Byron Haskin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Alterità marziane e rifondazione dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2020/09/29/nemico-e-immaginario-alterita-marziane-e-rifondazione-dellumanita/ Tue, 29 Sep 2020 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62858 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival Lowell e di Camille Flammarion, convinto dell’esistenza di una vita extraterrestre sul pianeta rosso.

C’è […] una corrispondenza fra lo spirito morale dei costruttori della mitologia marziana, Schiaparelli, Lowell e Flammarion, e quello che sarà lo sviluppo letterario del genere ambientato in questo pianeta. Uno specchio in cui guardare la Terra, in cui proiettare i propri desideri e le proprie paure, in cui costruire un mondo alternativo per mostrare ciò che non siamo ma che potremmo essere. Rimane in questi uomini ancora o spirito positivo dell’epoca, quello che vedeva nelle grandi opere dell’ingegneria ottocentesca un primo passo verso una società migliore in cui la tecnologia sarebbe stata parte integrante della società e i sui frutti democraticamente distribuiti fra tutta la popolazione, un sogno utopico che on durerà a lungo, messo in crisi dai due conflitti mondiali, dai nuovi mezzi di distruzione offerti dall’industria bellica alle potenze nazionali e sostituito, nel suo modo di immaginarie il futuro, dalla distopia. (pp. 48-49)

Marte inizia così a essere percepito come luogo abitato da una specie tecnologicamente superiore che ha saputo utilizzare la scienza per salvarsi dall’estinzione e che dunque merita di essere esplorato, a maggior ragione nel momento in cui la Terra sembra ormai conosciuta in ogni sua parte. La volontà di entrare in contatto con gli abitanti del pianeta rosso conduce, nel passaggio tra Otto e Novecento, a svariati tentativi di inviare messaggi verso questa lontana civiltà, compreso il ricorso a pratiche paranormali all’epoca in voga; celebre è il caso della medium Hélène Smith che, con le sue visioni, contribuisce a creare un immaginario dettagliato su questo nuovo mondo.

È proprio a partire da tale periodo che Marte inizia a diviene protagonista di numerose opere narrative tra cui La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1898) di Herbert George Welles, storia capace di mostrare ai lettori inglesi dell’epoca gli effetti di una guerra tra civiltà a potenziale tecnologico decisamente asimmetrico; non è difficile leggervi una denuncia della violenza dell’imperialismo occidentale ai danni dei popoli colonizzati. Si può constatare come a partire dall’uscita di tale libro la figura dell’alieno si carichi di molteplici significati tanto da essere utilizzata per alludere allo “scontro tra razze” ottocentesco, al “pericolo comunista” durante la “guerra fredda”, ecc.

Se per qualche tempo nell’immaginario collettivo gli abitanti di Marte sono visti come creature benevole ed esotiche con cui vale la pena entrare in contatto e fraternizzare, le cose cambiano con la pubblicazione dell’opera di Wells: da quel momento prende piede l’idea che l’incontro con gli alieni avrebbe potuto essere tutt’altro che pacifico. Numerose sono le opere di fiction che, riprendendo il racconto di Wells, contaminano il genere della Future War innestandovi la questione aliena. Si diffondono anche versioni della stessa opera wellsiana che spostano l’ambientazione dall’Inghilterra agli Stati Uniti e prolungamenti delle vicende raccontate, come nel caso di Edison’s Conquest of Mars (1898) di Garrett P. Serviss che mette in scena la ripresa della vita in una Terra devastata dagli alieni e la decisione di prevenire futuri ritorni del nemico attaccandolo in anticipo direttamente “a casa sua”.

Nel romanzo di Serviss non è difficile individuare echi coloniali, celebrazione della superiorità anglosassone e orgoglio a stelle e strisce. Si tratta di elementi ricorrenti all’interno di opere – dette non a caso detto “edisonate” – che a partire dalla fine dell’Ottocento hanno come protagonista un giovane eroe-inventore, maschio, americano, che oltre a preservare se stesso dalla corruzione dei tempi, riesce a salvare la famiglia, la comunità e la nazione intera dall’invasione straniera. Su questa linea l’alieno marziano finisce facilmente per alludere al nemico di turno dell’America.1.

Le vicende che vedono il confronto militare tra alieni ed esseri umani narrate, pur con spirito diverso, da Wells e Serviss non esauriscono di certo le modalità del contatto tra le due parti; vi sono anche storie in cui il pianeta è abitato da società complesse e sfaccettate, come nel caso della saga dedicata a Marte e alla pluralità di razze che lo abitano da Edgar Rice Burroughs, iniziata nel 1912 e proseguita fino agli anni Quaranta, serie venata di nostalgia per i “vecchi tempi” popolati, oltre che da uomini coraggiosi, da donne schiave o principesse; non a caso si è parlato a tal proposito di “retroutopia antifemminista”. Più in generale lo spazio extraterrestre è tratteggiato come qualcosa di complesso e mutevole, non per forza di cosa ostile ai terrestri, anche da diverse opere di Clive Staples Lewis, legato a Tolkien e al gruppo degli Inklings.

