Bruno Vespa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 80 https://www.carmillaonline.com/2018/04/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-80/ Sun, 15 Apr 2018 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45048 di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000 “Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film [...]]]> di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000
“Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film che sembra rinunciare programmaticamente alla dignità? Allora procedo con una fredda elencazione dei fatti: si parte con la giovane Michelle Hunzinker (sic, nei titoli di testa) che inorridita raccoglie un coltello insanguinato. È stata testimone di un assassinio e fugge col coltello tra le mani, il Nobel. Un giornalista televisivo in preda ad anacoluti (immagino per adesione realistica) consegna all’opinione pubblica la certezza che lei sia colpevole (di nuovo per amor di verità, se uno ricorda il Bruno Vespa vintage e tanti colleghi che sono seguiti). Lei fugge in macchina, i cattivi la incrociano su una strada di campagna e la cacciano giù da un dirupo. Esplosione e miracolo del buon pastore coi pecuri che la raccoglie. Poi conosciamo il personaggio di Alberto Tomba, Alex, agente del CIS: Albertone è attorialmente cane con pedigree stratosferico e mettiamoci anche anni di prese per il culo della Gialappa’s Band e di dichiarazioni insensate ai cronisti sportivi ed è fatta: la credibilità è nulla e la sensazione è di vedere uno Z Movie, tanto più che la regia alterna mestiere a vaccate imbarazzanti, zoomate missilistiche e altri attori senza senso (Ramona Badescu, porella).
E poi i dialoghi, con il sedicente infelice attore costretto a recitare (…) alla fidanzata versi seduttivi come “Giuro che stasera sono lì a stropicciarti le piume”. Ci mettiamo mezz’ora per arrivare al cuore della vicenda: Alex deve accompagnare la Hunziker, sospettata, a incontrare il giudice, ma lo mandano da solo. Uhm, sospetto! Fughe, scontri degni di una lite tra alunni ripetenti di terza elementare e il rapporto tra carabiniere e protetta che cresce con una profondità emotiva degna di un episodio di Peppa Pig. La coppia regala alla grande e devo dire che ho cominciato a tenere per loro, perché i delinquenti ai quali sfuggire non sono i tizi perversi che vogliono far secca lei, no, lo sono i produttori di questa incommensurabile vaccata. Che posso pure immaginare l’imbarazzo quando avranno visto per la prima volta il risultato della dissennata operazione: doveva essere una fiction Mediaset, poi s’è deciso per un’uscita estiva, nascosta, sinché il passaggio televisivo ha sancito la natura stracult della porcata in questione. Si arriva stancamente fino al finale e io metto da parte dialoghi stralunati come: “Mi hai fatto puntare la pistola contro una suora!” (e cosa volevi? Toccarti i coglioni?); oppure: “Mi devi rintracciare una targa: ti faccio lo spelling” (lo spelling?). Tomba è un patatone con l’espressività propria di chi aspetta un’autopsia e la Hunziker al confronto sembra Meryl Streep e l’apice si raggiunge quando i due, ammanettati, devono procedere a una pisciata boschiva. Uno pensa possa bastare la trafila di castronerie sinché non irrompe nella trama anche il vero cattivo, Orso Maria Guerrini, il baffo della Birra Moretti!, con una voce bassissima da vero attore di teatro, ma capitato in una recita dell’asilo. Insomma: fa tutto schifo e tenerezza e ho assistito a incontri di rubamazzo con più azione. Il finale è una specie di parodia di Ufficiale e gentiluomo e la parole FINE è l’unico momento riuscito di un film firmato da quel Damiano Damiani già glorioso regista di cinema impegnato. Che poi uno dice l’impegno… ma lo vedi i danni che fa? (Dvd; 6/6/12)

936 – Rocky III di Sylvester Stallone, USA 1982
L’idea era goderselo oscenamente con l’avanzamento veloce, scegliendo le scene migliori e tagliando la fuffa, ma non c’è stato niente da fare: i film di Rocky sono ineludibili, costruiti con una sapienza spettacolare infallibile, con tutti i meccanismi del Mito che girano a mille. E mi sono arreso praticamente subito: Rocky è uomo della strada, ignorante, rozzo, ma con un sogno, un pizzico di talento, forza di volontà e una squadra di amici e familiari che lotta per lo stesso obiettivo. Il problema è quando si è raggiunto il top della carriera: soldi, successo e lusinghe ottenebrano il già non lucidissimo fronte occipitale del pugile che guadagna sempre più, si allena di meno e diventa un po’ borghese, perdendo l’occhio della tigre. La noia, insomma, esistenziale e pure a livello di coppia, anche perché Adriana è appetitosa come un passato di verdure. Mettiamoci che l’entourage è completato da quel buzzurro di suo fratello Paulie, pseudo manager, e dall’allenatore Mickey, con l’apparecchio acustico e pronto per la fossa. Un incontro di wrestling con Hulk Hogan (!) rischia di finire male e il Balboa e i suoi si guardano negli occhi: hanno tutti la panza piena e lui è stufo di pigliare legnate come un somaro. Ma al momento dell’annuncio del ritiro davanti a una statua celebrativa si fa avanti Clubber Lang (Mr.T, quello dell’A-Team), lingua lunga, cresta e bicipite potente. Sfida Rocky e lo intorta insultandogli la moglie, tranello in cui lui casca come un tontolone. Come da manuale di sceneggiatura (di film un po’ di merda, in effetti) si riparte, solo che Rocky si allena davanti alla stampa con l’orchestra che suona e annesse manifestazioni circensi mentre l’altro, il negro cattivo che parla a mitraglietta, suda sette camicie al riparo dai flash. E quando si arriva all’incontro Clubber tira uno spintone al vecchio Mickey: Rocky non vuole combattere perché ne è turbato, stellassa, e il suo avversario ha messo nell’equazione – di nuovo, come con Adriana – qualcosa di estraneo allo sport. E non solo: prima del match Mr.T trova il modo di insultare anche l’elegante Apollo Creed, nero ripulito e commentatore tivù, cioè per lo spettatore medio negro accettabile. E a metà secondo round Rocky è già knock out, mentre il vecchiaccio sta morendo, cosa che farà puntualmente credendo che il suo protetto abbia vinto. Bene, siamo al punto di non ritorno: Balboa, sconfitto, si deve confrontare col suo monumento, metaforicamente e realmente, risultando in effetti meno espressivo del bronzeo gemello, eretto in cima a quella famosa scalinata. E come si fa? Apollo Creed vuole riportarlo sul ring, stavolta ci si allena the old way, in cantine puzzolenti, correndo sulla spiaggia, danzando sul cemento, al suono supercafone dei Survivor. Poi c’è il momento di crisi ed è Adriana che dà la svegliata e allora riparte il tema di Rocky, evvai di allenamenti, corse, sudore, danze, con Apollo che passa un po’ di negritudine e senso del ritmo a questa specie di blocco di travertino che esibisce una canotta veramente gayissima. Aggiungo che Apollo gli regala i suoi mutandoni: del resto, tra particolari dei muscoli guizzanti, abbracci intensi e praticamente nessun accenno etero, qui la bromance si trasforma in un amore omo che verrà spezzato solo da Ivan Drago, eh. Si arriva al match e Rocky adotta la strategia di Muhammad Ali in Zaire e fa stancare Clubber Lang che lo pesta come un mastro ferraio ed è provocato da parole grosse come “Mia madre me le dava più forte!”.
È una tattica curiosa, un po’ come pigliare a testate un muro e chiedergli: “Sei stanco, adesso?”. E quello lì a un certo punto è stanco sì e a Rocky torna l’eye of the tiger e lo tarella di brutto e vince. Yo, Adrian! I did it! E poi, a concludere la vera storia d’amore del film – a questo punto rivoluzionario perlomeno dal punto di vista sessuale – Rocky e Apollo sono a darsele di santa ragione in cantina, quindi di nascosto perché non è ancora epoca di coming out, ma sudati, felici e vivi. E io cosa posso dire? Che mi aspettavo anche peggio, perché la regia è ottusa ma essenziale, asinina con i primi piani insistiti ma anche movimentata quando la tensione lo esige, e in generale montaggio e recitazione sono inappuntabili. Okay, e Stallone? Ma Stallone non deve recitare bene, perché Rocky è così, un babbo di minchia, bloccato neuronalmente: gli devi leggere negli occhi la decrittazione del pensiero, devi abbassarlo al nostro livello di spettatore del Midwest, se no non funziona! E detto questo, c’è ritmo, drammaturgia e qualche (forse inconscio) spunto per una lettura erotica interessante. E poi, cosa posso dire? Io ormai voglio bene a tutti i film: brutti, belli, scarrafoni… il mio cuore ha più stanze di un bordello (cit.). Sarà l’età, il rincoglionimento, la malinconia, la depressione – che ne so! – ma di fronte a un film (un filmaccio) degli anni Ottanta, ritrovo quell’atmosfera, quel tempo, quelle sensazioni. Sto scrivendo un romanzo ambientato nel 1986 e rimpiango quel mondo senza telefoni, internet e social: cerco quel sapore come un cefalo merdaiolo perché in fondo quello è il cinema con cui sono cresciuto, che mi ha formato, informato, deformato e in cui mi ritrovo. Ora forse questo è il film sbagliato da prendere a esempio, perché è di una semplicità imbarazzante, ma oggi ricerco la linearità narrativa quasi elementare di certo cinema del passato e non sopporto più la ricchezza odierna, dove forma, effetti e innovazione nascondono il narrato, quasi lo soffocano. Certo, la mancanza di tempo e quella faccenda di una volpe con l’uva devono avere il loro peso, ma è così e non so che farci. (Dvd; 3/6/12)

