cancel culture – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scenari di guerra civile statunitense. Spazi pubblici e monumenti contesi https://www.carmillaonline.com/2024/05/05/scenari-di-guerra-civile-statunitense-spazi-pubblici-e-monumenti-contesi/ Sun, 05 May 2024 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81905 di Gioacchino Toni

«È ironico che chi ce l’abbia su con alcuni [monumenti celebrativi] sia accusato di voler riscrivere o cancellare la storia; i monumenti stessi sono riscrittura della storia e sua cancellazione selettiva, farli e disfarli sono due facce della stessa medaglia, due manifestazioni opposte e simmetriche dello stesso discorso pubblico, politico, civile, su che cosa sia opportuno ricordare e che cosa no». Così scrive Arnaldo Testi, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (il Mulino 2023), riferendosi ai contenziosi sorti negli Stati Uniti attorno ai monumenti pubblici celebranti personalità o avvenimenti storici, più o meno lontani nel [...]]]> di Gioacchino Toni

«È ironico che chi ce l’abbia su con alcuni [monumenti celebrativi] sia accusato di voler riscrivere o cancellare la storia; i monumenti stessi sono riscrittura della storia e sua cancellazione selettiva, farli e disfarli sono due facce della stessa medaglia, due manifestazioni opposte e simmetriche dello stesso discorso pubblico, politico, civile, su che cosa sia opportuno ricordare e che cosa no». Così scrive Arnaldo Testi, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (il Mulino 2023), riferendosi ai contenziosi sorti negli Stati Uniti attorno ai monumenti pubblici celebranti personalità o avvenimenti storici, più o meno lontani nel tempo, che, quando osservati attentamente, non possono che parlare del presente e al presente, palesandosi, a volte, come “fastidi della storia”, rimozioni che tornano e dividono, qua ed ora.

Edificati con enfatiche finalità celebrative, per poi spesso ridursi a presenze silenziose a cui nessuno presta particolare attenzione, quasi facessero da sempre parte dello spazio pubblico in cui sono stati collocati, se guardati con occhi attenti, a volte i monumenti sembrano improvvisamente riacquistare vitalità e raccontare un passato ancora divisivo. Nonostante gli episodi in cui negli Stati Uniti del nuovo millennio sono stati presi di mira monumenti a livello di massa siano stati davvero pochi, anche alla luce delle dimensioni del paese e della quantità di opere in esso presenti, questi fatti hanno creato accesi dibattiti all’intero del paese e interesse mediatico persino oltre i confini nordamericani.

Nella storia statunitense, ricorda Testi, la messa in discussione, anche risoluta, di un monumento non è affatto un fenomeno nuovo. Anzi, si può dire che sia tra gli atti fondativi della nazione visto che il 9 luglio 1776, a Manhattan, a pochi giorni dalla pubblicazione della Dichiarazione di indipendenza,  venne “patriotticamente abbattuta” la statua equestre del re britannico Giorgio III. Alla distruzione di quel monumento indigesto non seguì, come si sarebbe portati a pensare, un’immediata opera di monumentalizzaizone di massa; questa si diede piuttosto all’indomani della lacerante Guerra civile, quando si generò una vera e propria memorial mania comportante la disseminazione nel paese, dai centri urbani ai piccoli paesi di provincia, da parte di entrambe le parti in conflitto, di generali e statisti ritratti a piedi o a cavallo, semplici eroi sconosciuti e scene di battaglie da ricordare a prescindere dal fatto che queste fossero state vinte o perse. L’importante era ricordare e, soprattutto, celebrare.

A partire da allora, cioè da un momento divisivo per eccellenza come lo è una guerra civile, l’opera di monumentalizzaizone non si è più fermata. Di certo, tra fine Ottocento e inizio Novecento, ma così sarebbe stato ancora per molto tempo, ad essere celebrati furono uomini bianchi, in genere angloprotestanti, con qualche aggiunta di personalità delle nuove comunità immigrate europee. In rarissimi casi nei monumenti comparvero neri, asiatici e nativi americani.

La classifica delle assenze dai piedistalli monumentali collocati in luoghi pubblici è però guidata dalle donne, alle quali, fino agli anni Ottanta del Novecento, furono dedicate davvero poche opere. Se si esclude il ricorso, in circa duecento casi, ad astrazioni personificate femminili (la Giustizia, La Nazione, la Libertà…) o a tipi sociali generici (come le pioniere), i monumenti celebranti donne reali furono soltanto un’ottantina. Nemmeno l’ingresso delle donne nella scena civile e politica, ottenuto dal movimento suffragista a cavallo tra Otto e Novecento, e le mobilitazioni femministe degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso determinarono un aumento significativo di opere pubbliche dedicate a donne. Sarà soltanto a partire dagli anni Ottanta che – con l’affermarsi di ambiti di ricerca come gli women’s studies, la public history, la storia delle donne e di genere – si avrà la realizzazione, nel giro di quattro decenni, di circa duecento monumenti dedicati a donne e non solo bianche. È del 2000 il primo monumento a Rosa Parks a Montgomery, in Alabama, con la celebrata ancora in vita.

Per comprendere meglio cosa si agiti nel profondo degli animi che si scontrano oggi attorno ai monumenti storico-celbrativi statunitensi, secondo Testi occorre rendersi conto che quello che è in atto è un vero e proprio regime changes di tipo hard. Un profondo cambiamento di regime politico e sociale che lo studioso vede iniziare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e tuttora in corso.

Come hanno fatto i cambiamenti hard, la Rivoluzione, la Guerra civile, ma con minore immediatezza, anche quest’ultimo mutamento ha prodotto novità rilevanti, fattuali e simboliche. Ha comportato sconvolgimenti demografici, culturali e politici, l’inclusione consapevole nella vita democratica di gruppi etnici e razziali, di genere e orientamento sessuale storicamente marginalizzati.
Sono quindi emerse nuove cittadinanze attive, di minorities non bianche e di donne soprattutto, con nuove prospettive sul passato e su chi ne siano o debbano essere gli eroi e gli antieroi nella memoria, anche nella memoria pubblica.

I contenziosi scoppiati attorno ad intitolazioni di strade, piazze ed edifici pubblici, a ricorrenze e festività civili si sono particolarmente acuiti nel nuovo millennio, soprattutto dopo il 2010, ed è infatti in questo periodo che si è dato il numero maggiore di casi di messa in discussione di monumenti celebrativi restati silenti per tanto tempo ed a cui nessuno sembrava più far caso. Per certi versi questo tipo di conflittualità scatenatasi attorno allo spazio pubblico ha palesato quanto, al di là della retorica ufficiale, costruita anche grazie ad Hollywood, gli Stati Uniti siano una costruzione politica e culturale più immaginaria che reale.

