campi profughi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ancora sulla banalità del male https://www.carmillaonline.com/2020/12/02/ancora-sulla-banalita-del-male/ Wed, 02 Dec 2020 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63698 di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di [...]]]> di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di ripercorrere le tracce di Hannah Arendt nel perseguire, illustrare e portare alla luce quello che l’autrice di origini ebraiche aveva definito, in una delle sue opere più celebri, “la banalità del male”. E Sara ha potuto farlo nei confronti di Daeş e dello Stato Islamico non soltanto grazie alla ricca bibliografia e alla sitografia consultate e citate nell’opera, ma anche, e soprattutto, al rapporto diretto stabilito sul campo, nel corso della primavera e dell’estate 2020, attraverso le sue interviste, tanto con rappresentanti dell’intelligence e combattenti delle forze YPG (Unità di protezione popolare) – YPJ (Unità di difesa delle donne) curde quanto con imam, foreign fighters e donne un tempo, e in alcuni casi ancora attualmente, riconducibili all’ideologia e alle pratiche dell’Isis.

E’ importante poi, dal punto di vista di chi scrive queste brevi note, che a farlo sia stata una donna (in realtà ci sarebbe da dire “ancora una volta una donna”) poiché una parte cospicua del libro è dedicato proprio alle condizioni delle donne dell’Isis, sia che si tratti di volontarie, convertite straniere oppure rapite nel corso delle operazioni di occupazione territoriale. E non sempre questa condizione rinvia ad un modello unico di comportamento, di sottomissione o adattamento alle condizioni imposte dalla pretesa legge islamica imposta dall’organizzazione religiosa, politica e militare riconducibile a Daeş.

L’analisi di Daeş o Isis, qual dir si voglia, richiede però, secondo l’autrice, nuovi schemi interpretativi, capaci di decifrarne la novità e la complessità. Dichiararne la scomparsa, a seguito soltanto della sconfitta militare subita sul campo di battaglia nel 2018, non serve a nulla, anzi rischia di nascondere il fatto concreto della sua riorganizzazione e del suo rafforzamento. Occorre cogliere la sua capacità di penetrazione culturale e ideologica che avviene su più piani e, soprattutto, grazie all’ignoranza dei fattori che lo hanno causato e giustificato agli occhi di tanti diseredati. Nelle metropoli occidentali come nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.

L’aspetto religioso, il piano giuridico-politico, la storia e i conflitti interni, le differenze tra le diverse etnie, tribù e minoranze, l’aspetto sociale proprio di questi luoghi e della società tutta (d’altronde 40.000 foreign fighters sono più che sufficienti per dimostrare che si tratta di un fenomeno globale), assieme ai traffici illeciti, alle relazioni con le mafie nostrane e internazionali, intrecciati con le forme di sciovinismo e nazionalismo implementate e alimentate nell’ultimo secolo, sono tutti pezzi di un puzzle e parte integrante di questo grande mosaico. I riferimenti agli intrecci con il regime Baathista di Saddam Hussein, la prigione di Camp Bucca, i collegamenti con i servizi di intelligence di altri paesi sono dati di fatto. Bisogna essere consapevoli, inoltre, che la politica nostrana (dagli armamenti alla politica energetica di idrocarburi, dagli investimenti delle banche italiane alla gestione migratoria, dalla libertà di culto alla costruzione di moschee, e questi sono solo alcuni esempi) ha degli effetti che si riverberano in altri luoghi e su altre popolazioni1.

Perciò, è da queste considerazioni che occorre procedere a ritroso per cogliere tutti gli aspetti di quella che è ancora corretto definire come la banalità del male. Perché Daeş non è un cane nero sbucato dall’Inferno e i suoi militanti ed esponenti e le loro azioni, per quanto efferate, non sono solo il rigurgito di una o più menti malate. Costituiscono invece l’immagine capovolta di una società e di un modo di produzione che della violenza sulle minoranze, i generi, le etnie e i diseredati e della loro completa sopraffazione e sottomissione ha fatto il suo pane quotidiano.

Una modernità che nei peggiori sostenitori di un ritorno a un mitico passato (Erdogan, Turchia e Arabia Saudita) trova i suoi migliori alleati. Ognuno con le sue strategie geo-politiche, economiche e militari. Ognuno coinvolto in una guerra spietata rivolta sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Ognuno attento a costruire o rafforzare un proprio domino o Califfato sulle aree di interesse strategico. Sempre più lontane dai confini nazionali, come succede in Libia, Africa sub-sahariana o alcune aree asiatiche.

Una partita in cui la risorsa energetica simbolo dello sviluppo di marca occidentale, il petrolio, riveste comunque una posizione centrale tra gli interessi che la animano, così come ben dimostrano l’interesse dell’Isis e dei suoi alleati tutt’altro che nascosti e i loro traffici milionari attraverso le frontiere. Ma in cui anche i migranti, più che un pericolo come quello sbandierato dai difensori dei confini occidentali, diventano autentica carne da vendere e macellare, in vista di un maggior profitto, nel mercato mondiale della miseria, dell’emarginazione e dello sfruttamento (sia lavorativo che sessuale o militare).

Ma è proprio questa sua nascita dalla modernità, al di là dello sventolamento utopico di un mitico Califfato ispirato ad un passato sempre travisato, a rendere attualmente l’ideologia dell’Isis e la sua pratica così irriducibili alla mera sconfitta militare.
Nell’Isis e nelle sue pratiche organizzative, nella sua violenza sistematica e nelle sue politiche di dominio si rispecchia la “nostra” società egoista, solitaria, sessista, razzista, classista ed escludente. Il mostro, se così vogliamo chiamarlo anche se con un tal genere di definizione si rischia sempre di cadere nella retorica e nelle semplificazioni, l’abbiamo partorito noi. Certo non, o non soltanto, la millenaria, e troppo spesso travisata, tradizione dell’Islam.