Questa idea dello spazio come qualcosa di vivo è parte della costruzione di un mondo cristiano contrapposto alle due forze che Lewis considerava come le componenti distruttrici della società dell’epoca, rappresentate dai due personaggi [che] riassumono, esasperandole, le due facce del capitalismo multiplanetario: il capitalismo estrattivista, che vede nello spazio una fonte di nuovi guadagni, e quello scientifico, infarcito di retorica antropocentrica che vede nella conquista degli altri pianeti una maniera di garantire l’immortalità della specie umana. (p. 72).

I viaggi spaziali intrattengono una stretta relazione con l’utopia a partire dal Settecento, quando il viaggio in direzione delle luna diviene un sottogenere dell’utopia; nel momento in cui si diffonde la convinzione dell’esistenza di vita intelligente su Marte, questo pianeta assume un ruolo di primo piano nella letteratura di fantascienza.

Secondo una concezione ampiamente diffusa nell’epoca vittoriana, Marte era sia un luogo del presente che una proiezione della storia dell’umanità, un’idea determinata da una concezione evoluzionista dei processi sociali. Marte divenne quindi, a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo, un topos per la costruzione di una società immaginaria da contrapporre a quella umana, e generò quell’estraniamento che è la condizione sine qua non dell’utopia. (p. 75)

Se, come detto, il mito di Marte diviene popolare soltanto a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, occorre ricordare che già negli anni precedenti il pianeta faccia da sfondo alle vicende narrate in alcuni romanzi. Nella fiction narrativa e cinematografica Marte viene scelto in diversi casi come luogo di ambientazione tanto dal sottogenere delle “edisonate”, quanto da quello delle “robinsonate”, incentrate sulla sopravvivenza di un essere umano sul pianeta, come nel caso del film Robinson Crusoe on Mars (1964) di Byron Haskin o del recente romanzo The Martian (2011) di Andy Weir, trasformato in film da Ridley Scott nel 2015.

Tra e prime opere narrative di ambientazione marziana Porretta cita Across the Zodiac: The Story of a Wreckes Record (1880) di Percy Greg e A Plunge into Space (1890) di Robert Cromie. Diffusa in molti racconti è l’idea che le società tecnologicamente avanzate comportino un inaridimento delle passioni; esemplare in tal senso Noi di Evgenij Zamjatin, uscito nel 1924 anche se scritto alcuni anni prima.

In generale la letteratura utopica a cavallo tra Otto e Novecento riflette le preoccupazioni e le aspettative di progresso sociale del tempo. Il pianeta rosso come luogo di realizzazione di società migliori è presente anche in To Mars via the Moon: An Astronomical Story (1911) di Mark Wicks e in Unveiling Parallel: a Romance (1893) di Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant, in cui si prospetta una società paritaria per uomini e donne. In ambito cinematografico Porretta cita la pellicola danese Himmelskibet (1917) di Holger-Madsen, girata nel corso della Grande guerra con evidenti intenti pacifisti.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Persa la fiducia nella scienza come motore di miglioramento in voga agli albori della Rivoluzione industriale, l’immaginario legato allo società del futuro è ben descritto dallo scrittore e illustratore francese Albert Robida: «da una parte c’è un’immaginaria borghesia del futuro, che avrebbe affollato i cieli con le sue macchine volanti per andare all’opera, e dall’altra i moderni mezzi di distruzione che avrebbero progettato chimici, medici e farmacisti» (p. 58). Tale immaginario di distruzione futura riflette le ansie della società vittoriana timorosa di trovarsi presto coinvolta in qualche conflitto, tanto da determinare il successo del genere Future War che prende il via con La battaglia di Dorking (1871) di Geroge Tomkyn Chesney narrante di un’invasione tedesca dell’Inghilterra. Ai timori per guerre internazionali si aggiungono presto i timori per un invasione di popoli orientali capace di annientare la civiltà europea. È attorno a tali ansie generate dai fenomeni migratori di massa che si strutturano stereotipi razziali destinati a durare nel tempo. Non è difficile che le tensioni razziali entrino in gioco nella fiction catastrofista.

Il romanzo scientifico e la letteratura fantascientifica ottengono un certo successo anche in Russia ove, sull’onda della Rivoluzione il progresso tecnologico diviene uno degli elementi simbolici della nuova era socialista. Se tradizionalmente l’utopismo russo tende a focalizzarsi sulla fondazione di comunità religioso-spirituali, sostiene Porretta, con il passaggio tra Otto e Novecento l’immaginario dell’industrializzazione e del progresso tecnologico prendono piede anche nell’immaginario russo.

Tra gli esempi in cui si ricorre al pianeta rosso come luogo immaginario per produrre discorsi utopici o per rappresentare società distopiche, lo studioso fa riferimento alle due opere di Aleksandr Bogdanov La stella rossa e L’ingegner Menni, pubblicati rispettivamente nel 1908 e nel 1912, esempi di romanzo utopico in cui si ripone estrema fiducia nel progresso tecnologico e in cui viene tratteggiata una società comunista realizzata. Se il ricorso a Marte può darsi per mostrare un esempio di società di stampo comunista realizzata, il film Аėlita (1924) di Aleksandrovič Protazanov, tratto dal romanzo omonimo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, utilizza invece il pianeta rosso per mostrare una rivoluzione in corso contro la tirannia e la schiavitù.