È dunque a partire da tali premesse che, nel suo volume, Testi passa in rassegna alcuni episodi conflittuali sorti attorno a monumenti in cui è possibile individuare non solo una guerra civile sempre più cruenta all’interno di un paese decisamente meno unitario di quel che sembra o viene raccontato, ma anche l’incredibile complessità identitaria che si è stratificata attorno a questo o quel monumento.

Se buona parte dei monumenti contestati all’inizio del nuovo millennio hanno a che fare con leader politici e militari confederali, eroi di libertà per tanti bianchi del Sud e difensori della schiavitù dei loro antenati agli occhi degli afroamericani, non sono mancate proteste nei confronti di opere celebranti personalità unioniste compromesse con la schiavitù. Ad essere prese di mira sono state anche opere con soggetti di discendenza africana effigiati con paternalismo e in posizione subalterna ai “liberatori bianchi”.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nel Sud, il proliferare di monumenti dedicati a personalità come il generale Lee, o anche minori, non è «un prodotto del lutto e del dolore, del ricordo collettivo dei caduti appena caduti a conforto dei sopravvissuti». Buona parte di queste opere non sono state edificate nell’immediatezza della fine della Guerra civile, bensì nel corso del primo ventennio del Novecento da parte di chi non ha conosciuto direttamente il conflitto. La statuemania meridionale, sottolinea lo studioso,

coincise con il completamento della segregazione razziale negli Stati della ex Confederazione, con le Jim Crow laws, con l’espulsione degli afroamericani dalla vita pubblica, con migliaia di linciaggi. Coincise cioè con il trionfo della maggioranza bianca sulla consistente minoranza nera, un trionfo che non c’era stato fino ad allora perché i neri, divenuti liberi cittadini con l’abolizione della schiavitù, l’avevano impedito con durissimi conflitti, non si erano fatti rimettere al loro posto tanto facilmente; ci vollero i trent’anni della Ricostruzione perché la loro resistenza venisse domata.

A tale spirito si rifà anche il “monumento di celluloide” realizzato da David W. Griffith nel 1915: il film Nascita di una nazione, che contribuirà, non poco, alla rinascita novecentesca del Ku Klux Klan. Ad esaltare la supremazia bianca postschiavitù concorre anche l’unico monumento agli “schiavi fedeli”, eretto nel 1896 in South Carolina.

I contenziosi scoppiati attorno a monumenti celebranti la supremazia bianca nei confronti degli afroamericani sono stati probabilmente i più partecipati e quelli a cui i media hanno dato maggiore spazio ma non sono stati gli unici. Vale dunque la pena soffermarsi su alcuni casi che, almeno fuori dal paese, hanno ottenuto minore attenzione.

Che si tratti di edifici pubblici, piazze, strade, fiumi o località, gli Stati uniti sono letteralmente disseminati di Columbia e Columbus, pari soltanto ai riferimenti al padre fondatore Washington. A partire dal 1892, quarto centenario dell’arrivo del navigatore sul suolo americano, per gli immigrati italiani la figura di Colombo, a cui proprio quell’anno venne dedicata la celebre statua in marmo realizzata da Gaetano Russo – visibile sulla colonna di granito in un angolo di Central Park, nella rotatoria di Columbus Circle –, assunse un significato identitario particolare, quasi si trattasse di una sorta di patrono laico.

Per loro il monumento a Colombo era il riconoscimento dovuto a un glorioso esploratore della loro stessa stirpe, per giunta cattolico al servizio di una potenza cattolica, e quindi simbolo del loro orgoglio sia etnico che religioso contro la retorica xenofoba anti-immigrazione e contro i sospetti anticattolici degli americani protestanti.

È nell’ambito dei festeggiamenti per l’inaugurazione del monumento, a cui parteciparono oltre diecimila persone, che prese piede la campagna per istituire il Columbus Day, poi divenuto, a partire dagli anni Trenta del Novecento, festa nazionale. Durante i festeggiamenti per l’inaugurazione del monumento, sottolinea Testi,

in nome di Colombo, gli italoamericani rivendicavano la loro legittima, patriottica ed eguale cittadinanza nella repubblica. E non è che ce l’avessero con i nativi americani, piuttosto li ignoravano, ne rimuovevano la tragedia storica e il ruolo che l’ammiraglio genovese poteva aver avuto alle sue origini. Come per tutti gli immigrati giunti con i grandi sommovimenti di fine Ottocento, il loro problema principale era affrancarsi dalla condizione di indesiderabili agli occhi degli immigrati precedenti […] Rendersi visibili e preziosi e occupare spazio: questa era l’idea che, in tutte le comunità immigrate, ciascuna con i suoi tempi di insediamento nel corso dei decenni, ispirò il proliferare dei monumenti americani agli eroi nazionali dei loro paesi di provenienza.

La comunità italiana newyorchese anziché celebrare gli immigrati reali presenti nel paese, preferì riferirsi agli immigrati ideali, ai «figli di una grande Italia di patrioti, artisti e navigatori, figli di una civiltà secolare e della appena conclusa epopea risorgimentale», proponendosi di disseminare statue celebranti Colombo ben oltre i quartieri abitati dagli italiani, così da conquistare rispetto e importanza nei territori di altri gruppi etnici.

Nel 1992, giunti al quinto centenario dell’approdo del navigatore sul suolo americano, durante gli ormai consueti festeggiamenti in onore di Colombo, a mobilitarsi furono i movimenti critici Native American, ispano-indio-americani, afroamericani e radicali bianchi che guardavano al navigatore italiano come a un invasore inaugurante una lunga scia di sangue, genocidi e schiavitù.

Dopo di allora alcune città, alcuni stati cambiarono ufficialmente il nome al Columbus Day, ribaltandone il senso, facendone l’Indigenous Peoples Day. La nuova denominazione ne oscurava il carattere di festa degli italoamericani, produsse la loro irritazione, li spinse a proposte di compromesso che di quella giornata conservassero lo spirito contemporaneo, che poco o niente aveva davvero a che fare con un conquistatore d’altri tempi. Perché dunque non farne un immigrant day o un Italian-American heritage day? Intanto anche i monumenti colombiani in giro per il paese finirono sotto attacco.

Quello che gli immigrati italiani cattolici vivevano come simbolo di appartenenza a una nobile etnia dalla lunga e prestigiosa storia e motivo di rivendicazione di pari dignità nei confronti di altri migranti, gli angloprotestanti che li avevano preceduti e che li guardavano con diffidenza e superiorità, agli occhi dei nativi americani e di altre etnie rappresentava un simbolo di oppressione e nei monumenti a lui dedicati non si poteva che cogliere la cancellazione delle sofferenze subite dagli avi.