Le complesse burocrazie che governano ogni atto e ogni amministrazione territoriale dello Stato islamico, compreso un complesso sistema di welfare, così ben descritte da Sara Montinaro nella prima parte del suo testo, ricordano le burocrazie complesse non soltanto delle dittature ma anche degli stati sedicenti democratici come quello in cui viviamo. L’uso indiscriminato e abile delle risorse della Rete per arruolare, coinvolgere, convincere i futuri adepti di ogni nazionalità e quello dei social di ogni tipo per permettere loro sia di ritrovarsi in una comunità o umma virtuale che di contattarne le strutture clandestine attraverso Face Book, Instagram, Twitter e, oggi, anche TikTok, non rinvia ad altro che all’uso che oggi viene fatto quotidianamente, e con gli stessi obiettivi formali, non solo dai disseminatori di fake news, ma anche da opinionisti, influencer e capi di Stato.

Sono le abitudini a governare il male, non una forma specifica di devianza culturale e soggettiva. E sono spesso i soggetti deboli a cercare un appagamento nell’esercizio di un potere e di una violenza che per un attimo, forse i famosi quindici minuti di cui parlava Andy Warhol, li rende super-uomini oppure super-donne. Pienamente giustificati e motivati nel loro agire meccanico dal potere della norma abitudinaria. Proprio come sostenne Hannah Arendt a proposito dell’imputato e delle sue azioni scellerate durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 19612.

Se così non fosse, come spiegare la condizione e le convinzioni delle “spose di Daeş” che l’autrice ha potuto indagare da vicino, all’interno dei campi profughi e di detenzione di Al-Hol e Roj. Condizioni che se da un alto vedono lo sfruttamento sessuale delle donne yazide, letteralmente tratte in schiavitù dall’Isis con l’unico fine di trarre vantaggio dalla vendita e dall’uso dei loro corpi, dall’altra vedono la convinta partecipazione al ruolo di spose dei combattenti e madri dei loro figli di migliaia di donne, spesso straniere. Donne che spesso, come i e le kapò di ogni campo di concentramento che si rispetti, diventano le peggiori aguzzine delle loro simili e, talvolta, anche degli uomini rinchiusi insieme a loro.

Al-Hol è un campo profughi che si trova lungo il confine siriano iracheno tra le montagne calde e steppose del deserto; […] Diviso in otto sezioni, al momento ospita circa 69.000 persone: il 65% sono bambini, il 30% donne e il 5% uomini. Delle otto sezioni, tre sono dedicate a famiglie irachene, quattro ospitano famiglie siriane e euna è un mix tra le due nazionalità. Accanto a queste sezioni vi è l’Annex, che ospita le famiglie [dei combattenti dell’Isis] provenienti da tutto il mondo. Al momento della mia visita nell’Annex si potevano contare cinquantaquattro diverse nazionalità provenienti, per la maggior parte da Europa, Africa (paesi maghrebini), India, Turchia e Russia (in particolar modo dal Kazakistan)3.

E’ considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo come spiega una comandante YPJ che ne supervisiona il servizio di sicurezza.

«Dopo la campagna militare avviata dalla Turchia a Serê Kaniyê, la situazione è peggiorata; come se si fossero risvegliati. Gli omicidi avvengono per lo più nella zona irachena, mentre all’interno dell’Annex bruciano le tende di chi pensano voglia collaborare con noi. […] Nella parte irachena è ancora più complicato. Lì ci sono pochi uomini e hanno paura delle donne. Fanno quello ch edicono loro».
All’interno del campo c’è un problema di sicurezza reale. Queste donne non hanno paura di niente e sono in attesa del ritorno del Califfato. Ne sono convinte e te lo dicono senza alcuna remora […] Le donne straniere, in particolare, sono le più pericolose: con un’istruzione superiore, sono consapevoli del proprio status e dei diritti di cui godono: “Sono una rifugiata di guerra come tutte le altre, quindi devo aver accesso ai miei diritti”, mi diceva Abd Almanya, una donna tedesca tedesca che si trova all’interno del campo. I suoi occhi azzurri e la carnagione chiara non lasciavano spazio a fraintendimenti sulla sua nazionalità: “Ho studiato alla Business School in Germania poi sono venuta qui con mio marito. La Germania che dice di esere un paese democratico, che cosa fa? Non voglio rientrare lì, non potrei seguire il mio credo religioso. Ma sono una rifugiata come tutte le altre e rivendico i miei diritti”.
«Loro arrivano da Hajin e da Baghouz,» mi spiega Amina, la comandante, «mentre chi aveva perso fiducia in Daeş aveva iniziato già ad arrendersi dopo la battaglia di Raqqa, queste sono persone che hanno continuato a combattere fino all’ultimo! Queste sono le più pericolose perché ci credono davvero. Si sono riorganizzate all’interno del campo, proprio come se fossero nel Califfato. C’è la hisbah, la loro polizia religiosa […] I bambini a nove anni sanno come costruire un rudimentale esplosivo utilizzando il materiale che c’è nel campo […] Sono disposte a tutto. Adesso le donne, quelle più carismatiche, passano tenda per tenda, fanno lezione di Corano ai bambini e insegnano loro l’ideologia di Daeş.»4

La questione dell’istruzione rivela poi ancora un altro aspetto, non secondario, degli aderenti e dei combattenti dello Stato islamico, poiché un buon numero di questi ha un livello di formazione scolastica superiore o universitario. Alcuni sono ingegneri, altri medici (cosa che ha permesso il funzionamento degli apparati amministrativi del Califfato) e questo deve suggerire la necessità di una battaglia che non può essere condotta soltanto sul piano militare, ma anche culturale.

