Brooke Shields – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni – 83 https://www.carmillaonline.com/2022/06/16/divine-divane-visioni-antiquissime-83/ Thu, 16 Jun 2022 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72384 di Dziga Cacace

Tutto quello che conta è come puzziamo assieme (Re Julien, Madagascar 2)

948 – Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì di Adriano Celentano, Italia/ Repubblica Federale Tedesca 1985 Qui siamo dalle parti del capolavoro incomprensibile, un delirio cattoconfuso dove collidono aspirazioni altissime, pauperismo, ossessione anticomunista, megalomania incontenibile, intuizioni folli, momenti grotteschi e cristianesimo hippie, tutto assieme appassionatamente come si conviene a un musical con risultati indefinibili che oscilla tra Jesus Christ Superstar Yuppi Du ma con l’estetica traviata da Flashdance. In poche parole Adriano ci [...]]]> di Dziga Cacace

Tutto quello che conta è come puzziamo assieme (Re Julien, Madagascar 2)

948 – Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì di Adriano Celentano, Italia/ Repubblica Federale Tedesca 1985
Qui siamo dalle parti del capolavoro incomprensibile, un delirio cattoconfuso dove collidono aspirazioni altissime, pauperismo, ossessione anticomunista, megalomania incontenibile, intuizioni folli, momenti grotteschi e cristianesimo hippie, tutto assieme appassionatamente come si conviene a un musical con risultati indefinibili che oscilla tra Jesus Christ Superstar Yuppi Du ma con l’estetica traviata da Flashdance. In poche parole Adriano ci racconta di un secondo avvento, con un vagabondo postmoderno, Joan Lui, che arriva in Italia in treno, tra un Giuseppe ferroviere e una Maria che fa la maglia, e poi si trova a Genova (!). Intorno a lui si radunano tanti giovani con la faccia di cazzo e lui canta come la società sia vittima di violenza e droga e tutti siano omologati in questo mondo “transistorizzato” (sono scene al porto antico e sulla sopraelevata, con migliaia di persone affacciate ovunque per vedere le riprese e l’operatore che non si cura minimamente di tagliarle dalle inquadrature). In poco tempo il santone sui generis Joan diventa un personaggio del mondo dello spettacolo e continua la sua predicazione, atterrito da come sia ridotto il mondo. Invoca il Signore: “ma perché ci hai dato tutta questa libertà?”. E il mondo – non senza qualche buon motivo – non vuole ascoltarlo. Ci si mette anche un diabolico tale Jarak, Giuda redivivo, impersonificazione del maligno, che prova a comprarselo ma Joan Lui non cede e trova il tempo di fare una piazzata al Tempio (pieno di prostitute, intellettuali, spacciatori e mercanti) dove suona una band con musicisti vestiti da cardinali e si trovano baristi con la mitra in testa. È tutto un pastone, con riferimenti al presente (il rapimento di Emanuela Orlandi) e attacchi alla tecnologia, all’edonismo, all’aborto, alle dipendenze e al socialismo sovietico. Celentano ha le stimmate, miracola ciechi, deformi e storpi e alterna questi momenti, che volendo potrebbero anche sembrare blasfemi, a momenti di surreale comicità scimmiesca che non c’entrano nulla e sarebbero pure la cosa migliore. E tutto ciò con la grammatica del musical: ogni tanto lui, cioè Lui, comincia a cantare, tra inglese maccheronico e parole profetiche. È tutto… esploso, non so come dire, e ogni tanto ci sono lampi di creatività che non ti aspetti, col montaggio curato da Celentano, che sciorina overlap e jumpcut. Dopo tante vicissitudini (e una performance di Claudia Mori nuda sotto una cascata) si arriva a un’Ultima cena in trattoria – giuro – e a delle conclusioni che sembrano una risoluzione strategica delle B.R. in acido: “il mondo è un insieme di corporazioni che formano tutto intorno alla crosta terrestre come… uno spessore di merda stratificato su tutte le nazioni (…) e questa merda l’avete messa voi!”. Di fronte alla constatazione che se Cristo tornasse sarebbe ucciso di nuovo, e anche per meno di trenta denari, Joan Lui viene assassinato e risorge mentre scoppia l’apocalisse ed è troppo tardi per pentirsi: un terremoto distrugge ogni cosa in una apoteosi biblica e splatter. Io veramente con la mascella crollata davanti a ‘sta roba qui. (28/6/12)

