Bruce Willis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Armi letali: il gran ballo dei diritti umani e la macelleria della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/06/08/arma-letale-1-war-and-the-great-human-rights-swindle/ Wed, 08 Jun 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72234 di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International [...]]]> di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)

Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.

Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.

Può iniziare da questo episodio una riflessione sul fatto che il segretario del PD, Enrico Letta, che si scandalizza ad ogni piè sospinto per i motivi più disparatii, come nel caso delle parole proferite per stigmatizzare le scelte del premier ungherese («Sono particolarmente scandalizzato in questo momento dall’atteggiamento dell’Ungheria di Orban, mette il suo veto rispetto alle sanzioni e si pone come chiaro ed esplicito alleato di Putin»), in realtà non si scandalizzi affatto per l’indiretta partecipazione del governo che sostiene il conflitto in atto in Ucraina.

Anima candida, erede del Veltroni-pensiero, pieno di nostalgia per l’età (kennedyana) dell’innocenza perduta, il segretario di un partito che accetta qualsiasi compromesso a favore delle scelte della Banca Centrale europea e del suo ex-governatore ed attuale premier italiano e del progressivo ampliamento della guerra russo-ucraina verso Est e, inevitabilmente, verso Ovest, in compenso, non ha mai perso l’occasione per sbandierare la sua personale difesa, e del suo partito, dei diritti umani e civili.

Questo atteggiamento di un “democratico” difensore dei diritti individuali serve perfettamente ad illustrare l’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo dei valori occidentali e degli interessi economici, politici e militari che li sottendono. In cui, ancora una volta, le violenze connesse a un conflitto sono ascrivibili soltanto ad una delle parti in causa, senza mai considerare l’autentica macelleria di vite, di donne, uomini e bambini che la guerra esige per sua stessa natura. Una divinità che non ha riguardo alcuno per il fronte “giusto” o quello “sbagliato”, da cui esige un medesimo tributo di sangue e di violenza.

Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati, soprattutto occidentali, a definire ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale oppure di quello globale per la spartizione delle ricchezze e delle influenze economico-militari su scala mondiale.

Pertanto, l’uso che oggi viene fatto, sia dalle ONG che dagli apparati propagandistici e militari, del concetto di “diritti umani” non risulta essere dovuto ad un radicale travisamento degli stessi ma, al contrario, già implicitamente contenuto proprio nelle formulazioni che hanno accompagnato tale concetto fin dalle sue origini.
Come hanno affermato Nicola Perugini e Neve Gordon in una loro ricerca:

Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano1.

Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto, il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative. Contribuendo così a sviluppare il cosiddetto diritto penale del nemico, ovvero un non diritto sostanziale, in cui fa rientrare tutti gli avversari dell’ordine sociale, economico e geopolitico dato, ogni qualvolta si tratti di giudicarli.

La storia anticoloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale. Però, paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid”2.

Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani possa essere costituito proprio dalle forze armate americane, come è riscontrabile dall’annotazione posta in epigrafe a questo intervento. Non solo, ma si stima anche che:

L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum3.

Salta immediatamente agli occhi come tale scelta possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, adottare.

In un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”. Magari per speculari interessi propri, ma sempre diversificati o opposti rispetto a quelli dell’Occidente.

Per questo motivo, a titolo di esempio, l’uso di droni “assassini” per eliminare generali, carri armati con relativi equipaggi o leader politici avversari, sarà sempre presentato in maniera benevola, quasi a voler far svolgere alla macchina la funzione dell’eroe invincibile e sempre giustificato nella sua azione, per violenta che essa sia. Mescolando, nell’immaginario, l’apparato tecnologico diretto a distanza attraverso un joy-stick oppure da un evoluto programma search and destroy con gli eroi del mito, da Gilgamesh a quelli più dozzinali portati sullo schermo da Bruce Willis o Sylvester Stallone.

In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario. Mentre le vittime causate dall’azione avversa, come ben si è visto in questi cento e più giorni di guerra in Ucraina, non possono essere altro e soltanto che vittime di “crimini di guerra”.

Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi si trova ad operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti oppure dai “crimini di guerra” se le vittime saranno il frutto di scontri allargati con potenze di egual forza militare. Seguendo questa logica, nel caso della campagna condotta in Ucraina, i bombardamenti e le azioni militari delle forze armate di Zelensky, per default, colpirebbero quasi sempre e solo obiettivi militari mentre le azioni dei militari russi sarebbero sempre e soltanto dirette a colpire le comunità civili, attraverso i loro corpi fisici e le loro abitazioni.

Contribuendo a sviluppare un’autentica pornografia della morte in cui è possibile seguire in diretta ogni azione mirante a debellare il nemico fino alla sua distruzione, con manifesta simpatia se non addirittura gioia dei media, oppure osservare, con sollecitata commozione e indignazione, le immagini dei corpi trucidati dei “buoni” o dei danni da essi subiti.