938 – L’eccezionale Fawlty Towers di John Howard Davies, Gran Bretagna 1975
Ne avevo un pallido ricordo di quando ero a Londra, nel 1988, e avevo assistito con religiosa devozione a un’ennesima replica sulla BBC. John Cleese, lo spilungone dei Monty Python, è Basil Fawlty, un ambizioso quanto megalomane – e instabile mentalmente – direttore d’albergo: deve gestire le 22 stanze della umile pensioncina di grandi pretese Fawlty Towers, sulle costi inglesi, in un posto freddo, umido e dove non passa mai un cane. Lo affianca la stolida moglie Sybil, il cameriere pasticcione Manuel (uno spagnolo che non parla inglese) e Polly, una giovane cameriera sveglia. In 6 episodi da mezz’ora Cleese e compagnia disintegrano con ferocia inarrestabile e in un’isteria sublime tutte le vecchie buone maniere inglesi: un Little Britain anni Settanta acre e assolutamente irresistibile. La serie purtroppo brevissima si conclude con un finale grandioso, con la commozione cerebrale del personaggio principale e gaffe a ripetizione con degli ospiti tedeschi, a cui si ricordano tutte le malefatte della Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che oggi – in epoca di correttezza politica – si farebbe fatica non solo a mettere in scena ma anche a concepire, con una censura preventiva su tutto quanto sia nazismo. La seconda serie (di Bob Spiers, 1979) l’abbiamo vista in tempi lunghissimi ed è meno riuscita, esasperata ma senza finezze, con vicende che nascono da equivoci verbali e si trascinano fino a che non va puntualmente tutto in vacca. Meno brillante, insomma, ma il tutto è una boccata d’aria fresca e di gas esilarante che si può recuperare grazie alla generosità della Rete. Approfittatene! (Giugno e luglio 2012)

940 – Mani sulle palle per The Day After di Nicholas Meyer, USA 1983
Questo l’ho visto al cinema Orfeo di Genova nel febbraio 1984, in via XX Settembre, sala che ormai da chissà quanto tempo ha chiuso… Era un film televisivo che aveva fatto parlare tutto il mondo ed era andato in onda dopo l’abbattimento di un aereo di linea sudcoreano da parte dei sovietici e, due mesi dopo, l’invasione USA di Grenada. Tutte cose che nell’equilibrio del terrore erano sollecitazioni per nulla tranquillizzanti; il mondo era diviso in due e anche se ti dicevi che non sarebbe mai successo nulla, ogni tanto ti si stringeva il culo solo a pensarci: e se uno si sbaglia e schiaccia il pulsante sbagliato? E se uno perde la testa? E soprattutto: oggi, quella marea di missili dove sono finiti? Io non ci credo mica che abbiano smantellato tutto, figurati, e non dormo all’idea che Putin abbia in mano questo arsenale. O che l’abbia avuto quello scemo di Bush. No, scusate: quegli scemi dei Bush. Vabbeh: per cui The Day After è un pezzo di storia che non sappiamo realmente se non possa tornare attuale. Il film è decisamente iettatorio, ossessivo, lugubre e rozzamente efficace. La fotografia bruttina, gli effetti così cosà (tremendi quelli con le persone che diventano radiografie!) e la musica orrendissima accompagnano una narrazione opportunamente frammentata in tante microstorie: i destini individuali di alcuni bifolchi di Lawrence, Kansas, che si trovano a vivere presso una base missilistica, ovvio obiettivo sensibile. Il fatto è che in DDR c’è casino, rivolte, scaramucce nei pressi del Muro e poi scontri tra truppe della NATO e del Patto di Varsavia. Finisce che a qualcuno – non è chiaro a chi per primo – scappi la mano e comincino a volare missili e al 55° minuto di proiezione Kansas City e dintorni conoscono gli effetti della tecnologia sovietica quando tre piccanti funghetti nucleari si alzano nel cielo. C’è la coppietta di contadinotti con figli che si fa una (ultima) trombatina incurante delle notizie che arrivano dal televisore, prima di essere tutti spazzati dal vento nucleare. C’è il soldato nero che vuole tornare dalla moglie ma strada facendo perde i pezzi e finisce in una fossa comune. E poi c’è il medico di buona famiglia (Jason Robards) che si danna invano per portare cure a tutti, fino a soccombere. Insomma: non c’è un cazzo di lieta fine e il giorno dopo è quello che viene a film concluso, con la terra rasa al suolo. Il film è angosciante ma decisamente antiretorico ed è girato in modo asciutto, con un percorso agonico senza speranza (e in realtà abbastanza ottimistico, secondo gli esperti). Però, al di là della confezione televisiva cheap, l’organizzazione del racconto non è male: la crescita del timore, il sentirsi totalmente succubi, senza difese, senza futuro, senza speranze, senza notizie. Nel tempo è diventato un film da considerarsi brutto, ma invece ha una sua forza di verità e dice cose sgradevoli a tutto campo (le esecuzioni degli sciacalli, l’egoismo e la violenza che esplodono di fronte alla tragedia). Reagan ne fu impressionato, anima sensibile. (Dvd; 3/6/12)