A cavallo tra le due guerre mondiali cambia la rappresentazione di Marte; la tecnologia inizia ad essere osservata con minor entusiasmo avendo nel frattempo evidenziato il portato distruttivo. «È terminato il tempo dell’utopia ed è il suo contrario, la distopia, a diventare lo strumento più utilizzato per la descrizione del futuro» (p. 90).

Nei primi anni Cinquanta, pochi anni prima dell’avvio dell’era spaziale, se il romanzo Le sabbie di Marte (1951) di Arthur C. Clarke tenta di immaginare in maniera realistica il processo di colonizzazione del pianeta, lo scienziato tedesco Wernher von Braun, l’ideatore dei razzi V-2 per il regime nazista, dopo essersi messo al servizio dei vincitori statunitensi, lavora a un progetto finalizzato alla colonizzazione di Marte. Pur rivelatosi di impossibile realizzazione, il progetto evidenzia come, giunti a metà Novecento, l’idea di un viaggio verso Marte non riguardi più esclusivamente le fantasie narrative si scrittori e registi.

Durante la guerra fredda la fantascienza tende a focalizzarsi sulla paura dell’attacco straniero/comunista e sul pericolo di una graduale sostituzione dell’umanità con “altri esseri”, come ne Gli invasori spaziali (Invaders form Mars, 1953) di William Cameron Menzies e L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) d Don Siegel.

A resistere nel tempo, anche quando il mito marziano inizia ad affievolirsi, è la raccolta di racconti Cronache marziane di Ray Bradbury, pubblicata la prima volta nel 1950, il cui successo è però forse dovuto soprattutto «alla sua capacità di incarnare lo spirito americano, esattamente come La guerra dei mondi di Wells aveva rappresentato mezzo secolo prima l’imperialismo inglese tardo-vittoriano» (p. 103).

Sin dai primi anni Sessanta lo scrittore inglese James Graham Ballard ritiene terminata l’epoca della narrativa spaziale, tanto che preferisce indagare l’inner space dell’essere umano. Il calo di interesse per il pianeta rosso coincide con l’arrivo delle prime immagini ravvicinate di Marte a metà degli anni Sessanta, quando per qualche tempo il centro della scena viene lasciato alla Luna. Nonostante la Space Age possa dirsi davvero conclusa attorno alla metà del decenni successivo, ultimamente il pianeta rosso sembra di nuovo interessare la letteratura, il cinema e l’economia. Marte ricompare non solo nella fiction o nella docu-fiction – oltre al film The Martian (2015) di Ridley Scott, si pensi alle serie televisive Mars (2016) della National Geographic, The Mars Generation (2017) di Michael Barnett, The First (dal 2018) di Beau Willimon – ma anche in ambito economico e con esso si ripresenta anche l’idea, evidentemente legata a una “utopia della ricostruzione”, di una sua futura terrificazione.

Non si può evitare di osservare che la costruzione di questa nuova utopia marziana appare in un momento in cui la distopia esercita un dominio pressoché assoluto sull’immaginario collettivo riguardo il futuro dell’umanità. […] Tralasciando l’attrazione morbosa che la prospettiva di una società futura in rovina esercita sul pubblico, oggi la distopia incarna la sensazione di assistere a una fine del mondo al rallentatore. […] La distopia contemporanea ci connette con le nostre più recondite paure: la perdita dei capisaldi della sicurezza esistenziale, lo sfascio dello stato sociale, l’inevitabilità del disastro climatico, la fine della stabilità lavorativa, l’imporsi si un modello di società competitivo e atomizzante. Visto in questa prospettiva, abbandonare il pianeta Terra per andare su Marte non sembra poi un piano così assurdo. (p. 106)

I motivi per cui, da qualche tempo a questa parte, a più di un secolo dalla nascita del mito, il pianeta Marte è “tornato di moda” secondo Porretta sono probabilmente da ricercarsi in una sorta di desiderio di fuga dalla Terra, da una realtà percepita come inesorabilmente incamminata verso l’apocalisse. Se nell’immaginario contemporaneo il pianeta rosso può rappresentare una “utopia della ricostruzione”, un luogo da cui ripartire dopo la catastrofe terrestre, in esso è però possibile vedere anche una sorta di arca di Noè, un rifugio destinato soltanto a una piccola parte dell’umanità alle prese con l’esaurimento delle risorse vitali terrestri.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Il successo di pubblico per il filone catastrofico ha sicuramente a che fare con i timori e con le emergenze del momento, riflettendo il clima di pessimismo di un’epoca in cui non si intravede alternativa a un sistema che mostra tutti i suoi limiti. È in questo clima di sfiducia che permea le opere di fiction che il pianeta rosso torna a conquistarsi spazio portandosi dietro quell’immaginario utopico marziano sedimentatosi nel tempo a partire dall’epoca vittoriana.

