Cadorna – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una trincea, molte prospettive: per una storia transnazionale della Grande guerra https://www.carmillaonline.com/2015/07/30/una-trincea-molte-prospettive-per-una-storia-transnazionale-della-grande-guerra/ Thu, 30 Jul 2015 21:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24134 di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale [...]]]> di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale e mondiale, se non addirittura globale, e dalla periodizzazione più ampia (la guerra combattuta 1914-1918 all’interno della più lunga crisi 1907/1911 – 1923)» (pp.14-15). Consiste piuttosto nell’approccio con cui il gruppo di storici italiani e austriaci, coordinato dai due curatori, ha affrontato il tema della Grande guerra sul fronte sud-occidentale e nelle finalità che si è proposto di conseguire.

Infatti il libro si prefigge di studiare il primo conflitto mondiale «da una prospettiva, se non inedita, certamente innovativa, e per la prima volta perseguita in maniera consapevolmente sistematica, quanto meno nelle intenzioni e nelle modalità» (p.15). La prospettiva è quella di “una storia transnazionale”, che sia in grado di abbandonare e oltrepassare gli approcci nazionali e soprattutto i nazionalismi che quegli approcci motivano e di cui si alimentano. Un punto di vista diverso non solo e non tanto perché mette a confronto voci di studiosi provenienti dalle due parti di un confine che fu un fronte della Grande guerra, ma soprattutto perché non intende tener conto dei confini nazionali, o degli steccati storiografici tradizionali, considerandoli irrilevanti e procedendo ad una ridefinizione dell’approccio e del campo di indagine affinché questi siano, insieme, italiani e austriaci, transnazionali appunto.
Ma, procedendo con ordine, per prima cosa la Grande guerra, sostiene Labanca sulla scorta della storiografia più recente, va intesa come un conflitto europeo, mondiale, globale e totale.
Europeo perché, nato da una crisi regionale (balcanica) sfociata – come è noto – nella dichiarazione di guerra di Vienna a Belgrado, si trasformò in poche settimane in una guerra europea e subito mondiale, disponendo le grandi potenze continentali immediatamente coinvolte – ad eccezione proprio dell’Austria-Ungheria – di estesissimi imperi coloniali. Ebbe così inizio «una guerra in cui i processi di globalizzazione e totalizzazione si fecero immediatamente evidenti» (p.9) e per cui è opportuno aggiungere al concetto di guerra mondiale quello di “guerra globale”, che non si limita a qualificare l’estensione quantitativa del conflitto a più continenti, ma definisce il tipo e la modalità del coinvolgimento dei paesi belligeranti, che fu appunto “totale”, riguardando ed attraversando in tutte le direzioni l’intera società, le istituzioni politiche e gli apparati economico produttivi come mai prima d’allora.
Per quel che riguarda la periodizzazione, il libro lascia intendere che la più corretta sia quella che vede il conflitto del 1914-1918 come il momento più tragico e cruento di una ben più lunga crisi che parte con la rivalità franco-tedesca per il Marocco (1905/1911) e prosegue con la crisi economica del 1907, con l’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina del 1908, con la guerra italo-turca per la Libia del 1911 e le due guerre balcaniche del 1912 e 1913, con la corsa anglo-tedesca agli armamenti navali nel Mare del Nord e che non si conclude definitivamente con il novembre del 1918, ma solo con il trattato di Losanna del 1923 tra la Turchia e le potenze dell’Intesa.
Passando dalla periodizzazione generale a quella particolare, cioè italiana, per un verso risulta più corretto considerare anche per l’Italia la datazione 1914/’18; nonostante, infatti, il conflitto sul fronte carsico-alpino-trentino inizi solo il 23 maggio del ’15, l’Italia, pur non combattendo, era stata già in precedenza profondamente coinvolta nella guerra e l’aspro scontro interno al paese tra neutralisti ed interventisti che precedette la dichiarazione di guerra lo dimostra chiaramente. Per un altro verso, però, la datazione 1915/’18, che compare nel titolo del libro, risulta più efficace nel focalizzare l’attenzione sulla guerra degli italiani e degli austriaci sul fronte sud-occidentale, che ancora oggi è il più trascurato dalle grandi ricostruzioni storiche internazionali della prima guerra mondiale, prevalentemente concentrate sul fronte franco-tedesco. Inoltre, quella tra il 1915 e il 1918 fu per l’Italia “la guerra”, non essendo le truppe italiane impegnate, se non in misura limitatissima e trascurabile, su altri fronti, a differenza dei soldati degli altri più importanti paesi belligeranti, Austria-Ungheria compresa.