941 – Coraggio… fatti ammazzare di Clint Eastwood, USA 1983
Ravanando negli archivi della memoria e nei meandri della Rete mi ricapita tra le mani questo Callaghan reaganiano di cui avevo vaghi ricordi, se non per la famosa frase “Go ahead, make my day”, cioè “Va’ avanti, dà un senso alla mia giornata”. E decido di dargli retta, ritrovando un film rozzo come il suo protagonista ma efficace e divertente nella sua semplicistica bruttezza. Sì, perché la trama è perlomeno discutibile nella sua implausibilità e la messa in scena talvolta stupisce per sciatteria, però… Dunque, io con Clint ho un rapporto difficile: lo amo per i film di Leone, per Bird, per Madison County, per il magnifico e delirante Lo straniero senza nome e anche perché gli hanno cioncato una gamba ne La notte brava del Soldato Jonathan, ma di fronte a certe prese di posizione politiche che in qualche modo finiscono nei suoi film più sbirreschi, boh, vacillo. Diciamo che qui siamo – nell’arco parlamentare del suo operato cinematografico – molto a destra. Callaghan lo conosciamo già e qualunque cosa faccia, ci sono dei morti (come gli dirà un collega: “La gente quando ti frequenta ha il brutto vizio di morire”). Qui Harry ha 53 anni, è taciturno e parla solo per cavernose sentenze che più scritte non si può (in effetti tutte abbastanza memorabili), tiene le braccia pendule come il gorilla di Filo da torcere e con questa pellicola – di enorme successo – Clint incassò una barcata di dollaroni. Il film inizia, il protagonista va a prendersi il caffè e fa secchi tre rapinatori su quattro che hanno la sfiga di aver scelto quel diner lì da rapinare. Poi va a bluffare da un boss mafioso e lo fa schiattare d’infarto. I superiori gli dicono di darsi una calmata e lui decide di fare serata tranquilla sennonché i mafiosi provano a vendicarsi ma gli dice male e ne fa secchi altri tre. La sera dopo è un trio di stronzetti (tra cui uno mandato libero da una giudice troppo cavillosa) che prova ad arrostirlo con due molotov, ma lui gliene rende con estrema cortesia una e l’ameno trio finisce nella baia di San Francisco. Oh, ne fa secchi a mazzi di tre per volta: siamo al 43° minuto e ne ha già seppelliti dieci. Intanto una donna dalla memoria dolorosa (Sondra Locke, allora moglie di Clint e affascinante e disinvolta come un manichino) va vendicandosi della ghenga che dieci anni prima ha violentato lei e la sorella. Incrocia Callaghan nella cittadina (immaginaria) di San Paulo dove i superiori l’hanno mandato e da uno sguardo i due si intendono subito. Non sto a dirvi come va a finire perché c’è uno sviluppo ulteriormente violento e delirante che può dare qualche soddisfazione, specialmente con la scena finale che si conclude in groppa a un unicorno (…). Sappiate solo che Clint, con gli occhi spiritati e un virilissimo pistolone, perderà progressivamente la pazienza, specie dopo che gli hanno sgozzato l’amico nero e azzoppato il cane (scoreggione, giuro). (Dvd; 4/6/12)
P.s. del 2018: tre mesi dopo questa mia visione Eastwood si era surrealmente rivolto a una sedia vuota alla convention repubblicana, perculando Barack Obama e sostenendo Mitt Romney. Due anni fa ha ammesso una sorta di pentimento per il gesto, salvo poi informarci che lui, piuttosto che Hillary presidentessa, sosteneva Trump. Ecco.

943 – Il delirante Fantastica Moana di Riccardo Schicchi, Italia 1987
Moana Pozzi: l’angelo, la puttana, la santa, boh. E chi lo sa chi era, realmente? Specie dopo i misteri della morte e la beatificazione come perfetta icona cult. Io ricordo più l’imitazione di Sabina Guzzanti che le sue apparizioni tivù o le interpretazioni cinematografiche. Per cui, da vero studioso, mi procuro il film in pellicola che la lanciò, diretto dal visionario Riccardo Schicchi. Fantastica Moana è – a scanso di equivoci – una micidiale schifezza che fa quasi tenerezza per il tentativo, impossibilitato dalla mancanza di mezzi intellettuali e materiali, di costruire una fantasia erotica con uno sviluppo narrativo coerente. Anzi, se vogliamo, è un porno sbagliato, di cui si potrebbe sentenziare TROPPA TRAMA, perché la vicenda vede un ossessionato erotomane, Gabriel Pontello (già protagonista di fotoromanzi hard e idolo della generazione precedente la mia), che è ossessionato da Moana e s’ingroppa qualunque femmina gli si pari davanti – anche violentemente -, sognando di possedere la steatopigia pornodiva platinée. Il racconto è ambientato in un borgo che puzza di povertà, con esterni rurali squallidissimi e scene urbane che ci rimandano a un’Italia provinciale anni Ottanta imbarazzante. Lui ha una faccia da scemo rara ed è peloso come un orsetto. Lei è altera e bellissima e per qualche misteriosa trasmissione del pensiero viene turbata ed eccitata dalle fantasie del protagonista maschile. Le gesta del Pontello sono patrimonio comune di Moana, del suo agente e dei suoi compari: come per miracolo di sceneggiatura si conoscono tutti e condividono le info, arrivando alla mutua decisione che per liberare il borgo e la testa di Moana dall’incubo di questo satiro conviene farlo trombare con l’oggetto del suo desiderio.
Lei, voce off, ci spiega: “Esorcizzarlo consisteva nel coinvolgerlo in un’orgia a quattro e cioè distruggere ai suoi occhi la mia immagine”. Roba che neanche Deleuze e Guattari. Per cui Moana si concede generosamente all’indemoniato Pontello (assieme anche a Siffredi, che è il futuro tanto quanto Pontello era il passato) e si chiude in bellezza con champagne stappato. È finita? Ma no! C’è l’uscita magnificamente folle: Moana finalmente liberata guarda in camera, si contorce di nuova in preda a frenesia belluina e conclude: “E adesso… chi sarà di voi?”. Wow! Beh, che dire? L’alternanza tra realtà e sogno è dilettantesca ma il continuo montaggio parallelo è anche di un coraggio spropositato per un genere solitamente al risparmio. Detto questo le qualità tecniche del film sono imbarazzanti e quando ci sono momenti di recitazione Moana sonda gli abissi dell’infamità attoriale con un distacco quasi metafisico. E del resto anche quando zompa facendo e facendosi fare di tutto è straniante: non sembra mai partecipe, semmai dignitosamente indifferente, nivea, alta, bionda, aristocratica e sfuggente. Probabilmente questo atteggiamento che si riscontrava anche nelle uscite pubbliche ha contribuito a renderla l’icona che è diventata: silenziosa e misteriosa e presuntamente intelligentissima (ma per quali dichiarazioni non si sa), forse – come ha ipotizzato qualcuno – per accreditare i tantissimi amanti importanti (spettacolo, sport e politica… si diceva del cinghialone) dichiarati. Boh. (Youporn, 15/6/12)

945 – Lorax – Il guardiano della foresta di Chris Renaud, USA 2012
Lorax sembra il nome di un gastroprotettivo da banco. E invece è un discreto film, che da una storiellina piccina picciò del Dr. Seuss costruisce una vicenda più articolata. Chi si lamenta che il film è per bambini: 1) non ha sicuramente letto l’originale di Seuss (e gli basterebbero 5 minuti), 2) ha visto il film in preda a turbinio digestivo. Però qualche criticonzo ha detto questa stupidaggine per primo e da lì tutti hanno scopiazzato l’affermazione. Sbagliata. Comunque: si schianta dal caldo e al cinema si sta al fresco, per cui ci andiamo con le due bimbette. Loro si divertono molto e io le seguo, Barbara invece borbotta un po’ annoiata. Film dal messaggio ambientalista e anche anticapitalista, in un film hollywoodiano che farà milionate di dollaroni col merchandising. È contraddittorio? Sì, e alcuni hanno aspramente criticato il tradimento del messaggio del Dr. Seuss ma grande è la confusione sotto il cielo e questo è sempre bene. In termini spettacolari il film fila come un razzo. Straordinario il lavoro scenografico e la cura dei particolari: ormai non stupisce l’accuratezza della realizzazione quanto la scelta dei materiali, come in un film vero e proprio, girato live action o come cazzo si dice, ma ci siamo capiti. Qui il vetro o il metallo o la pietra hanno una resa più vera del vero che fa impressione. Ammirevole è l’invenzione di un mondo rotondo spassoso, allietato da canzoni molto divertenti, dove il cattivo è un tappetto iroso e avido (cosa che a noi italioti ricorda sicuramente qualcuno). Proiezione perfetta e luci solo tenui accese sui titoli. Esperienza da ripetere il cinema: ogni volta che ci torno lo penso. E poi non lo faccio, ach! (Cinema Ducale, Milano; 23/6/12)