955 – Vivere alla grande di Martin Brest, USA 1979
Questo devo averlo visto la prima volta in tivù nel 1986. Storia semplice e irresistibile: tre vecchietti stufi marci della vita ebete che conducono, compiono una improbabile rapina che gli frutta 37mila dollari. Una miseria che per loro è però una cifra notevole. Ma soprattutto è la botta di vita che li rende felici. Fin troppo. All’indomani del colpo Willie (il grande Lee Strasberg) ha un infarto. Gli altri due, per parare il colpo, decidono di volare a Las Vegas e fare quello che non hanno mai potuto permettersi: giocare senza stare attenti al centesimo. E come capita sempre ai principianti, vincono a mani basse 70mila dollari ulteriori. Ma la polizia li ha individuati e sfiancato dalla fatica e dalle troppe emozioni Al (Art Carney, anche lui grandissimo) ci rimane secco nel sonno. Il mattino dei funerali Joe (George Burns, il migliore del trio) viene arrestato come se fosse un pericoloso delinquente. Ha già lasciato tutti i soldi al genero di Al e se ne va in carcere senza battere ciglio. Non dirà mai dove ha messo il bottino e finalmente viene trattato con un po’ di affetto e rispetto dagli altri detenuti. Commedia dolce-amara, con lentezze pronunciate, leggerezza e senso: anche se superficialmente e con le classiche gag, si parla di vecchiaia, solitudine e memoria. Il regista Martin Brest sarà poi responsabile di un capolavoro (Prima di mezzanotte) e di un monumento al kitsch (Scent of A Woman): qui aveva 28 anni ed era già un regista maturo: il film è affettuoso, simpatico e gli voglio un bene dell’anima. (11/7/12)