Così definito e delimitato il campo d’indagine, gli autori lo affrontano – lo si diceva sopra – con un approccio transnazionale, che vuole superare gli stereotipi, i pregiudizi e le deformazioni nazionali e più spesso nazionalistiche, ma anche le contrapposizioni, create proprio nel periodo bellico e poi conservate e rafforzate per molto tempo dopo la guerra. Inoltre, l’assunzione di un’ottica transnazionale passa attraverso la consapevolezza che nelle relazioni tra stati, istituzioni, popoli diversi, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, esiste sempre una zona di scambio e di intreccio, come l’area comune tra due insiemi in parte sovrapposti e cioè un territorio che non è quello definito, diviso, circoscritto da frontiere, dogane e confini, poiché li trascende, in quanto essi risultano sostanzialmente irrilevanti per la mappatura di questa regione intermedia, su cui si esercita lo sforzo di indagine di questo volume di storia transnazionale.
Lavoro oltremodo necessario se è vero, come sostiene nelle Conclusioni l’altro curatore del volume, Oswald Überegger, che, sul piano degli studi storici, Italia e Austria vivono “schiena contro schiena” come due vicini che vicendevolmente si ignorano ed in particolare ciò accade per la storia contemporanea, preferendo gli italianisti austriaci occuparsi quasi esclusivamente dei territori italiani ex asburgici, trascurando lo studio della storia del resto del paese e privilegiando, invece, i contemporaneisti italiani lo studio della storia della Germania. La ricerca storica bilaterale o comparata, pertanto, non ha compiuto molti passi avanti negli ultimi decenni, rimanendo un interesse limitato quasi esclusivamente alle regioni di confine tra i due paesi e non andando al di là del format culturale tradizionale del convegno di esperti, poco capace di produrre effetti duraturi o interessi allargati ai non specialisti. Una reciproca ignoranza, quindi, che conserva e tramanda gli stessi stereotipi formatisi durante la guerra e che, per la parte austriaca, consistono nella lettura dell’intervento italiano a fianco dell’Intesa come un “tradimento”, nel mancato riconoscimento della vittoria italiana, che va a confluire nella leggenda dell’esercito imperial-regio “invitto sul campo” e della “pugnalata alle spalle”, distorsioni della realtà negli stessi termini prodotte e diffuse, durante e dopo la guerra, anche in Germania. Ovviamente alle storture e ai pregiudizi austriaci fanno da contraltare quelli italiani, che amplificano ed estremizzano l’astio di origine risorgimentale verso l’Austria eterno “nemico oppressore” e “carcere dei popoli” o che producono la leggenda per la quale i soldati italiani avrebbero sempre combattuto in condizioni di inferiorità numerica e di minore disponibilità di mezzi; luogo comune utile certamente per esaltare l’eroismo bellico, ma che capovolge la realtà dei fatti.
E ancora, risulterà forse quasi incomprensibile per un lettore italiano che questioni ampiamente trattate, anche nella semplice manualistica del nostro paese, come quella delle differenze interne e della complessità degli schieramenti interventista e neutralista, in termini di motivazioni e scopi dell’una o dell’altra scelta e come quella della netta prevalenza dei neutralisti, sia nella società sia tra le forze politiche, a fronte però di una scelta interventista del governo e della corona, continuino invece ad essere argomenti sostanzialmente ignorati dal lettore austriaco (il libro, infatti, è pubblicato in entrambe le lingue) e – secondo Überegger – anche da qualche storico.
Proprio nella rimozione di tali incrostazioni si esercita un approccio storico comparativo, multilaterale e transnazionale, che a seguito della convergenza, dell’intreccio e della integrazione di prospettive e sguardi diversi intende dare il via ad un lavoro che produca nuove e più complete letture di una materia che viene al contempo risagomata e ridefinita, grazie all’abbandono di confini e steccati nazionalistici, per troppo tempo rispettati e replicati.
Con questa metodologia e con questi obiettivi, si articolano e si susseguono le sei sezioni del libro, ognuna focalizzata su un aspetto particolare della Grande guerra e composta di due capitoli, uno “austriaco” ed uno “italiano”, per complessivi dodici contributi di altrettanti storici, specialisti del primo conflitto mondiale, i cui nomi vengono indicati solo nell’Indice, ma non in corrispondenza dei singoli capitoli, quasi che si intenda presentare il libro come il frutto del lavoro di un autore collettivo, di un vera e propria attività di équipe.
E così, di capitolo in capitolo, metaforicamente attraversando più volte il fronte ora in una direzione ora nell’altra, si conoscono analogie, parallelismi, divergenze o convergenze tra Italia e Austria-Ungheria riguardo alle scelte politiche e di governo, alle modalità di organizzazione e di mobilitazione bellica dell’economia, alle condizioni dei soldati, ai cambiamenti culturali e all’organizzazione della propaganda di guerra, ecc.