946 – Mondo Cane oggi, l’orrore continua commesso da Max Steel, Italia 1986
L’orrore è quello che prova lo spettatore, non equivochiamo. Trattasi di repellente documentario erede dei Mondo Movie di Jacopetti, Cavara e Prosperi e che mette in fila, col solito commento stolido e suadente, nell’ordine: un aborigeno nudo che dorme sul ciglio della strada, un duello tra cani, un campeggio nudista tedesco (mmh) e – sdoganate le tette – vai!: donne in palestra, lotta di donne nude, modelle di nudo, danzatrice nera delle Figi seminuda che sa muovere indipendentemente le tette (oooh!), pescatrici di alghe giapponesi a seno nudo, donne nude che si fanno spugnare con le alghe. Poi, dopo l’erezione inversa provocata, passiamo a New York (cioè, la civiltà, si direbbe, ma…) e ci scoppiamo una bella apertura di cadavere ripieno di droga, allenamento di judoka, indiani che lavano i panni, tuffi in un tempio indiano, gauchos argentini, agopuntura ustionante, tatuaggi giapponesi, pitoni cinesi scuoiati, gastronomia estrema con serpentelli decapitati, corrida spagnola, lapponi che bevono sangue di renna e cibi afrodisiaci con tartarughe mangiate fresche. Il passaggio deve aver solleticato il montatore che subito propone dei massaggi occidentali con una bella patata pelosa in primissimo piano, bassorilievi erotici a Khajuraho e una lesbicata veloce veloce, per par condicio. Si passa poi a usi e costumi del mondo: svastiche indiane, cadaveri bruciati sulle rive del Gange, pipistrelli giganteschi, pesca nel fango, sushi servito su una donna nuda, ciccione americane alle Hawaii, vacche sacre che cagano letame poscia impastato a mano, allevamento di bovini in USA e macellazione, vita tra i morti di fame in India, tonsura dei monaci buddhisti, bambini storpiati per chiedere l’elemosina, culturisti indiani, igiene giapponese, massaggi sensuali, amputazione yakuza di un dito (la scena si direbbe vera, ma chissà), elettroshock, operazione a pene aperto, travestitismo orientale very exciting, evirazione a Casablanca (nel momento supremo del taglio, commento illuminante: “Il re è morto!”), crescita del seno con tubi aspiranti, cadaveri e rimozione di una calotta cranica e infine visita sul set di un film porno atroce con attori urfidi. L’orrore continua, indubbiamente: alla fine cosa ho visto? Una carrellata antologica di cose “strane”, impressionanti e pruriginose, senza un vero filo conduttore. Stelvio Massi è il responsabile di cotanta ignominia, subìta a tratti – confesso – con l’avanzamento veloce che, va bene l’aggiornamento professionale del Cacace, ma a tutto c’è un limite. (24/6/12)

947 – Cazzi vostri: Open Water di Chris Kentis, USA 2003
Attenzione agli spoiler, eh. Dunque: film di grande successo in diversi festival per appassionati di cinema horror e/o serie B, Open Water parte da una bella idea ma soffre per la malaccorta realizzazione: è infatti girato con una telecamera digitale peggiore della mia che risale al 2002. Non c’è alcun controllo della fotografia, con errori da operatore alle prime armi (ambiente luminoso e volti neri, per esempio). E inoltre il riversamento per l’emissione tivù (come accadeva anche a Italiano per principianti in Dvd) non passa evidentemente attraverso lavorazioni su pellicola e il risultato è poverissimo, proprio da filmino delle vacanze. In questo caso vacanze che finiscono in vacca ma a livelli epici. Dunque: esiste gente che si diverte a fare escursioni subacquee per guardarsi il fondo marino. Oh: hanno ben inventato i Dvd documentari PROPRIO per farci vedere comodamente da casa cosa cazzo ci sia la sotto, eh. Lo dico perché una volta ho fatto snorkeling sul mar Rosso e da allora mai più: m’è venuto un infarto perché un sacchetto bianco fluttuante mi ha fatto credere di essere vittima dell’attacco di una manta assassina. Vabbeh. Ad ogni modo la coppia dei protagonisti fa parte invece di questi invasati con bombole, mute, pinne etc., solo che il destino è beffardo e siccome queste cose sono organizzate da tipi che passano il loro tempo a sbevazzare e a dire “easy man” agli stolidi turisti, finisce che i due vengono dimenticati in mare aperto, ai Caraibi, ma mica a venti metri dalla riva come a me. E in mezzo al mare fa freddo e capita di incrociare bestiole come squali, barracuda e meduse. E poi viene la notte e hai una sete micidiale e la fatica ti ammazza. Da un punto di vista narrativo l’inghippo è ben gestito: l’attesa dei soccorsi e l’angoscia crescono bene fino a un prefinale buttato via (una lite insulsa – in quella situazione, poi –, la notte che passa in un baleno, l’attacco degli squali velocissimo) e un finale gestito veramente col culo, in campo lunghissimo, mentre dovrebbero arrivare i soccorsi. Un anticlimax frustrante, dove tenti di capire cosa stia succedendo al posto di goderti sadicamente l’epilogo GIUSTO della vicenda. Ispirato a una storia vera, film decisamente inferiore alle ambizioni e premiato perché queste operine grammaticalmente atroci fanno tenerezza al pubblico dei festival, che intravede una possibilità per piazzare un giorno i propri filmini matrimoniali. Non m’ha fatto impazzire, s’intuisce, no? (Coming Soon Television; 26/6/12)

(Fine – 80)

Utilizzate a dovere il vostro Bonus Cultura! È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la prefazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band).
Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook.
Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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La strategia della tensione e i mezzi di informazione. “Guerra psicologica” e controinformazione https://www.carmillaonline.com/2016/08/24/la-strategia-della-tensione-mezzi-informazione-guerra-psicologica-controinformazione/ Wed, 24 Aug 2016 21:30:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32570 di Alberto Molinari

eco_del_boato_coverMirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 445, € 28,00.

Sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti (dalle bombe di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, a quelle sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974), diverse minacce o tentativi di colpo di Stato, uno stillicidio di attentati e atti di violenza segnarono quella trama eversiva definita per la prima volta dal quotidiano inglese “The Observer”, all’indomani di Piazza Fontana, come “strategia della tensione”: è [...]]]> di Alberto Molinari

eco_del_boato_coverMirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 445, € 28,00.

Sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti (dalle bombe di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, a quelle sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974), diverse minacce o tentativi di colpo di Stato, uno stillicidio di attentati e atti di violenza segnarono quella trama eversiva definita per la prima volta dal quotidiano inglese “The Observer”, all’indomani di Piazza Fontana, come “strategia della tensione”: è questo l’oggetto della ricerca di Mirco Dondi, docente di Storia contemporanea e direttore del Master di comunicazione storica all’Università di Bologna. L’”eco del boato”, richiamato nel titolo, è «tutto ciò che lascia l’esplosione dopo il suo scoppio». «Un rilevante atto terroristico – scrive Dondi – proietta il suo peso sui principali eventi dell’agenda politica, caricandoli dei significati generati dall’atto criminale. L’attentato produce un effetto domino sulla scena pubblica che ne esce completamente reinterpretata» (p. 3). L’”eco del boato” è quindi il cuore della strategia della tensione che l’autore ricostruisce nei suoi risvolti teorici, nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi lungo il decennio 1965-1974. Attraverso il ricorso ad un’ampia bibliografia e l’intreccio di numerose fonti – atti delle commissioni di inchiesta, documenti giudiziari, rapporti di polizia, stampa nazionale e internazionale, memorialistica e saggistica coeva – la ricerca analizza il comportamento dei diversi attori coinvolti nell’elaborazione e nella realizzazione delle strategia della tensione, dai soggetti politici e istituzionali, agli apparati militari e alle organizzazioni neofasciste. Attori che si mossero con disegni a volte diversi, ma con una comune volontà di condizionare o modificare radicalmente lo scenario politico, minando in senso antidemocratico l’assetto politico repubblicano.