A una prima Space Age (1957-1975) inaugurata dallo Sputnik-1, e una seconda età spaziale (1981-1997) identificabile con i voli dello Shuttle, si aggiunge ora l’epoca della cosiddetta New Space Economy caratterizzata dall’apertura ai privati dei servizi di trasporto di merci e persone. La corsa allo spazio non vede più fronteggiarsi Stati Uniti e Unione Sovietica; nella nuova era spaziale a confrontarsi sono alcuni colossi privati spinti da business legati alla ricerca scientifica, al turismo spaziale, allo sviluppo di tecnologie da vendere ai governi e alla possibilità di sfruttare risorse minerarie di altri pianeti. Se ad oggi, sottolinea Porretta, la “terrificazione” di Marte appare estremamente improbabile, il pianeta rosso può però essere visto come obiettivo simbolico di una narrazione volta all’espansione capitalista verso lo spazio, un’ennesima riproposizione della lotta per l’indipendenza degli stati Uniti dall’Inghilterra e della conquista del West.

La colonizzazione dello spazio, a partire da Marte, sembrerebbe avere a che fare con i timori contemporanei per un prossimo collasso mondiale: il pianeta rosso viene identificato come luogo-rifugio per una parte dell’umanità in fuga dalla catastrofe terrestre. Il confine tra utopia e distopia può essere sottile, soprattutto se si cambia il punto di vista. Si potrebbe pensare al pianeta rosso come a un luogo inospitale in cui costringere un proletariato spaziale a lavorare in condizioni di vita terrificanti o, viceversa, come rifugio per una ristretta élite multiplanetaria che da lì sovraintende il lavoro di un proletariato invece costretto a restare su una terra sempre più invivibile.

Vista dall’ottica del capitalismo espansionista, Marte appare sempre di più la possibile utopia del futuro, o meglio, la distopia di una comunità perfettamente vigilata e autosufficiente […] la realizzazione finale del sogno utopico rincorso dalla modernità: la nascita di una comunità perfettamente controllata, pianificata e lamentatone dipendente dalla tecnologia. (p. 115)

In questo recente guardare allo spazio esterno, conclude Porretta, non è difficile vedere un modo per eludere le responsabilità nei confronti della Terra o lo sviluppo inevitabile di un sistema che non può fare a meno di espandersi e occupare nuovi territori.


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. Cfr. R. Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma 2014. Di tale saggio si parla negli scritti: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, “Carmilla” e G. Toni, Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno, “Carmilla”. 

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Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2016/08/09/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-nemici-dellamerica-nemici-dellumanita/ Tue, 09 Aug 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29805 di Gioacchino Toni

cloverfield_021Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano contemporaneo incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], indagare più in generale la figura del nemico portata sugli schermi dal cinema di fantascienza americano contribuisce a ricostruire l’immaginario diffuso statunitense a proposito di ciò che, di volta in volta, viene percepita come minaccia da cui difendersi e da eliminare. Se da un lato la figura del nemico veicolata dal cinema fantascientifico viene costruita sulla percezione diffusa di ciò che è ritenuto [...]]]> di Gioacchino Toni

cloverfield_021Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano contemporaneo incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], indagare più in generale la figura del nemico portata sugli schermi dal cinema di fantascienza americano contribuisce a ricostruire l’immaginario diffuso statunitense a proposito di ciò che, di volta in volta, viene percepita come minaccia da cui difendersi e da eliminare. Se da un lato la figura del nemico veicolata dal cinema fantascientifico viene costruita sulla percezione diffusa di ciò che è ritenuto essere il nemico in un determinato momento storico, dall’altro tale rappresentazione contribuisce a rafforzare alcuni aspetti stereotipati dell’immaginario del periodo. Se spesso si tratta di confermare e rafforzare convincimenti in linea con l’establishment, in altri casi il cinema non manca di svolgere una funzione critica anche radicale.

Sono diversi i nemici individuati ed affrontati nel corso del tempo dall’America e, direttamente od indirettamente, dal suo cinema fantascientifico. Per sommi capi, a partire dal Secondo conflitto mondiale, si possono elencare: il Giappone con il suo attacco improvviso a Pearl Harbor; la Germania nazista con le sue mire espansionistiche; l’Unione Sovietica ed in generale la diffusione del comunismo; il Medioriente forte delle sue risorse petrolifere desiderate e considerate immeritate dall’Occidente. Vista la potenza di fuoco di cui il cinema a stelle e strisce dispone, la figura del nemico da esso messa in scena coincide con il nemico dell’intera umanità. Nonostante, in un modo o nell’altro, i nemici dell’America tendano ad essere presentati come i nemici dell’umanità, non mancano pellicole di science fiction in cui il nemico è lo stesso establishment statunitense con i suoi eterni vizi imperialisti e guerrafondai.