Per esempio, nella prima sezione (I governi e la politica) Martin Moll e Daniele Ceschin, rispettivamente per la parte austriaca e per quella italiana, affrontano il tema della deriva autoritaria e della militarizzazione della politica e dei governi verificatesi in entrambi i paesi, seppur con modalità e tempi diversi. Moll sostiene che fin dal 1914 sia stata imposta una vera e propria dittatura militare e governativa attraverso l’emanazione da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe di numerose ordinanze speciali, che attribuivano immediatamente forza di legge agli atti dell’imperatore stesso, sospendendo l’attività legislativa del Reichsrat (il Parlamento), che limitavano le libertà fondamentali dei cittadini, che sottoponevano a stretto controllo le associazioni e i partiti politici, che comprimevano i diritti sindacali, che censuravano la stampa e la pubblicistica in genere. Ma tutto questo avvenne in Cisleitania, cioè la “parte austriaca” e sotto governo viennese dell’Impero austro-ungarico dopo l’Ausgleich dualistico del 1867, non in Transleitania, cioè la “parte ungherese” dell’impero, dove il governo continuò ad operare prevalentemente su base parlamentare. Un giro di vite repressivo che colpì anche gruppi etnici considerati inaffidabili, soprattutto in zone vicine al fronte: è il caso dei ruteni della Galizia, che sospettati di essere filorussi, vennero massacrati e degli sloveni della Bassa Stiria, che, nonostante la distanza della regione dal fronte, furono sottoposti ad arresti di massa, perché accusati di essere filoserbi. Da ciò si evince che i vertici militari e governativi austriaci nutrivano una sorta di aprioristica sfiducia nei confronti di certi segmenti della popolazione, nonostante la mobilitazione nell’estate del 1914 si fosse svolta senza difficoltà anche nelle regioni con minore presenza tedesca o ungherese.
Una pregiudiziale ed ottusa sfiducia che invece in Italia era provata dallo Stato maggiore del Regio Esercito e dagli alti ufficiali di carriera soprattutto nei confronti dei soldati, dei milioni di contadini coscritti e che portò all’adozione di misure repressive terroristiche da parte di Cadorna, come nella terza sezione del libro (I soldati e i combattimenti) spiega Federico Mazzini.
Quando il 21 novembre del 1916 l’ottantasettenne Francesco Giuseppe morì, lasciando il trono al pronipote Carlo I, la stretta autoritaria venne allentata. Il nuovo imperatore inaugurò un nuovo corso in politica interna che ridusse la censura sulla stampa, che fece riprendere le attività del Parlamento il 30 maggio 1917, che rivalutò il movimento dei lavoratori, nel tentativo di trovare nella socialdemocrazia austriaca una forza politica capace di contenere le crescenti proteste operaie o gli eventuali sussulti rivoluzionari. A questo si aggiungano i tentativi di Carlo I di addivenire ad un compromesso con i nemici e di negoziare la pace. Progetti questi, secondo la lettura di Moll, che fallirono sia per la scarsa disponibilità dei nemici, sia per le forti pressioni in direzione opposta dell’alleato tedesco, dagli aiuti militari ed economici del quale dipendeva la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria. Il nuovo corso “liberale” di Carlo I, quindi, non riuscì a risolvere i gravissimi problemi da cui il paese era ormai schiacciato, né ad evitare la sconfitta e lo smembramento dell’impero.
Anche in Italia, spiega Ceschin, a seguito dell’entrata in guerra, come in generale in tutti i paesi coinvolti nel conflitto, si verificarono fenomeni analoghi a quelli austriaci di rafforzamento autoritario dell’esecutivo e parallelo indebolimento delle prerogative parlamentari, di militarizzazione sia della società sia della politica, di aumento esponenziale della repressione e del controllo sociali, il tutto preceduto dallo scontro tra interventisti e neutralisti, di cui si nutrirono le forze antisistema (liberale), che divennero capaci di condizionare le scelte politiche nazionali e che alla lunga, dopo la guerra, confluirono nel fascismo. Tuttavia, dall’integrazione delle due letture, austriaca ed italiana, degli stessi fenomeni, si deduce che in Italia fu meno forte, o forse ebbe meno successo, il tentativo di instaurare un “assolutismo bellico”, che invece si realizzò più efficacemente in Austria. Secondo Ceschin in Italia, una volta esautorato nella sostanza dei fatti il Parlamento, si formò una sorta di “diarchia imperfetta”, costituita dall’esecutivo e dallo Stato maggiore, cioè dal potere politico e dal potere militare, da Roma e Udine, sede del Comando Supremo Generale dal 1915. Una competizione tra due poteri, quindi, in cui quello militare progressivamente si impose su quello politico, come dimostra, per esempio, il fatto che dopo il successo austriaco della Strafexpedition nel 1916 il governo Salandra cadde, mentre Cadorna rimase al suo posto. L’esecutivo poi era internamente indebolito dalla volontà del ministro Sonnino di assicurare alla politica estera da