Le istanze delle vittime reali o degli avversari diventano così una questione di “verità assoluta”, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed indiscutibile dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. In cui il concetto ampliato di “crimine di guerra” diventa estremamente efficace nello spazzare via dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale, economico o al conflitto perenne tra le classi e tra gli imperi. Non a caso:

Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle di grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali4.

La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: «L’essenza della nostra metodologia non è la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza […] l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani»5. In tal modo:

L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale6.

Cosicché

l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce7.

Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere8.

Interrompendo questo lungo excursus sulla funzione del cosiddetto diritto umanitario, in gran parte tratto, con le dovute modifiche, da una recensione già pubblicata su Carmilla nel 20169 e riportando l’attenzione sui fatti attuali, può risultare utile riflettere sul fatto che, proprio per i motivi appena elencati, chi difende i diritti degli immigrati a diventare proletari sfruttati come braccianti o manodopera e manovalanza della malavita, una volta accolti nella democratica italietta bellicista e colonialista, poco o niente voglia sentir parlare di classi sociali e di lotta tra le stesse.

Altrettanto vale per la questione femminile e la violenza sulle donne ridotta a spettacolo hollywoodiano, in cui la drammatizzazione per mezzo di una sceneggiatura basata su frasi e scene ad effetto contribuisce più a dar vita ad una forma di scripted-reality che non a una concreta analisi dei fatti.

Un altro aspetto del genocidio sono i crimini di carattere sessuale, non soltanto contro donne e ragazze, ma anche bambini, ragazzi, uomini […] Non riusciamo oggi a dare un numero preciso di questi crimini. Possiamo però dire che hanno un carattere di massa. E sono intenzionali, non casuali. Sappiamo di una ragazza di sedici anni: due nemici, non riesco a chiamarli umani, l’hanno violentata in tutti i modi, il terzo teneva ferma sua sorella di 25 anni, e le diceva «Guarda, è quello che faremo a tutte le puttane naziste». Questi orchi violentano i nostri bambini e dicono alle madri «Così non metterete più al mondo nazisti ucraini»10.

Peccato soltanto che l’autrice dell’articolo summenzionato, la super-commissaria dei diritti umani ucraina, Lyudmyla Denisova, sia stata rimossa successivamente dal suo incarico dal voto di un parlamento ucraino preoccupato dalle cifre degli abusi sessuali russi esagerate e gonfiate dalla stessa. La Verkhovna Rada ha infatti licenziato la commissaria parlamentare per i diritti umani a causa della sua prolungata e ingiustificata permanenza all’estero durante i mesi del conflitto e del

ripetuto mancato adempimento delle sue funzioni relative all’istituzione di corridoi umanitari, alla protezione e scambio di prigionieri, al contrasto alla deportazione di adulti e bambini dai territori occupatie ad altre attività per i diritti umani. Secondo il Parlamento, Denisova ha concentrato la sua attività mediatica sui numerosi dettagli relativi agli abusi sessuali su adulti e minori nei territori occupati che non erano supportati da prove e hanno danneggiato solo l’Ucraina11.

E soprattutto le vittime reali degli abusi, verrebbe da dire. Ma, si sa, lo spettacolo mediatico e il trionfo del verosimile piuttosto che del vero sembrano costituire l’intima essenza del discorso sulla guerra e i diritti umani. In un contesto in cui la propaganda bellica deve assolutamente raggiungere lo scopo di annichilire le coscienze, sotto un profluvio di immagini e parole accuratamente selezionate.

In tale contesto mediatico e propagandistico l’antimilitarismo di classe dovrebbe zittirsi per accordare i propri strumenti con la partitura dominante e piegarsi alla logica “inconfutabile” dei processi spettacolo in cui, come in una farsa ripetuta con successo, a fare le spese delle vendette degli Stati e delle classi al potere, saranno sempre e solo personaggi secondari e miserabili, presentati come “autentici mostri”, come nel caso del caporale russo poco men che ventenne condannato all’ergastolo da un tutt’altro che imparziale tribunale ucraino. Oppure per timore di cadere all’interno delle liste di proscrizione che alcuni giornali e apparati di sicurezza sembrano imbastire quotidianamente in omaggio al vecchio comandamento di epoca bellica e fascista: Taci, il nemico ti ascolta!12.

Invece di denunciare come la sofferenza e il dolore, la morte e lo stupro, la distruzione e il massacro connessi alla macelleria bellica, da qualsiasi parte in causa siano originati, diventino soltanto, in nome dei diritti umani, strumenti di una propaganda per nulla interessata a sradicare davvero ciò da cui tutto questo ha origine, ma soltanto a sostituire il vero con il verosimile.

