interno del carcere ma soprattutto all’esterno, le organizzazioni criminali iniziano a farsi egemoni. Quella composizione prigioniera a lungo ‘politicamente egemone’ già sul finire del 1978 inizia a essere messa all’angolo mentre sempre più massiccia e ramificata diventa, anche nelle carceri speciali, la presenza delle organizzazioni criminali. Non va ignorato infatti che, nel circuito [...]]]> di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

La morte di Francis più che l’inizio della fine sembra essere la puntuale registrazione di una trasformazione interna al mondo della prigione e della illegalità retrodatabile di almeno un paio d’anni quando, sia all’interno del carcere ma soprattutto all’esterno, le organizzazioni criminali iniziano a farsi egemoni. Quella composizione prigioniera a lungo ‘politicamente egemone’ già sul finire del 1978 inizia a essere messa all’angolo mentre sempre più massiccia e ramificata diventa, anche nelle carceri speciali, la presenza delle organizzazioni criminali. Non va ignorato infatti che, nel circuito normale, le organizzazioni criminali avevano iniziato a prendere gradatamente il sopravvento almeno da un paio d’anni quando, con l’apertura delle Carceri speciali, la frazione più radicale era stata separata dall’insieme del corpo prigioniero. All’interno delle carceri normali le organizzazioni criminali erano state l’elemento determinante della pacificazione e di quella complementarietà propria della relazione “crimine – polizia”. Questa funzione normalizzatrice, a partire dal 1979, viene esportata nell’ultima roccaforte della composizione prigioniera in pieno tramonto. Su questo aspetto occorre minimamente soffermarsi al fine di non dare adito a interpretazioni prone al complottismo e amenità simili. La funzione normalizzatrice della criminalità organizzata non è il frutto di un accordo sancito da questo o quell’apparato statuale con i vertici della mafia, della camorra e via dicendo. Non dobbiamo pensare a un salotto dove gli uomini delle due parti si incontrano e stabiliscono un ipotetico piano d’azione ma alla assoluta similitudine tra apparati statuali e apparati criminali. Le organizzazioni criminali funzionano come elemento di normalizzazione poiché rappresentano e incarnano la statualità dentro i mondi illegali. Non sono, come una letteratura prona al legalitarismo ama definire, l’anti-stato1, ma lo Stato sotto altra forma. La logica e i comportamenti della criminalità organizzata sono comportamenti statuali in tutto e per tutto o, nella migliore delle ipotesi, la loro è una funzione concertativa. Le organizzazioni criminali, tutte interne ai processi di valorizzazione del capitale, non possono mai essere fuori e contro le istituzioni ma sempre dentro. Quel processo di normalizzazione che lo stato era riuscito a intraprendere dopo l’ondata rivoluzionaria del ’77 non lascia certo immuni i mondi della prigione. Catturata e rinchiusa, insieme alle soggettività comuniste, la parte più radicale dell’illegalità dentro il circuito delle Carceri speciali, il mondo della prigione era stato sostanzialmente normalizzato. Gran parte della popolazione prigioniera aveva iniziato a essere il frutto maturo di quella ‘guerra a bassa intensità’2 che, attraverso l’eroina, stato e padroni avevano condotto contro un’intera generazione operaia e proletaria, mentre un’altra era formata da quelle non secondarie schiere legate alle organizzazioni criminali tradizionali e, ancor più, da quelle emergenti come la NCO o la Nuova famiglia. Repentinamente il mondo delle ‘batterie’, che era stato in grado di imporre il suo potere per circa un decennio, evapora e, con questo, quella critica della prigione che gli aveva fatto da sfondo. Ma la critica della prigione era stata possibile solo grazie all’esistenza di ‘comunità belligeranti’ che della dimensione collettiva aveva fatto il suo stile di vita. Nel mondo degli individui che inizia a prendere forma non può esservi spazio per alcuna dimensione collettiva e tanto meno comunitaria. I peggiori incubi hobbesiani si fanno concretezza storica. Nel mondo delle Carceri speciali l’omicidio di Turatello indica esattamente la consumazione di questo passaggio. Ma, a questo punto, è giunto il momento di far parlare Bruno che di tutto ciò è stato un testimone non secondario.

3. Nel ventre del mostro

Allora, Bruno, sono passati quasi quaranta anni dalla morte di Francis. Come in tutte le cose il tempo permette di osservare e raccontare gli eventi con più distacco e minore emotività. Prima di affrontare ciò che è accaduto e le sue conseguenze puoi tracciare un breve profilo di Francis sul quale si è detto e scritto di tutto e il contrario di tutto?

Intanto partiamo da una constatazione solo apparentemente banale: sono passati una quarantina di anni. Sicuramente, se questa domanda mi fosse stata rivolta allora, avrei dato risposte diverse. Questo non perché nel tempo io abbia cambiato giudizio e opinione su Francis ma perché oggi posso leggere quanto accaduto con una visione e comprensione delle cose che all’epoca non avrei potuto avere. Il dolore e l’amarezza per quella morte rimangono intatti, ciò che è cambiata è la comprensione di che cosa è successo a Nuoro. Ho voluto fare questa piccola premessa perché la ritengo essenziale per tutto ciò che proverò a dire, sperando di riuscire a farmi capire. Parto quindi da Francis e dal mio rapporto con lui. Con Francis ci eravamo conosciuti a Milano nel ’76 durante la mia latitanza. Da Genova mi ero spostato a Milano dove facevo principalmente rapine. Molte nel milanese, anche se in alcuni casi mi spostavo anche in Liguria e in Piemonte. Francis l’ho conosciuto in uno dei suoi locali e abbiamo immediatamente simpatizzato e iniziato a costruire un legame che, in brevissimo tempo, si è fatto quanto mai solido e fraterno. Non a caso ero considerato, a tutti gli effetti, il suo Delfino. Francis aveva in mano tutto il giro delle bische oltre a un certo numero di locali, anche se non disdegnava, visto il suo passato, le rapine. Si è detto che Francis controllava Milano ma è una affermazione che va abbastanza smentita. La verità più vicino al vero è che Francis, più che controllare Milano, non faceva controllare Milano. Cosa voglio dire? Voglio dire che Francis aveva sicuramente un peso rilevante su Milano e che sicuramente era a conoscenza di tutto ciò che a Milano si muoveva ma non imponeva alcuna forma di governo e di controllo sugli altri. Il suo problema era che nessuno agisse per intralciare in qualche modo le sue attività, dopo di che rispettava tutti e da tutti pretendeva rispetto. Questo suo modo di agire faceva sì che nessuno gli si mettesse contro e che, al contempo, tutti avessero un occhio di riguardo nei suoi confronti.

Tutto questo che relazione ha con la sua morte?

Come ti ho detto oggi mi è molto più facile inquadrare la morte di Francis perché mi permette di osservarla ben oltre il fatto in sé. La morte di Francis ha significato la fine di un’epoca e questo mi è stato chiaro solo in seguito quando gli effetti di quella morte si sono fatti sentire in tutti gli ambiti e gli aspetti del nostro mondo, del nostro modo di vivere e di concepire i rapporti con gli altri. Andando al sodo, Francis è stato ucciso perché alcuni gruppi volevano prendersi Milano. Sicuramente Cutolo e la NCO che avevano grosse mire su Milano, ma anche i palermitani e soprattutto i catanesi che perseguivano lo stesso obiettivo e con non poca determinazione. Cutolo e i catanesi sono stati i principali ispiratori, mentre i palermitani si sono limitati a assecondare il progetto. A uccidere Francis, non a caso, è Barra, uomo di Cutolo, Faro, uomo dei palermitani, Maltese, un povero idiota fatto su da Faro, e Andraus, vero e autentico Giuda perché fino a un attimo prima era legatissimo a Francis e si è repentinamente venduto ai catanesi. Francis penso che potesse immaginare tutto tranne che nei suoi confronti ci fosse una cospirazione in corso. Con la sua morte e la veloce disgregazione della sua rete organizzativa esterna la sua epopea tramonta e con questa un’intera epoca. Ma forse occorre dire che la morte di Francis più che l’inizio della fine è un po’ il punto di arrivo di una trasformazione in atto da tempo. Io credo che solo pochi anni prima un fatto del genere non sarebbe potuto accadere perché il clima presente dentro le carceri non lo avrebbe permesso. Molti si sarebbero opposti, non tanto per una particolare simpatia nei confronti di Francis, ma perché le logiche che hanno portato alla uccisione di Francis non avrebbero trovato legittimità dentro le prigioni. Ora provo a spiegarmi.

Prima di proseguire una domanda. Nel passeggio nel quale Francis viene ucciso vi sono anche due della tua ‘batteria’, Cesare e Paolo: come reagiscono alla cosa? La domanda mi sembra legittima per almeno due motivi: in prima battuta perché, a quanto mi risulta, i loro rapporti con Francis erano più che buoni e, aspetto ancora più importante, sapevano benissimo il legame di fratellanza esistente tra te e Francis. Non prendere posizione, ovvero non intervenire in difesa di Francis, non significa anche registrare una sorta di rottura con te e, come immancabile conseguenza logica, mettere fine a quel legame proprio dell’essere ‘batteria’? La morte di Francis non rappresenta anche la vostra fine? Non opporsi alla morte di Francis non significa forse rompere in maniera netta e recisa quei vincoli di amicizia e fratellanza che erano stati alla base del vostro essere?

Sicuramente sì. È chiaro che starsene a guardare mentre viene ucciso uno che è un mio fratello significa, se la parola fratello ha un senso, non solo e semplicemente non avere alcun riguardo nei miei confronti ma rompere il legame con me. Ma se rompi il legame con me significa che a venire meno sono tutti i presupposti che in quel legame erano impliciti. A quel punto è evidente che continuare a parlare di ‘batteria’ non ha più il senso di prima, e infatti molte cose iniziano a cambiare. Gli anni successivi di questo ne saranno una triste conferma3. Qualcosa è successo e tutti quanti, in qualche modo, rimaniamo travolti da quel qualcosa che modifica tutto. Come si può descrivere tutto questo? Direi che, a un certo punto, abbiamo cessato di essere e pensarci come gruppo, come banda, come essere il pugno chiuso di una mano, per diventare, invece, tante dita isolate che si incontrano solo per motivi di interesse rimanendo però dita singole. In qualche modo sicuramente continuiamo a esistere come gruppo, siamo ancora i ‘genovesi’, ma siamo già diventati una cosa diversa.

Torniamo però al carcere. Perché la morte di Francis segna un vero e proprio passaggio epocale? Perché da quel momento in poi nulla sarà più come prima? Quali equilibri, in sostanza, una figura come quella di Francis garantiva?