La prima parte del volume è dedicata alle origini e ai presupposti teorici della strategia della tensione, maturati nel clima della guerra fredda quando l’Italia divenne di fatto un paese a sovranità limitata, condizionato dalla strategia anticomunista promossa dagli Stati Uniti tramite la Cia e strutture occulte come la rete militare Stay behind. Nella parte più corposa del testo (cinque capitoli) Dondi analizza la strategia della tensione in atto, tra il 1969 e il 1974, ricondotta in un quadro di insieme grazie ad un solido filo narrativo che riordina una materia estremamente complessa, individuandone le linee di fondo, l’evoluzione, le diverse articolazioni, contraddizioni e sfumature, poste in relazione ai mutamenti delle dinamiche politiche e del contesto sociale. Nella densa trattazione di Dondi, tra i numerosi temi e spunti interpretativi che meriterebbero di essere segnalati, ci soffermiamo sull’analisi del ruolo dell’informazione, un aspetto centrale e innovativo della ricerca, rivolto soprattutto all’ambito della carta stampata (sono oltre cento le testate, nazionali e internazionali, citate dall’autore).

I mezzi di informazione svolsero un ruolo rilevante nella guerra psicologica, fondamentale strumento, insieme alla guerra non ortodossa, della strategia della tensione. Messe a punto negli anni Cinquanta dal Pentagono, le caratteristiche della guerra non ortodossa (definita anche guerra rivoluzionaria) e della guerra psicologica furono al centro del convegno organizzato a Roma nel maggio 1965 dall’istituto Pollio – considerato l’«atto fondativo della strategia della tensione» (p. 49) – al quale parteciparono numerosi protagonisti della stagione eversiva: estremisti neri come Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie, militari come il generale Giuseppe Aloia e il colonnello Amos Spiazzi, uomini dei servizi come Guido Giannettini.
La guerra non ortodossa prevedeva la pianificazione di strutture paramilitari e la realizzazione di azioni “coperte” «decise da una selezionata cerchia di èlites militari e politiche, al di fuori delle procedure istituzionali e all’oscuro del parlamento» (p. 7). Pensata inizialmente in funzione difensiva rispetto a un ipotetico attacco dell’Urss, negli anni Sessanta la guerra non ortodossa venne concepita come uno strumento rivolto anzitutto contro il “nemico interno” (le sinistre, in primo luogo il Pci). Il suo scopo era destabilizzare il quadro politico attraverso azioni terroristiche attribuite, secondo il meccanismo della provocazione, al “nemico”, per poi stabilizzare, modificando gli equilibri politici in senso conservatore o autoritario, se necessario anche attraverso azioni golpiste.

Nella strategia della tensione, la guerra non ortodossa rappresentava il momento dell’azione, quella psicologica il resoconto dell’azione inteso come una forma di condizionamento e di persuasione attuata attraverso la strumentalizzazione della paura e del senso di insicurezza generati dall’atto terroristico. Un compito decisivo spettava ai mezzi di informazione che dovevano diffondere l’allarme per il disordine, imporre una versione “ufficiale” degli eventi funzionale alle demonizzazione del “nemico” additato come responsabile del caos, spingere l’opinione pubblica verso una richiesta di ordine.
All’interno della guerra psicologica, nota Dondi, la narrazione pubblica dell’evento assume un ruolo fondamentale: «la notizia sovrasta l’attentato perché l’andamento del “conflitto” dipende dal significato che si attribuisce all’atto violento: l’informazione è responsabile dell’esito finale. […] La guerra psicologica giunge al suo esito quando la prefabbricata costruzione degli eventi permea il senso comune. Se le versioni di un evento entrano in forte conflitto tra loro, sia per le dinamiche della ricostruzione sia per il peso bilanciato delle testate che le sostengono, l’obiettivo rischia di non essere raggiunto» (p. 63). Risultava perciò indispensabile pianificare il flusso delle informazioni, a partire dalle agenzie di stampa – spesso legate agli ambienti di estrema destra e ai servizi segreti nazionali e statunitensi – in grado di realizzare la prima «trasformazione del fatto accaduto in notizia» (p. 76) attraverso la selezione e la manipolazione delle informazioni da veicolare alle testate giornalistiche.

Secondo le indicazioni scaturite dal convegno romano, i mezzi di informazione avrebbero dovuto «additare il nemico all’opinione pubblica, denunciandone la permanente minaccia» e costruendone «una visione ossessiva e unidimensionale»; in linea con l’impostazione teorica della guerra psicologica, dalla trasformazione dell’avversario politico in nemico assoluto discendeva «la sua criminalizzazione e l’invenzione di un suo progetto cospirativo» (p.70).
Analizzando la composizione dei convegnisti presenti al Pollio appare con evidenza la connessione tra ispiratori delle trame eversive e sistema informativo. Oltre a giornalisti di esplicita tendenza neofascista (come Mario Tedeschi, direttore de “Il Borghese”), al convegno parteciparono i direttori di sei quotidiani (“Il Messaggero”, “Il Tempo”, “La Nazione”, “Roma”, “Il Giornale d’Italia”, “Il Corriere lombardo”) rilevanti per la loro complessiva diffusione, per la dipendenza da poteri economici “forti”, per i rapporti che legavano alcuni organi di stampa ai servizi segreti. Nel 1969, l’anno di Piazza Fontana, saranno queste ed altre testate, che Dondi definisce edotte, al corrente delle strategie, oltre a quelle consenzienti (come il “Corriere della Sera”) – portate ad accettare acriticamente la versione ufficiale degli eventi, per conformismo o convenienza – a convogliare la guerra psicologica diffondendo le notizie pianificate dalle autorità politiche e militari.

2. Il-Corriere-della-Sera_13-dicembe1969La stagione stragista matura in contrapposizione ai movimenti sorti nel biennio 1968/’69, culminato nelle lotte dell’”autunno caldo”. Subito dopo la strage di Piazza Fontana la stampa amplifica il messaggio del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat che suggerisce un nesso tra manifestazioni di piazza, disordine e terrorismo per indirizzare l’opinione pubblica su una linea di ritorno all’ordine. Il Quirinale individua i precedenti della strage negli attentati di aprile a Milano, nelle bombe sui treni di agosto, nella morte dell’agente Annarumma, una «tragica catena», secondo le parole di Saragat, che funge da «elemento di raccordo dotato di funzione persuasiva» (p. 162). Diversi quotidiani riprendono l’intervento presidenziale descrivendo un paese in preda al caos, invocando provvedimenti di emergenza e rafforzando la linea narrativa del Quirinale attraverso allusioni alla pista anarchica che si tenta di avvalorare con un posticcio riferimento storico, l’attentato al teatro Diana di Milano del 23 marzo 1921, che aveva provocato 21 morti (si trattava di un gruppo di anarchici individualisti – estranei all’Unione anarchica italiana – che miravano a colpire il questore). La “tragica catena” «si arricchisce così di un nuovo contundente anello che si pone come presupposto di colpevolezza e serve a conferire credibilità alla pista anarchica prima ancora che siano gli inquirenti a rivelarla» (p. 163).
Oltre alle categorie interpretative, all’indomani della strage la stampa fa leva sull’emozione suscitata dall’evento. Titoli cubitali, immagini raccapriccianti, aggettivi ricorrenti (bestiale, orrendo, mostruoso, già presenti nel messaggio di Saragat) «rinfocolano una fenomenologia delle passioni utile a scuotere il panorama politico» (p. 172). Come nota Dondi, la strage è indiscutibilmente orrenda, ma il comune ricorso a quegli aggettivi, in luogo di altre possibili varianti, rimanda all’interpretazione dell’evento veicolata dal discorso presidenziale.