La realtà di una forma sociale autoritaria, violenta, egoistica e patriarcale fondata sulla trasmissione della proprietà privata, sulla famiglia, idealizzata al di sopra di tutto, e sullo Stato, ma destinata soltanto a legittimare la figura del pater familias e della religione che a sua volta lo legittima in quanto tale. La realtà dello sfruttamento e dell’imbarbarimento rinviabili alla forma sociale capitalistica, in tutti i suoi aspetti, con quella dei diritti risalenti ancora, e soltanto, alle rivoluzioni borghesi. Grandi o piccole che esse siano state. Dietro al cui spirito, presunto, si son sempre mascherate le aspirazioni espansionistiche e di dominio di potenze ormai giunte, piaccia o meno, alla fine del loro corso storico. Di cui, per l’autentico bene della specie, sarebbe auspicabile la caduta non a fronte di una sconfitta nel corso di un conflitto inter-imperialista dalle conseguenze inimmaginabili, ma a causa di uno scontro, non più ulteriormente rinviabile, tra coloro che possiedono quasi tutto e coloro che, uomini e donne, sono stati spossessati di tutto, compresa la loro umanità. Ad Est come a Ovest.


  1. Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 29-32  

  2. op. cit., p. 13  

  3. Ibid, pp. 25-26  

  4. ibid, p. 198  

  5. ivi, p. 199  

  6. pag. 202  

  7. p. 203  

  8. p. 207  

  9. Sandro Moiso, Che cosa resta dei diritti umani?, Carmillaonline, 14 dicembre 2016 successivamente ripreso in Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019  

  10. Lyudmyla Denisova, Donne stuprate davanti ai figli, porteremo le prove dei crimini russi, «La Stampa», Domenica17 aprile 2022, p.8  

  11. Kiev rimuove dall’incarico la commissaria Denisova, «La Stampa» Mercoledì 1 giugno 2022, p. 11  

  12. cfr. Lo scandalo dei dossier investe il Dis e il governo, il Fatto Quotidiano, mercoledì 8 giugno 2022  

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Divine divane visioni (Urlando furioso 03/04) – 48 https://www.carmillaonline.com/2013/05/22/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0304-48/ Tue, 21 May 2013 22:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5865 di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare [...]]]> di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan
Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare le prese scart senza far casino e alla fine ce la faccio. Infilo una vecchia videocassetta, schiaccio rec e già che ci sono mi vedo pure il film in diretta. Ed è un buon prodotto dove si racconta un periodo solitamente travolto dalla semplificazione storiografica, punitiva e negazionista, che preferisce parlare di generici Anni di piombo o che, in perfetta e speculare banalizzazione, li sputtana beandosi del riflusso (come col fazioso Anima mia, e de li mortacci sua). Era una stagione ricca, di lotta politica, certo, e di generosità, dove la voglia di confronto e di esperienze erano lontane da ciò che la società voleva imporre. Reducismo e vittimismo hanno fatto un cattivo servizio alla memoria ma il bel documentario di Rastelli – che utilizza materiali diversi, tra cui i famosi nastri di Alberto Grifi – evita questi sentieri fuorvianti e restituisce il sapore di quell’elettricità raccontando il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro del 1976. Si parla di ideologia, di utopia e della sua morte. Nudi verso la follia però non è un film concerto e la musica è un mezzo di comunicazione politica e sensuale. Tra gli intervistati Stefania Maggio (che all’epoca era giovanissima, autonoma, e naturalmente nuda), Fabrizio Passarella (uno degli organizzatori), Alberto Camerini, Eugenio Finardi e lo splendido Patrizio Fariselli degli Area. Bello! La mia testolina passa repente ad altro: ieri è morto Ronald Reagan, un mio nemico. Non vinse affatto la Guerra Fredda, come titola Repubblica, con una falsificazione emblematica (non son sicuro di cosa, ci devo pensare). Era invece un caprone manicheo, un assassino, un bugiardo, uno spione e pure un attore cane. Però aveva nel suo staff dei buoni battutisti: “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro. La depressione è quando tu perdi il tuo. La ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”. Non mi mancherà per niente: adesso aspetto sulla riva del fiume la Thatcher e Andreotti e poi posso spirare tranquillo. (Diretta su Canal Jimmy; 6/6/04)