Il passaggio è così spiegato. Nelle carceri, anche se occorre precisare negli speciali perché nel circuito normale le cose erano ormai molto diverse, a contare era solo e unicamente la biografia del singolo ossia non aveva importanza a chi eri legato e neppure lo spessore delle tue azioni così come, visto che all’epoca c’erano numerosi politici, neppure a quale fede o gruppo appartenevi. Le simpatie di Francis, per dire, erano dichiaratamente di destra, tanto che a Nuoro stava in cella con Concutelli, ma sicuramente non aveva prevenzioni di sorta nei confronti dei comunisti. Quando faceva colloquio il pacco lo divideva con tutta la sezione senza curarsi a quale credo politico appartenessero. Tra noi degli speciali, anche perché di fatto ci conoscevamo da tempo, c’era una relazione di fratellanza basata proprio sulla stima e la fiducia che ognuno di noi nutriva per l’altro. Possiamo dire che c’era un rapporto sostanzialmente egualitario. Nessuno, dentro gli speciali, ha mai avuto il problema del mangiare, delle sigarette o dei vestiti. Chi aveva di più dava a chi aveva di meno perché l’unica cosa che contava era l’essere o meno un ‘bravo ragazzo’. Francis, le cui disponibilità economiche non erano certo irrisorie, di questo vero e proprio ‘stile di vita, ne rappresentava un po’ il paradigma. Questo cosa significa? Significa che in questo clima contano i singoli e non le loro appartenenze anche perché le appartenenze sono sostanzialmente del tutto simili: o batterie di rapinatori o veri e propri cani sciolti o lupi solitari. Nessuno, in poche parole, era interessato a diventare una forza egemone dentro il carcere anche perché, questo il fatto veramente decisivo, tutti, o almeno la stragrande maggioranza, avevano in mente una sola cosa: evadere. Non bisogna dimenticare infatti che negli speciali, almeno nella prima fase, finiscono coloro che o sono evasi, spesso armi in pugno, o hanno cercato di farlo. I prigionieri degli speciali stanno dentro ma hanno costantemente la testa rivolta a fuori. Non vogliono diventare i padroni del carcere, vogliono unicamente andarsene. Questo il collante che lega tutti ed è ovvio che se questo è il comune sentire tutto il resto non può che essere conseguente. Ciò che palesemente rimane estraneo in questo scenario sono il denaro e l’interesse. Con l’ingresso prepotente delle organizzazioni, la NCO ma non solo, tutto questo cambia. La prigione diventa una specie di parlamento dove non si ci parla più come biografie ma come componenti. Ci sono i cutoliani, i catanesi, i palermitani, i milanesi, i genovesi, i brigatisti, quelli di prima linea e così via. Questo comporta una mutazione decisiva perché implica una divisione e un modo diverso di ragionare. Inoltre le organizzazioni criminali non sono interessate a scappare ma a governare il carcere insieme all’esterno: la morte di Francis è l’esatto corollario di questa logica. Francis viene ucciso perché cutoliani, palermitani e catanesi vogliono prendersi Milano, le bische e non solo, per questo dovevano rimuovere Francis il quale, tra l’altro, era prossimo alla scarcerazione e da lì a poco sarebbe tornato nella sua Milano. Fare la guerra a Francis fuori sarebbe stato un problema non solo perché poteva contare ancora su un saldo gruppo di fedelissimi ma perché, con ogni probabilità, tutti gli indipendenti avrebbero sicuramente appoggiato più volentieri Francis piuttosto che gli altri. L’omicidio di Francis, inoltre, infrange un tabù quello di non uccidere se non di fronte a prove certe di infamia. Uccidere per interesse non era ammesso e così, sfregio nello sfregio, Francis verrà accusato dai suoi assassini di infamia e di collaborazionismo con la direzione carceraria4.

Quali saranno, quindi, le ricadute concrete all’interno della prigione di questo episodio?

Saranno enormi. Ma già come si è consumato l’atto in sé è indicativo. Nessuno, tranne Concutelli, prova a difendere Francis. Credo che solo qualche mese prima questo non sarebbe accaduto e di fronte a quell’aggressione del tutto immotivata, almeno secondo il costume che regolava il carcere, i più si sarebbero messi di mezzo e avrebbero impedito l’omicidio e a finire sotto accusa sarebbero stati gli aggressori. Col senno di poi credo che sia sensato dire che l’omicidio di Francis più che essere l’inizio della fine sia un po’ il capolinea di quello che ormai nelle carceri era avvenuto. L’omicidio di Francis non farà altro che rendere esplicito ciò che era implicito ormai da qualche tempo.

Potresti essere più chiaro?

Voglio dire che il modo in cui si è consumato l’omicidio implica palesemente il fatto che quel vincolo e quel legame che aveva caratterizzato il mondo degli speciali si è ormai eclissato, il senso di appartenenza e fratellanza è ormai poco più che un contenitore vuoto. Da lì in poi tutto ciò sarà estremamente evidente e al limite del banale. Non tutti, ma quasi, correranno a arruolarsi in questa o quella organizzazione o comunque a essere da queste sovradeterminati. Con la morte di Francis un’epoca è decisamente chiusa e il mondo della prigione diventa un’altra cosa.

Quanto appena affermato dalle parole di Bruno Turci è ulteriormente rinforzato da un altro attore sociale con alle spalle una lunga attività di rapinatore autonomo, un vero e proprio lupo solitario il quale, pur ‘lavorando’ con diverse batterie, non ha mai stipulato vincoli eccessivamente stretti con nessuno. La sua testimonianza appare preziosa perché, per molti versi, sintetizza al meglio ciò che era il mondo della prigione e ciò che repentinamente è diventato.

In maniera molto sintetica puoi raccontarmi come hai vissuto la morte di Turatello e tutto ciò che nelle carceri è seguito?

Io conoscevo Francis da tempo e con lui ho sempre avuto ottimi rapporti tanto che, in una circostanza, mi ha anche regalato delle armi lunghe delle quali con il mio gruppo avevamo bisogno per fare un lavoro. Tuttavia non sono mai stato legato in alcun modo a lui, io ho sempre fatto rapine e non mi sono mai interessato di altro. A volte andavo a giocare in una delle sue bische o passavo la serata in qualche suo locale ma nulla di più. Sicuramente era un amico e un gran bravo ragazzo sempre disponibile a dare una mano a chi si trovava in una qualche difficoltà. La sua morte non mi ha stupito più di tanto perché che il clima nelle carceri speciali fosse cambiato era già evidente da qualche tempo. Questo io, probabilmente perché non legato a nessuno in maniera particolarmente stretta, ho avuto modo di percepirlo con un certo anticipo.

Per quali motivi?

Perché, un giorno dopo l’altro, questi delle organizzazioni e specialmente i cutoliani prendevano campo e palesemente chi non si affiliava veniva guardato con sospetto se non considerato come un vero e proprio nemico. In più, cosa che per noi era del tutto impensabile, iniziavano a vedersi atti di sopraffazione nei confronti dei meno attrezzati sino a arrivare all’emissione di sentenze di morte per il solo fatto che qualcuno non si sottometteva ai capricci di un qualche camorrista del cazzo.

Per esempio?

Le cose più indegne. Ho visto dei bravi ragazzi essere marchiati come infami solo perché si erano rifiutati di pulire i piatti o lavare gli indumenti di un qualche piccolo boss. L’aria nelle carceri era diventata irrespirabile tanto che, neppure in pochi, proprio per togliersi da quella situazione invivibile hanno chiesto di essere posti volontariamente in isolamento.

Quindi, secondo te, la morte di Turatello è una sorta di frutto maturo della trasformazione che aveva ormai pervaso il mondo carcerario?

Sì, è così. Francis muore perché, tutto sommato, anche se diverso da noi con noi condivideva un modo di vivere che per questi delle organizzazioni era decisamente incompatibile. (V. P.)

Giunti a questo punto proviamo a trarre una qualche sintetica conclusione. La morte di Turatello segna, dentro la prigione e i mondi illegali, per prima cosa la fine della dimensione autonoma e di obiettiva contrapposizione al potere che un certo tipo di illegalità aveva coltivato e praticato. Con ciò siamo ben lungi dal voler ascrivere gangster e batterie nell’ambito della rivoluzione ma, con molto più realismo, asserire che la stagione dei Turatello, dei Cochis e tantissimi altri può essere considerata come una sorta di breve estate dell’anarchia dentro i mondi illegali i quali, se una qualche assonanza con quanto si stava muovendo nella società, lotte operaie, lotte studentesche, rivolte nelle carceri, lotte femministe, guerriglia diffusa e lotta armata, hanno sicuramente avuto, è stato sul piano esistenziale più che politico. Turatello rifiuta l’offerta dello stato non certo perché nutra una qualche simpatia nei confronti dell’azione Moro ma perché lui è un ‘bravo ragazzo’ e ‘bravi ragazzi’ sono i brigatisti mentre, per definizione, chi sta con lo stato è solo un infame. Non diverso è il punto di vista di Cochis il quale, anche lui uomo con maggiori simpatie a destra che a sinistra, non ha un attimo di dubbio nel rigettare l’allettante offerta dei carabinieri. Questa illegalità era tanto irriverente quanto irriducibile alle logiche del potere e, dentro una complessiva normalizzazione degli assetti sociali, doveva essere rimossa. Con lei doveva essere rimossa, e qua la non secondaria assonanza con ciò che si consuma in fabbrica, quel senso di essere collettivo che aveva caratterizzato l’operaio in lotta. Ciò che viene annichilito è, insieme al senso di appartenenza collettiva, l’idea stessa della lotta. Niente più lotta in fabbrica, niente più rivolte nelle prigioni, niente più cortei interni in fabbrica, niente più evasioni dalle carceri bensì il rigido ripristino di robuste gerarchie sociali inamovibili. Individui atomizzati e de-solidarizzati, sotto il controllo rigido e ferreo di un potere burocratico, diventano gli abitanti della prigione ma questa è esattamente la società italiana che prende forma negli anni Ottanta. Questa società può certamente felicemente convivere con ogni forma di organizzazione criminale ma non può tollerare gangster e banditi. È il tempo storico di Turatello a venir meno e, con questo, quello di un’intera tragica epopea. Ma il tempo storico che segna la fine dell’epopea di Turatello è esattamente il tempo storico entro il quale tutti noi siamo immessi così come quella tragica epopea è stata per intero anche la nostra epopea poiché, tutti, siamo stati da una parte o dall’altra della barricata. Del resto, in mezzo, può starci solo la barricata.

(Fine)


  1. Uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è sicuramente Pino Arlacchi: al proposito si può vedere La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’inferno, Milano, Il Saggiatore, 2007.  

  2. Sul ruolo avuto dagli apparati statuali nella diffusione massificata dell’eroina controrivoluzione preventiva si veda Rai Storia, Operazione Blumoon. Eroina di stato.  

  3. Di come la ‘batteria’ dei genovesi finisca con l’andare in frantumi se ne avrà una corposa riprova quando, nell’ottobre del 1990, venne ucciso Gaetano Gardini ‘Gughi’ per opera del clan mafioso Fiandaca ma su mandato di Cesare Chiti, proprio uno degli elementi di maggio spicco, sin dalle origini, della ‘batteria dei genovesi’. Per molti versi si assiste a qualcosa di molto simile a quel Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, curiosamente uscito un mese prima della morte di ‘Gughi’, film che racconta con grande realismo il dissolversi di ogni legame amicale all’interno dei mondi criminali e l’imporsi di un cinismo individualista sostanzialmente narcisista. C. Lash, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in una età di disillusioni collettive, Vicenza, Neri Pozza, 2020.  

  4. Ciò è quanto, infatti, sostiene V. Andraous («Dissi io a Barra di unirsi all’omicidio Turatello», Spazio 70) il quale nega l’esistenza di mandanti ma rivendica interamente a sé l’ideazione dell’omicidio a seguito della collaborazione di Turatello con la direzione penitenziaria. Sembra importante rivelare come l’uso della calunnia, da quel momento in poi, divenne moneta corrente in tutto il mondo carcerario. Gran parte degli omicidi che segnarono drammaticamente quella stagione furono giustificati, appunto, attraverso l’accusa di collaborazionismo quando, in realtà, erano solo questioni di affari. Quando un gruppo doveva liberarsi di un concorrente per prima cosa si adoperava per mettere in moto la ‘macchina del fango’. A ciò non si sottrassero neppure le Brigate rosse le quali, dopo le scissioni interne, iniziarono bollare come ‘infami e traditori’ i nuovi avversari politici.  