Nel corso degli ultimi anni i confini della “Fortezza Europa” ci sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma ciò che la storia ci narra è che i confini sono limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. L’essere umano è l’animale più debole sulla Terra. E’ l’unico animale che, sin dalla sua nascita, ha bisogno della cura di qualcuno per poter sopravvivere […] Questo ci insegna che siamo in grado di sopravvivere solo in una forma di cooperazione e solidarietà reciproca. In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie, è arrivato il momento di rimettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli 5.

Un bel sogno? Un’utopia? Un mondo in cui le donne possano sfuggire alle logiche del patriarcato e fondare un nuovo modo di intendere i rapporti sociali sta forse già nascendo con il confederalismo democratico del Rojava, utopia concreta che potrebbe contribuire alla sconfitta dell’Isis e del mondo che lo ha reso possibile. Esattamente come ci suggerisce l’autrice di questo agile, coinvolgente e ben documentato saggio.


  1. S. Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 155-156  

  2. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2001 (prima edizione italiana 1964)  

  3. S. Montinaro, op. cit. p.121  

  4. ibidem, pp.121-123  

  5. ivi, pp. 157-158  

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La stagione di Taltibio https://www.carmillaonline.com/2018/04/07/la-stagione-di-taltibio/ Sat, 07 Apr 2018 21:24:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44857 di Franco Pezzini

Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli [...]]]> di Franco Pezzini

Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli eventi narrati da Omero ai portavoce di una lettura ben altrimenti critica. Ma è un fatto che quel “come se”, con la riflessione sapienziale che si porta dietro, riguarda uno degli architravi del pensiero occidentale: non solo per le categorie fondamentali dell’assedio e del ritorno (sottolineate da Franco Ferrucci nel suo bel libro del 1974) che ormai fanno inespropriabilmente parte del nostro modo di leggere la realtà, ma perché a un livello anche più ampio e generale quella saga ha fornito materiale di riflessione per secoli. Come – restando al termine citato – in quelle ‘Troiane’ di Euripide che continuano a risuonare di salutare provocazione.

Un certo antimilitarismo emerge entro un po’ tutta l’opera del drammaturgo di Salamina, ma nel caso delle ‘Troiane’ (415 a.C.) il nesso con l’attualità è particolarmente pungente. La trama della tragedia è nota: caduta Troia, in un non-luogo fuori dalle mura seguiamo le vicende delle donne prigioniere degli Achei, in attesa di diventare serve o concubine – comunque schiave e deportate. Quattro donne spiccano nel gruppo, cioè Ecuba, la vecchia regina che ha visto morire massacrato su un altare il marito Priamo, dopo la progressiva strage dei figli; Cassandra la profetessa, che già presente cosa si profili all’orizzonte – per loro ma anche per i nuovi padroni; Andromaca vedova di Ettore, madre di quel piccolo Astianatte presto gettato giù dalle mura per estinguere la casa regnante; e infine Elena la Bellissima, causa almeno immediata della guerra. Ma se il contesto è quello (alla grossa) del 1200 a.C., la situazione messa in scena da Euripide richiama eventi assai più vicini. Infatti solo poco tempo prima (416 o 415 a.C.) Atene aveva deciso l’aggressione – con conseguente sterminio degli uomini e vendita in schiavitù di donne e bambini – all’isola di Melo, rea semplicemente di aver rifiutato di aderire alla lega delio-attica (a guida ateniese, ovviamente) ma disposta alla neutralità. Il contesto della guerra del Peloponneso non permetteva minuetti, ma quell’azione dal fetore di ragion di stato (l’inesorabilità della superpotenza, la sorte di chi non si allinea eccetera) aveva suscitato turbamento in città: ed Euripide, con la sua sincerità al vetriolo, porta il tutto davanti agli occhi dei concittadini – compresi quelli che materialmente hanno compiuto la strage e magari incassato le promozioni del caso. Rendiamoci conto, e pensiamo a qualche evento più vicino: con le ovvie differenze, un po’ come se i responsabili della macelleria alla Diaz andassero trulli trulli a vedersi qualche film d’azione e trovassero sullo schermo le proprie facce – più o meno mascherate o riconoscibili – con un giudizio nettissimo su quanto hanno compiuto.