Al fine di approfondire tali questioni, risulta utile far riferimento al libro di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014). Il volume attraversa la storia del cinema di fantascienza americano alla ricerca delle modalità con cui viene presentata la figura del nemico. Certo, non ci si può attendere un’analisi esaustiva di un genere che ha prodotto centinaia di pellicole, soprattutto se si vogliono esaminare anche le opere di minor qualità. La scelta dei film operata da Giacomelli è inevitabilmente parziale ma si tratta di una buona base di partenza su cui riflettere e, volendo, l’analisi proposta dallo studioso può essere integrata da opere non citate e/o se ne possono togliere alcune che appaiono ai limiti del genere o, ancora, nulla vieta di riassemblare i film trattati secondo logiche differenti.

La prima tappa del viaggio di Giacomelli all’interno della cinematografia fantascientifica statunitense parte dagli anni ’40, quando gli schermi risultano popolati da figure di mad doctor, in linea con i timori esercitati dal progresso scientifico applicato all’ambito bellico che richia di finire nelle mani di folli megalomani. Il cinema di fantascienza, sostiene l’autore, non è riuscito a trarre grande ispirazione dal nemico giapponese, nonostante il suo rappresentare un antagonista infido che attacca di sorpresa ed alle spalle. Piuttosto, il riferimento al Giappone, nell’abito fantascientifico, si è concentrato sul tragico epilogo del conflitto bellico rappresentato della bomba atomica americana, con i suoi nefasti effetti che, oltre al massacro immediato, si proiettano sull’ambiente e sulle generazioni a venire. Il filone dei monster movie degli anni ’50 si sviluppa proprio a partire dai disastri provocati dagli esperimenti nucleari, tanto che nello stesso Giappone vengono prodotti diversi film ruotanti attorno alla figura del mostro derivato dalle mutazioni innescate dalla catastrofe atomica di Hiroshima e Nagasaki e dagli esperimenti nucleari nel Pacifico. A tal proposito non si può che citare il nipponico Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954).

Negli anni ’40 il cinema americano preferisce concentrarsi sul nemico nazista seppure, si argomenta nel saggio, in maniera indiretta. Secondo l’autore, «è possibile riscontrare un’influenza tra la fanta-scienza del Terzo Reich e la fantascienza cinematografica» (p. 26). Non è pertanto difficile cogliere il parallelismo tra la figura dello scienziato pazzo, incline ad utilizzare gli sviluppi scientifici per folli progetti personali, ed i gerarchi e medici nazisti, quando non lo stesso Führer, con i loro progetti eugenetici.

Dr_Cyclope_and_HimmlerNel saggio vengono portati tre esempi su tutti di opere degli anni ’40 in cui compaiono figure di mad doctor. Il primo, Mostro Pazzo (The Mad Monster, Sam Newfield, 1942), narra la storia di uno scienziato che, al fine di rafforzare le truppe americane nella loro guerra contro il Terzo Reich, finisce col progettare un’armata di soldati licantropi. Il film pare voler mettere in guardia gli Stati Uniti dai rischi che si corrono nell’accentrare troppo potere nelle mani di un singolo che può rivelarsi un pazzo. Il secondo film, Il Dottor Cyclops (Dr. Cyclops, Ernest B. Schoedsack – Merian C. Cooper, 1940), è un’opera in cui uno studioso, non a caso di origine nord europea e palesemente somigliante ad Heinrich Himmler, decide di miniaturizzare coloro che intralciano i suoi esperimenti, suggerendo così allo spettatore l’idea del malvagio che costruisce un regno di terrore in cui gli altri esseri umani vengono sovrastati, miniaturizzati, appunto. Nel terzo caso, La donna e il mostro (The Lady and the Monster, George Sherman, 1944), si racconta di uno scienziato che riesce a mantenere in vita il cervello degli esseri umani anche dopo la morte e di come tale esperimento finisca con lo sfuggirgli di mano visto che il cervello mantenuto in vita risulta in grado di controllare la volontà altrui. In queste tre pellicole il nemico è da ricercarsi nelle mire megalomani di qualche scienziato pazzo ma non si manca di denunciare la responsabilità di chi consente che ciò accada: la Nazione deve impedire che un singolo sia messo in condizione di determinare la rovina del Paese se non dell’umanità intera.

Terminatala la Seconda guerra mondiale si entra presto nella Guerra Fredda ed il nemico cambia dentro e fuori lo schermo. Il Blocco sovietico sostituisce il Terzo Reich ed al regime hitleriano succede il pericolo comunista. Il filone cinematografico fantascientifico non può che trarre feconda ispirazione dalla corsa allo spazio che vede l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti contendersi il cielo e, soprattutto, attraverso esso, il primato in ambito scientifico, tecnologico e militare. In un simile clima che mette a contatto l’essere umano con lo spazio, la science fiction, attraverso centinaia di romanzi e film, non può che far riferimento ad invasioni aliene e conflitti stellari. «Il nemico assume sembianze polimorfiche, si insinua nella mente, prende il controllo delle sue vittime, è invisibile, subdolo e letale. È alieno e spesso marziano, rosso come il pianeta da cui proviene e come il paese in cui vivono i russi, comunista. Il nemico può nascondersi ovunque, assumere le sembianze dell’americano modello, arrivare perfino ai vertici politici. E così la concretizzazione della paranoia dilagante è presto in atto» (p. 33).