lui guidata ampi spazi di autonomia o indipendenza dal resto del governo. E proprio Sonnino fu a tal punto l’uomo forte del governo durante l’intero conflitto – tanto da rimanere al suo posto di ministro degli Esteri nonostante l’avvicendarsi dei governi Salandra, Boselli, Orlando – che Ceschin parla di una sorta di “lungo governo Sonnino”. All’interno di questa “diarchia imperfetta” entrambi i poteri mostrarono velleità o “vocazioni totalitarie”, che sempre Ceschin legge come manifestazione di un fenomeno di ben più lungo corso: la repressione sociale e la militarizzazione della politica iniziate con quella “crisi di fine secolo” che proprio nel Sonnino di Torniamo allo Statuto aveva trovato uno dei principali teorici e che si sarebbero realizzate più tardi con il fascismo. Una svolta si verificò con Caporetto, sia a livello politico con la fine del governo Boselli, sia sul piano militare con l’allontanamento di Cadorna, sostituito da Diaz, ma soprattutto fu il Parlamento che provò a rientrare in possesso delle proprie prerogative e ad equilibrare il potere fino ad allora esercitato dalla diarchia formata dall’esecutivo e dallo Stato maggiore. Ma questo non comportò come conseguenza un allentamento della stretta repressiva: per quanto, come è noto, l’accorciamento della linea del fronte, dall’Isonzo ritornato sul Piave, permettesse un miglioramento delle condizioni dei soldati, per esempio con turni di licenza più frequenti, il controllo e la repressione politica e sociale contro i cosiddetti “caporettisti” e i “disfattisti” addirittura aumentarono, come testimoniano gli arresti dei socialisti massimalisti Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, allora rispettivamente segretario del PSI e direttore dell’Avanti.
Come per l’argomento oggetto della prima parte, sommariamente ricostruito, così per gli altri cinque temi che compongono il libro il confronto e l’integrazione delle analisi e delle prospettive austriaca e italiana consentono la costruzione di un quadro ampio e molto ricco, come, per fare un ultimo esempio, nel caso della interessantissima terza parte (I soldati e i combattimenti), dove Christa Hämmerle e Federico Mazzini considerano e mettono a confronto le esperienze dei soldati dell’una e dell’altra parte del fronte. Numerosi sono gli elementi comuni ai due eserciti: la mobilitazione fino all’ultimo uomo disponibile, che portò l’Austria-Ungheria a coscrivere 9 milioni di soldati da schierare sui diversi fronti e l’Italia a mobilitarne 5 milioni, da impiegare sull’unico fronte su cui combatteva; la netta prevalenza dell’elemento contadino tra i soldati semplici, così come l’importanza degli ufficiali di complemento; lo spaesamento dei contadini-soldati che provavano un forte senso di «perdita del proprio ruolo sociale e la sensazione di venir meno ai propri doveri, in particolare verso gli anziani e le donne che dovevano sostituirsi al coscritto» e, per finire, altrettanto uguali erano le orribili condizioni in cui austriaci e italiani combattevano e vivevano (o sopravvivevano) sia sul Carso e basso Isonzo sia sull’alto Isonzo e sulle Alpi. Ma da un lato – per passare alle differenze – vi era un esercito composto da undici nazionalità (tedesca, ungherese, ceca, slovacca, slovena, croata, serba, rutena, polacca, rumena e italiana), che parlavano undici lingue diverse, per quanto il tedesco rimanesse la lingua ufficiale dei comandi militari, e che professavano religioni differenti, con i cattolici in maggioranza, a cui si aggiungevano evangelici, ortodossi, mussulmani ed ebrei. Differenze queste – nazionali, linguistiche e religiose – non presenti nell’esercito italiano. Di particolare interesse il confronto tra i sistemi di disciplina e repressione interni ai due eserciti, dal quale emerge come il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza o la brutalità delle punizione fossero elementi comuni ai due schieramenti – a questo proposito gli austriaci reintrodussero pene corporali come i “ceppi”, per un massimo di sei ore o i “lacci”, per tenere legato – per esempio ad un albero – un soldato per un massimo di due ore – ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (p.175). Ed infine, ad ulteriore conferma del disprezzo e del pregiudizio con cui il governo italiano e il Comando supremo consideravano i propri soldati, non va dimenticato che ai 600 mila prigionieri italiani, la metà dei quali catturati a seguito di Caporetto, venne negato dall’Italia qualsiasi tipo di aiuto, al fine di fare passare l’idea che il prigioniero fosse da equiparare ad un disertore o ad un disfattista o ad uno “scioperante di guerra” e per addossare alla sola Austria le colpe di un trattamento disumano o vendicativo. La conseguenza di questa scelta scellerata, insieme ad altri fattori come l’alto numero di internati e le difficoltà austriache a provvedere ad essi, fu la morte di circa 100 mila soldati italiani in prigionia.