Attraverso l’immagine delle donne delle città omerica si rende così voce alle schiave melie dei cortili delle case di Atene e di altre poleis dov’erano state vendute, ammutolite dallo shock e dagli stupri; ma insieme – e qui sta il valore universale dell’opera – a tutte le altre di sorte analoga, coro silenzioso e innumerevole nei secoli. I secoli prima di Euripide, ma ovviamente anche tutti i successivi: basti pensare alla rilettura di Jean-Paul Sartre (1964), con un occhio alla Guerra d’Algeria, ai volti moderni dell’imperialismo e a un’atomica che pare la prova provata che la guerra è sempre una sconfitta per tutti. E anche molto più avanti e nell’oggi, fino alle Troiane di quella guerra non ufficiale, “strisciante, clandestina, una guerra contro coloro che cercano di raggiungere i confini d’Europa per esercitare il diritto d’asilo. Contro persone che fuggono da guerre, da persecuzioni – politiche, religiose, razziali, anche di genere –, per cercare di raggiungere una terra dove vivere dignitosamente” (Luca Rastello, presentazione di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010 ma situazione non sostanzialmente cambiata): dove i soldati achei di turno sono per esempio i gendarmi di certi campi libici per migranti – o, con le differenze del caso, di certe località delle Alpi, teatro di drammi recenti – e i loro solerti colleghi/collaboratori di nazioni tanto sollecite sui diritti umani. Euripide sa bene di giocare con materiale scomodo: ed è per noi non semplicissimo entrare nella testa degli Ateniesi che quell’anno alle grandi Dionisie gli attribuiscono il secondo premio. Forse a fare i disinvolti e mostrare di non riconoscersi.

Una libera, splendida revisione della tragedia che attinge all’opera euripidea, alle riletture di Seneca e appunto di Sartre, ma con provocazioni da altri testi (passi di Mariangela Gualtieri, suggestioni di discorsi presidenziali americani, alcune parti scritte apposta), è stata messa in scena di recente a Torino: si tratta dello spettacolo Ossa, curato – adattamento, regia, in parte le scene – da Susanna Gianandrea e organizzato da Artisti Associati Paolo Trenta. Con passione, competenza e un’asciuttezza che valorizza la drammaticità, con originalità (ma non bizzarria) di soluzioni, la regista ha saputo sensibilmente evidenziare una serie di snodi per una lettura odierna. Non è entrata nei dettagli dei dibattiti dell’oggi, ma ha lasciato aperte le suggestioni nella loro latitudine ulcerante. Alcuni televisori mostrano strappi della vicenda – la distruzione della città, i massacri, le decisioni dei vincitori – in chiave di sobri, veloci servizi da telegiornale; un cumulo di panni sullo sfondo richiama gli abiti tolti a esseri umani lasciati nudi (fisicamente o simbolicamente) e le ossa stesse del titolo; le donne entrano in scena e progressivamente dismettono per lo stesso motivo mezze maschere da teschio; l’astrazione permette di lasciare trasparire libera l’eco da tutte le guerre della storia.

Quel che colpisce ed emoziona già a un primissimo livello è una concretezza (si passi il termine) anche molto fisica che gli attori sanno donare alle parti.

Partiamo dai due volti divini che nell’immaginario ateniese risultano in paradigmatica opposizione – da sempre, fin dal conflitto per assicurarsi il patronato sulla città –, cioè Atena e Poseidone. Ottimamente resi da Serena Inturri e Roberto Briatta (come due ingombranti candidati alle presidenziali americane in rapporto ai problemi dei paesi dipendenti) spiccano sulle loro tribune, concordando dall’inizio che quella dei Greci profanatori di templi sarà una non-vittoria. E quelle tribune – semplici parallelepipedi scuri – diverranno nella rappresentazione giacigli, sedili, strutture temporanee del campo di prigionia, come a ricordare continuamente tale profezia.

A sua volta di presenza fisica impressionante proprio nella sua fragilità, nella dignità pacata e dolente, controllata ma nel modo spontaneo di un’intera esistenza, è l’Ecuba di Irene Laganà (bravissima): e che proprio in quel trovarsi spezzata ma senza lacrime, in quell’aria provata che mantiene decoro e nettezza di parola giganteggia sugli energumeni in mimetica.

Davvero straordinaria – e ancora una volta estremamente fisica, fin nel suo finale trasporto fuori scena, rigida in un delirio di rabbiosa soddisfazione, “Sono la sposa del Sole…” – è la Cassandra di Maria Teresa Cavalli, che sa di divenire causa di morte e rovina per il regno più importante della Grecia. Prigioniera-amante di Agamennone, sarà la classica goccia che fa traboccare il vaso dell’ira della regina-moglie Clitemnestra, e dunque l’innesco per la mattanza al cuore della superpotenza nemica.

Serena Palma riesce a sua volta a reggere con intensità e sobria autenticità, senza quelle sbavature di melodramma che il contesto estremo poteva in teoria minacciare, la grande parte di Andromaca e in particolare la scena tanto difficile della sottrazione del figlio.

Quanto alla scintillante Elena di Delia Campia, sa trattenere tutta l’ambiguità dell’antica eroina: destinata certo – emblematico il sorriso torbido al capitolare di Menelao (Roberto Carelli) – a uscire dalla situazione meglio delle compagne, con quanto di equivoco ciò comporti, ma insieme irriducibile ai nostri facili giudizi. Del resto, come spiega a propria difesa, lei era una semplice pedina nel pacchetto della famosa gara di bellezza tra le tre dee, quando Paride aveva attribuito il frutto ad Afrodite, che gli prometteva appunto l’amore della donna più bella del mondo. Ma – continua – se il principe avesse scelto diversamente, premiando per esempio la dea-regina Era, Troia sarebbe diventata potentissima e tutta la Grecia sarebbe finita sotto il tallone dell’Asia: davvero Menelao & Co. avrebbero voluto questo? Un’ipotesi dal sapore di minacciosa ucronia per un pubblico ateniese i cui nonni se l’erano vista brutta coi Persiani… Ovvio, il personaggio resta molto ambiguo, ma è impossibile non ascrivere anche Elena a una situazione generale che vede la donna comunque prigioniera.