Soprattutto a partire dai primi anni ’50, con il diffondersi del maccartismo, non solo il vero nemico dell’America è il comunista ma questo può essere chiunque. Dunque, sostiene Giacomelli, «dagli anni ’50 agli anni ’70 […] il nemico aveva una valenza ben specifica ma allo stesso tempo non possedeva una fisionomia autentica. Chiunque poteva essere il nemico e il cinema di fantascienza lo intuì ammantando gli alieni invasori che popolavano i cinema degli anni ’50 di chiare connotazioni metaforiche che richiamavano le paure dell’epoca» (pp. 33-34).
Gli alieni, proprio come i comunisti, mirano a colonizzare il pianeta mimetizzandosi con i comuni esseri umani. Il film simbolo di tale filone di alieni alla conquista della terra è indicato dal saggio in L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956). In realtà il regista e lo sceneggiatore affermano di non aver mai pensato a metafore politiche che vedessero le forze aliene identificabili con i comunisti ma resta il fatto che il film, contestualizzato all’interno della Guerra Fredda, non può che esser letto dal pubblico americano degli anni ’50 in tal modo.
Nel film A prova di errore (Fail-Safe, Sidney Lumet, 1964), rifatto per la tv nel 2000 da Stephen Frears, tratto dall’omonimo romanzo di Eugene Burdick ed Harvey Wheeler, si fa riferimento a come il malfunzionamento tecnologico determini la catastrofe nucleare. Chiaramente, suggerisce Giacomelli, il film riesce a risultare coinvolgente anche grazie al clima che si è venuto a creare con la Crisi dei missili di Cuba del 1962. Anche nel celebre lungometraggio Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove: How I Learned to Stop Worrying and love the Bomb, Stanley Kubrick, 1964) si fa riferimento all’avvio della catastrofe nucleare. In questo caso la causa non è imputabile ad un errore tecnologico ma alla follia militare supportata da un consigliere ex scienziato nazista che sogna la ripopolazione del pianeta, dopo il disastro, ad opera di una razza superiore. Attraverso il registro della commedia grottesca, il film di Kubrick, tratto dal romanzo del 1958 Allarme Rosso (Red Alert) di Peter Geroge, mostra che «il nemico è come una serpe che l’America ha covato in seno per diverso tempo» (p. 37). E questa serpe è parte integrante dell’establishment.

giacomelli_nemici_americaA proposito di film statunitensi che, rifacendosi alla corsa allo spazio delle due superpotenze, si concentrano sulla possibilità di invasioni aliene o sui pericoli provenienti da quello spazio che l’uomo intende conquistare, Giacomelli si sofferma su Uomini sulla Luna (Destination Moon, George Pal, 1950) e RXM – Destinazione Luna (Rocketship XM, Kurt Neumann, 1950). Nel primo film viene mostrata la frenesia delle superpotenze intente a giocare d’anticipo sulla rivale e come la scelta di affrettare i tempi da parte americana, determini una serie di problemi risolti soltanto grazie ad un patriottico happy end. Nel secondo lungometraggio alcuni astronauti americani, finiti per errore su Marte, hanno modo di vedere gli esiti di una guerra atomica che ha sconvolto gli abitanti del lontano pianeta e, sul finale del film, l’umanità viene esplicitamente messa in guardia circa gli esiti nefasti di un conflitto nucleare. Anche Conto alla rovescia (Countdown, Robert Altman, 1967) mostra come la fretta di anticipare gli avversari porti gli americani a mettere piede sulla luna il più presto possibile. A metà anni ’70 la competizione tra USA ed URSS nella corsa allo spazio termina con una missione in cui i due paesi collaborano. Anticipando i tempi La cortina di bambù – Il mistero di Saturno (The Bamboo Saucer, Frank Telford, 1968) narra di una collaborazione spaziale tra russi ed americani contro la Cina. Non sfugge come il comune nemico cinese proiettato nello spazio dagli schermi cinematografici coincida con l’epoca della Rivoluzione culturale di Mao.

Affinché termini la Guerra Fredda nella realtà occorre attendere la finire degli anni ’80, nel frattempo, ricorda Giacomelli, la fantascienza americana produce film che non mancano di palesare nuove e vecchie paure. Ad esempio, Capricorn One (id., Peter Hyams, 1978) è un film che narra di un finto sbarco americano su Marte traendo linfa dal diffondersi negli anni ’70 di teorie cospirazioniste che manifestano dubbi anche a proposito dell’autenticità dello sbarco sulla luna di Apollo 11. Dopotutto non è passato molto tempo dallo svelamento delle menzogne relative al Watergate ed alla guerra del Vietnam. Il nemico tende, dunque, ad essere identificato nel Governo stesso e nelle agenzie che cospirano alle spalle dei cittadini. Il saggio cita anche The Day After – Il giorno dopo (The Day After, Nicholas Meyer, 1983) come esempio di film che continua a narrare del confronto militare-nucleare tra le due superpotenze. Invece, in Essi Vivono (They Live, John Carpenter, 1988) la pura deriva dalla possibilità di controllare la volontà altrui ed in questo caso la minaccia, suggerisce l’autore, anziché comunista appare essere borghese e capitalista.