ddv4802

472 – Sempre un piacere, Angel Heart, di Alan Parker, USA 1987
Questo è un mio personalissimo cult: all’uscita lo vidi tre volte in sala. La prima con Pier Paolo, dopo il Natale 1987. Poi, poco dopo, con Ferro e l’ultima volta a Champoluc, con la consueta compagnia di amici vacanzieri: degenerò in lite finale su senso e qualità del film. La vicenda, all’epoca, ci sembrava un rompicapo, oggi è limpidissima, quasi lampante nella sua evidenza, ma il film non ha perso un briciolo del suo fascino malato, ricco di temi visivi ossessivi: scale, ventole, pioggia, sangue. Harry Angel è di Brooklyn e non sopporta i polli: a New Orleans lo aspettano tip tap sinistri e incesto, l’aspra cultura cajun e il potere ambiguo della radice di Guglielmo il Conquistatore. Siamo catapultati in una Louisiana umida e sensuale, al suono del blues, tra riti voodoo e patti col diavolo: cosa voglio di più? In più c’è un cast da infarto: De Niro – manierato, sardonico, inquietante – si presenta subito come Louis Chyphre, citando i Rolling Stones. Lisa Bonet è di una bellezza stratosferica e cancella ogni ricordo televisivo dei Robinson: il destino le riserverà qualche pestaggio da parte di Lenny Kravitz e l’oblio, purtroppo. E infine c’è Mickey Rourke, l’attore in cui avevamo riposto ogni fiducia: un corpaccione pesante, ancora lontano da chirurgia estetica e orchidee selvagge. Diede presto segni di squilibrio consegnandosi alla Cavani per il tremendo Francesco e la conferma che c’era qualcosa di sbagliato arrivò con la strampalata carriera pugilistica. Ma era e rimane un grande, anche suonato. Il film è un pastiche di diversi generi (noir, thriller, horror), ma funziona ancora e pur conoscendolo a memoria (e non lo vedevo da 15 anni!), m’è filato veloce come un treno. A voler essere pignoli, forse Lucifero poteva escogitare un modo più semplice e veloce per ottenere il tributo dovutogli, ma evidentemente gli piacciono le cose ben fatte e adesso Harry Angel brucerà all’inferno (arrivandoci in ascensore). Visto in lingua originale: grandissimo film e grandissimo regista, capace sempre di lavorare su più registri. (Dvd; 16/6/04)

ddv4803473 – Molta Sympathy For The Devil, ci mancherebbe, di Jean-Luc Godard, Gran Bretagna 1970
Credo in poche cose e Keith Richards è una di queste. Giusto per chiarire. Poi: ho cominciato da poco a scribacchiare delle veloci recensioni per un mensile chiamato Rodeo che si occupa di fashion e arte e viene distribuito gratuitamente a Milano. Il diretùr è Massimo Torrigiani, lo stesso di Boiler, magazine estremamente hip dove invece vengo tradotto in inglese e distribuito su scala planetaria a fianco di contributors come Pete Townshend e Madonna: Massimo mi ha chiamato e anche stavolta non ho saputo dire di no. Ecco cosa gli ho rifilato. “L’estrema coolness del rock: Keith Richards. Pantalone di velluto attillato, piedi nudi, foulard, collana e sigaretta perennemente in bilico dal labbro. E la chiara visione di come dev’essere inciso un brano leggendario. Jean-Luc Godard, uno che non batte mai strade risapute, mette in parallelo la nascita di uno dei capolavori del rock, l’inno Sympathy For The Devil, con le istanze cinemarxiste di fine anni Sessanta. Ne esce un film logorroico, confusionario ed estenuante, tra piani sequenza interminabili e inafferrabili discorsi concettuosi. Ma poi arrivano i nostri e Jagger insegna gli accordi a un Brian Jones visibilmente stordito. Il pezzo non decolla e allora Keith imbraccia il basso e in mano a Bill Wyman lascia le maracas. Il Fender Precision diventa il propellente ritmico del pezzo che ormai è un sabba musicale sottolineato dalle voci degli amici che fischiano “woo wooo” come un treno. Ciliegina sulla torta, un assolo bruciante che esce da una Les Paul Black Beauty. Film indigeribile per molti, ma di straordinario appeal visivo e sonoro. Come nasce la Rivoluzione? Come nasce un capolavoro? Ineffabile, anche Godard alla fine avrà canticchiato It’s Only Rock’n’Roll”. Un po’ leccatino, eh? Vabbeh: qualcos’altro da aggiungere a questa miniatura? Se non è già abbastanza chiaro, gli sproloqui di Jean-Luc risultano micidiali: ho resistito mezz’ora poi ho lasciato il mezzo svizzero al suo delirante collage sonoro e ho smesso di vedere, guardavo soltanto: una fotografia notevole al servizio delle interminabile inquadrature; un’edicola come paradigma del consumo contemporaneo; tanti black panthers arrabbiati; Anna Wiazemsky intervistata che risponde per monosillabi; slogan come “Freudemocracy” e “Sovietcong” scritti per le strade. Film antinarrativo, non è sottotitolato, ma non vedo come potrebbe. In settimana volo per lavoro a Roma e seduto due posti davanti a me c’è l’onorevole Ugo Intini, un acerrimo nemico dei miei vent’anni, quando era ogni sera in tivù a commentare entusiasticamente ogni uscita del cinghialone. Oggi è eletto nelle fila dell’Ulivo. Vorrei aprire uno sportellone e buttarmi giù. (Dvd; 2/7/04)