La definizione di Cancel Culture con cui vengono indicate le intenzioni e le gesta di coloro che chiedono la rimozione dei monumenti o li deturpano, sembra celare la cancellazione che tali monumenti celebrativi operano nei confronti delle vittime di quelle epopee. Se di cancellazione si tratta, come argomenta Testi, ciò vale tanto per gli strenui difensori delle statue in essere, quanto per chi intenderebbe rimuoverle e magari sostituirle con altre diversamente, ma altrettanto, selettive. La sostituzione delle statue di Colombo con altre celebranti, ad esempio, i nativi americani, agli occhi degli italiani cattolici cancellerebbe un simbolo di orgoglio e riscatto nei confronti degli angloamericani protestanti. Alle comunità di origine italiana, la figura di Colombo si offre insomma come occasione per rivendicare una sorta di diritto a considerarsi i primi immigrati giunti sul territorio americano, dunque di mettere in discussione il ruolo subalterno a cui sono costretti dagli, altrettanto immigrati, angloprotestani.

Analogamente, la santificazione di Junípero Serra, un padre francescano spagnolo attivo nella California del Settecento, voluta da papa Francesco nel 2015 – che lo ha presentato come protettore dei nativi, missionario che ha saputo rispettare le loro usanze –, ha indubbiamente offerto un motivo di orgoglio alla comunità ispanica “doppiamente immigrata”, «venuta prima dall’Europa fino alle Americhe spagnole e poi, in tempi più recenti, dalle Americhe spagnole fino agli Stati Uniti». I monumenti edificati in onore di Serra dagli ispanici hanno di fatto cancellato, agli occhi dei nativodiscendenti, le pratiche paternalistiche coercitive e assimilatorie delle missioni cattoliche nei confronti delle popolazioni indigene. A complicare le cose, sottolinea lo studioso, è il fatto che oggi molti nativi «sono anch’essi cattolici, appartengono allo stesso universo spirituale condiviso con i discendenti dei conquistatori spagnoli di allora e con i nuovi ispanici arrivati più di recente da sud del Rio Grande». A ben guardare, nei contenziosi sorti attorno a questi monumenti ci si accusa vicendevolmente di cancellare qualcosa che per l’altro è motivo di orgoglio identitario.

Non si tratta, evidentemente, di rifugiarsi in un relativismo di comodo in cui si azzerano gli accadimenti storici e le responsabilità alla luce delle diverse significazioni simboliche prodotte dalle diverse comunità, ma di osservare meno superficialmente come attorno ai monumenti celebrativi si giochi, qui ed ora, negli Stati Uniti, come detto, una strisciante guerra civile che ha tutta l’aria di non limitarsi all’interpretazione di qualche statua posta su un piedistallo in tempi più o meno remoti. Da queste contese filtra l’immagine di un paese lacerato, tutt’altro che unitario.

È indubbio che le opere di cui si parla acquisiscono valori particolari nel loro presentarsi come monumenti celebrativi in spazi pubblici; le stesse, poste, ad esempio, all’interno di un museo, perderebbero l’effetto celebrativo per offrirsi come testimonianze, documenti storici che, questi sì, in quanto tali, andrebbero preservati con cura e letti in tutta la loro complessità prendendo in considerazione i periodi in cui sono state prodotte e i luoghi in cui sono state originarmene collocale. Demonumentalizzare non significa cancellare la storia.

La destinazione museale non è l’ unica strada percorribile. Ad esempio, lo studioso Andrea Pinotti – in un suo contributo pubblicato in Cecilia Guida, Roberto Pinto, a cura di, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books 2022) – invita a «ripensare a un concetto di monumento che prenda congedo dalla statica rappresentazione di un partito preso ideologico, per aprirsi a quella che con Walter Benjamin potremmo chiamare “immagine dialettica”: un’immagine capace di incorporare dinamicamente istanze differenti persino configgenti, persino contraddittorie». Ricorrendo, ad esempio, alle tecnologie digitali, secondo lo studioso, si potrebbe andare oltre il “contro-monumento” o l’“anti-monumento” e guardare allo spazio pubblico e ai suoi monumenti per come il potere li propone e, allo stesso tempo, per come li si può vedere altrimenti, senza bisogno di distruggere l’esistente e senza cancellare il dissenso nei confronti di esso.

Se proprio ci si vuole ostinare a parlare di Cancel Culture, non è tanto alle contestazioni ai monumenti storici che ci si deve riferire (come spiegato da Testi, la stessa edificazione di un monumento opera cancellazioni), quanto piuttosto al nascondimento della strisciante guerra civile in corso, da tempo, negli Stati Uniti, non riconducibile di certo a due soli fronti e nemmeno ad alleanze stabili. La conflittualità attorno ai monumenti pare essere uno dei tanti modi in cui si manifesta una lotta senza quartiere, per di più ad alleanze variabili, che attraversa gli Stati Uniti, una lotta dagli esiti davvero difficilmente immaginabili.

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Elogio dell’eccesso/5: Giorgio de Santillana, “the cat who walks alone” https://www.carmillaonline.com/2024/04/04/elogio-delleccesso-5-giorgio-de-santillana-the-cat-who-walks-alone/ Thu, 04 Apr 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81750 di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale. (Amadeo Bordiga, “Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, 1965)

La ripubblicazione da parte delle edizioni Adelphi di Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana, apparso per la prima volta nel 1961 e tradotto in italiano nel 1966 nella versione di Giulio De Angelis riproposta anche per l’attuale edizione, permette non soltanto di affrontare un tema importante per la riflessione filosofica e scientifica, ma anche di riscoprire uno scienziato e filosofo cui, ad esempio, sia Wikipedia che l’Enciclopedia Italiana Treccani concedono uno spazio fin troppo esiguo, al limite dell’insignificanza. Oltre a ciò, tale riscoperta, potrebbe condurre ad una riflessione su quanto il pensiero e le conoscenze antiche siano state rimosse, se non in alcuni casi negate, per fare spazio alla “Ragione” illuministica e alla scienza applicata e strumentale successiva alla “Rivoluzione” industriale.

In fin dei conti i due spunti di riflessione si ricollegano poiché la negazione delle conoscenze scientifiche anteriori alla rivoluzione scientifica avvenuta a cavallo tra XVI e XVII secolo è proprio ciò che il filosofo della scienza di origini italiane ha contribuito a smontare con tutta la sua opera. Non tanto per quanto riguarda le “scoperte” effettuate quanto, piuttosto, per la concezione che per troppo tempo ha fatto sì che, tra gli antichi, soltanto ai greci fosse riconosciuto la stessa capacità di osservazione e astrazione che poi avrebbe caratterizzato la “scienza” moderna.