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Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/02/25/il-mondo-della-prigione-tra-alterita-e-realismo-storico-la-morte-di-francis-turatello-1/ Sat, 25 Feb 2023 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76039 di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

È l’appartenenza a un campo – la posizione decentrata – a permettere di decifrare la verità e di denunciare le illusioni e gli errori attraverso cui vien fatto credere – gli avversari fanno credere – che ci si trova in un mondo ordinato e pacificato. (Michel Foucault, Bisogna difendere la società)

1. Bravi ragazzi

Nel testo che segue proveremo a descrivere un passaggio storico del mondo della prigione e dei coevi mondi illegali. Andando decisamente contro corrente cercheremo di evidenziare come questi, contrariamente alle retoriche [...]]]> di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

È l’appartenenza a un campo – la posizione decentrata – a permettere di decifrare la verità e di denunciare le illusioni e gli errori attraverso cui vien fatto credere – gli avversari fanno credere – che ci si trova in un mondo ordinato e pacificato. (Michel Foucault, Bisogna difendere la società)

1. Bravi ragazzi

Nel testo che segue proveremo a descrivere un passaggio storico del mondo della prigione e dei coevi mondi illegali. Andando decisamente contro corrente cercheremo di evidenziare come questi, contrariamente alle retoriche discorsive dominanti e alla considerevole letteratura di genere che l’accompagna siano del tutto interne a ciò che comunemente vengono definiti mondi legittimi e rispettabili. Basti pensare alle fortune a cui sono andati incontro romanzieri come Auguste Le Breton ed Edward Bunker che hanno costruito i loro successi inventando mondi criminali, e coeve retoriche culturali ed esistenziali, del tutto privi di fondamenti. Mentre l’esatto, e ben più realistico, modello narrativo decisamente in opposizione a questo genere di scrittura lo si trova, per esempio, in uno scrittore come Gian Carlo Fusco di cui è senz’altro utile ricordare Duri a Marsiglia (Einaudi, 2005). Sottolineando come, a conti fatti, i mondi illegali abbiano ben poco del carnevale ma, al contrario, siano una sorta di sintesi estrema del mondo e delle sue trasformazioni, ma non solo. Secondo gli autori tanto i mondi illegali ma soprattutto la prigione sono una corposa anticipazione di quanto, attraverso un processo a cascata, si sta delineando per farsi modello egemone in tutti gli assetti sociali1.

Metodologicamente il testo utilizza lo stile di ricerca proprio dell’etnografia e all’importanza che questa assegna e riconosce alla narrazione degli attori sociali2. Una di queste, quella di Bruno Turci, coautore del testo, è riportata con nome e cognome mentre per le altre due, su richiesta esplicita degli intervistati, ci si è limitati a una semplice sigla.
Detto ciò entriamo nel merito della questione iniziando con il dire che il testo che presentiamo prende le mosse da un evento che, all’epoca, suscitò non poco clamore: l’uccisione di Francis Turatello3 avvenuta il 17 agosto 1981 nel Super carcere di Nuoro. Un evento che, almeno in apparenza, potrebbe rientrare in quel consueto ‘regolamento di conti’ di cui il mondo illegale non è certo parco e, per questo, essere tranquillamente circoscritto ai rituali propri di un determinato ambito sociale e coeve retoriche ‘culturali’ Un fatto, sicuramente eclatante visto lo spessore del personaggio, ma che avrebbe ben pochi motivi per andare oltre i perimetri della ‘cronaca nera’. A uno sguardo solo un poco più attento, invece, la morte di Turatello assume a pieno titolo la caratura del ‘fatto storico’ tanto da potersi considerare lo sparti acque tra due epoche storiche. Vediamone il perché.

Cominciamo intanto, al fine di non creare malintesi di sorta, con l’inquadrare la figura di Francis Turatello. Questi non ha nulla di romantico e solo in parte ha a che fare con la cornice culturale ed esistenziale delle batterie degli anni Settanta4. Turatello è figlio di un’altra epoca anche se, non diversamente dalle batterie, rappresenta una rottura radicale rispetto ai mondi tradizionali della malavita. Turatello è, con ogni probabilità, la prima figura di gangster5 che si affaccia sulla scena dei mondi illegali di questo Paese. Non per caso la sua storia si dipana a Milano una città che da sempre ha anticipato, e anche di molto, le profonde trasformazioni sociali ed economiche dell’intera nazione. Per chi ha poca dimestichezza con questi mondi può essere utile richiamare alla mente il Delon della saga Borsalino. Turatello ha molto del Roch Siffredi così come non poche sono le analogie dei mandanti del suo assassinio con il Giovanni Volpone, ‘anima nera’ della saga sopra ricordata. Niente a che vedere, quindi, con i personaggi maledetti e dannati del noir francese degli anni Sessanta e primi Settanta, e neppure con quella pur particolare critica dell’economia politica che caratterizza i personaggi e le gang di gran parte di questo genere cinematografico6. Turatello, nonostante nella sua carriera possa vantare furti, rapine e sequestri, passa alla storia come il ‘re delle bische’ tanto che, non casualmente, è praticamente irrisoria la bibliografia che lo riguarda, minima la rievocazione cinematografica e sempre in relazione ad altri personaggi7 così come quasi inesistente il materiale documentario che lo riguarda. Nelle numerose riprese che ricostruiscono le vicende criminali degli anni Settanta e primi Ottanta sono tantissimi i casi in cui i personaggi della malavita parlano di lui, ma egli non compare pressoché mai8. Del resto: «io sono solo un commerciante» era il modo in cui amava definirsi e di solito i commercianti risultano poco appetibili a qualunque forma di mitopoiesi. Da buon ‘commerciante’ dedito agli affari Turatello ha sempre evitato con cura ogni forma di notorietà e protagonismo tanto che, ricordando uno degli episodi mediatici maggiormente noti della sua biografia, ha sempre cercato di minimizzare la ‘guerra’ avuta con la ‘banda Vallanzasca’ riconducendola a una semplice incomprensione dovuta a una serie di spiacevoli malintesi, ma non solo. Vista l’eccessiva notorietà che, grazie a una campagna stampa particolarmente ghiotta di climax noir, quella vicenda gli stava provocando, Turatello fece di tutto non solo per smorzarne i toni ma per approdare velocemente e senza colpo ferire a una pacificazione. Strategia che portò avanti con non poco successo visto che, di lì a poco, non solo la pace fu ampiamente sancita ma Turatello fece da testimone di nozze a Renato Vallanzasca. La ricerca della notorietà non era proprio nelle corde di Turatello, gli affari sicuramente sì.

Gestire le bische e i locali notturni di una città come Milano significa avere tra le mani un giro di affari se non di una multinazionale sicuramente di una grande azienda e intrattenere rapporti che vanno di gran lunga al di là dei ristretti mondi illegali. I locali e le bische di Turatello non sono scalcinati bar dove attempate entreneuse spillano qualche quattrino a sprovveduti e mesti avventori o retrobottega dove per qualche ora accanto a salumi e formaggi si stende un improvvisato panno verde ma vere e proprie eccellenze frequentate da un pubblico per lo più rispettabile e con grande disponibilità di mezzi. In sostanza Turatello fornisce un servizio sicuramente illegale sotto il profilo giuridico-formale ma del tutto legittimo per la stragrande maggioranza della popolazione milanese9. Grazie a ciò il potere di Turatello è enorme, ma è un potere che non esercita in maniera dittatoriale e tanto meno ha tendenza al monopolio. Certo il business delle bische è suo e su quel terreno, come non poche testimonianze dell’epoca sono lì a ricordare, non ammette intrusi, ma tutto ciò che si muove fuori dal gioco d’azzardo per Turatello non ha interesse10. Blindati rigidamente i confini delle bische la filosofia di vita di Turatello è molto semplice: vivi e lascia vivere. È un uomo che sicuramente esercita potere senza esserne però particolarmente attratto e questo è del tutto in linea con la sua dimensione di gangster. Turatello è figlio di quella mentalità dove l’essere un ‘bravo ragazzo’ – di qua la sua obiettiva affinità elettiva, culturale più che esistenziale11, con il mondo delle batterie – è il solo e unico passaporto che conta. Nel corso della sua vita Turatello, per esempio, non si fece problemi a aiutare, attraverso l’invio di vaglia postali e pacchi di cibo e vestiario, un numero cospicuo di detenuti in difficoltà senza chiedere nulla in cambio. Nella weltanschauung di Turatello centrale ed essenziale è il modo in cui il singolo si comporta nel mondo, il suo agire e l’onestà che dimostra nella relazione con i suoi simili tutto, questo indipendentemente dallo spessore delle sue gesta e, ancor meno, dai legami organizzativi che può vantare. Questo credo Turatello non lo ha mai abbandonato neppure quando una sospensione della sua weltanschauung gli avrebbe consentito di risolvere in fretta e furia i suoi problemi con la giustizia.

Nel 1978, infatti, durante il sequestro Moro si ritrovò a colloquio con alcuni emissari dei Servizi che gli offrirono una libertà pressoché immediata e successive coperture per i suoi affari se si fosse adoperato, attraverso i suoi uomini, per picchiare e torturare i brigatisti di maggior spicco al fine di ottenere una qualche utile informazione su Moro. Turatello, uomo di destra, neppure portò a termine il colloquio mandando, ancorché in modo garbato a quel paese, gli emissari dello stato12. Tentativi di questo tipo, del resto, sono stati tutto tranne che fulmini a ciel sereno e pare opportuno ricordarne almeno un paio sia per dare modo al lettore di calarsi il più possibile nello scenario che stiamo descrivendo, sia per evidenziare quanto il mondo della prigione soggiace per intero al cosiddetto mondo normale. Al proposito basta ricordare l’offerta fatta dai carabinieri a Rossano Cochis, un esponente della ‘banda Vallanzasca’, della libertà in cambio dell’assassinio di Renato Curcio insieme al quale era detenuto nel carcere dell’Asinara. Anche in questo caso, benché in maniera decisamente meno elegante, Rossano diede una risposta del tutto identica a quella di Turtello13. Questi episodi hanno ben poco della curiosità ‘esotica’ ma, al contrario, rafforzano sia l’idea di quanto il carcere abbia ben poco del ‘mondo alla rovescia’ ma sia parte costitutiva e costituente del mondo reale, di quanto lo stato, sicuramente in quel periodo, vi entrò prepotentemente e vi giocò un ruolo di primo attore e, per altro verso, di come il gangster quanto il ragazzo delle batterie condividessero una comune ‘visione del mondo’ che impediva loro, si potrebbe dire ontologicamente, di scendere a patti e collaborare con gli apparati statuali. Questa non è cosa da poco e spiega, già di per sé, il motivo per cui le organizzazioni criminali si siano sbarazzate di Turatello.

Proprio in relazione ai loro comportamenti nei confronti dei prigionieri comunisti e della guerriglia è possibile trovare un non secondario indicatore di come questi mondi dovessero essere rimossi al fine di ricondurre crimine e prigione in quella relazione di et et con la polizia che ha, almeno in gran parte, caratterizzato il rapporto tra mondi illegali e forze dell’ordine14.
Significativamente, quello che non riuscì con Turatello e Cochis andò, almeno parzialmente, a buon fine poco dopo quando nel carcere di Cuneo, il 2 luglio 1981, si consumò il tentato omicidio di Mario Moretti15. Qui, però, le cose vedono come protagonisti attori sociali di tutt’altro tipo. A sferrare l’attacco a Moretti fu Salvador Farre Figueras e si trattò di un evento che lasciò tutti stupiti poiché i due neanche si conoscevano e, per di più, pensare a Figueras come braccio armato dei carabinieri sembrava a dir poco impossibile. Questi era stato condannato all’ergastolo proprio per l’uccisione di due carabinieri a Moncalieri e, una volta catturato, fu sottoposto a torture tali che lo resero impotente. Difficile, per tanto, pensarlo come possibile collaboratore di questi. Solo qualche tempo dopo, e sul piano della sola deduzione, una spiegazione divenne possibile. Figueras era un uomo di Tommaso Buscetta il quale proprio nel carcere di Cuneo ottenne la semi libertà. Sicuramente, anche se la cosa venne fuori in tempi successivi, aveva iniziato a collaborare sin da subito e, con ogni probabilità, l’agguato a Moretti faceva parte del pacchetto degli accordi stipulati con i carabinieri dell’Antiterrorismo i quali avevano fatto del carcere di Cuneo un loro centro operativo in stretta cooperazione con i Servizi. Lo stesso maresciallo del carcere Angelo Incandela, come egli stesso ha ammesso nella biografia pubblicata a fine carriera, era a tutti gli effetti al servizio dei gruppi speciali dei carabinieri16. Buscetta, con ogni probabilità, non ha dovuto fare altro che mandare una fibbia 17 a Figueras e questi, da buon soldato della famiglia, ha eseguito l’ordine senza domandarsene il motivo. Tali fatti hanno ben poco della nota di colore ma diventano elementi estremamente utili per immergersi nel clima che si respirava dentro le carceri speciali, per rendersi conto di quanta aderenza avessero essi con quanto andava delineandosi nel Paese e, per altro verso, dell’assoluta complementarietà tra apparati statuali e organizzazioni criminali. All’interno di questo scenario va colta l’origine della morte di Turatello. Proviamo a spiegarlo.

2. Uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraqua

Per comprendere ciò che andremo ad argomentare occorre fare una, per quanto sintetica, immersione nella dimensione ‘macro’, dobbiamo, cioè, descrivere il mutamento epocale entro il quale tutti i rapporti sociali iniziano a scomporsi e a ridefinirsi. Sul finire degli anni Settanta, come è stato ben argomentato da Foucault 18, siamo di fronte a una trasformazione che, per molti versi, ha la stessa intensità e radicalità di quella conosciuta dentro il primo conflitto mondiale e del suo corollario, la crisi del ’29. Due passaggi storici che avevano obbligato il comando del capitale a prendere atto del ruolo strategico che le masse subalterne rivestono all’interno dei nuovi assetti sociali e la necessità di un loro riconoscimento politico e sociale. Questi passaggi erano stati caratterizzati dalla messa in forma del modello keynesiano che nello stato-piano aveva trovato il suo involucro politico19. Negli anni Settanta assistiamo alla messa in mora di tale modello e all’affermazione delle retoriche ordoliberali e neoliberiste. Questa la cornice entro la quale iniziano a ridefinirsi tutti i rapporti sociali e la conseguente frantumazione del ‘mondo di ieri’. La prigione non solo non è esente da tutto ciò ma ne viene letteralmente travolta così come travolti risultano tutti quegli ambiti dove le masse, nella loro dimensione collettiva, avevano svolto un ruolo di assoluto protagonismo. Ciò che si consuma attraverso l’omicidio Turatello, o meglio il senso di questa operazione, ha una non secondaria avvisaglia dentro il mondo della fabbrica. Come vedremo, l’arco di senso di quanto si consuma in fabbrica soggiace a retoriche e logiche del tutto simili se non proprio identiche a quelle del mondo della prigione.

C’è un passaggio, il licenziamento dei 61 operai Fiat avvenuto il 9 ottobre 197920, che farà da apripista alla cosiddetta marcia dei 40.00021 che ne incarna al meglio il senso. Al proposito riportiamo brevi passi di un’intervista a un operaio Fiat coinvolto in quell’episodio il quale, di qui l’interesse per questa testimonianza, giunge alle medesime conclusioni a cui perviene Bruno nell’intervista riportata in seguito.

Tralasciando gli aspetti propriamente più politici dei licenziamenti e di ciò che si portavano appresso, vorrei capire che cosa cambia in fabbrica tra gli operai?

Cambia molto, per non dire tutto. Cambia soprattutto quel clima di fratellanza e unità che da anni era stata la grande forza della fabbrica. Vi è in atto una trasformazione che non è solo politica ma, come dire, culturale, esistenziale… per spiegarti: è come se ci fossero gli operai ma la classe operaia fosse assente. C’è sicuramente paura, perché l’offensiva Fiat è grossa, ma c’è anche la perdita di una identità. Forse perché non si vedono sbocchi, forse perché nel frattempo la società è cambiata e la stessa idea di appartenenza di classe comincia a non essere più percepita come un valore aggiunto ma addirittura come un qualcosa di negativo. L’impressione che si ha è che di fronte si abbia a che fare con tanti singoli per i quali essere operaio non significa più nulla. La battaglia che conduciamo è tutta sulla difensiva e non per caso la perdiamo. Solo qualche tempo prima questo sarebbe stato impensabile, la Fiat avrebbe corso sul serio il rischio di essere occupata e invece ciò che si muove intorno ai nostri licenziamenti non è molto.

Quindi, per chiudere, quando ci sarà la cosiddetta marcia dei cosiddetti 40.000 non sarà proprio una sorpresa?

Assolutamente no. Quella marcia è stata il semplice corollario di un clima che in fabbrica si era ormai fatto egemone. La stessa lotta che si stava consumando ai cancelli della Fiat era solo una parodia delle lotte di un tempo. La fabbrica si era normalizzata, le gerarchie nuovamente in sella ma questo era successo anche dentro la testa di gran parte degli operai. Se alla marcia dei capi non c’è stata reazione è perché la classe è come se fosse implosa. Questa, almeno così la vedo io, è stata la conseguenza di quello che iniziavi a vedere fuori dalla fabbrica. Tutta quella socialità operaia che prima faceva parte di un comune modello di vita era evaporata, ognuno stava cominciando a vivere isolato dagli altri, chiuso in casa, viveva, ecco, privatamente. La marcia dei capi ha registrato tutto questo. In poche parole rimanevano gli operai ma non c’era più la classe operaia. [N. A.]

Quanto ascoltato descrive, seppure in maniera sintetica, una mutazione che non può che definirsi epocale. Ciò ha ricadute radicali all’interno di tutti gli ambiti sociali e i mondi illegali non ne sono certo immuni: anzi, per molti versi, ne sintetizzano la portata nella maniera più cinica e brutale. La nuova grande trasformazione pone drasticamente fine a quel mondo eroico che aveva fatto da sfondo all’epopea dei banditi, trasformando, tranne rare eccezioni, l’insieme di quei soggetti sociali che per anni avevano calpestato i re, o almeno ci avevano provato, in individui privi di vincoli e legami sociali. A riprova di come i mondi illegali siano ben distanti dall’essere altro ma costituiscano l’esemplificazione portata sino all’estremo degli ordini discorsivi dominanti finendo con l’anticipare quella ‘società degli individui’22 che, qualche anno dopo, diventerà la cornice della teoria critica politica e sociologica. Se, come precedentemente ricordato, l’autunno nero della Fiat dell’80 segna il corposo incipit della nuova era, anche all’interno dei mondi illegali è possibili datare la formalizzazione di quest’ultima con il 17 agosto 1981, giorno in cui nel carcere speciale di Nuoro viene ucciso Francis Turatello.

Il senso di questo passaggio viene osservato, con non poca lucidità, da Bruno che della vicenda Turatello coglie sia le ricadute per l’intero mondo illegale sia l’inizio della fine anche della propria batteria. Ciò che per le cronache giornalistiche si riduce a un semplice, per quanto ‘eccellente’ regolamento dei conti tra criminali, per Bruno il portato di ciò è ben distante dall’essere una banale questione interna alla malavita ma è il dispiegarsi per l’appunto di una nuova era che, nella trasvalutazione di tutti i valori, porrà una pietra tombale sul mondo di ieri.

Non è privo di interesse e significato osservare la sostanziale affinità, sul piano dell’ordine di senso, tra il modo in cui Bruno analizza questo evento e come l’operaio precedentemente ascoltato racconta ciò che ha comportato la sconfitta subita alla Fiat per la classe operaia. Si tratta di una relazione che ha ben poco di eccentrico e ancor meno di ideologico poiché banditi e operai hanno scandito il tempo dell’utopia e dell’assalto al cielo pressoché in contemporanea. Mondo della prigione e mondo della fabbrica hanno segnato e scandito, quasi in simultanea, i passaggi storico-politici della radicalità proletaria di questo Paese. Tanto che a ogni insorgenza operaia ha corrisposto un’insorgenza prigioniera e viceversa. Molti eventi sono lì a confermarlo. L’11 aprile del 1969, in concomitanza con le giornate operaie a ridosso dei fatti di Battipaglia23, a Torino scoppia la rivolta delle Nuove24 ed è solo un anticipo di quanto, neppure due mesi dopo, andrà in scena a corso Traiano 25. Facendo un rapido passo in avanti arriviamo al 1976/1977 quando le evasioni armate e di massa diventano la normalità dentro la prigione26, e su quello che, nel frattempo, sta maturando all’esterno non sembra neppure il caso di doversi soffermare: nel momento in cui il punto più alto della critica alla prigione prende forma e sostanza, nella società l’utopia si fa concreto progetto storico-politico. Non è difficile, allora, comprendere come quando la grande sarabanda giunge al termine altri eventi finiscano con l’assumere un significato storico. Se la ‘marcia dei 40.0000’ ha comportato la fine della forza del mondo operaio, la morte di Francis significa la messa in mora di una certa tipologia di illegalità e di tutte le retoriche che l’avevano sostanziata. Così come dopo la sconfitta Fiat scompare la classe operaia e rimangono semplicemente gli operai, con l’omicidio consumato a Nuoro iniziano a evaporare gangster e batterie e al loro posto rimangono solo figure illegali che inizieranno a rapportarsi al mondo come individui senza più tempo e storia. Chiusa questa sintetica introduzione entriamo direttamente nel vivo del racconto.

(Fine prima parte – continua)


  1. Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane: modelli disciplinari e strategie di resistenza, Firenze, La Casa Usher, 2013.  

  2. Per una buona esposizione del metodo etnografico e della sua validità per i mondi della ricerca sociale si veda, A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Roma – Bari, Laterza, 2002.  

  3. Cfr. A. D’Agostino, Francis faccia d’angelo. La Milano di Turatello, Milano, le Milieu, 2012.  

  4. Cfr. E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, Roma, Derive Approdi, 2004.  

  5. Sul carattere urbano del fenomeno gangsteristico rimane fondamentale, per quanto datato, il lavoro di F.M. Trasher, The gang: a study of 1.313 gangs in Chicago, Chicago, University of Chicago Press, 1927. La Scuola di Chicago è stata, con ogni probabilità, uno dei più fecondi e innovatori istituti di ricerca sociale con un approccio non positivista e funzionalista, ma particolarmente attento al punto di vista degli attori sociali così come, al contempo, ha messo in campo un’analisi dei fenomeni urbani che, ancora oggi, almeno sul piano metodologico, offre preziose indicazioni. Sui fenomeni urbani rimane ancora oggi particolarmente stimolante il lavoro di R.E. Park, E.W. Burgess, R.D. McKenzie, La città, Edizioni di Comunità, Milano 1965.  

  6. Esemplificativi al proposito film come La gang del parigino di J. Deray (Francia – Italia 1977) e I senza nome di J.P. Melville (Francia – Italia 1970).  

  7. Turatello fa una fugace presenza nel film di G. Tornatore, Il camorrista (Italia 1986), che è incentrato sulla figura di Raffaele Cutolo; compare, come personaggio di sfondo, in Altri uomini di C. Bonivento (Italia 1997), che ruota intorno al personaggio di Angelo Epaminonda, mentre in Gli angeli del male di M. Placido (Francia – Italia – Romania 2010) è un personaggio del tutto secondario rispetto a Renato Vallanzasca che è il vero soggetto del film.  

  8. Si vedano a esempio i filmati, reperibili su YouTube, prodotti da Spazio 70 che raccolgono le principali vicende criminali degli anni ’70 e primi anni ’80.  

  9. Sull’interazione tra mondi criminali e società legittima si veda: A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano, Feltrinelli, 2003.  

  10. A tale proposito è particolarmente indicativo il filmato Epaminonda racconta la Milano delle bische, Spazio 70.  

  11. Culturale più che esistenziale poiché in Turatello era del tutto assente quella contrapposizione al potere propria delle batterie. Cfr. E. Quadrelli, Andare ai resti, cit., pp. 66 – 71  

  12. In D’Agostino, Francis, p. 163  

  13. In Quadrelli, Andare ai resti, p.123  

  14. Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014.  

  15. Cfr. M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, a cura di C. Mosca e R. Rossanda, Milano, Baldini & Castoldi, 2002.  

  16. P. Nicotri, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni ’80 nel racconto del maresciallo Incandela, Venezia, Marsilio, 1994.  

  17. Gergale, significa mandare o ricevere un messaggio il quale, il più delle volte, implica l’ordine di una esecuzione.  

  18. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2015.  

  19. Cfr. A. Negri, Crisi dello stato-piano, organizzazione, comunismo, Milano, Feltrinelli, 1974.  

  20. Al proposito si veda il libro–testimonianza di P. Baral, Niente di nuovo sotto il sole…i 61 licenziati Fiat preparano l’autunno ’80 e le fortune dell’automobile?, Torino, Edizioni Ponsimor, 2003.  