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Guerra alla guerra https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/ Wed, 19 Nov 2014 23:01:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18852 di Sandro Moiso

ammutinatiMarco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp.86, € 10,00

“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi. Moriremo per un’altra guerra più terribile di questa ma questa guerra sarà contro di voi e a tutti i pari vostri” (lettera a Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino; maggio 1915)

La retorica nazionalista della guerra per la patria non ha mai smesso di cercare di affermarsi nei media, nei peggiori libri di storia e nel discorso politico, anche a cento anni di [...]]]> di Sandro Moiso

ammutinatiMarco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp.86, € 10,00

“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi. Moriremo per un’altra guerra più terribile di questa ma questa guerra sarà contro di voi e a tutti i pari vostri” (lettera a Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino; maggio 1915)

La retorica nazionalista della guerra per la patria non ha mai smesso di cercare di affermarsi nei media, nei peggiori libri di storia e nel discorso politico, anche a cento anni di distanza dalla prima grande strage del XX secolo. Infatti, soltanto due settimane fa le massime autorità dello stato celebravano la giornata delle forze armate e della “vittoria” nella prima carneficina mondiale, con parole inneggianti all’uso dell’esercito anche nei confronti del pericolo interno costituito dall’antagonismo sociale.

Pochi giorni prima il solerte TG News 24 non si era lasciato sfuggire l’occasione di tornare a celebrare i fasti di Enrico Toti, che già aveva segnato d’orrore i libri di testo di storia della mia infanzia e gioventù con l’immagine del mutilato che si immolava davanti alle trincee nemiche lanciando verso di esse le proprie stampelle. Eppure da decenni la storiografia e l’opposizione di classe hanno dimostrato la falsità di quel discorso e della narrazione, sostanzialmente fascista, che ne era derivata negli anni successivi al conflitto.