3. FOTO VALPREDANei giorni successivi l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli offrono altri due anelli alla “tragica catena”: alla matrice politica a cui si allude dal 13 dicembre, si aggiungono un “colpevole” e un “suicida”, secondo la versione della questura che presenta la morte dell’anarchico come un’”autoaccusa”.
La morte di Pinelli viene comunicata il 16 dicembre dalla Tv di Stato, senza avanzare alcun dubbio sulla tesi della questura. In serata arriva in diretta, nel momento di massimo ascolto, l’annuncio dell’arresto di Valpreda, attraverso il servizio dell’inviato Bruno Vespa che apre la strada alla «lapidazione» dell’anarchico sulla stampa (p. 189). Dondi analizza in modo puntuale la costruzione del “mostro” anarchico, a partire dal ricorso alle immagini. L’istantanea più utilizzata dai giornali ritrae Valpreda mentre protesta davanti al palazzo di Giustizia di Roma. Valpreda appare «seduto con un giubbotto sportivo, un po’ spettinato, indossa pantaloni bianchi, ha un medaglione in petto in stile beat con la “a” di anarchia mentre saluta con il pugno chiuso: un uomo agli antipodi del comune borghese». Poiché è additato come certamente “colpevole”, «in quell’immagine così efficace e sovrabbondante di simboli c’è la firma inequivocabile. Il ritratto di militanza cambia significato diventando contesto di crimine. Da qui si va per estensione: […] l’estremismo o l’essere fuori dagli schemi diviene marchio di delinquenza. Valpreda con il pugno chiuso è la più potente schedatura mediatica mai realizzata» (p. 192). La strumentalizzazione di Valpreda avviene anche attraverso altre immagini, come quella pubblicata su “Il Tempo”: alla fotografia scattata in ospedale del bambino Enrico Pizzamiglio, che a causa della strage ha perso una gamba, è affiancata, in taglio fototessera, l’immagine di Valpreda: «L’effetto è notevole. L’anarchico è raffigurato con un viso torvo, i capelli sempre scompigliati, la poca luce tra il collo e il mento – oltre al fondo scuro – ne accentuano la ruvidezza, mettendo in risalto la barba appena incolta. A fianco il volto candido, innocente e sofferente del piccolo Enrico» (p. 194).

4. valpredapress2Per distruggere la dignità di Valpreda la stampa scava nella sua vita privata, enfatizza, come marchio di derisione, la sua breve esperienza come “ballerino” (“il ballerino dinamitardo”, titola “Il Giornale d’Italia”) e insiste sulla precarietà dei suoi impieghi per farlo apparire come un velleitario, un fallito. Viene evidenziato anche il suo soprannome (“Cobra”) per delineare «un ritratto da fumetto di avventura», come nella prosa del “Tempo”: «cobra per la sua capacità mimetica, per l’abilità con cui camuffava il suo credo estremista» (p. 199).

A ridosso della strage di Milano poche testate (come “Il Giorno”, “La Stampa”, “Il Mondo”) mantengono un margine di autonomia, cercando di offrire una propria interpretazione dei fatti, e solo la stampa di opposizione (“l’Unità”, “Lotta Continua”, “il Manifesto”, “L’Espresso” e altri giornali legati alla sinistra) contrasta, per ragioni diverse, le versioni ufficiali. In breve tempo però l’attentato del 12 dicembre, l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli producono mutamenti anche nel mondo dell’informazione.
Dondi dedica diverse pagine all’analisi della controinformazione, primo ed efficace tentativo di contrastare la guerra psicologica (per una storia dettagliata della controinformazione negli anni Settanta, si veda A. Giannuli, Bombe ad inchiostro, Milano, Rizzoli, 2008). A Milano e a Roma nascono i comitati dei giornalisti democratici, che si propongono di ripensare e rinnovare la professione, restituendole autonomia e valore civile. Gli eventi milanesi sono l’occasione per una «ridefinizione del concetto di informazione» (p. 220) che cambia radicalmente il modo di concepire il giornalismo. I comitati, che contano su numerose adesioni tra i giornalisti professionisti, in gran parte collocati a sinistra, e su un proprio organo di riferimento (“Bcd”, Bollettino di controinformazione democratica), avviano un importante lavoro di inchiesta, di ricerca della verità sullo stragismo e di denuncia dei meccanismi di manipolazione della notizia, con l’intento di rovesciare il senso comune presente nell’opinione pubblica.

5C strage di stato cInsieme alla controinformazione democratica, nasce la controinformazione militante promossa da giornalisti professionisti e esponenti delle formazioni di estrema sinistra che, richiamandosi ai principi del ’68, svolgono un lavoro di raccolta di informazioni dal basso, utilizzano fonti alternative e contano sulla raccolta di notizie che proviene da un ampio bacino di militanti. In questo contesto prende forma il collettivo che produrrà il volume La strage di Stato, il libro simbolo della controinformazione, uscito il 13 giugno 1970. Il gruppo che realizza il lavoro, incrociandosi con l’inchiesta sulla morta di Pinelli condotta da “Lotta continua”, svolge un capillare lavoro di raccolta e di elaborazione di notizie che provengono da semplici militanti, sindacalisti, docenti universitari, avvocati e magistrati democratici, si avvalgono di informazioni raccolte nelle carceri, di indiscrezioni provenienti da diversi ambienti ai quali i militanti riescono ad avere accesso. Informazioni sulle relazioni tra l’Ufficio affari riservati (Uaarr), il servizio segreto civile, e il gruppo neofascista Avanguardia nazionale giungono dal Sid, il servizio segreto militare. Si tratta però di un’operazione di depistaggio – nell’ambito della rivalità tra servizi, resa più acuta dalla strage di Milano – realizzata per coprire Ordine nuovo, la formazione neofascista legata al Sid da cui provengono gli autori della strage di Milano, e scaricare le responsabilità sull’Uaarr, che intrattiene rapporti privilegiati con Avanguardia nazionale.
Anche se la pista Uaar-An seguita dalla redazione di La strage di Stato impedisce al gruppo di individuare i reali esecutori della strage, il lavoro di inchiesta raggiunge importanti risultati nella decostruzione della pista anarchica e della versione ufficiale sulla morte di Pinelli. Come sottolinea Dondi, grazie al successo politico ed editoriale del libro la controinformazione militante, insieme a quella democratica, inizia a produrre nell’opinione pubblica un mutamento rispetto all’interpretazione dominante. Le tesi della controinformazione vengono riprese e approfondite da altre testate della sinistra tradizionale e di opinione e stimolano la diffusione di libri-inchiesta, film, documentari, spettacoli teatrali, canzoni che contribuiscono ad incrinare ulteriormente la versione dei fatti veicolata attraverso la guerra psicologica.