  21. Per una buona ricostruzione di questa vicenda si veda Con Marx alle porte. I 37 giorni della Fiat, Milano, Nuove Edizioni Internazionali, 1980.  

  22. Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna, Il Mulino, 2002.  

  23. Per una ricostruzione di questi eventi si veda V. Campagna, La rivolta di Battipaglia, Padova, Ar, 1988.  

  24. Cfr. Ci siamo presi la libertà di lottare, Torino, Edizioni Lotta continua, 1973.  

  25. Per un’ottima ricostruzione di questi fatti si veda D. Giacchetti, La rivolta di Corso Traiano. Torino luglio 1969, Pisa, BFS Edizioni, 2019  

  26. Cfr. Quadrelli, Andare ai resti, pp. 203 – 215  

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Fuori legge: a proposito del 41 bis https://www.carmillaonline.com/2023/02/03/fuori-legge-liberi-tutti-dal-41-bis/ Fri, 03 Feb 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75889 di Sandro Moiso

[Mentre uno Stato senza alcuna vergogna, che tratta con i capimafia e irride gli ultimi vendicandosi sui detenuti e i settori sociali più deboli, finge un’intransigenza che è soltanto una mascherata dichiarazione di guerra di classe, mai cessata e mai scomparsa con qualsiasi governo in carica, le condizioni di salute di Alfredo Cospito impongono, oltre che la manifestazione di una piena solidarietà nei suoi confronti e di tutti gli altri detenuti, la ripubblicazione di un articolo, già apparso il 24 Settembre 2012 su Carmillaonline e debitamente aggiornato per questa occasione, [...]]]> di Sandro Moiso

[Mentre uno Stato senza alcuna vergogna, che tratta con i capimafia e irride gli ultimi vendicandosi sui detenuti e i settori sociali più deboli, finge un’intransigenza che è soltanto una mascherata dichiarazione di guerra di classe, mai cessata e mai scomparsa con qualsiasi governo in carica, le condizioni di salute di Alfredo Cospito impongono, oltre che la manifestazione di una piena solidarietà nei suoi confronti e di tutti gli altri detenuti, la ripubblicazione di un articolo, già apparso il 24 Settembre 2012 su Carmillaonline e debitamente aggiornato per questa occasione, il cui intento era e rimane quello di svelare le origini, il vero volto e la vera sostanza del famigerato articolo 41 bis. Un modo per rispondere anche ad una bagarre parlamentare e mediatica in cui a trionfare sono i veleni e il conformismo dell'”ordine” borghese più che la ragione. Tanto meno quella di Cesare Beccaria.]

Nel paese in cui l’aspersorio e il manganello continuano ad andare a braccetto sulla testa dei cittadini, qualunque sia il governo in carica, è inevitabile che permangano zone d’ombra di cui non si parla o di cui si parla soltanto in una maniera talmente distorta da travisare anche ciò che sta sotto gli occhi di tutti. Tale opera di distorsione, se non di vera e propria rimozione, del reale, è evidente, non deriva solo dai “forti” argomenti rappresentati dall’acquasantiera e dalla violenza dello stato, ma, e soprattutto, dall’accondiscendenza di tutte le forze politiche e dal totale asservimento dei media alle esigenze del regime catto-tecno-fascio-capitalista.

Opere come quella di Maria Rita Prette1, che ha già curato il quinto volume del “Progetto Memoria” edito da Sensibili alle foglie e dedicato al carcere speciale, acquisiscono quindi, nonostante l’esiguo numero di pagine, un’importanza che travalica l’argomento trattato.
I paragoni possibili sono, infatti, con le opere sulla storia dell’Inquisizione dello storico americano ottocentesco Henry Charles Lea2 e quella, importantissima, di Italo Mereu3 sulla nascita delle strutture giuridico-repressive dello stato moderno a partire dalle procedure messe in atto dai tribunali dell’Inquisizione.

In questo preciso istante diverse centinaia di detenuti4 sono sottoposti, in Italia, a misure restrittive assolutamente inaccettabili all’interno di uno Stato che voglia dirsi democratico. Tale giudizio non è espressione delle idee dell’autrice o dell’autore del presente articolo, ma il risultato del giudizio della Corte Europea dei diritti dell’uomo, nei confronti dello stato italiano, che ha assimilato alle torture i trattamenti riservati ai detenuti in regime di isolamento.

Come afferma Maria Rita Prette: «L’assunto inaccettabile è che ad una persona, quando le sia appiccicata addosso un’etichetta qualunque (in quest’epoca e qui da noi vanno di moda le etichette mafioso o terrorista), possa essere fatto di tutto, con spirito vendicativo o secondo il principio che la sua sofferenza possa agire come deterrente verso altri» (p.8).

I fatti della Diaz, la morte di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, il suicidio quasi quotidiano di detenuti dimenticati ed isolati, affondano quindi le loro radici in una struttura giuridico-repressiva che ha pian piano sostituito il normale corso dell’accertamento della responsabilità e della pena successivamente inflitta con soprusi, violenze e pratiche, non riconosciute dalla “giustizia” italiana, di esplicita tortura fisica e psichica.

Tracciare la storia del 41 Bis, a partire dall’originario codice Rocco e dalle leggi speciali varate negli anni settanta per far fronte alle lotte diffuse e alle pratica della lotta armata, significa perciò indagare lo sviluppo di pratiche inquisitoriali che hanno progressivamente cercato non soltanto di annullare la personalità e l’individualità del detenuto, ma di sostituirla con un’altra, «plasmata allo scopo di servire la causa dei torturatori» (p.57).

Se fino alla metà degli anni ’70 era stato il Regolamento per gli istituti di Prevenzione e Pena di Alfredo Rocco, approvato nel 1931, a codificare l’istituzione carceraria, a partire dalla stagione delle grandi lotte sociali sarà la legge n. 354 del 26 luglio 1975 a riformarne i contenuti e a “modernizzare” il carcere. L’articolo 90 però, “disposizione finale e transitoria” apposta all’ultimo minuto, reciterà:

Esigenze di sicurezza. Quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministero di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

Tale articolo introduceva in una Legge che doveva costituire una risposta all’ondata di lotte sociali e dei detenuti, finalizzate ad un ampliamento delle garanzie democratiche fuori e dentro il carcere, un enorme potere discriminatorio a discrezione della magistratura e degli organi destinati alla repressione. Il provvedimento seguiva di pochi mesi l’approvazione della cosiddetta legge Reale, cioè la numero 152 del 22 maggio 1975, che aveva come titolo Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico e, di fatto, sanciva il diritto delle forze dell’ordine a utilizzare armi da fuoco quando strettamente necessario anche per mantenere l’ordine pubblico. Il ricorso alla custodia preventiva — misura prevista in caso di pericolo di fuga, possibile reiterazione del reato o turbamento delle indagini — veniva esteso anche in assenza di flagranza di reato. C’era quindi la possibilità di effettuare un fermo preventivo di quattro giorni, entro i quali il giudice doveva poi decretare una convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Infine, veniva ribadito che non si potevano utilizzare caschi o altri elementi che rendessero non riconoscibili i cittadini, salvo specifiche eccezioni. I provvedimenti previsti dalla legge Reale, modificati nel 1977 dalla legge 533, portarono, dal giugno del 1975 a metà 1989 all’ uccisione di 254 persone e al ferimento di altre 371. Nel 90 per cento dei casi le vittime non possedevano nemmeno un’arma da fuoco al momento del confronto con le forze dell’ordine. Lo Stato si era in questo modo modernizzato e riformato per far fronte alle nuove realtà determinate dallo scontro di classe in atto.

Due anni dopo, un decreto interministeriale (n. 450 del 12 maggio 1977) istituiva le carceri speciali. In Italia, negli anni ottanta saranno costruite 80 nuove carceri.

Sarà il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a scegliere gli istituti o le sezioni delle carceri da adibire a circuito speciale. E a selezionare, sulla base di informazioni raccolte dalla direzione di tutte le carceri con criteri totalmente arbitrari, i detenuti da trasferire in questo circuito. Nel luglio del 1977, un migliaio di persone viene prelevato nelle celle di diversi carceri italiane e trasferito in segretezza, facendo uso anche di elicotteri, in sezioni adibite allo scopo (p.18).

La funzione prevalente del circuito speciale sarà quella dell’isolamento, cui andranno ad aggiungersi le violenze che varieranno da luogo a luogo nella forma e nella consistenza. Le nuove strutture di ferro e cemento sorgeranno come funghi alla periferia delle città, quasi a voler minacciare con la loro presenza quelle aree, già degradate, da cui sembra debba provenire ogni pericolo per l’ordine sociale e la tranquillità borghese. Così, mentre da un lato si inizia sollevare il problema dell’incostituzionalità dell’art. 90 dall’altro la risposta saranno le botte (come al solito) e l’istituzione dei braccetti della morte che saranno proprio i “tecnici” del Ministero a chiamare in questo modo.

Le testimonianze sui braccetti della morte sono chiarissime su un punto: le misure di sorveglianza e privazione a cui sono sottoposti i reclusi (una ventina) in queste sezioni non hanno alcun nesso con la sicurezza, ma semmai si prefiggono l’annichilimento della persona. Non si capisce infatti come potrebbe essere lesivo della sicurezza lavarsi, mangiare, sentire un notiziario, vestirsi con i propri vestiti, scrivere e ricevere posta, leggere (p.25).

Il 1982 sarà un anno decisivo per la lotta al “terrorismo”: 965 persone finiranno in carcere per reati connessi a quello di “banda armata”. Ed è anche l’anno in cui le torture fisiche e psicologiche inizieranno a dare i loro risultati: almeno 300 arrestati decidono infatti di collaborare con polizia e carabinieri. Il Parlamento, coerentemente, approverà la legge 304 del maggio 1982, la cosiddetta legge per i “pentiti” che prevede la non punibilità per coloro che determinano lo scioglimento delle associazioni o delle bande e forniscono in tutti i casi ogni informazione sulla loro struttura e sulla loro organizzazione. Dal 1983 al 1986 saranno

gli anni delle ammissioni collettive di colpa nei tribunali speciali. Qualcosa che ricorda l’Inquisizione nell’esplicita richiesta di abiura che li caratterizza […] gli anni necessari ad incubare due nuove leggi: la legge n. 663, cosiddetta Legge Gozzini del 10 0tt0bre 1986 e la legge n. 34 recante misure a favore di chi si dissocia dalla lotta armata, del 18 febbraio 1987 (p. 31).
Dal punto di vista generale, la Legge 34, insieme alla 304 del 1982, sancisce definitivamente nella cultura giuridica del Paese un salto di qualità. La pena non è più commisurata al reato, bensì diventa una merce scambiabile sul mercato della giustizia: quale che sia il reato commesso, un comportamento, un’opinione, possono determinare in maniera rilevante la pena che lo sanzionerà. La legge Gozzini riforma la Legge 354 del 1975, introducendo articoli basati sul binomio premio-punizione, che valorizzano l’individualizzazione del trattamento […] La parola chiave è premialità (pp.32-33).

Proprio nella riforma prevista dalla Legge Gozzini della legge 354 del 1975 sarà abrogato l’articolo 90 che rientrerà dalla finestra, e in maniera più articolata, come art. 41 Bis, posto cioè subito dopo l’articolo 41 della suddetta legge e che avrebbe dovuto regolamentare e limitare l’uso della forza e delle armi, da parte dell’istituzione, all’interno del carcere. Riprendendo tale quale l’art. 90, il 41 Bis reciterà:

Situazioni eccezionali. 1 – In caso eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministero di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto. 2 – L’art. 90 della Legge 26 luglio 1975, n. 354 è conseguentemente abrogato.

La sua applicazione non servirà affatto a sedare rivolte o a fronteggiare situazioni d’emergenza,

bensì colpirà raggruppamenti per categorie di detenuti, indipendentemente dal comportamento carcerario in senso stretto tenuto da quei detenuti. Ad essere determinante, per essere sottoposti al regime di 41 bis, saranno di volta in volta il tipo di reato per il quale si è finiti in carcere e, successivamente, il comportamento processuale (p.35).