Ben venga quindi la pubblicazione del testo di Marco Rossi, ad opera della solita meritoria Biblioteca Franco Serantini di Pisa, che rispolvera ed illumina la feroce e determinata opposizione che si sviluppò nei confronti della Prima guerra mondiale sia tra la popolazione civile che tra i militari impegnati al fronte, in Italia e nel resto d’Europa e del mondo. Opposizione che, occorre dirlo fin da subito, fu la causa principale della fine del conflitto quando giunse a creare le basi per un possibile rivolgimento sociale, basato sul modello russo dei consigli degli operai, dei soldati e dei marinai, nella stessa Germania imperiale.

Pochi ricordano, infatti, come due soli siano stati i conflitti internazionali terminati, nel corso del XX secolo, sia per le difficoltà militari che per i pericoli di una rivolta sociale incontenibile negli eserciti e all’interno di uno o più dei paesi belligeranti: il primo conflitto mondiale1 e la guerra del Viet Nam.

A dimostrazione però che tale opposizione non fu soltanto di carattere pacifista ma, soprattutto nel primo caso, di carattere politico e rivoluzionario con il rivolgimento delle armi verso i comandi militari e i profittatori di guerra e il capitale, il libro di Rossi ripercorre l’opposizione alla guerra e l’ antimilitarismo di stampo anarchico, socialista, comunista e popolare fin dai tempi della guerra di Libia del 1911 e degli anni successivi.

Marco Rossi è da tempo impegnato nella ricerca riguardante le vicende dei movimenti e dei conflitti di classe prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, con particolare attenzione ai fenomeni di resistenza armata allo Stato e al primo fascismo che accompagnarono gli anni compresi tra il 1919 e il 1922. Suoi sono infatti due testi importanti sulla storia degli arditi del popolo, pubblicati sempre dalle edizioni BFS.2

Quello che nel presente testo salta subito agli occhi è la diffusione, a livello sociale, di un’opposizione durissima al militarismo e alla guerra nei primi anni del secolo. Opposizione che affondava le sue radici nel ricordo del disastro di Adua e dei lunghi periodi di leva obbligatoria contro cui erano già insorte le plebi meridionali nel decennio successivo all’unificazione del Regno d’Italia. Opposizione cui lo stato, dai governi della Destra storica a Bava Beccaris fino a Giolitti, aveva saputo rispondere soltanto con la repressione, le cannonate, le compagnie di disciplina e il carcere militare.

L’odio per il militarismo e la guerra si erano per tanto incistati nella maggioranza degli Italiani appartenenti alle classi sociali meno agiate, fomentando un odio per gli ufficiali, i borghesi, i governanti ed il Re che ancora difficilmente i libri di storia riescono, o vogliono, rendere.
Alla vigilia dell’intervento, i rapporti concordanti dei prefetti, da nord a sud, riferivano dell’estensione di questo stato d’animo; tra essi, merita d’essere citato quello del prefetto di Teramo riguardante quella parte prevalente della popolazione locale, composta di lavoratori della terra e pastori, che concepiva «la guerra non altrimenti che un malanno a somiglianza della siccità, della carestia, della peste»” (pag.40)

Fu proprio a livello popolare che tale opposizione alla guerra si manifestò fin dalla guerra italo-turca del 1911-12 e contro le misure disciplinari che erano state prese contro i soldati insubordinati che erano giunti, talvolta, a sparare sui propri ufficiali superiori. Tanto che, proprio le proteste contro le Compagnie disciplinari e i tribunali militari, furono anche alla base dello scoppio del movimento insurrezionale della Settimana rossa del 1914 che dilagò rapidamente dalle Marche alla Romagna fino ai più importanti centri urbani (Roma, Milano, Torino ed altri).