956 – Alba rossa di John Milius, USA 1984
A Milius non puoi non essere affezionato per tanti motivi che qui sarebbe troppo lungo ricordare ma di fronte ad Alba rossa io vacillo completamente. In un film così o ci entri subito, accettando il patto con la regia, oppure soffri come un cane. E io ho sofferto eccome: l’ho trovato surreale nelle premesse e illogico e ridicolo nelle conseguenze. Si parte con delle severe didascalie: il raccolto è andato male e l’URSS deve fronteggiare la crisi economica, c’è maretta nel Patto di Varsavia e l’Europa è in mano ai verdi e ai soliti omosessuali pacifisti. Il Messico è sconvolto dall’ennesima rivoluzione e un bel giorno russi e cubani invadono gli USA. Si chiamerebbe sospensione d’incredulità ma qui siamo oltre. Vabbeh. La storia è ambientata in un freddo postaccio rurale, Calumet, abitato da burini montanari completamente rincoglioniti. Un gruppo di ragazzi scappa sulle montagne, dove per un po’ gioca ai boy scout ribelli (e anche se non è colpa loro sembrano dei paninari, con le Timberland, i piumini e i jeans): quando tornano in città sono invisibili. In teoria sono ricercati ma nessuno li ferma: del resto gli invasori sono dei pasticcioni capaci solo di allestire campi di rieducazione e di appendere manifesti di Lenin ovunque, e che siano riusciti ad avere ragione degli USA in un amen non suona per nulla contraddittorio. A me non importa che l’assunto ideologico sia sfacciatamente reazionario, è che qui faccio veramente fatica: trovo tutto sconclusionato, tristanzuolo e noioso, e manca completamente un’epica credibile, essendo il contesto ridicolo, la recitazione improbabile e la psicologia dei protagonisti elementare. Il cast è ricco di attori che sarebbero diventati poi famosi (Patrick Swayze e Jennifer Grey dopo tre anni diventeranno divi planetari con Dirty Dancing), qui incappati in una direzione che li costringe a scene madri assurde una dopo l’altra, piangendo come fontane a ogni piè sospinto. I novelli partigiani autonominatisi Wolverines e che di partigiano non hanno nulla, se non qualche baschetto di maniera, si nascondono nella foresta degli Arapaho (cosa che dà ancor più il sapore della burla ma solo per motivi italiani). Gli brucia ancora il culo per Saigon e compagnia bella, ma non hanno imparato niente dalla guerriglia vietcong. Quando arriva l’inverno, voilà, eccoli conciati come sissit finlandesi, giusto per accendere qualche sinapsi negli appassionati di storia. I cubani esibiscono baffoni e fumano il sigaro, i sovietici sono mentitori nati e vigliacchi, capaci solo di fucilare allegramente indifesi patrioti che cantano America the Beautiful (giuro). Il gioco al ribasso è tale, tra invasori dementi e partigiani stupidi senza proseliti, che l’orchite è spontanea e ti viene da parteggiare troppissimo per gli invasori. I ribelli vengono decimati, nonostante le parziali vittorie in cui sparano sempre meglio degli avversari che sono militari veri e propri, miracoli balistici del cinema. Gli unici sprazzi di vitalità si hanno nella cattiveria dell’esecuzione dei prigionieri, con l’interrogativo, di fronte alla barbarie: “qual è la differenza tra noi e loro?” e la pronta risposta, ottusa e ferrea: “Questa terra è mia!”, roba da far rivoltare nella tomba Woody Guthrie. La penultima scena ci riserva un momento sublime: Patrick Swayze, bucherellato, porta via il fratello morente, Charlie Sheen. Un militare cubano, ammirato dall’eroismo fraterno (ma anche dall’empito rebelde in lui mai spento, evidentemente), li lascia crepare in pace salutandoli con un onorevole “Vaya con Dios!”. Alla fine la guerra sarà vinta, ma non da loro. E ci mancherebbe altro. Questa cosa stupefacente è stata scritta da Milius rivedendo un plot di Kevin Reynolds, regista di Fandango. Io proprio non so, anche perché il film ha tanti ammiratori intelligenti e se rileggo in Rete i commenti mi sento un po’ stupido io. E poi ho trovato un’intervista a John Milius in cui il regista rifiuta di essere definito destrorso: preferisce dirsi libertario, contro l’autorità dello stato, al punto che apprezza Marx e i comunisti che lo stato lo vogliono abbattere. Gli fa schifo il sandinista Daniel Ortega ma Ho Chi Minh per niente e pure Fidel Castro che secondo lui è un puro che non lascerà in eredità niente. Boh, io rimango confuso ma anche Milius non scherza, secondo me. (Dvd; 12/7/12)