La Legge Gozzini introduce inoltre all’interno della Legge 354 l’art. 14 bis che

si occupa del regime di sorveglianza particolare cui può essere sottoposto il detenuto, qualora con il suo comportamento comprometta la sicurezza o turbi l’ordine nell’istituto, o con la violenza impedisca le attività degli altri reclusi, ma anche sulla base di precedenti comportamenti penitenziari o di altri concreti comportamenti tenuti, indipendentemente dalla natura dell’imputazione, nello stato di libertà (p.36).

Tra il 1990 e il 1991 il numero dei detenuti aumenta da 25000 a 45000. La legge 203 del 12 luglio 1991 introdurrà nell’ordinamento penitenziario l’art. 4 bis, che ammette i benefici di legge (permessi, riduzione di pena, etc.) solo per coloro per i quali saranno «acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamento con la criminalità organizzata o eversiva». Un anno dopo, con la Legge n. 306 del 8 giugno 1992, sarà aggiunto un secondo comma al 41 bis che stabilisce uno a stretta connessione tra trattamento e tipo di reato e finirà con il sancire i benefici per chi collabora con la giustizia e l’inasprimento del trattamento per tutti gli altri.

Il 23 dicembre 2002, il Parlamento approverà la legge 279, che modifica ancora gli articolo 4 bis e 41 bis e da quel momento la premialità si sgancerà completamente dal comportamento carcerario e si misurerà soltanto più sulla base della collaborazione con gli ordinari giudiziari e di polizia.

«Lo Stato d’eccezione non è più eccezione: diventa regola ordinaria» (p.42). Con circolare n. 3359/5809 del 21 aprile 1993, saranno istituite le sezioni di Alta Sicurezza con l’intento di «separare i detenuti appartenenti alla realtà della criminalità mafiosa e del terrorismo da tutti gli altri detenuti».

Mentre nel 1998 verrà istituito il circuito di Elevato Indice di Vigilanza (EIV) al quale verranno assegnati «detenuti di particolare pericolosità desumibile». Circuito che «verrà poi abolito, come sigla, nel 2009 a seguito della condanna inflitta dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo all’Italia, per la violazione dell’art. 6, par.I, della Convenzione» (pag. 44). Nonostante ciò oggi languono nelle carceri italiane almeno 1500 ergastolani con “reati ostativi” privi di qualsiasi accesso ai benefici previsti dalla legge. «A nessuno interessa quanti sono, dove sono. Sono considerati scarti, non del passato ma del presente, il che è ancora peggio. A nessuno interessa se vivono o se muoiono» (p.45).

Sono circa 66600 i detenuti delle 206 carceri sparse sul territorio nazionale (dati 2012). In una decina di queste sono state istituite delle Aree riservate «nelle quali non è consentito l’accesso alle delegazioni che normalmente frequentano il carcere per parlare con i detenuti e accertarsi delle loro condizioni, ma neanche al cappellano del carcere, per fare un esempio […] Le aree riservate sono un indicibile nell’indicibile» (pp.52-53). Occorre, dunque, prendere atto che

il regime del 41 bis è ispirato ad un principio di vendetta e, nella sua funzione fondamentale, si accosta pericolosamente all’istituzione della tortura […] il fine ultimo della tortura non è, in sé, ottenere delle informazioni, bensì distruggere l’identità personale del torturato […] La richiesta esplicita che viene infatti rivolta ai condannati con il 41 bis e il 4 bis è quella di collaborare con la giustizia. Le statistiche ministeriali dimostrano con estrema chiarezza che l’obiettivo del provvedimento non viene raggiunto: nel 2010, su 680 detenuti in 41 bis, 8 sono state le persone diventate collaborative per uscire da quel circuito. Le statistiche sui 19 anni che vanno dal 1992 al 2011 indicano una percentuale del 1,87%. Non solo il 41 bis è abominevole per uno stato di diritto, ma sembra pure del tutto inefficace (pp.57-58).


  1. M. R. Prette, 41 Bis. Il carcere di cui non si parla, Sensibili alle foglie 2012  

  2. Henry Charles Lea (1825- 1909) autore della monumentale A History of Inquisition of the Middle Ages (Filadelfia 1888 – Parigi 1902), parzialmente tradotta in Italia (vol. III) in H. C. Lea, Il processo ai templari e altri roghi, Sul ruolo della repressione inquisitoriale nella nascita dello Stato-nazione europeo, Celuc Libri, Milano 1982  

  3. Italo Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Mondatori 1979  

  4. Attualmente 759 – con una concentrazione massima all’Aquila, dove sono ben 152, e ad Opera, vicino a Milano, dove se ne contano 100. A Sassari sono 91 e a Spoleto 81 – dati 2022. Mentre almeno altri 1500 sono sottoposti all’ergastolo ostativo.  

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Memorie dei dannati della terra https://www.carmillaonline.com/2019/04/06/memorie-dei-dannati-della-terra/ Sat, 06 Apr 2019 09:30:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51968 di Alexik

“Là, dov’era più umido fecero un fosso enorme e nella roccia scavarono nicchie e le sbarrarono alzarono poi garitte e torrioni e ci misero dei soldati, a guardia ci fecero indossare la casacca e ci chiamarono delinquenti infine vollero sbarrare il cielo non ci riuscirono del tutto altissimi guardiamo i gabbiani che volano”.

(Sante  Notarnicola, Galera. Favignana 1 Giugno 1973)

[Sono giunti da poco in libreria, rieditati da Pgreco, “La nostalgia e la memoria” e “Liberi dal silenzio” * di Sante Notarnicola. Contengono poesie e [...]]]> di Alexik

“Là, dov’era più umido
fecero un fosso enorme
e nella roccia scavarono
nicchie e le sbarrarono
alzarono poi garitte e torrioni
e ci misero dei soldati, a guardia
ci fecero indossare la casacca
e ci chiamarono delinquenti
infine
vollero sbarrare il cielo

non ci riuscirono del tutto
altissimi
guardiamo i gabbiani che volano”.

(Sante  Notarnicola, Galera. Favignana 1 Giugno 1973)

[Sono giunti da poco in libreria, rieditati da Pgreco, “La nostalgia e la memoria” e “Liberi dal silenzio” * di Sante Notarnicola. Contengono poesie e testi adornati dai disegni di Stefania Venturini e Marco Perrone, ed una lunga intervista rilasciata nel 1992 dall’autore a Radio Sherwood.]

Si dice che la poesia riesca a volte a pronunciare parole universali, valide in ogni tempo.
Succede ai versi di Sante Notarnicola, composti prevalentemente nel corso di una prigionia durata 21 anni – dal 1967 al 1988.
Versi che si rivelano ancor oggi necessari, e resteranno tali fino a quando l’ultimo carcere rimarrà in piedi.
Per quanto nelle galere sia cambiata la composizione del corpo prigioniero e i suoi livelli di combattività e di coscienza, per quanto siano state perfezionate e differenziate le forme del controllo, le sbarre restano fondamentalmente ancora le stesse.
Stessa è la reazione dell’umano alla negazione dell’aria e dei colori, e di tutto quel mondo esterno fatto di vastità di spazi, luoghi e persone amate.
Uguale è la violenza subita, la tensione e la rabbia, l’arroganza e l’arbitrio.
Uguale è l’apatia delle ore immobili, la tenerezza ai colloqui e il desiderio.

“Concreta è l’assenza del gesto, e del sorriso”. Per resistere bisogna imparare a ricostruirli nel sogno, nell’immaginazione, nei ricordi e nella speranza.
La poetica di Sante è un addestramento al carcere, ti insegna come l’istituzione totale può colpirti nella tua dimensione intima, e dove potrai trovar la forza per reagire.

Ma è anche memoria della rivolta, epopea dei Dannati della Terra, di quei prigionieri che alzarono la testa contro galere medioevali e codici fascisti.
Sul finire degli anni ’60 una nuova generazione di detenuti, figli un po’ riottosi di famiglie operaie e già alfabetizzati al conflitto, cominciò a scontrarsi contro il carcere punitivo – il carcere del bugliolo e della fame, dei pestaggi e delle celle di rigore sotterranee.
Incontrarono compagni con esperienza politica, come Sante, e capirono che se volevano migliorare la loro condizione dovevano fare come i loro padri nelle fabbriche, non più con gesti di ribellione individuali ma uniti in una forza collettiva.
Iniziarono così a fermarsi all’aria,  davanti ai guardiani sbigottiti, iniziarono a scrivere, comunicare con l’esterno, trasformando i processi in tribune di denuncia delle condizioni carcerarie.
In un crescendo di insubordinazione presero le prigioni, anche 20 alla volta in tutta Italia. E le distrussero, per il diritto al cibo e alla penna, ai colloqui e al libro, alla dignità e alla fuga.
Subirono pestaggi, isolamento, celle di rigore, trasferimenti continui, nuovi anni da scontare.
Lasciarono tre morti bruciati a San Vittore nella lotta per ottenere il fornello da campo, la possibilità di cucinare in cella.

Nelle celle a San Vittore tre fiori di pietra” .

Fuori la rivolta permeava scuola, famiglia e fabbrica.
Ogni settimana, in decine di migliaia marciavano sotto le mura di San Vittore.
Lotta Continua e Re Nudo davano voce alle rivolte carcerarie, Soccorso Rosso il supporto morale e materiale.
Gli studenti si riversavano nelle carceri per gli arresti dopo ogni corteo, portando dentro i libri per la formazione politica. Frantz Fanon, George Jackson, Eldridge Cleaver, Bobby Seale e Malcom X contribuivano alla trasformazione dei detenuti comuni in compagni, che quando uscivano riconfluivano nel  movimento.
Nasceva la Commissione Carceri di Lotta Continua, le evasioni di gruppo aumentavano.
Dovevano essere fermati.

Nel maggio ’74 un tentativo di evasione dal carcere di Alessandria finì con sette morti e 15 feriti fra detenuti e ostaggi, dopo un blitz dei carabinieri di dalla Chiesa. In febbraio era già stato ucciso il detenuto Giancarlo Del Padrone da una sventagliata di mitra di un agente di custodia, durante una protesta sul tetto delle Murate. A fine anno fu il turno di Venanzio Marchetti a Piacenza.

La strage di Alessandria mandò definitivamente in crisi il rapporto tra il carcere e Lotta Continua, accusata di non saper difendere le lotte.
Lo sguardo dei detenuti cominciava a rivolgersi altrove: quell’anno nascevano i N.A.P., Curcio evadeva da Casale Monferrato grazie a un’azione spettacolare organizzata dall’esterno.

Ma nel frattempo lo Stato lavorava per far divergere definitivamente il percorso penitenziario dei prigionieri comuni da quello dei politici e dei ribelli.
Da lì a poco sarebbe stata portata a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario che sostituiva il vecchio codice fascista, riconoscendo (almeno sulla carta) i detenuti come soggetto di diritto e mitigando (sempre sulla carta) alcuni aspetti della brutalità del carcere. Veniva inaugurato un modello detentivo di tipo trattamentale che prevedeva un percorso a tappe per il reinserimento del detenuto nella società, una volta depurato dal suo carattere sovversivo, tramite permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, ecc.
Conteneva al suo interno anche un frutto avvelenato, l’art.90, che permetteva al Ministero di Grazia e Giustizia di sospendere ogni diritto o tutela a suo piacimento per “gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza“.

Giungeva a compimento anche il progetto, affidato nuovamente a dalla Chiesa, di individuazione e allestimento delle carceri speciali. Tombe destinate ai vivi dove venivano concentrati i militanti della lotta armata e della sovversione sociale, i veterani delle evasioni, le avanguardie delle agitazioni carcerarie.

Tra il luglio e l’agosto del 1977 circa 2500 prigionieri vennero trasferiti con treni, elicotteri, aerei in cinque carceri: Fossombrone, Termini Imerese, Asinara, Favignana, Nuoro. Questi trasferimenti furono attuati con una vera e propria operazione militare“.