Mentre il mondo della cultura ( da Verga alla Serao e da Capuana a Pascoli) si era dimostrato favorevole all’interventismo in Libia e, allo stesso tempo, frange consistenti del sindacalismo rivoluzionario e del Socialismo italiano avevano potuto credere in un conflitto che servisse a raddrizzare i torti tra nazioni imperialiste e “proletarie”, le condizioni effettive del conflitto e la memoria storica del proletariato avevano contribuito a rigettare la guerra, facilitando la propaganda di coloro che le si erano opposti fin dall’inizio (la Federazione giovanile socialista guidata da Amadeo Bordiga e alcuni gruppi anarchici).

Fu proprio questo anti-militarismo di massa a preoccupare i governanti e gli apparati repressivi dello Stato che, spesso, fecero ricadere la responsabilità del rifiuto della guerra esclusivamente sulle spalle della propaganda dei giovani socialisti e degli anarchici, mentre il numero delle rivolte e delle sommosse sociali e militari che ebbero luogo, soprattutto durante la prima carneficina imperialista, dimostrano che fu il diffondersi della rivolta sociale e militare a favorire la propaganda sovversiva piuttosto che il contrario.

Ciò che valeva per l’Italia valse anche a livello internazionale, tanto da far pensare che le due, seppur importanti, conferenze di Kiental e di Zimmerwald in cui si erano incontrati i socialisti europei contrari alla guerra imperialista non avrebbero potuto avere successivamente lo stesso peso politico se i soldati non avessero spontaneamente abbandonato le trincee nel 1917, dal fronte orientale a Caporetto. A dimostrazione del fatto che le rivoluzioni non si “fanno” ma, tutto al più, si dirigono…se ci sono gli uomini e le donne oppure le organizzazioni politiche in grado di farlo.

Ciò che viene posto in risalto dal testo di Rossi è che in Italia non occorse giungere al fatidico 1917 per mettere in atto, da parte proletaria, quelle che furono le azioni che avrebbero poi caratterizzato la rivoluzione russa.
Il 23 maggio 1915, il giorno antecedente l’entrata nel conflitto dello Stato italiano, il governo emenava il Regio decreto n. 674/1915 dando incarico «ai prefetti di vietare le riunioni pubbliche e gli assembramenti in un luogo pubblico», presumibilmente allarmato dai gravi disordini avvenuti a Torino il 17 maggio, a seguito dello sciopero generale contro la guerra, quando migliaia di dimostranti si erano scontrati per 48 ore con le forze dell’ordine” (pag. 61)

Ma se le rivolte e le proteste, sia al fronte che nella società, aumentarono anno dopo anno fino all’esplosione del 1917, molte altre furono anche le forme di lotta e resistenza individuale alla guerra soprattutto sotto forma di autolesionismo (tra i militari di linea) e diserzione (tra coloro che venivano chiamati alle armi oppure che già si trovavano al fronte). In ogni caso la risposta da parte dello stato fu sempre durissima e i tribunali militari comminarono pene severissime che andavano dai numerosi anni di galera alla fucilazione.

Sia sotto Cadorna che sotto Diaz (entrambi capi di stato maggiore) lo Stato italiano raggiunse così il triste primato di essere stato quello ad aver comminato il maggior numero di condanne a morte durante il conflitto,3 senza contare le numerosissime esecuzioni “sul posto” di militari ed ufficiali, che si rifiutavano di eseguire ordini suicidi, messe in atto da altri ufficiali e dai carabinieri. Questi ultimi odiatissimi poiché svolgevano la funzione di polizia militare4 e di spie infiltrate nei reparti per individuare i possibili sovversivi e sobillatori.

In tutte le occasioni di rivolta, sia per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, sia per proteggere i disertori e i renitenti alla leva, sia in quelle contro “la guerra” tout court, le donne furono sempre molto attive e in primo piano. Cosa spesso non compresa , se non addirittura osteggiata, dagli stessi dirigenti del Partito Socialista che, come Turati, vedevano in questo un “intrigo della chiesa”. E basterebbe forse questa sola cecità a dimostrare la distanza che si era ormai creata tra il Partito Socialista e le masse che avrebbe dovuto saper rappresentare e dirigere.