Non sappiamo quasi niente del pensiero, vuoi religioso vuoi scientifico, degli uomini dell’Età della Pietra. Ma dobbiamo indubbiamente a quegli ingegnosi tecnologi i principi fondamentali del trattamento della materia e dell’energia: suscitar il fuoco nel focolare, scoprire il principio della leva per lo scaglialancia, sfruttare la tensione e la torsione per far sfrecciare il dardo nell’aria, chiudere la trappola con uno scatto, fissare la scure al manico. Poiché le prime cose son sempre le più difficili, guardiamoci bene dal ritenere queste conquiste qualcosa di naturale. Ancora meno ovvie sono le conquiste della rivoluzione neolitica e dell’Età del Bronzo: la semina del grano, la fonditura, la tessitura, l’arte del vasaio, e tutti i mestieri. E neppure è facile capire come venne agli uomini l’idea di elevare piramidi a gradini quadrangolari che fungevano da abitazione ai loro dei. Solo culture altamente sviluppate possono esser state capaci di compiere imprese del genere. Gli umanisti e i filologi che si occupano di storia possono ben considerarle conquiste rudimentali, gli ovvi inizi di una società ancora legata alla terra. A costoro potremmo opporre ciò che aveva da dire Galileo, che di queste cose se ne intendeva: «E parmi che molto ragionevolmente l’antichità annumerasse tra gli Dei i primi inventori dell’arti nobili, già che noi veggiamo il comune de l’ingegni umani esser di tanta poca curiosità … L’applicarsi a grandi invenzioni, mosso da piccolissimi principii, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi contenere arti maravigliose, non è da ingegni dozinali, ma son concetti e pensieri di spiriti sopraumani».
Dunque, niente di molto «primitivo» in tutto ciò. Un tempo gli studiosi davano per scontata l’identità del nostro passato con i «selvaggi» contemporanei che si astengono ostinatamente dalla produzione del cibo e quindi sono stati schedati sotto la voce «Età Paleolitica». Il «primitivo» degli studiosi ottocenteschi era semplicemente «pre-logico», un fanciullo che raccontava a se stesso storie ingenue, che noi ascoltiamo con divertita condiscendenza. La scala del Progresso partiva di lì1.

Giorgio de Santillana (1900-1974) prende spunto da colui che è considerato il fondatore del moderno metodo sperimentale scientifico per tornare a quei secoli, troppo spesso considerati oscuri, durante i quali la specie, nel muovere coscientemente i primi passi sulla superficie terrestre, elaborò le sue capacità logiche e razionali, ben prima che il pensiero borghese, di origine rinascimentale e illuminista, dividessero le età del mondo tra quelle considerate razionali e quelle irrazionali o primitive, insieme alle culture che ne avevano costituito la manifestazione epifenomenica.

Se, infatti, la critica illuministica della religione aveva un reale fondamento politico, l’estensione della critica alla superstizione che ne reggeva ancora la funzione sociale a tutte le conoscenze che avevano accompagnato la crescita delle società umane precedenti e “altre” finiva infatti col condannare all’oblio, senza possibilità di appello, non soltanto le forme prevalentemente folkloriche di tante conoscenze tradizionali, ma anche, e forse prevalentemente, quelle che avevano formato il substrato conoscitivo della resistenza comunitaria all’emersione del capitalismo mercantile e della sua “scienza” (in cui iniziava ad esser considerata come tale anche quella “economica”) come forma dominante di indirizzo della produzione e riproduzione sociale. Dando così inizio a una prima e definitiva cancel culture, ben più radicale e totalizzante di quella ritenuta attualmente tale.

Una trasformazione che era iniziata proprio nello stesso periodo della nascita e dello sviluppo delle moderne pratiche scientifiche che, in età rinascimentale dopo aver puntato menti e cannocchiali verso l’universo che circondava un pianeta che sempre meno avrebbe costituito il centro del cosmo creato da Dio per l’Uomo, avrebbero iniziato a stabilire, sulla Terra, precisi e più saldi confini nazionali, proprietari, sociali e conoscitivi. Confini che iniziavano a segnalare l’appropriazione privata o di classe non soltanto delle ricchezze materiali socialmente prodotte, ma anche di quelle immateriali ricollegabili alle conoscenze necessarie per la gestione dell’ambiente e delle società2.

Una modificazione del “potere conoscitivo” che oltre a ridurre enormemente, all’interno delle società “occidentali”, il potere che le donne si erano conquistate all’interno delle comunità di villaggio3, si era riappropriato del potere giudicante dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, “razionalizzandolo” e trasformandolo in un sistema di leggi che, una volta liberato dall’ingombro di carattere religioso, poteva presentarsi come “libero”, “indipendente” e più equo, ponendo il cittadino non più davanti al giudizio di Dio, ma a quello dello Stato (che sostituiva il primo nella funzione della distribuzione del premio e/o del castigo)4.

Sarà proprio de Santillana, in un’opera realizzata con Hertha von Dechend, a ricollegare le rivoluzioni scientifiche del XVI secolo, senza mai nominarle, con quelle operate millenni prima dai nostri antenati, quando le conoscenze del cielo, delle costellazioni, dei loro movimenti stagionali e degli equinozi, per dirla in breve “astronomiche”, costituivano un elemento importante per l’orientamento durante i viaggi e l’organizzazione della produzione sociale5. Ma la vera novità nell’opera di de Santillana e von Dechend era costituita dal fatto che il “mito” e i miti perdevano la loro connotazione primitiva e “irrazionale” per rientrare, invece, in una forma razionalizzata di conoscenza scientifica che, in età spesso precedenti l’invenzione della scrittura, poteva essere memorizzata e trasmessa oralmente da una generazione all’altra. Una forma di conoscenza, priva di copyright e brevetti “scientifici”, che apparteneva alle comunità che l’avevano prodotta. Come avrebbe affermato la von Dechend nella nuova introduzione all’edizione tedesca del 1993:

De Santillana era approdato alla storia delle scienze esatte e alla storia delle idee partendo dalla fisica, e dopo essersi occupato a fondo della filosofia della natura nell’antichità. Io ero partita dall’etnologia storico-culturale, e più precisamente da Leo Frobenius. Avevamo in comune un profondo disagio nei confronti del modo dominante di interpretare e di giudicare tradizioni che non si erano espresse nella «lingua» a non famigliare, e cioè nell’idioma scientifico coniato dai Greci, in ragione del quale le nostre scienze portano nomi greci e i nostri concetti fondamentali – da «assioma» a «ipotesi», da «prassi» a «simmetria» e a «sistema» – sono vocaboli greci […] proiettando così all’indietro fino alla Grecia la concezione del mondo divenuta usuale a partire da Newton.