A Sante toccò l’Asinara: “Fu lì che ricominciai a sentire fame (e io sono uno abbastanza frugale, uno che si accontenta di poco…, ma lì la cosa era scientifica), perché proprio attraverso l’affamamento, oltre che i pestaggi e tutto il resto, volevano annientarci“.
E poi il silenzio obbligatorio, l’umidità e il freddo, i vetri divisori nei colloqui, le vessazioni e gli oltraggi ai familiari. Nessuna cura. Negli speciali  Fabrizio Pelli venne lasciato morire di leucemia.

“Oscillano
i resti del giorno
e
nella luce frugale
sentiamo un mare
rassegnato
alla spinta dei venti.
Osserviamo un muro bianco

Osserviamo un muro duro
Osserviamo un muro granuloso
Osserviamo un muro offensivo
Osserviamo un muro
un muro
un muro
martellante
muro
su cui continuiamo
a scrivere…
In questo paesaggio
straniero all’anima e
con un muro
vorrebbero spianare
le nostre coscienze.”

(Lager. Asinara 22 agosto 1977)

Quel muro saltò col plastico nel ’79, insieme a mezzo carcere. Nel 1980 gli ultimi detenuti vennero trasferiti sotto la pressione del sequestro d’Urso e della rivolta del carcere di Trani, sedata nel sangue (sempe più alto era il prezzo da pagare).
L’Asinara fu chiusa, ma non definitivamente, rimanendo a disposizione per le torture di un decennio successivo.
In compenso la carcerazione speciale servì davvero a spianare le coscienze.

Con la Grande Svolta
venne la restaurazione
e furono necessarie
le pietre e gli acciai.
Smarrimmo alla svelta
gli scopi e non fu possibile
vivere sopra le righe.
In un angolo
una donna a tutt’oggi aspetta.
Una lacrima lunga
scivola via.
Troppo lunga da asciugare“.

(Una lacrima)

Poesie amare come il tradimento, un tema attuale nel quarantennale del 7 aprile.

Incastrare Negri come il telefonista di Moro, volle dire costringerlo, per discolparsi, a spiegare – da quel lucido intellettuale che era – cosa era esattamente il movimento rivoluzionario. E lui si faceva 10-15 ore di interrogatori, spiegando tutto…
…  fino ad allora nessun prigioniero, dal grande dirigente al compagno più sprovveduto, aveva accettato un rapporto con la magistratura. Conosco decine e decine di ragazzi che per non aver risposto alle domande dei giudici si son presi 10-15 anni di galera e se li sono cagati tutti, senza dire una parola. Spiegare una circostanza gli avrebbe risparmiato anni, e non l’hanno fatto“.

Cosa rimane dopo tanto tempo, come eredita’ di queste vecchie storie ?

-La riforma penitenziaria del ’75 funziono’ effettivamente per depotenziare le agitazioni nelle carceri ordinarie, fornendo a buona parte dei prigionieri una via di uscita da quelle mura attraverso una gradualità premiale da conquistare con la buona condotta e la propensione al ravvedimento.
La violenza quotidiana nei penitenziari del circuito ordinario acquisì in questo modo nuove possibilità ricattatorie, visto che ogni reazione a un sopruso di un carceriere poteva inibire al detenuto l’accesso ai permessi, o interrompere il percorso verso la semilibertà.
E la situazione e’ ancora questa.

-La dissociazione ha attraversato i decenni, determinando non solo la sconfitta politica del tentativo rivoluzionario dell’epoca, ma adattandosi ai tempi che cambiano. E ci riguarda.
E’ ritornata durante il G8 di Genova  attraverso la logica della differenziazione fra buoni e cattivi che ha devastato il movimento, con Bertinotti che ci chiedeva di “dissociarsi dalla violenza di chi ha tirato un sasso“.
E’ ritornata in anni più recenti, riesumata da chi chiedeva ai lavoratori della logistica di “dissociarsi dalla violenza dei picchetti”.

-Le leggi dell’emergenza permanente si stratificano e ormai costituiscono la norma per affrontare qualsiasi problema sociale. Il populismo penale impazza.

-L’articolo 90 si e’ evoluto nell’alta sicurezza e nella tortura del 41bis.
C’e’ gente ancora dentro, da allora. Altra continua a finirci.

-In carcere si continua a morire e a subire violenza.
Storie di ieri a Viterbo:

«Ho subito violenze, gravi lesioni corporali e torture varie». «Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una “cella liscia” e sono stato preso a pugni. Ho la testa piena di cicatrici». «Hanno tre squadrette solo per menare detenuti». «Aiutatemi ad andare via da questo carcere». «Se dico qualcosa qua mi menano». «Qui si cerca di sopravvivere alle ingiustizie e restare al proprio posto, sempre con i nervi saldi. Sempre più torno a convincermi di trovarmi in un mondo infernale. Si ricevono umiliazioni da parte delle guardie quando nelle perquisizioni che effettuano settimanalmente lasciano la tua cella sottosopra… La divisa che indossano dà loro un potere, non dà loro nessun onore e possono quindi infierire sul detenuto, come e quando vogliono, renderlo indifeso… sono diverse le storie di percosse che han subito alcuni detenuti della mia stessa sezione e rimangono celate nel silenzio. Qui si vive con la paura individuale, il buio, gli incubi. Per ora ancora sopravvivo, ma quando uscirò da questa struttura lotterò perché la verità esca fuori».1

Cosa rimane dunque ?
Libri di vecchi ergastolani, preziose cassette degli attrezzi.
Che ci insegnano a resistere con dignita’, rompere il silenzio, tenere la schiena dritta.

 

* “Liberi dal silenzio” racchiude “Materiale interessante“, edito nel 1997 per le Edizioni della Battaglia, e “…Camminare sotto il cielo di notte“, pubblicato nel 1993 dalla Calusca.


  1. Patrizio Gonnella, Viterbo, un carcere dove vige il terrore, Il manifesto, 5 aprile 2019 

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Cayenne italiane https://www.carmillaonline.com/2017/07/22/cayenne-italiane/ Sat, 22 Jul 2017 01:12:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39521 di Alexik

Il cancello si apriva in continuazione. Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli“.

Erano andati al macello inermi, chi con una bandiera rossa, chi con una A cerchiata, chi [...]]]> di Alexik

Il cancello si apriva in continuazione. Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli“.

Erano andati al macello inermi, chi con una bandiera rossa, chi con una A cerchiata, chi con la testa piena di fantasticherie democratiche.
Alcuni indossavano una tuta nera, altri patetiche protezioni di gommapiuma, tutti drammaticamente inadeguati a fronte della violenza che gli avrebbero scatenato addosso.
Arrivarono a Genova nel luglio 2001 pensando che bastasse la forza dei numeri per contrastare quella dei potenti, o che si trattasse ancora una volta della simulazione di uno scontro.
I più erano immemori o inconsapevoli di quello che aveva dovuto affrontare, circa 20 anni prima, l’ultima generazione che aveva provato seriamente a sovvertire le regole del gioco. Pochi avevano memoria diretta della gestione della piazza dei tempi di Cossiga, o delle violenze poliziesche di Voghera1.
La quasi totalità non aveva mai conosciuto il carcere, o non aveva fatto sufficiente attenzione a ciò che si muoveva dietro quelle mura.
Dopo l’esecuzione di Carlo, dopo la ‘macelleria messicana’ della Diaz, duecentocinquantadue (ma la stima è incerta) vennero portati alla caserma di Bolzaneto, consegnati nelle mani di polizia, carabinieri, ma soprattutto del GOM (Gruppo Operativo Mobile) della polizia penitenziaria.
Qui varcarono le soglie di un incubo:

Torturato n° 38, straniero. Offeso, mentre era nudo, rivolgendogli domande sulla sua vita sentimentale e sessuale, veniva costretto a spogliarsi nudo e a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania costretto con la minaccia di percosse con la cintura presa ad altro detenuto, a fare delle giravolte sul pavimento; percosso e ingiuriato con sgambetti e sputi da due ali di agenti mentre transitava nel corridoio.

Torturato n° 47, straniero. Percosso nel corridoio con calci e pugni, percosso nell’infermeria mentre veniva perquisito e sottoposto a visita medica con un pugno al torace, in conseguenza delle percosse riportava la frattura della costola destra, percosso, ingiuriato e minacciato in bagno  da due agenti che lo costringevano a mettersi davanti al wc e gli dicevano “orina finocchio “, e minacciavano di violentarlo con un manganello, con lo stesso manganello lo percuotevano all’interno delle cosce procurandogli ematomi, percuotevano ancora con pugni alla testa e alle spalle.

Torturata n° 60, italiana. Accompagnata dalla cella al bagno, costretta a camminare lungo il corridoio con la testa abbassata e le mani sulla testa, colpita da altri agenti con calci, derisa e minacciata, costretta con violenza e minacce a chinare la testa all’interno della turca; insultata con : “puttana”, “troia” e a subire da altri agenti frasi ingiuriose con riferimenti sessuali del tipo “che bel culo “, “ti piace il manganello”, costretta a fare il saluto romano e a dire: “viva il duce “, “viva la polizia penitenziaria”.2

Lo stesso incubo vissuto nelle carceri di questo paese.

Fuori dalla caserma le telecamere di tutto il mondo erano puntate sul G8.
Se tale era la fiducia dei torturatori nell’impunità, in un contesto di così forte attenzione politica e mediatica, quali violenze potevano essere capaci di attuare nel chiuso delle galere, lontano da sguardi indiscreti, e su persone completamente in loro potere per lunghissimi periodi di tempo?
Da quale ‘scuola’, da quale ‘brodo culturale’ provenivano quegli agenti ?
Su quali corpi si erano allenati prima di arrivare a Genova?

Tradizioni: la violenza nel carcere ‘sabaudo’

Sono da  poco le  sette  del  mattino,  passi cadenzati  si  odono nella  sezione,  la  terza  superiore  del penitenziario di  Volterra…  Odo i  passi  arrestarsi  di  fronte alla mia cella, la n. 23, lo scatto del pesante passante che blocca la porta,  che  viene  spalancata,  innanzi  a  me  due  brigadieri  ed una decina di guardie, vengo invitato ad uscire, obbedisco, ed in  mezzo  al  plotone  mi incammino verso  l’uscita.
Faccio una domanda,  mi  viene risposto che non sono tenuti  a darmi  delle spiegazioni,  replico  la  domanda,  mi informano  che  debbo essere isolato…
Vengo  introdotto  in una cella, con un  letto di  contenzione al  centro,  mi  spogliano completamente nudo intorno ci sono una ventina di guardie. In un  istante  mi  sono  addosso  con  calci  e  pugni,  cerco di coprirmi,  grido,  chiedo  il  motivo di  quel linciaggio,  ricevo altri  calci,  pugni,  con una cattiveria ed una  selvaggità  mai veduta
…”3

Volterra, 19  settembre  1970.  Sono passati più di 23 anni dal varo della Costituzione repubblicana, quella che prevede che ‘le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Ne mancano più di trenta ai fatti di Bolzaneto, e gli agenti ‘di custodia’ (così venivano chiamati i secondini prima di essere elevati al rango di polizia penitenziaria) non sono certo gli stessi, ma ciò nonostante il loro modus operandi presenta notevoli analogie.

Non si tratta semplicemente di esercizi di sadismo da parte di personalità frustrate, di deliri di onnipotenza e vigliaccherie gratuite esercitate nel comodo rifugio dell’impunità.
La violenza sui corpi e sulla psiche, anche quando appare immotivata e gratuita, assolve sempre una sua funzione. L’annientamento della personalità del prigioniero è funzionale all’interiorizzazione dei rapporti di potere.
E’ una tecnica disciplinare i cui effetti devono estendersi al di là e al di fuori della permanenza nelle patrie galere.

Nel vecchio carcere ‘sabaudo’, sopravvissuto fino alla metà degli anni ’70 con le sue segrete medioevali e il suo regolamento fascista, la violenza sui prigionieri era connaturata alla filosofia retributiva della pena, dove la pena è considerata un fine in sé, un valore assoluto che non necessita di altre motivazioni. Il carcere non era stato ancora toccato da filosofie trattamentali di recupero del condannato.