958 – Diavolo in corpo di Marco Bellocchio, Italia/Francia 1986
Bellocchio si fa densissimo e contorto, io mi concentro dolorosamente senza capire e però il film – dalla fotografia pallida e dalla recitazione talvolta asinina – si fa vedere perché ha un insospettabile ritmo interno. Giulia – Maruschka Detmers, olandesina godardiana (Prénom Carmen) che sa essere innocente e peccatrice – è figlia di una vittima delle B.R. e al contempo fidanzata e sposa promessa di un pentito convertito al cattolicesimo. Viene notata sul suo terrazzo di casa dallo studente Andrea che frequenta un liceo classico dove la sua classe, ai piani alti, è raggiungibile grazie a finestre sempre aperte (e che danno anche su di un carcere). Man mano che si va avanti, vien fuori che tutti conoscono tutti. L’avvocato del pentito è in analisi dal padre di Andrea, che in passato ha avuto in terapia anche Giulia (“è pazza”, la diagnosi) e forse c’è stato pure qualcosa. Padri contro figli, lotta allo Stato, dissociazione, sensualità, disperazione: nella scena finale dell’esame di maturità Andrea fa un figurone (e non si capisce quando abbia studiato, ma del resto era pure finta la classe, senza una cartella o un astuccio aperto) e ci ricorda il libero arbitrio nel canto dantesco di Cacciaguida e la scelta tra legge degli uomini e legge di natura nell’Antigone di Sofocle. (Non so nulla degli studenti di oggi: ai tempi miei questa era fantascienza pura, ma sarò stato io un liceale asino). Il film deve la sua fama a una scena di fellatio abbastanza deprimente perché fotografata male, di sguincio, con imbarazzo. Ma non mi lamento perché non si veda bene il pompino ma perché risulti tutto scoordinato, con la Detmers che ride e l’attore Federico Pitzalis (mai più sentito) poco a suo agio. Ci sono altre scene di sesso qui e là, ma è come se l’eros fosse anestetizzato da questa stagione di pentimento generalizzato e non ancora compreso, un sesso disperato e avvilito. La Detmers è attrice ben strana, non aiutata dalle sue risate nordiche e gutturali in originale e poi con la voce chioccia e flebile del doppiaggio. Il suo personaggio ride sguaiato, poi piange, urla, pratica il rapporto orale, si pente, spacca i piatti, gli fai schifo, ti dà un bacio, ti mena uno schiaffo… ‘na pazza, insomma, come diceva l’analista. Ma sembra quasi una coloritura, non lo spunto per una riflessione sul disagio e la schizofrenia o perlomeno così m’è parso (ma ripeto: ero uno studente sciagurato e probabilmente lo sono rimasto). Dopo che un prof ha sentenziato che “Si può anche vivere senza essere marxisti”, si conclude con Maruschka che piange felice di fronte al bell’esame del muscolato Andrea e fine. Di botto, all’improvviso. Boh. Film non particolarmente verboso ma didascalico, mortificato da una grammatica elementare e soprattutto freddo e cerebrale. Unico lampo di umanità che ho colto io la scena d’amore cruda e toccante tra irriducibili in una gabbia del processo. Il film nasce da un soggetto scritto da Bellocchio con Enrico Palandri su vaga ispirazione del romanzo di Raymond Radiguet, ed è dedicato affettuosamente allo psicanalista Massimo Fagioli. Mah. (Dvd; 18/7/12)

959 – Laguna blu di Randal Kleiser, quello di Grease, USA 1980
Io questa pedovaccata non l’avevo mai vista. Oddio: magari qualche scena, di passaggio, ma mai mi ero fermato per seguirne lo sviluppo e facevo bene perché una volta che sei catturato è impossibile staccarsene, è una fiabona ineludibile: in epoca vittoriana Richard e la cugina Emmeline naufragano bambini su un lussurioso isolotto del pacifico. Crescono assieme al marinaio panzone Paddy che però indulge con l’acquavite e un bel dì ci rimane secco. I due superstiti si arrangiano e vivono come fratelli ma fratelli non sono e quando arriva la pubertà, e beh, sono attirati l’uno dall’altra, diventano litigarelli, nervosetti e in buona sostanza arrazzati come due macachi in calore. Lei – la quattordicenne Brooke Shields – è uno degli esiti evoluzionistici del Sapiens Sapiens più clamorosi, con due occhi felini, i capelli pudicamente appiccicati al seno acerbo e il broncetto di chi sa di essere bellissima. Lui – lo gnoccolone muscoloso Christopher Atkins, in realtà diciottenne – è un Big Jim biondo (per cui Big Jeff, se la memoria non mi tradisce) che non può che stare sulle balle a tutta la popolazione maschile mondiale eterosessuale. Ovviamente i due non capiscono una mazza del subbuglio ormonale di cui son preda e in un innocente ritorno allo stato di natura cominciano a darci dentro come dei bonobo, sinché Emmeline non rimane incinta. Ogni cosa è una scoperta e in effetti non avendo alcuna educazione, orientarsi in quel casino che è la vita non risulta semplice. Tanto più che sull’isola ci son dei selvaggi antropofagi che indulgono nella gradevole pratica del sacrificio umano. I due bellocci hanno infine un figlio, fino a una chiusa che ha qualcosa di enigmatico. Laguna blu, ennesimo successone al botteghino di quel tipo incredibile che è stato Randal Kleiser (che poi ci avrebbe anche regalato Summer Lovers), è un film pruriginoso ma a carica erotica controllatissima, per famiglie, da strizzate d’occhio, anche salaci (il frustrato Richard che a un certo punto va su uno scoglio – comodissimo – a farsi una zaganella) (o a tirare il collo all’oca) (giusto per non dire farsi una sega che faceva brutto, eh, qui siamo signori). La fotografia di Néstor Almendros è bella e funzionale a dare respiro a una vicenda semplice che alla fin fine vede i due protagonisti non far altro che nuotare, pescare, dormire, mangiare, cogliere frutti, sorprendersi di un certo arrazzamento, fino all’immancabile copula, però dissimulata tra grandi abbracci. Viene tutto intervallato contrappuntisticamente da iguane, tarantole, tartarughe, mantidi religiose, pesciazzi, pappagalli e altri uccelli. Fuorché quello di Richard. (18/7/12)