Per continuare poi ancora ricordando che:

Delle numerose cause del nostro disagio ne citeremo qui una soltanto: l’incompatibilità dei risultati matematico-tecnici che si possono dimostrare, in quanto si possono misurare, per le culture antiche, con il livello delle corrispondenti tradizioni «mitiche». Per fare un esempio specifico, l’incompatibilità delle piramidi e della loro disposizione esatta con l’apparente chiacchiericcio dei testi delle piramidi e del libro dei morti. Due sono le spiegazioni possibili: o gli Egizi non hanno costruito le piramidi […] oppure le moderne traduzioni dei testi sono fondamentalmente sbagliate. Il fatto che parecchi dei nostri contemporanei preferiscano impelagarsi in ipotesi di architetti extra-galattici piuttosto che ammettere l’esistenza di Egizi dotati di competenze eccezionali dimostra chiaramente come una semplicistica fede nel progresso e una storiografia improntata a un evoluzionismo volgare ci rendano più difficoltoso l’accesso alle civiltà antiche6.

Giorgio de Santillana era nato a Roma il 30 maggio del 1900 e avrebbe lasciato l’Italia nel 1936 a seguito delle crescenti restrizioni imposte dal regime agli accademici di origine ebraiche. Negli Stati Uniti svolse tutta la carriera successiva al MIT di Boston, dove sarebbe diventato noto come «the cat who walks alone» per l’abitudine di fare passeggiate notturne nel campus, probabilmente per scrutare quella volta celeste che così tanto avrebbe indirizzato i suoi studi. Nel 1955 pubblicò The crime of Galileo, un’indagine approfondita della crisi del Rinascimento e della condanna dello scienziato, ma nel frattempo si era imbattuto nelle riflessioni di Giordano Bruno per il quale il contenuto della filosofia egizia, in sostanza, non era altro che “astronomia”.

Dopo l’incontro con Hertha von Dechend a Francoforte nel 1958, le sue ricerche subirono una brusca virata verso un campo di studi che lo attraeva da tempo.

Per uno storico che ha esplorato l’inesorabile affermarsi del razionalismo scientifico, si tratta forse della massima sfida speculativa: risalire alle origini remote della scienza, verso un periodo anteriore all’invenzione della scrittura, di cui rimane un materiale documentario insolito, fatto di una prodigiosa abbondanza di miti e leggende accumulate nel corso dei secoli, le cui tracce sopravvivono in forme eterogenee […] Miti e leggende di provenienza diversa, in molteplici varianti, spesso incongrue, e per loro natura ostili al concetto e refrattarie alla formalizzazione.
[…] La sua «fuga verso le antiche età» (come descriveva le sue ultime ricerche nella conferenza di Palazzo Torlonia nel 1966) non è una semplice fuga saeculi, ma la ricerca di una visione sinottica in cui occorre complettere tutti i livelli dell’essere7.

Le idee espresse da de Santillana e von Dechend nel Mulino di Amleto sono molto ardite e soltanto oggi possono, forse, essere comprese appieno, in un momento in cui il declino dell’Occidente e delle sue cosmogonie politiche, economiche e scientifiche si fa sempre più evidente. Motivo per cui la convinzione dei due autori dell’esistenza di conoscenze astronomiche avanzate già in epoca neolitica, può fare il paio con l’attuale scoperta del peso del pensiero e dell’agire coloniale sull’emarginazione delle culture e delle società “altre”, sottomesse e definite primitive per pure esigenze di carattere imperialistico e di dominio e sfruttamento economico.

Fatto sta che, secondo de Santillana, queste conoscenze astronomiche avanzate erano divenute già di difficile interpretazione nella civiltà egizia e babilonese, e l’astrologia ne era solo una tardiva degenerazione […] Le grandi idee cosmologiche sembrano fiorire soprattutto tra nomadi e navigatori e, tra popoli che non possedevano ancora una scrittura, e venivano trasmesse per via unicamente verbale e mnemonica, in un linguaggio intessuto di storie e altamente tecnico, che pur essendo di natura non matematica, era tuttavia dominato, se non ossessionato, dalla precisione (perché ciò che non è esatto è ingiusto). Secondo de Santillana la perdita di questo tesoro di conoscenze arcaiche […] sarebbe essenzialmente dovuta a «due grandi sciagure nella storia». La prima avvenuta quando l’uomo abbandona il nomadismo e si mette a coltivare la terra. La seconda, quando l’uomo ha inventato la scrittura. Con il suo avvento, intorno al 4000 a. C., si forma «una classe in grado di fissare i dati e conservarli per farne uno strumento di potere. La scrittura nasce fondamentalmente come contabilità… con la sua invenzione cessa il pensiero e inizia l’amministrazione»8.

Sicuramente l’invenzione della scrittura segna l’atto di nascita delle società divise in classi, mentre l’ipotesi di una scienza “diversa” da quella affermatasi in Occidente dal XVI secolo ad oggi non è estranea nemmeno al pensiero scientifico contemporaneo.
Infatti, come ricorda Eugene P. Wigner, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1963, ricostruendo il percorso della sua formazione scientifica a Princeton, fu forte la confusione quando qualcuno gli manifestò le sue perplessità riguardo al fatto che, nello scegliere i dati su cui verifichiamo le nostre teorie, operiamo una selezione alquanto ristretta.

«Se costruissimo una teoria su fenomeni che trascuriamo e trascurassimo invece alcuni dei fenomeni che attirano la nostra attenzione, non arriveremo forse ad un’altra teoria che, pur avendo poco a che fare con la precedente, spieghi altrettanti fenomeni di questa?». Bisogna ammettere che non abbiamo alcuna certezza che non possa esistere una teoria cosiffatta9.

Da cui consegue, sempre secondo il Premio Nobel, che “le leggi di natura sono tutte proposizioni condizionali, e che si riferiscono soltanto a una parte minima della nostra conoscenza”10.

E’ un pensiero radicale quello di de Santillana, radicalismo che forse è alla base della scarsa considerazione che, come si è affermato all’inizio, ne ha ridotto le note biografiche su Wikipedia o sull’Enciclopedia italiana, ma che può essere ancora foriero di interessanti e utili riflessioni, anche per chi non si interessi direttamente di storia della scienza e del pensiero scientifico. Ed è forse questo il motivo per cui può rendersi necessaria la lettura a quasi sessant’anni dalla sua prima pubblicazione italiana del saggio qui “recensito”: Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C. Saggio in cui si rivela centrale, proprio per l’attinenza con quanto fin qui riportato, il sesto capitolo, L’universo del rigore (pp. 122-147), dedicato a Parmenide di Elea, una colonia greca dove il filosofo nacque intorno al 525 a. C. Oltre ad essere il promulgatore di un codice di leggi per cui, per generazioni, gli Eleati furono soliti raccogliersi una volta l’anno per riconfermare la loro fedeltà alla costituzione di cui era stato il promotore,

per caso sappiamo anche, attraverso testimonianze frammentarie, che dette contributi importanti alla geometria e all’astronomia; classificò le figure geometriche; insegnò a riconoscere nella Stella del Mattino e nella Stella della Sera (Lucifero e Vespero) un unico pianeta; delimitò sul globo terracqueo le cinque zone in cui è suddiviso dai tropici e dai circoli artici; se poi si deve credere a Teofrasto, che è il nostro più autorevole informatore, fu lui, primo tra i pitagorici, a proclamare la sfericità della Terra e la teoria che la Luna brilla di luce riflessa. Nonostante questi grandi contributi scientifici la sua gloria deriva da un campo diverso: è famoso come inventore della implicazione logica11.