Fin qui una plasticità delle figure in scena, una fisicità con cui idealmente si contrappongono all’indefinitezza di uno spazio, di una sorte. Ma c’è anche una dimensione più sfuggente: qualcosa che lo spettatore antico coglieva più facilmente, noi dobbiamo invece sforzarci di ricostruire e in fondo qui può emergere per suggestioni simboliche. Ecuba, Cassandra, Andromaca ed Elena trattengono infatti connotazioni – dimensioni, ombre più lunghe gettate dalle loro figure – tali da rendere ancora più spiazzante il dramma.

Ecuba non è semplicemente una regina ma la regina per antonomasia: Hekábē è il nome della Grande Madre frigia, la madre degli dei Kubaba/Cibele (per questo Ecuba ha tanti figli?) e potrebbe richiamare il nome stesso di Ecate, la regina dei morti (cui è associata in vari miti tramite il binomio mutazione in cagna & morte legato alla sorte dell’ex-sovrana). Se su un’epica micenea possiamo solo azzardare ipotesi, una proto-Iliade potrebbe aver visto metaforizzare in linguaggio mitico-religioso lo scontro tra popoli come battaglia dei loro dei: e forse la protettrice della città vinta era proprio una dea-regina Ecabe. Ma anche spiegando il nome diversamente (per esempio Hekábē come semplice titolo divino di ogni regina del luogo, a postularne una pluralità e chiarire così la presenza di genealogie stranamente divergenti su una figura tanto importante) resta il fatto di una dignità archetipica della figura. Vederla avvilita e prigioniera è insomma qualcosa di molto più forte di quanto superficialmente percepibile: in scena è una crisi generale, di paradigmi.

A sua volta Cassandra non è semplicemente una profetessa ma una posseduta dal dio, forse il massimo dio di Troia: quei discorsi che Atena e Poseidone intrecciano all’inizio – dati certi presupposti, i vincitori finiscono malissimo – Cassandra lo rende oggetto di rivelazione tra le prigioniere. Se consideriamo che nell’ambito del collasso dell’età del bronzo ad abbattere le città degli eroi omerici furono con ogni probabilità anche lotte intestine, guerre civili, convulsioni sociali, ci rendiamo conto di quale sia il tipo d’innesco esplosivo di cui Cassandra stia parlando. I vincitori conosceranno la guerra nelle loro famiglie, nei loro rapporti di coppia: fuor di metafora, chi permette certi orrori anche nell’oggi la divisione se la troverà in casa a devastargli la vita, non capirà, ma avrebbe solo dovuto ascoltare… Ridurre Cassandra a quella che sa il futuro e non le credono è dunque banalizzante: e la prigionia avvilita di una figura come questa rende ancora più esplosiva la rivalsa che annuncia.

Andromaca. Lei non è – almeno per quanto possiamo sapere – figura di una dea, né posseduta da qualche dio. Eppure assurge ad archetipo: la sua struggente scena di addio da Ettore nell’Iliade potrebbe costituire (si è ipotizzato) un testo autonomo, a un certo cucito lì da un Omero. Il fatto è che Andromaca è – per antonomasia – la sposa del guerriero: la sposa del soldato, di ogni soldato del mondo, quella che vede partire il compagno e resta con il cuore in gola ad aspettare. Trovarla tra le prigioniere è un memento non da poco al pubblico ateniese: se qualcosa non va come previsto, se la guerra (del Peloponneso o qualunque altra) finisce male quello diventa il ritratto di tua moglie. Vederla prigioniera in quel campo è insomma particolarmente scioccante.

E infine Elena: per cui torniamo alle dee, perché l’ambigua, equivoca, pazzesca creatura per il cui fantasma (in tutti i sensi possibili) la gente s’è ammazzata per dieci anni mantiene ben chiaro uno statuto superumano. Feltrinelli ha appena pubblicato un romanzo di impressionante, persino imbarazzante bellezza scritto da un autore molto giovane, La Splendente di Cesare Sinatti, che ha vinto il Premio Calvino 2016 e che aiuta a capire quanto Elena abbia ancora da dirci nella sua spiazzante numinosità. Non si tratta insomma soltanto – diciamo così – della prigioniera che in qualche modo se la sfanga: Elena è la dimostrazione vivente della fragilità dei vincitori, del loro scarso controllo di fronte alle emozioni e alla stessa bellezza.

E insomma eccole, queste quattro donne infagottate tra le altre prigioniere. Come recita la presentazione dello spettacolo, “Una madre, una figlia, una moglie e un’adultera si trovano insieme, prive di una qualsiasi speranza e denudate dei loro abiti e del loro ruolo sociale, obbligate dal nemico ad assoggettarsi ad altre culture e religioni. La loro unica arma è la parola, strumento di un’urgenza di raccontare le proprie storie alla ricerca di una legittimazione in quanto persone”. Una parola che non permetterà loro individualmente di salvarsi (tutte, lo sappiamo, avranno sorti più o meno tristi – anche Elena, alla fine linciata delle vedove dei morti sotto Troia) ma che testimonia l’irriducibilità di ogni singola voce a quel cumulo di panni morti, protesta le loro ragioni a una pubblica coscienza e le traghetta come provocazioni nel tempo. Intercettare quelle voci, farle risuonare ancora, strapparle allo spazio del non-logos – della chiacchiera privata o pubblica o semplicemente della tacita rimozione di quei non-luoghi di prigionieri e profughi – è oggi importante quanto nell’Atene di Euripide.