ddv4804474 – Nido di vespe, una vaccata di Florent-Emilio Siri, Francia 2002
È il colpo perfetto: un deposito nella banlieue di Strasburgo, pronto da svaligiare. Santino, Nasser e company si sentono già ricchi quando, inseguito da una milionata di balcanici incazzati e armati fino ai denti, arriva un blindato con dentro quattro flic e il loro preziosissimo prigioniero: il boss totale della mafia albanese. Diventa Fort Apache, con rapinatori e “buoni” che devono unirsi per salvare la pellaccia. Sparatorie, adrenalina e una discreta costruzione. Però il film crolla quando dovrebbe tirar fuori le palle: gli assediati costruiscono una sorta di fortino con dei container e questo momento epico viene buttato via, dimenticando la lezione di tutti i film d’assedio. E fin qui, passi. Ma lo scempio si compie con la liberazione. Secondo i sacri manuali tutto il film dovrebbe essere una lenta e sapiente costruzione dell’orgasmico “arrivano i nostri”. L’intelligenza del bravo sceneggiatore sta nel saper giocare con la prevedibilità della ricetta, inventando qualche variazione e aggiungendo qualche ingrediente nuovo. Qui – oltre a rubacchiare fin troppo da Carpenter – si fa presto: si evita la liberazione e si vede direttamente il dopo, dovendoci bastare il sacrificio di uno dei resistenti che si immola ammazzando un po’ di avversari. E chi sa se li ha fatti fuori tutti o no. Boh: la polizia è arrivata e i nostri eroi sono pronti per il ricovero. Zero psicologia, zero relazione tra i personaggi, neanche qualche banale legame o chimica interpersonale, niente. E i dialoghi fanno paura per pigrizia inventiva. Peccato. Film a parer mio scarsuccio, di cui ricordo invece ottime recensioni da parte di critici distratti o disperati. In questi giorni ho anche visto diversi episodi di Friends: c’è stato uno scambio tra drogati (con Nuria, che ha ricevuto i miei Sex and The City) e ho messo le mani sui Dvd della prima serie dell’epocale sit-com. Con la scusa dell’esercizio linguistico e qualche non meglio precisato interesse professionale del sottoscritto, Barbara e io abbiamo polverizzato i 4 dischetti. Oggi, delle ultime serie del telefilm, m’importa poco: vicende stanche e ripetitive, chiaramente aggrappate al bisogno di soddisfare l’audience e onorare contratti milionari. Conosco la solfa: the show must go on e Misery non deve morire. I protagonisti sono diventati insopportabili, ma nel 1994 erano dei twentysomething – non sempre credibili – alla ricerca di un lavoro e di una posizione sociale e sessuale. Gli episodi sono scoppiettanti e il kick off è da manuale: la viziata Rachel è in fuga dal matrimonio e piomba a New York, dall’amica Monica, il cui fratello Ross è appena stato lasciato dalla moglie scopertasi lesbica. Di contorno gli altri tre amici: il professionista Chandler, l’attore Joey e la scapestrata hippie Phoebe. I tic, le manie, i sogni, i timori di sei ragazzi che rappresentano perfettamente la nazione americana, eterna fanciulla che rifiuta di crescere e deve fare i conti con l’età adulta. E che la rappresentano anche come vorrebbe essere: sempre giovane, generosamente ingenua, bianca, lavoratrice, positiva, felice. Anche se nella versione originale le risate sono molto presenti, ci si abitua presto e – vi assicuro – è una gioia ottusa ridere in tanti. (Dvd; 11/7/04)

ddv4805475 – Keep calm, raga, ma ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003, stavolta a Mantova
Mentre a Milano Fame chimica resiste in sala, la demenziale logica distributiva della Lucky Red è continuamente smentita dalle richieste di rassegne e cineclub: stasera sono assieme al regista Paolo a presentare il film a Mantova, in un attivissimo cinema d’essai, il Mignon. Lo anima Agostino, vecchio amico del mio mentore Davide Parenti, col quale anni fa organizzava rassegne. In qualche modo sembra di tornare a casa e la proiezione è all’aperto, con uno schermo che ricorda quello di Strategia del ragno. L’atmosfera è del resto bertolucciana fin dall’entrata del Mignon, con le foto di scena di Novecento, girato nei dintorni. Assieme ad Agostino c’è Claudio, suo compagno di ricognizioni cinematografiche. Questa è gente che vive di cinema: lo mangia, lo respira, lo sogna e non s’è ancora disillusa, nonostante distributori, produttori e spettatori distratti provino a rendergli la vita impossibile in ogni maniera. La sala resiste ed è un gioiellino, dove non è solo di prima qualità la scelta dei titoli ma anche la proiezione e il sonoro. E i mantovani devono saperlo: la città è deserta e fa un caldo sudanese, ma non c’è un posto libero. Durante la proiezione andiamo a mangiarci una pizza con gli organizzatori e si parte coi classici racconti da cineclub: le pellicole non arrivate o sbagliate, le tipologie di spettatori e le modalità di visione, gli abbagli critici, quell’esilarante volta che… e così via. Non posso esimermi dal raccontare della traduzione simultanea dei gelidi film tedeschi al Lumière (l’interprete, con la cadenza del Gabibbo, ci metteva una partecipazione nulla e aveva sempre la stessa intonazione, sia che fosse una scena comica o una sparatoria) o della volta che ho visto Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulesov con le didascalie in cirillico e la voce affranta da fondo sala che continuava a chiedere: “ma non c’è qualcuno che sa il russo?”. Torniamo in tempo per i titoli di coda e il dibattito, quanto mai piacevole. Pubblico attento, curioso e pieno di domande. Ed è bello, perché si conosce della gente e le loro motivazioni: come si viene a sapere di un titolo, perché si decide di vederlo, come lo si commenta. Viva il pubblico, perché suo è il regno dei cinema! (Cinema Mignon, Mantova; 20/7/04)