Scrisse una sola opera i versi, intitolata Della Natura, suddivisa in due parti, una «Via della Verità» che tratta delle necessità del pensiero in se stesso, e una «Via dell’Opinione» che sembra dovesse costituire un’ambiziosa cosmogonia unita a una teoria fisica, anche se di questa seconda parte sono sopravvissuti solamente frammenti così miseri da renderne impossibile la ricostruzione del piano generale. Così, come afferma ancora de Santillana: «Il poema è stato descritto come “ispirato dal rapimento della logica pura” e come il primo testo filosofico in senso moderno, ma la sua diretta attinenza al pensiero scientifico ci sembra sia stata trascurata»12.

In realtà, anche se la «Via della Verità» venne consacrata come «fondamento della metafisica», a causa del fatto che molti suoi contemporanei dovevano aver pensato che a quell’uomo fosse stato concessa, nel trattare dell’Essere e del Non-Essere, la visione di cose inesprimibili,

vi sono tuttavia prove innegabili del fatto che Parmenide, affrontato sul suo terreno, appartiene a buon diritto anche alla scienza. Se interpretiamo il termine “Essere” non come una misteriosa potenza verbale, ma come una parola tecnica che designa qualcosa che il pensatore aveva in mente ma non poteva ancora definire, e sostituiamo ad esso una x nel contesto dell’argomentazione di Parmenide, ci sarà facile vedere che vi è un altro concetto, e solo uno, che può essere messo al posto di x senza dar luogo a contraddizioni in qualsiasi punto del testo; quel concetto è il puro spazio geometrico (per designare il quale mancava ai Greci una parola, conoscendo essi solo termini relativi come “luogo”, “aria”, “respiro”, “vuoto”). Inoltre, esso è costruito gradualmente, usando il principio di indifferenza o ragion sufficiente, che già era noto ai predecessori naturalisti di Parmenide; ma esso è ora applicato per la prima volta coscientemente come strumento fondamentale della logica scientifica, mentre Platone e Aristotele discutono l’Essere con strumenti logici diversi e tutt’altro che scientifici13.

Fermiamoci qui, soltanto per notare che de Santillana riesce a cogliere e sottolineare un momento fondamentale della perdita delle conoscenze scientifiche precedenti la civiltà classica e come questo sia forse la causa principale della riduzione a “filosofia” di ogni precedente conoscenza tecnica.
Dando inizio a quel “trionfo” della cultura classica umanistica che ancora ci perseguita e limita ogni nostra reale prospettiva di conoscenza del passato e del futuro (e delle loro possibili culture e conoscenze).

Conoscenze tutt’altro che mesmeriche o metafisiche, ma che soltanto l’ignoranza dei posteri, già all’epoca, ha potuto relegare a “misteri” e culti misterici.
Così come, tutto sommato, la scienza del capitale, ha cercato di fare con tutte le conoscenze un tempo utili alla conduzione della società umana e, troppo spesso, relegate a credenze, miti e aspetti folklorici inadatti alla conoscenza necessaria allo sviluppo degli interessi materiali dello stesso.

Ma questa considerazione finale su un grande storico della scienza e della conoscenza e la sua opera “eccessiva”, che lo ha relegato a camminare da solo, o quasi, nella notte della ricerca storica, non sarebbe completa se non si cogliesse in tutto ciò anche la condanna di coloro che, nel pensarsi “critici” del capitale e del suo modo di produzione e della sua scienza, finiscono col trattare i popoli e le conoscenze altre con la stessa logica da “sbaracco”, accettando di fatto l’irrazionalismo senza essere capaci,invece di cogliere le logiche e la profonda razionalità connesse a quelle stesse conoscenze. Scambiando la scienza con la magia e riducendo le competenze cosmologiche ad astrologia da quattro soldi.


  1. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 16-17.  

  2. Su tali argomenti, si vedano: C. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019 e R. Kurz, Ragione sanguinaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014.  

  3. Si vedano ancora: M. Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, Edizioni Tabor 2021 e S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015.  

  4. Si vedano in proposito: R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza Editore, Bari 1971 e I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.  

  5. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 1983 (prima edizione americana 1969).  

  6. H. von Dechen, Prefazione all’edizione tedesca in G. de Santillana, H. von Dechen, op. cit., edizione riveduta e ampliata, Adelpi 2000, pp. 12-13. Sull’influenza rimossa delle culture egizie e africane sul quella cultura si veda ancora M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano, 2011. Per la provenienza “extra- galattica” delle conoscenze degli antichi si vedano le numerose opere di Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (1922-1984), all’epoca giornalista di area marxista-leninista e corrispondente del quotidiano «l’Unità». L’eccesso di scrupolo “progressista” lo portò a diventare uno dei maggiori esponenti dell’archeologia misteriosa e della teoria degli antichi astronauti. Per le sue opere di maggior successo la casa editrice Sugar creò un’apposita collana “Universo sconosciuto”. Dal 1960 si era avvicinato al maoismo e si occupò anche di astronautica, sessuologia, parapsicologia ed esobiologia.  

  7. M. Sellitto, La scienza, prima del mito (e dopo) in G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di S. D’Onofrio e M. Sellitto, Edizioni Adelphi, Milano 2020, pp. 158-159.  

  8. M. Sellitto, op. cit., pp. 161-162.  

  9. E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sci­ences, conferenza tenuta alla New York University nel 1959 ora in E.P. Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Edizioni Adelphi, Milano 2017, p. 12.  

  10. E.P. Wigner, op. cit., p. 21.  

  11. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, op. cit., p. 123.  

  12. Ivi, p. 124.  

  13. ibidem, pp. 130-131.  

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Alle radici della Rivoluzione industriale: la schiavitù https://www.carmillaonline.com/2024/03/06/alle-radici-della-rivoluzione-industriale-la-schiavitu/ Wed, 06 Mar 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81300 di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua [...]]]> di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua morte.