Nelle successive fasi della stagione stragistica muta progressivamente il ruolo dei mezzi di informazione. Dopo la strage di Peteano, eseguita dagli ordinovisti contro i carabinieri il 31 maggio 1972, «i quotidiani conservatori cercano la strumentalizzazione politica del caso, ma in forma minore rispetto al 1969. Manca il peso del “Corriere della Sera” che dal marzo 1972, con la direzione di Piero Ottone, comincia a percorrere una linea più autonoma dal governo» (p. 293).
Lo sviluppo impressionante delle azioni violente ad opera dello squadrismo neofascista, la diffusione delle tesi della controinformazione che alimentano la mobilitazione antifascista, l’avvio dell’inchiesta della magistratura milanese che orienta le indagini su Piazza Fontana verso il neofascismo contribuiscono a far crescere anche nella stampa di opinione l’allarme nei confronti delle minacce eversive che provengono da destra. «Dalla metà del 1972 all’estate del 1974 – scrive Dondi – la minaccia nera viene progressivamente percepita, nella sua reale pericolosità, da larga parte dell’opinione pubblica. Da questo momento in poi le azioni di marca terroristica dell’estrema destra divengono aperte, chiaramente attribuibili, e processi di mascheramento e di inversione di responsabilità sempre meno credibili» (p. 303).
Nell’aprile 1973 fallisce l’attentato al treno Torino–Roma (viene arrestato il neofascista Nico Azzi, rimasto ferito nel tentativo di far esplodere la bomba che doveva essere attribuita all’estrema sinistra). Il mese successivo l’attentato alla questura di Milano non suscita l’ampio schieramento di stampa confluito sulla linea desiderata dagli strateghi della tensione dopo Piazza Fontana. Nonostante il tentativo di alcuni giornali, come “Il Resto del Carlino”, “Il Tempo e “Il Secolo d’Italia”, di sostenere la tesi dell’anarchismo di Bertoli, l’autore della strage, la fede anarchica dell’attentatore appare subito dubbia: «Gli eventi stragisti e il loro lungo strascico hanno cambiato in maniera sensibile la stampa d’opinione» (p. 320).

6A STRAGE brescia xL’attentato alla questura è l’ultima strage costruita secondo il copione di Piazza Fontana (regia istituzionale, esecutori “neri”, responsabilità da rovesciare sull’estrema sinistra). Cessate le «stragi di provocazione», finalizzate allo scambio di attribuzione dei responsabili, il 1974 si caratterizza per le «stragi di intimidazione dove l’esecuzione nera, anche se non apertamente rivendicata, appare incontrovertibile». L’obiettivo finale rimane il medesimo (modificare i tratti istituzionali del sistema), ma si è passati «da un tentativo di spostare il consenso attraverso la manipolazione degli eventi e la riproduzione del suo effetto distorto sui mezzi di informazione a un attacco frontale, con l’esibizione della propria forza d’urto. E’ saltato il passaggio intermedio nel quale i media dovevano convincere i cittadini sulla necessità di un intervento militare di fronte alla minaccia rossa. Da questo punto di vista la strage della questura ha dimostrato, soprattutto all’ambiente nero, l’inefficacia del travestimento» (p. 335).
In questo quadro si inscrivono le stragi del 1974 (piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio; treno Italicus, 4 agosto). In entrambi i casi la straordinaria risposta antifascista, unita alla denuncia della matrice fascista degli attentati da parte dei principali mezzi di informazione, indicano che il clima è profondamente mutato: «La reazione politica e mediatica di condanna a piazza della Loggia dà l’impressione di assistere a un’inversione del codice ideologico da sempre prevalente nella storia dell’Italia repubblicana. Dopo la strage di Brescia, per la prima volta, l’antifascismo appare prioritario rispetto all’anticomunismo» (p. 361). Il meccanismo della strategia della tensione, così come era stato pensato a partire da metà anni Sessanta e messo in atto tra il 1969 e il 1974, è inceppato e lo stragismo nero «in declino per l’affievolirsi del sostegno internazionale, ma soprattutto – come […] Aldo Moro nota durante la sua prigionia – per la “vigilanza delle masse popolari”, il cui riorientamento rende infruttuosi e nocivi i nuovi atti della strategia della tensione» (p. 411).

Le stragi di Brescia e dell’Italicus segnano la chiusura della strategia della tensione, ma la conclusione è solo «apparente» e non mette al riparo la democrazia da nuove minacce eversive: «Il mancato smembramento degli apparati golpisti condizionerà, seppure in altro modo rispetto al quinquennio 1969-74, anche gli anni successivi» (p. 415). I principali responsabili della stagione stragista resteranno impuniti o sconteranno pene irrisorie. «La verità storica» – sostiene a ragione Dondi – «colma solo parzialmente le falle dell’omertà politica e dell’evasione giudiziaria, lasciando dietro di sé una memoria inquieta» (p. 404).

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Io l’ho visto https://www.carmillaonline.com/2016/08/07/io-lho-visto/ Sun, 07 Aug 2016 17:59:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32420 di Alessandra Daniele

51Fra tutte le bugie che ci vengono sistematicamente raccontate su questa guerra, una delle più false è che sia cominciata l’undici settembre 2001. In realtà, quando le torri gemelle sono crollate lo Scontro di Civiltà andava già in onda da quasi undici anni. Io l’ho visto.

Il cielo verde di Baghdad. Emilio Fede che esulta per il primo bombardamento, e poi durante la diretta notturna, mentre si rifà il trucco, molla una battutaccia sulle cosce di Kay Rush come un generico in pausa sul set. Il sosia di Saddam [...]]]> di Alessandra Daniele

51Fra tutte le bugie che ci vengono sistematicamente raccontate su questa guerra, una delle più false è che sia cominciata l’undici settembre 2001.
In realtà, quando le torri gemelle sono crollate lo Scontro di Civiltà andava già in onda da quasi undici anni.
Io l’ho visto.

Il cielo verde di Baghdad.
Emilio Fede che esulta per il primo bombardamento, e poi durante la diretta notturna, mentre si rifà il trucco, molla una battutaccia sulle cosce di Kay Rush come un generico in pausa sul set.
Il sosia di Saddam del Tg iracheno.
Bellini e Cocciolone che leggono il gobbo.
L’inviato della CNN che si mette la maschera antigas soltanto durante il collegamento.
Il cormorano incatramato che in realtà viene dall’incidente con una petroliera.
La scia di automobili carbonizzate delle vittime d’una bomba USA Daisy Cutter.
I soldati iracheni che si arrendono alla troupe del Tg3.

Nel 2001 la guerra non è cominciata, ha solo avuto il primo reboot.
Le stesse immagini già viste centinaia di volte nei Disaster movies, Arrmageddon, Deep Impact, Godzilla, Indipendence Day, che improvvisamente invadono tutto il palinsesto.
George W. Bush che avvertito dell’attacco continua a leggere favole ai bambini.
Le voci su un quinto aereo. Un sesto aereo. Una bomba atomica portatile. Suore kamikaze in Vaticano.
Bruno Vespa che legge male “defilati” e commenta “I sospetti terroristi si sono depilati? Dev’essere un rituale islamico”.
L’esperto di strategia militare che s’impapera, e chiama le regole d’ingaggio delle truppe “regole d’inganno”.
La fialetta d’antrace mostrata all’ONU dal generale Powell, che in realtà contiene zucchero.
I video di Bin Laden dalla grotta del presepe.
Paolo Liguori che si vanta “La notizia era falsa, ma noi siamo stati i primi a darvela!”
George W. Bush che complimenta l’inglese di Berlusconi, che effettivamente è migliore del suo.
Saddam Hussein pescato da un tombino.
I selfie dei torturatori di Abu Grahib.
Gli effetti del fosforo bianco su Falluja.
Lo striscione “Mission Accomplished”.
Obama che assiste via satellite al blitz contro Osama, e il cadavere di Bin Laden che sparisce. Un caso di lupara bianca.

Col secondo reboot, l’ISIS prende il posto di Al Qaeda, e agli effetti speciali da blockbuster si sostituisce l’orrore quotidiano stile Bowling a Columbine.
I censori di Guzzanti e Luttazzi che twittano Je Suis Charlie.
Gli snuff dell’ISIS su YouTube.
Papa Bergoglio che promette un cazzotto in bocca a chi parlasse male di sua madre.
L’Aria Che Tira che usa i funerali di Valeria Solesin come promo.
I soldati USA nel deserto che cantano Call Me Maybe.
I profughi sotto la pioggia ammassati dietro il filo spinato.
I media che ormai di default fino a prova contraria attribuiscono qualsiasi fatto di cronaca all’ISIS.
Renzi in jeans e mimetica.