E poi ci sono gli altri, i vincitori. Vediamo in scena il vilain Ulisse (Gabriele Valente) portatore della ragion di stato, il citato Menelao diviso tra brutalità e fragilità, alcuni silenziosi soldati greci (Gian Piero Craveri e Mariangelo Filo Rubini), nelle divise – non è strano – di eserciti moderni. Ma soprattutto c’è Taltibio (Lorenzo Audisio, molto efficace), araldo di Agamennone e “impiegato della guerra”: gestore nervoso, preoccupato e solerte del fastidio rappresentato dagli sconfitti. Neppure lui ha ancora capito quel che incombe: cioè l’esplosione di un mondo, delle solidarietà comunitarie, familiari e generazionali, fin dal tessuto concreto delle singole vite. Chi ha vinto male è destinato a perdere tutto.

È inevitabile domandarsi chi sia oggi Taltibio, quali ne siano i volti. Non ha necessariamente una divisa addosso, perché certi accordi internazionali sono firmati da civili o presunti tali; e può notarsi persino un certo sgomitare per entrare in quella parte, sedere a quei tavoli, garantire – a dispetto, magari, di strombazzate proteste di cambiamenti – una sorda, assoluta e criminosa continuità. Nel panorama grigio della stagione in cui viviamo chi è Taltibio? Chiudiamo con questa domanda e teniamocela stretta in un esame di coscienza, perché può aiutare a non cadere in buonismi da salotto.

Il cast di Ossa, tutti davvero molto bravi, comprende poi anche Anco Orsini (Enea), Umberto Biagini (un Anchise commovente), Arianna Vagnoni, Antonella De Bonis e Rosy Trischitta (Troiane/reporter) e Chiara Talarico, il cui ruolo mitico di Danaide danzatrice finisce con l’evocare una quinta principessa assente dalla scene, Polissena massacrata sulla tomba di Achille. Immagine di tutte le assenti dalle ‘Troiane’ di tutte le epoche perché, semplicemente, sono state cancellate: sta a noi cogliere anche il loro sussurro.

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Senza terra, senza diritti, senza… https://www.carmillaonline.com/2016/01/24/senza-terra-senza-diritti-senza/ Sat, 23 Jan 2016 23:01:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28068 di Bushra Al Said

missione 4 [Dal 4 all’8 Gennaio l’ABSPP (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) ha svolto una missione umanitaria in Libano per dare calore ai più bisognosi che stanno vivendo un gelido inverno]

5 gennaio 2016 Libano

Ci sono occhi che non possono credere, allora guardano ed assorbono, poi.

Senza ripararmi dalla pioggia volevo stare in fila in mezzo a loro ed aspettare gli aiuti, provare a stare sotto la pioggia, bagnandomi i vestiti, il velo, la borsa, e saggiare le mie emozioni.

Prima tappa: Mazbud Distribuzione di combustibile per il riscaldamento domestico a [...]]]> di Bushra Al Said

missione 4 [Dal 4 all’8 Gennaio l’ABSPP (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) ha svolto una missione umanitaria in Libano per dare calore ai più bisognosi che stanno vivendo un gelido inverno]

5 gennaio 2016 Libano

Ci sono occhi che non possono credere, allora guardano ed assorbono, poi.

Senza ripararmi dalla pioggia volevo stare in fila in mezzo a loro ed aspettare gli aiuti, provare a stare sotto la pioggia, bagnandomi i vestiti, il velo, la borsa, e saggiare le mie emozioni.

Prima tappa: Mazbud

Distribuzione di combustibile per il riscaldamento domestico a 98 famiglie palestinesi.
La pioggia imbratta le strade, i marciapiedi.
Due piccoli piedi infangati nuotano dentro le ballerine della madre, forse, i pantaloni le scivolano dai piccoli fianchi.

Seconda tappa: Zarut

64 famiglie palestinesi da sfamare. Pacchi viveri 22 kg ciascuno.
Le risate dei bambini mi riempiono l’anima. Hanno i capelli arruffati, attaccati sulla fronte per la pioggia battente, ma i sorrisi illuminano i loro volti.

Terza tappa: Wediel Zein missione 1

Il magazzino sembra un caleidoscopio, tanti colori, emozioni, sembra quasi di vedere un arcobaleno tra quei materassi, hanno un colore cosí sgargiante che fa quasi male guardarli, sono un contrasto rispetto alla miseria delle folla che spinge e grida. Sono 200 i materassi, uno sopra l’altro.
Le coperte lì accanto hanno colori più tenui, sono più empatiche.

Non hanno diritti i profughi Palestinesi in Libano.
Sono 70 i mestieri che non possono svolgere e alle ambulanze, in alcuni campi profughi, non è concesso entrare. In una piccola stanza possono viverci anche 10 persone. Non c’è spazio, aria. Si fa a turno per dormire. Le donne di notte, gli uomini di giorno.


6 gennaio 2016 Libano
missione 9

La neve ai margini della strada è sporca, le cime delle montagne sono bianche, sento il freddo fin sotto la pelle. 30 famiglie ci aspettano al gelo. Ogni famiglia occupa una stanza per un totale di 30 stanze.
Ci sono alcune fessure tra le pareti d’alluminio che compongono i container abitativi, tappate con buste o vestiti. Per la tanta neve, alle volte, il tetto del container non regge e allora cede lasciando indifeso chi vi abita. Vestiti, berretti invernali, stivali, materassi, carburante, pacchi viveri, latte per i bimbi, coperte riempiono il magazzino.
Una donna stringe forte al petto una cappotto dalle piccole maniche, l’etichetta penzola dal bordo.
La felicità non ha bisogno di molto.

missione 5A volte vorrei poter impacchettare certe emozioni e tirarle fuori nel momento del bisogno.
Ma non è forse questo il compito dei ricordi?