Non esistevano mediazioni o ammortizzatori rieducativi. L’essenziale era punire. Punire e indurre alla rassegnazione quella fetta di popolo che, per una ragione o per l’altra, aveva deragliato dai binari della disciplina sociale”.4

L’uso della violenza sui detenuti era un metodo indiscusso di neutralizzazione della devianza. Indiscusso fino a quando proprio quella violenza non fece da innesco a una lunga stagione di rivolte carcerarie.

A  Poggioreale  si  pativa  la  fame,  e alla  fame c’era  da sopportare  inoltre  un  rigore  da campo di  concentramento di tipo nazista.  Alle celle  di  punizione,  per  dare  un  esempio,  fui legato  sul letto di  forza e  malgrado dei  dolori  acutissimi  che mi presero  allo  stomaco non  fui  visitato da  nessuno  …  Mentre mi legavano ridevano e  tiravano le fasce più che potevano.
Il  vitto da  porci immangiabile,  i  secondini  che  trovavano  gusto  a  istigare e  oltraggiare  fino  a  quando uno non scoppiava.  Veniva  quindi  portato  al  palazzo di  vetro,  così  era chiamato  il  padiglione  in  cui  erano  le celle  di  punizione e  i letti  di  forza.  In questo posto  le  botte erano  all’ordine  del giorno…
Di  questo passo si  arrivò al luglio 1968 mese  in cui  pieni  di rabbia ci  si  rivoltò incendiando e  rompendo tutto ciò che ci  si parava  davanti
”.5

Con l’avvento della stagione delle rivolte, la violenza dell’istituzione carceraria non dovette più misurarsi con un insieme atomizzato di individui, con le loro ribellioni individuali intrise di disperazione, ma con una forza collettiva capace di organizzarsi, rispondere contrattaccare. Le rappresaglie sui rivoltosi furono durissime:

A  sera  quando  cessammo ogni  resistenza  fummo incolonnati,  ci  fu  impedito di  prendere  qualsiasi  vestito od oggetto personale,  dovemmo passare attraverso un  cordone formato da celerini  e  guardie carcerarie,  i  quali  cominciarono a  percuoterci  selvaggiamente con  manganellate,  pugni,  calci, cinghiate,  ed  alcuni  secondini  con  catene  munite  di lucchetto all’estremità… Il  pestaggio  era cieco  e  indiscriminato,  il livore,  la  rabbia  sadica,  la  vendetta si  abbatteva contro tutti  senza alcuna distinzione tra giovani  e vecchi  e  malati  ricoverati  all’infermeria”.6

Mentre eravamo  massacrati,  gli  sbirri  ridevano  e  canticchiavano per  deriderci.  Davanti  alle celle  mi  fecero spogliare completamente,  mi  ordinarono di  piegarmi  a novanta  gradi  ed  io  compresi la  loro  intenzione,  in quel momento essendo privo delle manette mi coprii i testicoli con le  mani,  ma  mi  ordinarono di  non  assumere  tale atteggiamento,  e  non  appena  tolsi le  mani  una  guardia pugliese  mi  sferrò una  scarpata,  e  svenni…
Nelle celle  di  punizione  … tre  giorni  alla  settimana  il  vitto  consisteva  in 200  grammi di  pane e acqua… per  sfregio  ci  rapavano  i  capelli  a zero”
7

Ma il tentativo di sedare le sommosse attraverso un intensificazione della violenza non ebbe che l’esito di farle esplodere ancora di più, con un crescendo rivendicativo che partiva dalle richieste parziali (su ora d’aria, colloqui, vitto, isolamento,  punizioni …), per estendersi a quelle generali (riforma carceraria, amnistia), fino a riprendersi la libertà con le evasioni8.

Lo Stato decise allora di condurre lo scontro sociale all’interno delle galere secondo logiche di differenziazione, riservando il pugno di ferro alle avanguardie, e allo stesso tempo avviando un processo di apertura per disinnescare la polveriera delle carceri.

Il 9 maggio del ’74, Carlo Alberto dalla Chiesa guidò l’assalto di polizia e carabinieri per sedare una rivolta nel carcere di Alessandria, lasciando in terra sette morti fra detenuti e ostaggi. Era il segnale di un cambio di fase: le ribellioni non sarebbero più state tollerate.

Contemporaneamente veniva portata a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario che sostituiva il vecchio codice fascista, riconoscendo (almeno sulla carta) i detenuti come soggetto di diritto e mitigando (sempre sulla carta) alcuni aspetti della brutalità del carcere.
Veniva inaugurato un modello detentivo di tipo trattamentale che prevedeva un percorso a tappe per il reinserimento del detenuto nella società , una volta depurato dal suo carattere sovversivo, tramite permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, ecc.
Misure che nel medio periodo funzionarono effettivamente per depotenziare le agitazioni nelle carceri ordinarie, fornendo a buona parte dei prigionieri una via di uscita da quelle mura attraverso una gradualità premiale da conquistare con la buona condotta e la propensione al ravvedimento.
La violenza quotidiana nei penitenziari del circuito ordinario acquisì in questo modo nuove possibilità ricattatorie, visto che ogni reazione a un sopruso di un carceriere poteva inibire al detenuto l’accesso ai permessi, o interrompere il percorso verso la semilibertà.

Innovazioni: la violenza nelle carceri speciali

Il modello trattamentale era però riservato solo ai prigionieri ‘normali’.
L’articolo 90 della Legge di riforma prevedeva infatti la possibilità di sospendere le ordinarie regole di trattamento, quando ‘ricorressero gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza’.
Le misure per l’attuazione pratica di tale previsione di legge vennero affidate direttamente ai carabinieri, in virtù degli ‘ottimi risultati’ ottenuti ad Alessandria.
Dalla Chiesa dispose la creazione di un circuito speciale di prigionia formato dalle carceri più invivibili, preferibilmente nelle isole,9, dove vennero trasferiti i prigionieri ribelli, i militanti della lotta armata e della sovversione sociale di quegli anni, assieme ai detenuti comuni ritenuti più pericolosi.
In pratica dalla Chiesa mutuò, riattualizzandolo, il vecchio modello delle ‘carceri di rigore’ del regolamento del ’31. L’ordinamento penitenziario fascista che sembrava fosse uscito dalla porta, rientrava così dalla finestra.

Il rigore era attentamente garantito.

All’Asinara “il cibo era insufficiente, disgustoso, indigesto. L’acqua corrente non risultava potabile e aveva gli odori e il colore dei liquami da fogna. Le celle erano umide e prive di riscaldamento. Le docce si facevano ogni 15 giorni e le lenzuola venivano cambiate una volta al mese, se andava bene. Questa disciplina rigidissima era imposta a colpi di manganello. Bastava scambiare una parola con i detenuti delle altre celle per essere selvaggiamente aggrediti dalla squadretta di turno“.10
L’assistenza sanitaria era inesistente: “Fabrizio Pelli, delle BR, contrasse la leucemia a Fornelli, ma il medico del carcere si guardò bene dal diagnosticarlo, condannandolo scientemente a una morte terribile“.11

La sicurezza esterna era affidata ai carabinieri sotto il comando di dalla Chiesa, che potevano intervenire anche all’interno della prigione con ampia autonomia,  sedando eventuali rivolte tramite il GIS (Gruppo di Intervento Speciale), corpo speciale nato per l’occasione. Ma la gestione ordinaria della violenza all’interno dello speciale era affidata ancora ai secondini.

Di notte le guardie si impegnavano per non farci dormire. Tenevano le radio accese a tutto volume. Sbattevano i manganelli contro le porte blindate delle celle e facevano scorrere le canne dei mitra sulle sbarre delle finestre. Di giorno le grida, gli insulti e le minacce si sprecavano, conditi talvolta da qualche colpo di arma da fuoco sparato in aria a scopo intimidatorio. Le perquisizioni corporali erano continue, venivano ripetute più volte al giorno e sempre con il rito dello spogliarello integrale e delle flessioni sulle ginocchia. Le ispezioni nelle celle erano occasione per fare scempio dei pochi effetti personali consentiti ai detenuti, e spesso si concludevano con dei pestaggi somministrati per un nonnulla“.12

Anche ai familiari in visita negli speciali erano destinate perticolari vessazioni, come ricordano madri, sorelle, compagne dei detenuti:
La guardia di custodia voleva perquisirmi con la mano incorporata all’interno, con la mano nella natura. Allora gli dissi “Prima di farmi questa visita dammi il regolamento carcerario, per vedere se è ammesso dalla legge”. “Noi facciamo quello che vogliamo, se no i colloqui non li fai”. Mentre mi ribellavo arrivarono il brigadiere, il vice brigadiere, e tutte queste guardie di alto grado che cominciarono a spintonarmi fuori“.13

“ … ricordo che faceva un freddo terribile, mi fecero entrare in una stanza gelida e mi fecero spogliare e accoccolare per vedere se usciva qualcosa dalla vagina, ebbi una perquisizione corporale, cioè una visita ginecologica. Erano metodi studiati per spaventarti e intimidirti”.14
Eppure i secondini sapevano che a questo tipo di violenza sessuale sarebbe seguita l’ulteriore violenza dei vetri divisori nei colloqui, che impedivano ogni possibilità di passarsi un messaggio o un oggetto. Che impedivano di toccarsi le mani, di accostare le labbra, di sentire il calore.
La guerra così passava anche sui corpi dei familiari, violabili, penetrabili dall’oltraggio delle guardie. Negati alle persone che amavano.

Ancora una volta, comunque, nulla veniva lasciato al caso.
La violenza dei guardiani era funzionale alla creazione di pentiti, o in subordine, in mancanza di ‘pentimento’, all’annientamento del nemico.
Se nel vecchio carcere ‘sabaudo’ l’obiettivo era l’annullamento dell’identità personale del prigioniero, ora si lavorava per sconfiggerne l’identità politica. (Continua)

 


  1. Il 9 luglio del 1983 veniva indetta a Voghera, sede di un supercarcere femminile, una manifestazione per la chiusura delle carceri speciali. La maggior parte dei manifestanti in arrivo venne bloccata al casello dell’autostrada. Al corteo venne vietato di partire e intorno alle 16 la celere ebbe l’ordine di caricare preventivamente . Questa la situazione nel racconto della madre di un detenuto politico: “La polizia era una mare. Caricò duecento persone. Arrivarono i lacrimogeni. Scorreva sangue. Cercavo di aiutare le donne cadute a terra. Davanti al comando della polizia mi presero a bastonate per allontanarmi… Chi fuggiva veniva arrestato, chi restava prendeva solo manganellate. Abbiamo salvato gente da terra con il sangue che scorreva. Presi in braccio due-tre persone e le misi nella macchina di mio marito, con il sangue che scendeva”. In: P. Gallinari, L. Santilli, Dall’altra parte. L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, 1995, p. 84. 

  2. Lista completa in: Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova, Processo nei confronti di Perugini Alessandro + 44, p. 569. 

  3. Lettera di M.Z. in: Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 1973, pp. 107/108. 

  4. P. Abatangelo, Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni ’70, Edizioni DEA, 2017, p. 57. 

  5. Lettera di C.R. in: Irene Invernizzi, op.cit, pp. 120/121 

  6. San Vittore, dopo la rivolta dell’aprile 1969. In: Irene Invernizzi, op.cit, p. 274. 

  7. Trasferimento degli insorti di San Vittore alla colonia penale di Mamone (NU). In: Irene Invernizzi, op.cit, p. 279. 

  8. Nel 1974 evasero 221 detenuti dalle carceri italiane, nel ‘75 furono 300, nel ‘76 443. 

  9. Inizialmente vennero scelte le carceri di Pianosa, Asinara Favignana, Termini Imerese, Badu ‘e Carros. 

  10. P. Abatangelo, op. cit., p. 176 

  11. Idem. 

  12. Idem. 

  13. P. Gallinari, L. Santilli, Op cit., p. 77. 

  14. Ibidem, p. 90 

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Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

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