E’ considerato come uno dei più noti storici dei Caraibi, insieme a Cyril Lionel Robert James, soprattutto per il suo libro intitolato “Capitalismo e schiavitù”, appena pubblicato in Italia da Meltemi editore. Frutto di uno studio del 1944, la ricerca costituisce un’opera imprescindibile per la comprensione dello sviluppo e del successo dell’Impero britannico e della Rivoluzione industriale. Collegando la seconda alla tratta atlantica degli schiavi e ripercorrendone l’ascesa e la caduta, tra Settecento e Ottocento, e sostenendo che l’impiego di schiavi neri nell’Impero britannico – e, di conseguenza, il fenomeno del razzismo – abbia avuto inizio per ragioni di natura esclusivamente economica, ovvero promuovere il capitalismo industriale attraverso il reperimento di manodopera a basso costo, l’autore caraibico smonta e disvela la fasulla retorica liberale sull’umanitarismo che l’avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale avrebbe portato con sé.

In Eric Williams l’impegno politico e l’attività di ricerca storica non andarono mai separate, come dimostra nella Premessa William Darity Jr.:

Fervente nazionalista trinidadiano, Williams mostrava verso i suoi concittadini un sentimento misto, tanto di profondo attaccamento quanto di alterigia. Negli anni immediatamente precedenti all’indipendenza, tra il 1955 e il 1962, egli si propose espressamente di portare la sua erudizione dentro al dibattito politico tenendo una serie di tortuose conferenze in una piazza del centro, nel cuore della capitale Port of Spain. I suoi discorsi contribuirono a rendere il luogo popolarmente noto come l’“Università di Woodford Square”. Eric Williams era l’insegnante e il suo uditorio riceveva delle vere e proprie lezioni accademiche di storia trinidadiana, caraibica e transatlantica, in particolare riguardo al commercio degli schiavi, alla schiavitù e al colonialismo europeo1.

Fu proprio su quella piazza che, il 15 gennaio 1956, Eric Williams lanciò il People’s National Movement (PNM), il partito politico di cui da lì in poi sarebbe stato alla guida per un quarto di secolo. Woodford Square, che prendeva il nome da un governatore coloniale razzista e corrotto dei primi dell’Ottocento, Sir Ralph James Woodford, fu ironicamente anche il luogo in cui si sarebbero radunati gli ideatori del movimento per il Black Power negli anni Settanta, trovandosi a discutere con lo stesso Eric Williams quando, durante il periodo della sua leadership, questi dovette affrontare lo status contraddittorio di essere a capo di un paese a predominanza nera sulla cui scena nazionale si stava imponendo l’attivismo del Potere Nero. Contraddizione che non fu mai risolta.

Tra il 1968 e il 1970, infatti, il movimento per il Black Power si era andato sviluppando a Trinidad e Tobago a partire dall’interno della Lega degli Studenti Universitari presso il Campus di Sant’Agostino dell’Università delle Indie Occidentali e si unì al sindacato dei lavoratori dei giacimenti petroliferi. In risposta alla sfida, lanciata dal Black Power durante il Carnevale dl 1970, Williams replicò con una trasmissione intitolata “Io sono per il Black Power” e introdusse un prelievo del 5% per finanziare la riduzione della disoccupazione e fondò la prima banca commerciale di proprietà locale. Tuttavia, questo intervento ebbe scarso impatto sulle proteste e il 3 aprile 1970 un manifestante fu ucciso dalla polizia. Il 18 aprile i lavoratori dello zucchero entrarono in sciopero e si parlò di uno sciopero generale. In risposta a ciò, Williams proclamò lo stato di emergenza il 21 aprile e arrestò 15 leader del Black Power.

Williams fece poi ancora altri tre discorsi in cui cercò di identificarsi con gli obiettivi del movimento Black Power, rimescolando il suo gabinetto e rimuovendo tre ministri e tre senatori, ma proponendo anche un disegno di legge sull’ordine pubblico che avrebbe limitato le libertà civili nel tentativo di controllare le marce di protesta. Disegno di legge che, però, dopo l’opposizione pubblica fu ritirato.

Anche se Eric William, una volta al governo, mostrò probabilmente i limiti e le contraddizioni di un cambiamento politico che non era seguito a una radicale rivoluzione nei confronti del dominio coloniale, lo stesso può essere considerato come uno dei più lucidi e spietati critici di quel “paternalismo” umanitario di cui il capitalismo britannico aveva voluto indossare i panni per giustificare con il “progresso” la propria secolare politica di rapina e oppressione che non era certo finita con la fase dell’accumulazione primaria. In cui pirati, come Sir Francis Drake, e schiavisti si erano contraddistinti e messi in bella mostra; tanto da far dire ad Adam Smith che è “il gentiluomo di ventura” (ovvero il corsaro descritto in termini più gentili) a rappresentare il primo e vero self-made man della tradizione individualista liberale.

La sua moderna critica del sistema di produzione che aveva sfruttato la manodopera schiava per incrementare il proprio sviluppo e i propri profitti non fu ben vista negli ambienti dell’Università di Oxford dove l’autore aveva studiato con ottimi risultati e soltanto con il ritorno oltre Atlantico, dove riuscì a ottenere un incarico come professore di Scienza politica e sociale presso la Howard University, che mantenne dal 1938 al 1948, riuscì a completare e a pubblicare le sue ricerche, iniziati già in Gran Bretagna con una tesi intitolata The Economic Aspects of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery – un po’ macchinoso rispetto alla precisa definizione di Capitalism and Slavery.

Prima di tornare nelle Indie occidentali, Williams aveva provato senza successo – con sei case editrici – a pubblicare la sua dissertazione del 1938 per l’Università di Oxford, e non era riuscito a ottenere un incarico accademico in nessuna università britannica. Questi ostacoli emersero nonostante Williams si fosse laureato con la lode, avesse difeso con successo la sua tesi davanti a una commissione formata dai più celebri storici dell’imperialismo di Oxford e malgrado si fosse classificato come il miglior studente del dottorato di ricerca in Storia della stessa università2.

Fu così che la ricerca, con il titolo con cui è diventata nota e con cui è stata pubblicata anche qui da noi, fu pubblicata nel 1944 dalla University of North Carolina Press. Evidentemente, una Università americana che, sarcasticamente Williams definiva come la “Oxford dei nei”, poteva allora permettersi di pubblicare un lavoro all’epoca troppo scomodo per il cuore degli studi imperiali inglesi, anche se anche all’Università di Howard i corsi fossero ancora « dominati da una premessa esplicita secondo cui la civiltà era il prodotto della razza bianca del mondo occidentale».