Chiusa la parentesi della Guerra Fredda, il nuovo nemico, dentro e fuori dagli schermi, diventa il mondo mediorientale: un antagonista che palesa una cultura, una religione ed usanze difficilmente conciliabili con l’Occidente. Ovviamente la contrapposizione dell’America con il nemico mediorientale inizia ben da prima dell’abbattimento delle Twin Towers, comunque la Prima Guerra del Golfo si ha ad inizio anni ’90 ed un decennio dopo è la volta della Seconda e, «come accaduto nei precedenti conflitti che hanno delineato la fisionomia del nemico statunitense, è l’intero Occidente ad entrare in prima persona nella questione. Il terrorista diventa l’incubo post 2000 per eccellenza […] Bin Laden è il moderno ba-bau, immortale raffigurazione del terrore capace di spazzare via i simboli del potere occidentale, ossessione di una nazione» (p. 43). Il nemico è il mediorientale, non importa di quale nazionalità, egli rappresenta una minaccia senza volto, un nemico pronto ad immolarsi senza preavviso, un po’ come i vecchi kamikaze giapponesi.

In RoboCop (id., José Padilha, 2014), reboot realizzato dal regista brasiliano del film degli anni ’80 di Paul Verhoeven, «l’intento di attualizzazione della vicenda che da un immaginario futuristico di fine anni ’80 avrebbe dovuto legarsi a quello post 2000, tende a identificare immediatamente il mediorientale come minaccia per gli Stati Uniti, da combattere e soprattutto da prevenire. […] Il film di Padilha si muove poi su altri terreni che interessano, oltre al conflitto politico interno, anche le questioni di carattere etico sull’utilizzo della tecnologia applicata alla medicina, ma [l’incipit] già riesce ad inquadrare efficacemente la preoccupazione tutta americana verso un estraneo imprevedibile e l’azione diretta per sabotarlo e prevenire la minaccia che in passato ha colpito il cuore degli Stati Uniti» (pp. 44-45).

Cloverfield (id., Matt Reeves, 2008), film che riprende le modalità del mockumentary, è indicato dallo studioso come apologo sulle paure americane post 11 settembre: «Cloverfiled è proprio il manifesto più esplicito di un malessere comune tra i cittadini di New York (e on solo), che sotto all’aspetto del film di genere nasconde il più efficace e spaventoso specchio della tragedia avvenuta e sempre pronta a ripetersi» (pp. 46-47). Nel film il mostro che semina distruzione nelle strade di New York è ripreso dal “cineocchio” di un ragazzo qualsiasi che si ritrova casualmente a documentare gli avvenimenti. «Una sorta di temerarietà da testimone (audio)visivo che nell’epoca di You Tube e dei videofonini si inocula nel più impensabile individuo, spinto dalla voglia di documentare, di poter dire ad amici ed estranei “io c’ero” […] nel post 11 settembre Cloverfield utilizza a suo vantaggio la paura per gli attentati terroristici e ne ricrea il caratteristico clima di terrore trasfigurandolo in una nuova creatura che si va ad aggiungere al nutrito bestiario di mostri di fantascienza che da oltre mezzo secolo spaventa e diverte il pubblico» (p. 47)

Se la paura per il gesto terroristico, per l’azione improvvisa del nemico, accomuna diverse produzioni di science fiction catastrofica contemporanea, nel saggio si ricorda come non siano mancati cenni ad attentati terroristici nemmeno nel cinema di fantascienza del passato, come, ad esempio, avviene nel film La guerra dei mondi (War of the Worlds, Steven Spielberg, 2005), attualizzazione di inizio millennio del romanzo di H.G. Wells del 1898. L’invasione aliena ai danni dell’umanità narrata dal romanzo ben si presta ad attualizzazioni: «il marziano è il diverso con intenti ostili, colui che proviene dall’altra parte del confine e invade il nostro territorio con potenza distruttiva. Ogni epoca ha la sua guerra e ogni guerra ha, secondo il punto di vista, un nemico ostile e guerrafondaio» (p. 47). Giacomelli ricorda come il romanzo di Wells abbia dato «profetica forma al nemico giapponese nel celebre sceneggiato radio curato da Orson Welles nel 1938 ed è stato adattato con efficacia nel 1953 nella riduzione cinematografica di Byron Haskin… Nel film di Haskin il nemico venuto da Marte poteva essere letto come la metafora del nemico comunista […] e infatti si inseriva nel momento clou della Guerra Fredda» (pp. 47-48). Se nel film di Haskin dei primi anni ’50, in fin dei conti, sembra essere la fede cristiana a «veicolare l’abbattimento delle navette spaziali aliene», nel film di Spilberg del 2005 sembra , piuttosto, essere la fede nella famiglia a determinare la sconfitta aliena.