Dei bambini a fine giornata ci cantano “Mawtini”, hanno gli occhi lucidi, le scarpe imbrattate di fango e la bocca che sa di caramelle.
Sono queste le reminiscenze che vorrei abitassero la mia mente: tanti bambini sporchi di vita che ridono.

7 gennaio 2016 Libano

Abbiamo riscontrato che molte famiglie possiedono già ciò che noi offriamo loro come coperte, materassi o cibo e che alle volte li rivendono a basso prezzo pur di comprare ciò di cui necessitano e che noi ignoriamo, così l’associazione ABSPP nel campo profughi Bourj el Barajneh ha preferito donare alle famiglie denaro affinché ognuna provveda al meglio alle proprie necessità.
Una bambina mi guarda dall’uscio di una porta, tengo del denaro tra le mani e quando le do un bacio sulla guancia lo trasferisco tra le sue, mi guarda mortificata “no riprendili” mi dice. Gli occhi lucidi, le gote rosse. Non riesco a concepire tanta umiltà in un posto tanto ingiusto.

missione 3Bourj el Barajneh, un chilometro quadrato di muri grigi bucherellati, piccole finestre, tubi d’acqua, sporcizia, ragnatele di fili elettrici, porte arrugginite e decine di migliaia di vite imprigionate.
Rivoli d’acqua bagnano gli stretti e sghembi vicoli tra i palazzi ammassati. Da lontano il campo profughi sembra solo un ammasso di case abbandonate a se stesse, ma avvicinandomi sento la radio da una delle finestre, le risate di alcune ragazze, le grida di una donna, vedo dei panni stesi ad asciugare sopra i fili elettrici, delle scarpe orfane agli angoli dei vicoli.

Ho il fiato corto, le narici cariche di odore fetido, la bocca zeppa di parole che vorrei urlare, incastonate tra i denti. Mi sento claustrofobica, chiusa in un barattolo.
Vorrei scappare, ho come un macigno sul petto, annaspo.

missione 6 Un edificio dista dall’altro solo un metro, a volte anche meno, se alzo la testa non vedo altro che tubi d’acqua gocciolanti su fili elettrici sottostanti, un ragazzo qualche mese fa ha perso la vita, folgorato. Ma non è stato portato come è di consuetudine dai suoi famigliari per l’addio, ma direttamente sepolto :”non abbiamo possibilità e capacità di portare le salme sino a casa, questi vicoli sono troppo stretti”.
Mi basta avvicinarmi un attimo per sentirli gridare. Le porte, i muri, le finestre, i panni stesi, le gocce d’acqua, i tubi, le scarpe, gli occhi delle persone che mi passano accanto gridano, ma non c’è via di scampo, nessuna via d’uscita. Il mondo da oltre 60 anni vi ha incastrati in questo chilometro quadrato e ci passerete una vita intera mentre l’umanità là fuori guarda e tace.

missione 7 Su un muro è appeso un piccolo cesto di pallacanestro, sembra nuovo, come se mai nessuna palla l’avesse attraversato. L’illusione di un futuro forse o il ricordo di un tempo sbiadito.

Appena fuori dal campo sento di poter nuovamente respirare, mi volto indietro per l’ultima volta, degli occhietti da una minuscola fessura mi osservano, li sento. Di rimando gli sussurro “Brillerai”.
Ma li sento ancora addosso, mi gridavano “Non lasciarmi in quest’aria scura, come una lucciola senza buio”.
missione 10

(Tutte le fotografie sono state realizzate dall’autrice dell’articolo)

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Lasciate che la vostra mente viaggi senza sosta sino alla fine di queste righe https://www.carmillaonline.com/2015/02/12/lasciate-che-la-vostra-mente-viaggi-senza-sosta-sino-alla-fine-di-queste-righe/ Wed, 11 Feb 2015 23:01:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20675 di Bushra Al Said

bushra 2 [Il testo e le fotografie che seguono costituiscono la testimonianza, sincera e intensa, di una giovane donna palestinese che, dal 4 all’8 Febbraio 2015, è stata in missione umanitaria presso i campi profughi siriani e palestinesi in territorio turco con la delegazione ABSPP (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) e con la collaborazione di altre due associazioni quali Interpal e Al Marhama convoy con l’obiettivo di consegnare aiuti umanitari e materiale utile per la sopravvivenza dei profughi palestinesi e siriani, condannati ad un esodo che sembra ormai non avere più fine. S. M.]

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di Bushra Al Said

bushra 2 [Il testo e le fotografie che seguono costituiscono la testimonianza, sincera e intensa, di una giovane donna palestinese che, dal 4 all’8 Febbraio 2015, è stata in missione umanitaria presso i campi profughi siriani e palestinesi in territorio turco con la delegazione ABSPP (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) e con la collaborazione di altre due associazioni quali Interpal e Al Marhama convoy con l’obiettivo di consegnare aiuti umanitari e materiale utile per la sopravvivenza dei profughi palestinesi e siriani, condannati ad un esodo che sembra ormai non avere più fine. S. M.]

Lasciate che la vostra mente viaggi senza sosta sino alla fine di queste righe.

Il primo giorno la testa mi doleva. Era un boom di emozioni, il cuore batteva all’impazzata.