960 – Paradise di Stuart Gillard, Canada 1982
E siccome son critico serio, procedo immantinente alla comparazione col clone Paradise, un Laguna blu sabbioso e un po’ più hard. Il plot è pressoché identico, sennonché nella scopiazzatura viene inserito un motivo di tensione che fa reggere fino alla fine la vicenda: la splendida Phoebe Cates, Sarah, è presa di mira da uno schiavista arabo, lo Sciacallo, che la vuole nel suo harem. Lei affronta una traversata del deserto, da Baghdad a Damasco, e in carovana c’è anche il giovane David, figlio di predicatori e pure rampollo della Famiglia Bradford, per chi ne avesse memoria televisiva. Finisce in massacro, coi ragazzotti che scampano alla morte e trovano rifugio in una splendida oasi, con vista su un lago interno dalle spiagge tropicali. La congruenza geografica non rientrava nei piani del regista anche sceneggiatore, suppongo. Così come la logica: infatti basta uno stacco di montaggio e questi due si son fatti la villetta di bambù tra le palme, a più piani, con veranda e dondolo, in attesa di futuro condono edilizio. Il sole spacca le pietre e lei ha prontamente un bikini tipo Ursula Andress in 007, mentre lui esibisce perizoma e gilet. La vita idilliaca con crema solare a protezione 50 prosegue tra vaghe tentazioni carnali, intervallata da tramonti tra le dune o sul lago e allietata dalla presenza di uno scimpanzé burlone. Ma lo Sciacallo – incarnazione di tutti i luoghi comuni sugli arabi – vuole fortissimamente Sarah e insiste a dare la caccia alla coppia: inseguimenti, fughe, cammelli, palme, cocchi, nuotate nel mare all’interno del deserto (con clamorosa barriera corallina, wow!) e ovviamente l’amore. Con gli stessi passaggi di Laguna blu, ma con molte più scene di nudo e diverse strategiche docce a ogni cascata che si trovi tra le sabbie, cosa probabilissima. I due ci danno dentro a ripetizione a 40 gradi di temperatura e la regia piuttosto bovina riprende carezze, tette spremute e occhi chiusi in rapita estasi. Fino alla prossima doccia. Si conclude con un duello risolutore: quando un uomo con cavallo e sciabola incontra un fesso con l’arco, il suo destino è segnato e si torna alla civiltà sulle note virali della sigla di coda, la Paradise cantata dalla Cates medesima, canzone di cui basta la citazione perché ti si incisti nel cervello per qualche giorno. Concludo: filmaccio turpe per adolescenti che infatti mi ha divertito un mondo. (19/7/12)