Gli operai scoprivano di essere militarizzati e spesso erano sottoposti essi stessi al regime giuridico militare mentre i soldati scoprivano, a loro volta, di non essere altro che operai delle trincee sacrificabili ai ferrei ingranaggi del macello imperialista e delle leggi del capitale e della finanza.
Tutto era diventato più chiaro nella coscienza popolare, come Rossi ci dimostra in pagine dense di fatti e ricche di avvenimenti.

Ma a differenza della frazione bolscevica del Partito Socialdemocratico Operaio Russo, nessuna frazione politica riuscì ad imporsi, sia all’interno che all’esterno del PSI, con parole d’ordine decisive e semplici come la “fine della guerra ad ogni costo”. E il successivo biennio rosso avrebbe costituito soltanto un pallido tentativo di realizzare ciò che, con altro spirito ed altra determinazione, avrebbe potuto essere colto durante il conflitto, così che anche la creazione del PCd’I (come lo stesso Bordiga aveva ben chiaro) giunse ormai in ritardo.

Un ultimo pregio del testo è dato dalla riscoperta di un Giacomo Matteotti finalmente liberato dal martiriologio e restituito in tutta la sua combattività di militante socialista: “Nella componente riformista, l’unica eccezione fu quella rappresentata dal deputato polesano Giacomo Matteotti che, dopo aver avversato la guerra di Libia, dal 1914 al maggio del ’15 si espresse decisamente contro l’attendismo turatiano (“mi par giusta l’insurrezione se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in guera contro l’Austria. Ma tira il vento di piccole viltà anche nel mio partito“) assumendo accenti, radicalmente antimilitaristi, che rivelano un Matteotti favorevole al ricorso alla violenza, assai diverso dall’icona che poi è stata accreditata da certa storiografia” (pag.66)

Sono, pertanto, pagine da leggere e meditare quelle del bel libro di Rossi e non soltanto per la storia passata.


  1. Si veda a questo proposito la recente pubblicazione di una conferenza tenuta ad Oxford nel 1929 dallo storico francese Elie Halévy, Perché scoppiò la prima guerra mondiale, Dellaporta Editori, Pisa-Cagliari 2014, pp.120, € 9,00 (Evidentemente la coscienza liberale dell’epoca ricordava ancora bene sia i motivi del successo della Rivoluzione bolscevica sia il pericolo che le potenze belligeranti avevano corso, tutte, sul finire del conflitto)  

  2. Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! Dall’arditismo di guerra agli arditi del popolo, BFS 1997 e 2011 e, ancora, Livorno ribelle e sovversiva, BFS 2013  

  3. Il numero esatto dei morti per diserzione nella Grande Guerra non è conosciuto. Sulla base della documentazione disponibile, l’Italia detiene il primo posto: su 4 milioni e 200 mila soldati al fronte, ne furono “giustiziati” circa 1000. Fra questi, anche i cosiddetti “decimati”, soldati estratti a sorte da reparti ritenuti “vigliacchi” e passati per le armi “per dare l’esempio”. L’esercito francese che iniziò la guerra un anno prima, nel 1914, ebbe al fronte 6 milioni di soldati, 700 i fucilati. Nell’esercito inglese furono 350, in quello tedesco una cinquantina.
    Un po’ di chiarezza sulle dimensioni e le ragioni della diserzione viene dal saggio del 2001 I disobbedienti nell’esercito italiano durante la Grande Guerra di Bruna Bianchi, docente all’Università Cà Foscari di Venezia e grande studiosa del primo conflitto modiale (reperibile sul sito della Fondazione Basso, ndr). Il reato di diserzione, scrive Bianchi, fu la forma di disobbedienza più diffusa durante il conflitto, con un “aumento progressivo del reato ben esemplificato dal numero delle condanne: da 10.272 nel primo anno di guerra si passò a 27.817 nel secondo e a 55.034 nel terzo”. Per arginare il fenomeno, si estese progressivamente la possibilità di comminare la pena di morte, fino a prevedere anche ritorsioni nei confronti dei famigliari, come la confisca dei beni e la privazione del sussidio per effetto della sola denuncia
    “, tratto da Paolo Gallori, Grande Guerra, l’Ordinario militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, La Repubblica, 6 novembre 2014  

  4. Come ricorda bene anche Ernest Hemingway nel suo Addio alle armi, proprio nelle pagine dedicate al crollo di Caporetto  

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