La guerra durerà 30 giorni, promette il governo, che s’appresta a partecipare all’ennesimo bombardamento. Questa guerra è cominciata nel 1990. Fra 4 anni potremo chiamarla la nuova Guerra dei Trent’anni.
Una Magdeburg grande come un sub-continente.

Che cosa abbiamo visto?
Perlopiù quello che volevano farci vedere.
E qualche volta quello che non sono riusciti a impedirci di vedere.

I film post-apocalittici si aprono spesso con un montaggio rapido d’immagini da telegiornale che riassume le circostanze del crollo della civiltà umana.
Nel nostro caso, sarà una puntata di Blob.

[Scheggetaglienti è aggiornato] 

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La banda del pozzo https://www.carmillaonline.com/2016/04/10/la-banda-del-pozzo/ Sun, 10 Apr 2016 18:06:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29730 di Alessandra Daniele

reservoir-dogsBanchieri, petrolieri, armieri, pare che il “governo del fare” si dia effettivamente un gran da fare per servire l’esigente clientela. Allo zelo però non si associa la classe. I rinnovatori di Renzi infatti si danno del figlio di puttana e del pezzo di merda come una banda di reservoir dogs, al cui confronto il figlio di Totò Riina sembra un principe di sangue reale. La perizia con la quale ha condotto l’intervista con Bruno Vespa fa pensare che se la caverebbe molto meglio di Renzi anche ai vertici internazionali. Per [...]]]>
di Alessandra Daniele

reservoir-dogsBanchieri, petrolieri, armieri, pare che il “governo del fare” si dia effettivamente un gran da fare per servire l’esigente clientela.
Allo zelo però non si associa la classe. I rinnovatori di Renzi infatti si danno del figlio di puttana e del pezzo di merda come una banda di reservoir dogs, al cui confronto il figlio di Totò Riina sembra un principe di sangue reale.
La perizia con la quale ha condotto l’intervista con Bruno Vespa fa pensare che se la caverebbe molto meglio di Renzi anche ai vertici internazionali.
Per la verità meglio di Renzi potrebbe cavarsela chiunque. Gli basterebbe non andare in giro a farsi selfie sparando cazzate in finto inglese tipo “Operescion is gud bat de pascient is ded”, mentre gli altri decidono cosa ordinargli di fare.
Dopo le telefonate della Guidi, chissà se Renzi pensa ancora che Meucci was a genius.
Il suo discorso all’Harvard University sembrava messo insieme da Ok Google aperto per sbaglio durante una gara di rutti.
E il problema non è solo l’inglese. Le cazzate di Renzi non hanno senso in nessuna lingua del mondo.
A questo punto chi gli crede ancora non è semplicemente ingenuo o sprovveduto, ma evidentemente affetto da un grave ritardo mentale.
Non particolarmente geniali neanche quei ministri che confidano ancora nella privacy delle conversazioni telefoniche, chimerica almeno quanto la cybersecurity che molto probabilmente sarà affidata a Carrai nonostante le polemiche.
Carrai però non è uomo di Renzi. E’ Renzi che è uomo di Carrai.
Di privato in Italia ci sono i Lavori Pubblici.
Il ministro Del Rio ha nove figli, se le accuse con le quali i suoi compari di governo volevano ricattarlo si rivelassero fondate, Bruno Vespa avrebbe il palinsesto pieno per due settimane.
Invece di chiederci chi saranno i prossimi ministri del governo Renzi ad essere beccati col sorcio in bocca, portiamoci avanti col lavoro e proviamo a immaginare quale sarà la loro strategia difensiva.
Corruzione post ipnotica: la ministra dichiarerà d’aver sentito un incontrollabile impulso a delinquere in seguito a una parola chiave, e d’avere subito dopo dimenticato tutto. La registrazione d’una telecamera di sicurezza la mostrerà agire effettivamente come una marionetta telecomandata. Sempre.
The Al-Files: il ministro dichiarerà d’essere stato sostituito da un perfido mutaforma alieno arrivato sulla terra in gommone. I suoi collaboratori confermeranno che gli occhi dell’alieno erano bulbosi e insettoidi, perciò indistinguibili da quelli del ministro.
Lo sputtanamento resterà comunque irreversibile. Operescion is gud bat de pascient is ded.
Come per un pozzo esausto, i concessionari che hanno installato il governo Renzi continueranno a raschiarne il fondo fino all’ultima goccia di bitume soltanto finché gli costerà meno che smantellarlo, e allestirne un altro.
Il conto alla rovescia è cominciato.
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Macerie https://www.carmillaonline.com/2009/04/07/macerie/ Tue, 07 Apr 2009 04:19:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3002 di Alessandra Daniele

macerie.jpgIn Abruzzo più di un centinaio di morti, e decine di migliaia di senzatetto. In parlamento il solito accordo bipartisan: ”Questo non è il momento delle polemiche”. Certo, sarebbe assurdo parlare di norme antisismiche dopo un sisma. Parliamo di norme antiforfora. Poi magari diamo fuoco anche alle baraccopoli degli abruzzesi sfollati come facciamo con quelle dei Rom. Questo non è il momento di parlare di speculazione edilizia, incuria, ecomafia, corruzione, per riflettere su quanto sia appropriata la definizione “Condono Tombale”. È il momento di dare al governo la possibilità di sfruttare la tragedia come ennesimo spot “sociale” per [...]]]> di Alessandra Daniele

macerie.jpgIn Abruzzo più di un centinaio di morti, e decine di migliaia di senzatetto.
In parlamento il solito accordo bipartisan: ”Questo non è il momento delle polemiche”.
Certo, sarebbe assurdo parlare di norme antisismiche dopo un sisma.
Parliamo di norme antiforfora.
Poi magari diamo fuoco anche alle baraccopoli degli abruzzesi sfollati come facciamo con quelle dei Rom.
Questo non è il momento di parlare di speculazione edilizia, incuria, ecomafia, corruzione, per riflettere su quanto sia appropriata la definizione “Condono Tombale”.
È il momento di dare al governo la possibilità di sfruttare la tragedia come ennesimo spot “sociale” per le elezioni europee.
Qualcosa tipo la strappona sdraiata sulla monnezza che ringrazia il governo di avere “ripulito Napoli”, ma più in grande, e a reti unificate.
I pezzi grossi da Vespa, il gran sacerdote del Cordoglio Controllato, l’imbalsamatore capo d’ogni tragedia da mummificare nella retorica istituzionale.
Gli sfigati al tavolo tondo da seduta spiritica di Lerner e Gruber, accanto all’inquietante materializzazione dell’ectoplasma di Zamberletti.
Questo non è il momento di dare la colpa ai colpevoli, di attribuire le responsabilità ai responsabili.
È il momento di intervistare gli esperti, e domandargli basiti e increduli come sia possibile aspettarsi un terremoto in un paese che da sempre trema come un parkinsoniano all’ultimo stadio.
Ci faranno una puntata di Voyager. Lo chiederanno a Titor, alla setta dei Cugini di Satana, al sagrestano di Rennes-le-Château: com’è possibile aspettarsi un sisma in zona sismica?..
Questo non è il momento di chiedere conto a chi costruisce palazzi con lo zucchero a velo al posto del cemento, sarebbe indelicato verso chi sotto le macerie di quei palazzi c’è morto.
Il loro ultimo desiderio è stato di certo un accordo bipartisan in parlamento che evitasse le polemiche.
Questo è il momento di ravanare tra le macerie delle vite altrui, a caccia di reperti strappalacrime da esibire alle telecamere, e poi accusare di sciacallaggio chi quelle vite le avrebbe volute salvare.
Questo è il momento di pregustare il business per la ricostruzione, condito dalla deregulation del nuovo Piano Casa.
È il momento di preparare il prossimo Condono Tombale.

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