ddv4806476 – Il fragile Unbreakable di M. Night Shyamalan, USA 2000
Se non l’avete visto, non leggete oltre. David (Bruce Willis) vive come narcotizzato: non comprende il mondo che lo circonda, è ai ferri corti con la moglie, non riesce a stabilire un ruolo nei confronti del figlio. Ed è l’unico sopravvissuto in un incidente ferroviario con un pacco di morti. Il culo, eh? Lo rintraccia un collezionista di fumetti (Samuel L. Jackson) che crede che la mitologia dei comics abbia più di qualche aggancio alla realtà e gli chiede quanti infortuni abbia avuto in vita sua. E David si rende conto che non è mai stato male. Il suo interlocutore, invece, è il più debole possibile: lo chiamano Mr. Glass perché le sue ossa si spezzano soltanto a guardarle. David non vuole essere scocciato da questo matto, ma il dubbio è stato instillato: e se fosse veramente un super eroe, come insinua l’uomo di vetro? Perché, quando sfiora qualcuno, ha delle premonizioni e capisce se faranno del male o no? È pura suggestione? È vero che anche lui ha un punto debole (l’acqua), come l’epica (anche fumettistica) insegna? Shyamalan tenta una cosa molto difficile: ragionare sui meccanismi della narrazione popolare costruendo al contempo una vicenda che possa essere fruita come tale, secondo gli archetipi della cultura media, comprensibile da tutti. Gioca con le ossessioni americane, con la cultura popolare yankee, con le leggende metropolitane, col Caso che non è mai casuale. Il film risulta più sciocco delle idee che lo animano e ha alti e bassi (una certa lentezza, tra l’altro), ma l’idea mi piace, per cui lo promuovo. Forse David è un super eroe: potrebbe, gli elementi ci sono tutti. Ma forse no: l’unico momento che non ha giustificazione logica è quando intuisce che l’addetto alla pulizia della stazione dei treni è un assassino. Tutti gli altri casi (quando individua un attentatore o sospetta di altri) risultano plausibili, vuoi per intuito, fortuna o mera possibilità: questo invece è il solo momento in cui la regia non trova una motivazione attendibile per l’operato del protagonista. E quindi il dubbio rimane: non è un errore, è un’incertezza voluta, direi. Bruce Willis è abbastanza ligneo, come da trademark, pur tuttavia simpatico in questi ruoli dolenti, dove soffre perché non capisce che cazzo ci stia a fare lì, con un regista che una volta lo fa morto e l’altra superman. (Dvd; 24/7/04)

ddv4807477 – Neanche troppe, Sei donne per l’assassino, di Mario Bava, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1964
Siamo a Brisino per una settimana, prima di dedicarci al Tour de Corse, e le serate sono perfette per quella straordinaria invenzione che è il Dvd. Considerato sia il primo body count che il primo slasher della storia del cinema, Sei donne per l’assassino è una sinfonia di morte, colori e musica clamorosamente orchestrata dal talento visivo di Mario Bava. Il plot è lineare e perverso ed è stato concepito e sceneggiato da quel Marcello Fondato già co-autore di Tutti a casa e poi insuperato regista di …Altrimenti ci arrabbiamo (un uomo, un genio, insomma): in una fashion house romana vengono fatte secche una modella dopo l’altra. Chi è stato, tra i tanti (uomini) che razzolano l’ambiente? Il mistero attizza e Bava sa come tenerti sulla corda: ogni uccisione è inventiva e raggiunge un nuovo grado di efferatezza. Dario Argento deve essere cresciuto su questo sacro testo che usa tutto alla perfezione per costruire un universo allucinato veramente de paura. Due anni fa mi aveva colpito l’incredibile irrealistica fotografia de La frusta e il corpo; qui il lavoro di Ubaldo Terzano è a livelli spaziali e ogni inquadratura è studiata nei minimi particolari cromatici, una tavolozza accesa da rossi violentissimi ma anche ammorbidita da luci di contrasto perfette. Rustichelli poi sottolinea il tutto con una musica inquietante e ineludibile. Certo, gli attori non son granché e la storia va via veloce, ma che pacchia per gli occhi e le orecchie: Bava si dimostra uno stilista eccezionale. Satisfaction! (Dvd; 25/7/04)