Ecco, proprio contro questa premessa, tutt’altro che soltanto sottintesa, o perlomeno contro l’apporto umanitario e civilizzatore degli imperi occidentali nei confronti del resto del mondo e dei popoli non bianchi, si rivolgeva l’analisi di Eric Williamsa. Così, in primo luogo, la sua tesi

si impegnava a sostenere, in modo dettagliato e ricco di evidenze, che l’abolizione britannica del commercio degli schiavi nelle Indie occidentali – ed eventualmente anche l’emancipazione delle persone in stato di schiavitù nei medesimi territori – era stata il frutto di un calcolato egoismo economico e strategico da parte dei funzionari inglesi. Williams si schierava così contro la scuola di pensiero che vedeva la causa primaria dell’abolizione e dell’emancipazione in un mutamento della moralità, in un travolgente sentimento umanitario nazionale3.

In secondo luogo, l’autore sostiene « come sia stata la schiavitù a produrre il razzismo, non viceversa». Sostenendo che il razzismo è un’ideologia emersa per fornire una potente razionalizzazione a una pratica assolutamente immorale ma economicamente profittevole.

La terza ipotesi che domina ampie sezioni di Capitalismo e schiavitù è l’argomento secondo cui il commercio degli schiavi africani e lo schiavismo nei Caraibi hanno alimentato lo sviluppo industriale britannico, facendo della schiavitù il fondamento storico del capitalismo inglese. Williams sostiene che la tratta e lo schiavismo sono stati cruciali per lo sviluppo economico britannico lungo tutto il XIX secolo, e che una volta affermatosi il progetto del “ciclo manifatturiero” essi hanno visto anch’essi declinare la loro importanza4.

Quest’ultima ipotesi è quella che lo avvicina di più a Marx, anche se è difficile capire se vi fu su di lui un’influenza diretta del pensatore tedesco, magari per il tramite di Cyril L. R. James (Port of Spain, 1901– Londra, 1989) di cui fu allievo, oppure, come si sostiene nella premessa:

È più probabile che – sempre che di influenza di Marx su Capitalismo e schiavitù si possa parlare – essa sia provenuta indirettamente dall’approccio di storia economica della Howard University, e in particolare da quello dell’economista Abram Harris.
Harris aveva anticipato l’analisi di Williams sulla relazione tra schiavitù nelle Americhe e industria britannica nel seguente pregnante passaggio di una sua pubblicazione del 1936, The Negro as Capitalist:

“Nella coltivazione della terra e nell’estrazione delle materie prime del Nuovo Mondo fu utilizzato dapprima il lavoro degli indiani e dei bianchi. Alla fine quello dei neri africani ebbe la precedenza su tutti gli altri e prese a esser visto come la fonte di un’offerta di forza lavoro quasi inesauribile e a basso costo. L’Africa ha rifornito il mondo occidentale non solo di lavoro ma anche di molto dell’oro necessario all’economia monetaria delle nazioni dell’Europa occidentale. In sintesi, l’introduzione del lavoro africano nelle Indie occidentali britanniche e i profitti ottenuti dal traffico di questa forza lavoro e dei suoi prodotti, oltre che dallo sfruttamento del continente africano per l’oro nei secoli XV e XVI, sono stati fondamentali per quell’accumulazione di capitale sulla cui base è stato costruito il sistema industriale inglese nel corso del Settecento. Analogamente, negli Stati Uniti, i profitti che il traffico degli schiavi ha portato al New England sono stati un fattore importante nella crescita dell’industria marittima e, al contempo, una fonte di surplus di ricchezza per l’industrialismo americano”5.

Nel capitolo XXXI del primo volume del Capitale, Marx aveva esplicitamente sostenuto che la schiavitù del “Nuovo Mondo” aveva costituito il pilastro cruciale dell’ascesa dell’industria britannica, motivo per cui “la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase del Nuovo Mondo”, sostanzialmente in piena sintonia con la terza ipotesi di Capitalismo e schiavitù. Ma il Moro di Treviri aveva trattato ancora il tema della schiavitù e del suo ruolo nel mantenimento della potenza dell’industria britannica anche nel corso della guerra civile americana quando, insieme al sodale Engels, aveva sostenuto la causa del Nord e di Lincoln, invitando gli operai ad arruolarsi nelle file dell’esercito federale, non per motivi “umanitari” ma per colpire, abolendo la schiavitù e il sistema delle grandi piantagioni del Sud degli Stati Uniti, una importantissima fonte di materie prime a basso costo che ancora alimentavano l’industria britannica e il suo colonialismo, diretto e indiretto.

Ecco allora che le riflessioni di Williams manifestano tutta la loro potenza ancora oggi, non soltanto nei confronti di un modo di produzione odioso che vuole, invece, fingersi sempre come il più umano e il più giusto possibile, ma anche di quella cancel culture che del primo è ancora succube, poiché soffermandosi sulla cancellazione delle “ingiustizie” non coglie lo stretto rapporto che intercorre tra queste e il sistema di produzione e riproduzione della vita che lo ha fondato e tutt’ora lo fonda, accontentandosi, troppo spesso e come sottolinea ancora William Darity nella sua premessa, di chiedere riparazioni e rimborsi per i torti subiti dagli antenati. Un risoluzione monetaria di crimini e oppressioni di cui proprio lo scambio mercantile e monetario hanno costituito, da sempre, la premessa.

In questo caso, occorre poi ancora sottolineare che, come afferma Williams in altra parte del testo, la progressiva abolizione della schiavitù non è dovuta a una nuova morale o a una progressiva perdita di convenienza economica della stessa, ma anche alla lotta vittoriosa degli ex-schiavi che, proprio nelle Antille, ad Haiti, avevano sconfitto militarmente sia le armate francesi, anche nella loro versione rivoluzionaria, che quelle inglesi inviate per sostituirle approfittando della debolezza della Francia già impegnata su troppi fronti. In questo caso è sicuramente da rilevare l’influenza di C. L. R. James e della sua opera: prima Toussaint L’Ouverture, pubblicata nel 1936, e successivamente The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution, del 19386.

Riconosciuto come “il punto di partenza per una nuova generazioni di studi”, Capitalismo e schiavitù resta ancora oggi una lettura essenziale per chi voglia comprendere la modernità e il mondo post-coloniale.


  1. W. A. Darity Jr., Premessa a E. Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, p. 9.  

  2. W. A. Darity Jr., op. cit., p. 11.  

  3. Ibidem, p. 12.  

  4. Ibid, pp. 13-14.  

  5. Ibid, pp. 14-15 

  6. trad. franc.: Les Jacobins noirs. Toussaint Louverture et la Révolution de Saint-Domingue, trad. di Pierre Naville, Parigi, Gallimard, 1949 e successivamente, in italiano, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Milano, Feltrinelli, 1968.  

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Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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