Mentre gli uomini andavano avanti ed indietro tra un pacco viveri ed un altro contenenti fagioli, spaghetti, semola, zucchero, olio, sardine, dolcetti, riso, pastina e tanto altro, mentre trasportavano sacchi di carbone e coperte, io avevo il compito di immortalare attraverso una fotocamera un istante, un sorriso, un viso scarno, degli occhi spenti, spossati, la fatica nel volto di un uomo che issa un pacco viveri di 28 kg sulla spalla per sfamare la propria prole, un braccio ingessato o semplicemente di immortalare dei bambini in cui, nonostante la miseria e la decadenza attorno, lo spirito di gioco è riuscito a sopravvivere attraverso una palla che rotola tra i loro piedi scalzi.

Kilis, questo il nome della città nella quale il primo giorno abbiamo trascorso il nostro tempo.

Quando camminavo i bottoni di accensione del sorriso che portavo nelle tasche mi davano fastidio, gli scomparti del mio gilet erano stracolmi di dolcetti ed involontariamente quando il mio sguardo incontrava quello di un bimbo, la mia mano acchiappava un cioccolatino e lo porgeva a quegli occhi spenti che subito prendevano vita. Le caramelle, un ponte per la felicità.

Vi prego, prendete il mio bimbo, portatelo via con voi” Tra le braccia un creatura sorridente, indosso l’ultimo pannolino rimasto, il viso sporco. “Non beve latte da tempo, come sostituto gli do il tè. Prendilo con te, una bocca in meno da sfamare sarebbe” continua la donna, lo sguardo speranzoso.

bushra 3 Più in là dei bimbi giocano con una trottola, un filo attorcigliato attorno ad essa, i capelli arruffati, sporchi, le mani luride. Ridono come pazzi quando invano cerco di lanciare la trottola per farla rotolare attraverso l’asfalto sghembo. “Non sei capace” mi dicono, lo sguardo sardonico.

Zaatar 1 ed olio, zaatar ed olio a colazione, pranzo e cena. Non ricordo più i giorni in cui la mia bocca ha assaporato altro” sento dire dietro di me. Lo sguardo sorridente nonostante tutto.
Nella periferia di Kilis sopravvivono 29 famiglie siriane e palestinesi in tende da 9 mq ciascuna. Un unico bagno per le donne, 2 lavatrici, una “cucina”, i vestiti appesi ad asciugare su dei fili tra una tenda e l’altra.

Una bambina, nonostante non possieda nulla, mi dona un blocchetto ed un tappetino. “Mi sei entrata nel cuore, appena ti ho vista. Dal primo sguardo” mi dice, prima che io me ne vada.

Per le gravi condizioni nelle quali vivono, malnutrizione, freddo, mancanza di igiene, medicinali, una donna ha partorito una creatura morta. Ora la vedo sorridere, il ventre gonfio “Speriamo nasca vivo, questa volta” la sento dire.

Nizip e Sanliurfa sono le tappe previste per il secondo giorno. Due città a pochi chilometri di distanza dal confine siriano. Qui abbiamo il compito di sfamare 25 famiglie tra siriani e palestinesi.

Un ragazzino trasporta una sedia a rotelle. Mi guardo attorno, nessun disabile. Dopo pochi minuti il padre lo raggiunge, tra le braccia un pacco viveri e un sacco di carbone. Deposita il tutto sulla sedia e si avviano verso casa. Chissà se quando hanno comprato quella sedia a rotelle si sarebbero mai immaginati di usarla in un modo tanto improbabile.

bushra 4 Ho conosciuto bambini non solo vittime di guerra ma anche del pregiudizio più paradossale tant’è che quando chiedo a due bambini abbracciati, compagni di giochi da più di 6 mesi, le loro nazionalità ed un di loro mi risponde “palestinese”, l’altro siriano, scioglie di scatto l’abbraccio ed inizia ad insultarlo, la voce colma di disprezzo, il bambino palestinese intanto tiene lo sguardo basso, addossandosi la “colpa”. Perché anche nella miseria, anche nella condivisione di una tenda, di una coperta, anche nella povertà o nell’ingiustizia purtroppo i pregiudizi sopravvivono. Conseguenza a questo, lo status di profugo al palestinese non viene concesso, tanto meno il diritto al lavoro e l’assistenza sanitaria gratuita. Sono 63 i mestieri che una persona di nazionalità palestinese non può praticare, insomma tutti.

Il terzo giorno la nostra ultima tappa è Gaziantep, famosa per l’industria tessile ed il pistacchio. La stessa città nella quale abbiamo alloggiato durante la nostra missione umanitaria per cinque giorni, dal 4 all’8 Febbraio 2015. Alcune donne palestinesi mi hanno supplicato di dar loro un po di denaro, giusto quanto basta per fuggire. “Qui abitiamo nella miseria più totale, non abbiamo alcun diritto. I nostri figli stanno morendo di fame. Le mura tra le quali viviamo sono decadenti, l’odore di muffa è insopportabile. Preferisco vivere sotto i bombardamenti in Siria che sopravvivere qui in Turchia” mi riferisce una di loro.

bushra (1) Mi sento un busta stracciata, una lettera lasciata scritta solo per metà, un bicchiere mezzo vuoto, una bottiglia senza tappo, un ombrello aperto dimenticato sotto la pioggia scrosciante.
Mi sento incompleta. Qualcosa non c’è più, oppure è stato dimenticato o ancora lasciato volutamente lì, in Turchia, in quei campi profughi, tra quei volti scarni, gli occhi spenti e le risate dei bimbi in fondo alla via.


  1. it: timo 

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