ddv4808478 – Il capolavoro, cosa te lo dico a fare?, Rear Window, di Alfred Hitchcock, USA 1954
Questo La finestra sul cortile me lo rivedo ogni volta che posso e la versione restaurata in lingua originale su Dvd è occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Il film è splendido e intelligentissimo (io molto meno e potrei contestare solo due o tre scelte di montaggio, con delle giunte sgradevoli) ed è molto più di un semplice thrilling. È un’incontestabile difesa della scopofilia: Jeff (James Stewart), altrimenti fotoreporter scavezzacollo, è immobilizzato su una sedia a rotelle e passa il tempo osservando i suoi vicini di casa che gravitano sul cortile del retro. È insofferente, vuole liberarsi del gesso e ricominciare a girare per il mondo. Ma c’è un altro ostacolo: l’altolocata ed elegantissima fidanzata Lisa (Grace Kelly) vuole impalmarlo e addomesticarlo. L’ossessione guardona distoglie la coppia dai bisticci: la massaggiatrice Stella e Lisa sono all’inizio indignate della curiosità di Jeff, poi vengono tirate dentro: c’è un delitto da smascherare! Ma il delitto è l’occasione per riflettere anche sul matrimonio e sui rapporti di coppia. Tutti i vicini rappresentano una diversa tipologia di vita condivisa (o meno): c’è la triste donna sola; ci sono gli sposini che ci danno dentro, la petulante zitella e la desideratissima ballerina. E poi c’è Burr che risolve il suo matrimonio in maniera drastica, dandoci letteralmente un taglio. Hitchcock è malizioso e tutto il rapporto tra Jeff e Lisa è attraversato da una forte tensione erotica. Lei se lo magnerebbe vivo, ma lui è immobilizzato, impotente, ingessato. E il premio per l’intraprendenza di Lisa (che aiuterà a risolvere attivamente il caso) saranno ben due gessi, con Jeff (forse) definitivamente prigioniero. Hitch misogino? Mah! Forse sul set, ma nei suoi film si divertiva un mondo a prendere per il naso il pubblico maschile, blandendolo e compiacendolo, per poi dimostrargli l’incontestabile superiorità femminile. Certo: la coppia Kelly/Stewart è un po’ improbabile… lei è una macrognocca, angelica nell’aspetto ma col fuoco nelle vene. Lui un vecchio gatto di ghisa, dal ciuffo tinto, per nulla ipotizzabile come avventuroso fotoreporter. Com’è possibile che lei sia innamorata di lui? E com’è che di fronte a questa irreale possibilità, lui, impiazzabile sul mercato, offra ancora delle titubanze? Che gran cosa il cinema! Film superlativo, buon Dvd, ottimi extra. (Dvd; 26/7/04)

ddv4809479 – Purtroppo, L’amore è eterno finché dura, di Carlo Verdone, Italia 2004
La residenza estiva a Champoluc viene santificata con una visitina al cinema che mi ha regalato capolavori come Fantozzi, Anche gli angeli mangiano fagioli e …Altrimenti ci arrabbiamo. L’unico film decente è l’ultimo di Verdone e andiamo a subire una cocente delusione. Intendiamoci: in quasi due ore di film ci sono almeno cinque scene molto divertenti, perché Carlo sa far ridere, eccome. Però punta più in alto: non gli basta il comico, vuole la commedia di contenuto, che sappia indagare il costume. Ci prova, ma non gli riesce: dopo la prima azzeccata mezz’ora L’amore è eterno… va spegnendosi, come il rapporto tra Verdone e la moglie Laura Morante, che è (tanto per cambiare) isterica, bidonata e imbidonita. Verdone la lascia e trova una nuova compagna (Stefania Rocca). Ma anche lì non filerà tutto liscio, perché le relazioni affettive sono terribilmente complicate. Verdone è attore fantastico, capace di tic, facce, espressioni assolutamente comiche. Come regista però è meno felice: musiche, montaggio, fotografia, direzione degli attori e soprattutto controllo della sceneggiatura e del ritmo della messa in scena sono molto discontinui, con frequenti cadute di tensione. Peccato. E da carogna noto anche l’utilizzo mal dissimulato di tappo di sughero in testa. Durante il mese d’agosto, mentre eravamo in Corsica, abbiamo anche visto la cerimonia olimpica inaugurale ad Atene, con invenzioni scenografiche semplici ma d’effetto. Emozionante la sfilata degli atleti: io mi commuovo sempre anche perché credo ancora a cazzate come la pace nel mondo, la solidarietà, l’onore sportivo etc. Poi, una sera abbiamo visto mezz’ora di Paz! e ci è parso tremendo, tutto sopra le righe: la regia insegue la geniale anarchia fumettistica di Andrea Pazienza. Ma se ci sono i fumetti che sono dei capolavori, che senso ha rifarli – e male – al cinema? Potrà mai venire bene un balletto di Béjart scolpito? (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 18/8/04)