Invasion_body_Snatchers_1956Anche il già citato L’invasione degli ultracorpi (1956), tratto dal romanzo di Jack Finney, viene indicato dal libro come opera-simbolo della “paranoia da Guerra Fredda”. Il romanzo di Finney è fonte d’ispirazione anche per Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) che, secondo Giacomelli, rappresenta la versione più pessimistica tra le opere cinematografiche ispirate all’opera narrativa. Nei primi anni ’90 i pericolosi baccelli alieni tornano nel film Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993) ed, in questo caso, non è difficile scorgere l’eco della Guerra del Golfo. Nel film di Ferrara l’invasione nemica prende avvio proprio in una base militare americana, il male si propaga a partire da quel mondo militare che dovrebbe difendere il Paese dagli attacchi nemici. I militari «sono i primi a cadere sotto il fuoco omologante dei parassiti vegetali di provenienza extraterrestre, che trovano nel mondo militare un ambiente molto fertile ai loro intenti di massificazione. La mente militare, infatti, detta la disciplina e la disgregazione dell’ego di fronte ai dettami di chi è gerarchicamente superiore, un’ideologia che svuota le coscienze così come gli invasori alieni fanno con le vittime umane, creando così un parallelismo che sembra minare in special modo i sistemi di difesa dell’uomo, rendendolo inerte di fronte all’attacco nemico» (p. 49). Tutto ciò ci induce a prendere atto che, in realtà, il nemico siamo noi.

Nella serie televisiva Invasion (ideata da Shaun Cassidy, 2005-2006), all’interno di uno scenario di provincia semi-rurale scosso dai grandi uragani che hanno sconvolto gli Stati Uniti, si torna a trattare la clonazione e l’assenza di emozioni delle copie che sostituiscono gli esseri umani. In questo caso viene narrata una società in cui non ci si può più fidare di nessuno e in cui non ci si riconosce più nemmeno all’interno della famiglia. Nel film Invasion (The Invasion, Oliver Hirschbiegel, 2007), ennesima produzione cinematografica che si rifà al romanzo di Finney, si torna ad ambientazioni metropolitane che, secondo Giacomelli, evidenziano un parallelismo tra il loro presentarsi lugubri e l’assenza di emotività che contraddistingue i replicanti alieni. In questo caso «sono gli stessi corpi umani a trasformarsi in armi per il nemico, come se l’uomo fosse già predisposto al cambiamento, all’invasione. […] Il male è già sedimentato nell’essere umano, ha bisogno solo di una spinta esterna che possa farlo emergere e Invasion ci lascia il dubbio che il cambiamento in atto non sia proprio un male, ma semplicemente una ulteriore fase del processo evolutivo e adattativo dell’essere umano» (p. 51).

battle-los-angelesIn alcuni film gli extraterrestri-invasori rimandano esplicitamente al nemico mediorientale ed a tal proposito il saggio si sofferma su Skyline (id., Colin Strause, Greg Strause, 2010), che sin dal titolo rinvia all’attacco al WTC, e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2011), ove i marines si trovano a combattere strada per strada «contro una minaccia aliena che mira all’estinzione dell’umanità, anzi dell’americanità, vista l’enfasi patriottica che la vicenda tende a sollevare soprattutto con l’esaltazione della figura del soldato a stelle e strisce» (p. 51). In Dead Air (id., Corbin Bernsen, 2009) il virus letale che deve distruggere l’America è propagato da un gruppo di terroristi esplicitamente mediorientali. In questo caso, suggerisce il saggio, il film, nel far ricorso a tutti gli stereotipi relativi al terrorista arabo, scadendo nel becero razzismo, ha almeno il merito di esplicitare la xenofobia dilagante dell’America di Bush Jr. Il film riprende la tematica del contagio ed in questo caso si tratta di un virus diffuso nell’aria dai terroristi mediorientali che provoca comportamenti aggressivi ed antropofagi. Nonostante il piano criminale non si attui totalmente, il Paese, una volta che si è messo in moto il contagio, pare ormai destinato a dover continuare a fare i conti con rabbiosi, distruttivi e dinamici morti viventi. «Per l’opinione pubblica le azioni terroristiche provenienti dal Medio Oriente sono la paura reale di inizio secolo, aggressori che distruggono le certezze e la quotidianità di ogni individuo, di ogni onesto lavoratore colpito a morte nelle sua stessa abitazione o sul luogo di lavoro […] Si tratta di nemici degli Stati Uniti e, di riflesso, dell’intero Occidente» (pp. 53-54).

Giacomelli, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America, si concentra sulle figure dell’Umano e dell’Alieno così come vengono presentate dalla science fiction statunitense. Entrambe le figure vengono analizzate come figure di nemico: l’essere umano come minaccia per se stesso e per il pianeta, come artefice del male, causa e conseguenza dei disastri e l’Alieno come figura su cui proiettare, quasi sempre, le caratteristiche peggiori dell’umanità stessa. Nel nostro prossimo scritto ci soffermeremo su tali aspetti analizzati dall’autore nella seconda parte del saggio.

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