ddv4810480 – Maestosi Rush In Rio, di Daniel E. Catullo III, Brasile/Canada 2003
Siccome a metà settembre i Rush arrivano in Italia, mi metto avanti col lavoro, guardandomi un recente doppio Dvd che li riprende in concerto. Musicalmente è eccezionale, da un punto di vista produttivo è invece troppo montato. Il palco è buietto e non sempre la definizione è al massimo, ma è tale il coinvolgimento che chi se ne frega? A corredo c’è il bel documentario The Boys in Brazil che racconta come sia nata questa tournée carioca. Conosciamo la segreta alchimia del gruppo (al trio piace la zuppetta!), gli hobby personali e come venga vissuta l’estenuante routine del tour. Tra stadi zeppi, acquazzoni tropicali e commossi fan argentini e cileni, un bel modo di raccontare la musica. Ma chi sono i Rush? Eccovi il pezzo che scriverò tra un mese per Rolling Stone dopo averli visti in concerto a Milano (è un cortocircuito spazio-temporale, lo so: faccio miracoli, embeh?). “È l’ultima sera d’estate e 8000 persone hanno deciso di passarla assieme: sono progster, metalhead e nerd assortiti. Sono fan dei Rush: non una band, una fede. Cieca. Come dimostra anche il passato atteggiamento sartoriale del trio canadese: kimono, caffetani, pantacollant, vezzosi foulard e eyeliner. Oggi vestono come persone normali e vantano un’invidiabile autoironia, sconosciuta ad altri dinosauri del rock: si presentano sul palco con delle lavatrici (!), a centrifugare trent’anni di un repertorio che spazia schizofrenicamente dall’hard anni 70 fino al nu-rock (qualunque cosa significhi) del nuovo millennio, avendo costeggiato il pop synth anni 80 e soprattutto il progressive più fantascientifico. Geddy Lee è forse il frontman meno glamourous della storia del rock: brutto come pochi (sembra la strega Nocciola), segaligno e dotato di una voce incredibile, come se avesse i testicoli in una pressa. Mette subito le cose in chiaro: “suoneremo un milione di canzoni”. Lo accompagnano il pingue e pacioccone chitarrista Alex Lifeson e il very cool Neil Peart, tecnicissimo batterista attorniato da un kit rotante che sembra una centrale termoelettrica e farebbe la gioia di una decina di garage band. Amati in USA, di culto in Europa, i Rush devono la loro gloria a concept visionari (talvolta amabilmente cialtroni) e a una miriade di canzoni, ormai classici, decisamente imprevedibili. Come quella che racconta della lite nel bosco tra aceri e querce, per dire. Bellissima. Ma la vita è dura e al buon Peart, nel giro di un anno sono morte figlia e moglie. Dopo una comprensibile pausa lavorativa i tre amici si son guardati in faccia: questo san fare, suonare. E allora, via!: vai di tour, dischi e dvd. Loro si divertono e il pubblico – a giudicare anche dal successo della data milanese – anche di più: un vero show, generosissimo, divertente, vario, ricco di luci e immagini dai mega schermi. E tra i tanti loghi della band ne spunta anche uno vecchio come loro, ma altrettanto attuale: fate l’amore, non fate la guerra. Ed eviterete l’estinzione.” Bel Dvd, grandissimi musicisti e belle persone. Ma occupiamoci dell’Italia, va’! Cesare Battisti s’è dato alla macchia e ci son grandi polemiche, con la sinistra che – adesso – se la piglia con Castelli perché non è stato abbastanza cane da guardia. Siamo proprio un paese di merda. In Iraq è stato assassinato il prigioniero italiano Enzo Baldoni, pubblicitario, traduttore di fumetti, blogger, viaggiatore, reporter, volontario. Una persona curiosa che si intuisce splendida dal ricordo addolorato di tutti gli amici e conoscenti. Il foglio di merda che è Libero si distingue come al solito e non nasconde la soddisfazione che un pacifista sia finito ammazzato, un “amico dei terroristi”, uno “che se l’era andata a cercare”. Uno, aggiungo io, che il giornalista non lo faceva dalla poltroncina al soldo del padrone e con le agenzie embedded, ma andandoci, in Iraq, anche e soprattutto per aiutare. E à la guerre comme à la guerre, tutte le vite dei giornalisti di Libero non valgono dieci minuti dell’esistenza di Baldoni. Con rancore. (Dvd; 23/8/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 48)

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