871 – Ginger e Fred di Federico Fellini, Italia 1985
Ginger e Fred, Marcello Mastroianni e Giulietta Masina, ballerini, sono due vecchie glorie del mondo dello spettacolo, vittime del tempo che passa inesorabile. Chiamate a una partecipazione televisiva, conosceranno l’attuale crudele realtà dello showbiz. È un film sullo spaesamento di due anziani di fronte alla bolgia dantesca (con rimando visivo puntuale, la METAFORA) che è diventata l’Italia e la critica è talmente esplicita, puntuale e farsesca che mi sembra quasi infantile, di quella ingenuità di cui Fellini era stato maestro e che qui suona un po’ fuori tempo. Durante la visione mi rendo conto che ho fame (sono a dieta e non tocco una Lemonsoda da una settimana), vorrei fumare (qui resisto da 6 mesi) e il film mi sta un po’ scassando. Barbara s’è addormentata dopo venti minuti e io resisto e ve la dico tutta: l’atto d’accusa di Fellini è comprensibile, ma la forma con cui è espresso è molto antica. La confezione, con una messa in scena artificiosa, è in scenografie polverose che puzzano di fame, illuminate da luci da studio, irreali, mortificanti. E siamo d’accordo che si vuole passare la freddezza della tivù ma manca uno scarto poetico. E mi sembra anche antico il moralismo: contro la pubblicità (cui il Maestro si sarebbe presto piegato coi famosi Rigatoni) e contro il caos volgare e sguaiato del cavaliere Lombardoni (…) ma pure contro i drogati, gli ambulanti e i transessuali, eh, diciamolo. E poi il film è d’una lentezza esiziale. All’epoca venne preventivamente salutato come un capolavoro contro la decadenza morale italica e lo vide in anteprima pure il presidente Cossiga, forse motivo dei seguenti sbrocchi mentali. Ovviamente giudicare col senno di poi questo film che usciva nell’euforia socialisteggiante degli anni Ottanta è fuorviante ma se lo vedo ora non ci posso fare nulla e per quanto mi sforzi mi pare che non funzioni granché, anche se poi ci sono diverse scene toccanti come le prove della coppia di ballerini nei bagni, i discorsi durante il blackout che blocca le riprese televisive, l’addio reciproco alla stazione, nel finale. Quando Fellini non vuol farti la morale, allora esce un calore umano vero, anche grazie ai due notevoli protagonisti, un Mastroianni sull’orlo del cedimento strutturale e una Masina tutta dentiera. Avevano 60 anni e in quella Italia chi aveva 60 anni era vecchio. Non come oggi che sei un ragazzo a 40 anni, un uomo a 50 e un signore a 60, ma vecchio fino agli 80 non lo diventi. Questi erano veramente anziani a 60 e si vede, al di là del trucco: si vede dalle facce, da come si muovono, da cosa dicono e come. E infatti sarebbero ciccati a breve, superati appena i 70. Concludendo, faccio i conti della serva: con clown, nani e zampognari Fellini fellineggia, musicalmente Nicola Piovani roteggia e c’è pure Moana Pozzi nella finta pubblicità Olivoil con lo slogan “fateci un pensierino”. Altro che uno. (5/9/11)

886 – The Wrestler di Danny Aronofksy, USA 2008
Leone d’oro a Venezia 2008, mi prendo flemmaticamente tempo per vederlo e ci arrivo solo oggi. E stabilisco: buon film, dolente, non particolarmente ricattatorio. Ma non so se sia voluto, nel senso che il film ha il difetto nella prevedibilità estrema del plot –sviluppi ed esiti – e pertanto non mi risucchia nel classico vertice emotivo che caratterizza questi drammoni: la vecchia gloria (in questo caso di un lottatore di wrestling, Randy) che dopo tante traversie tenta la carta del rientro in scena, con rimpianti, ansia di rivincita etc. Qui leggi la sconfitta in faccia al protagonista fin dalle prime scene e sai già che non c’è scampo. Certo, magari t’illudi, ci credi, ci speri, o comunque vuoi talmente bene a Mickey Rourke che non accetti il finale e frigni. Però, non so, forse son troppo disilluso io: m’è parso che Aronofsky non sia sincero fino in fondo e firmi il compitino, senza sorprese. Bello il discorso subliminale che attraversa tutto il film, sulla verità e sulla falsità della rappresentazione e sulla nostra necessità di crederci, come da sempre accade col il wrestling, una baracconata recitata e creduta in un colpo di sole collettivo. In fondo la storia di Randy the Ram è un percorso cristologico, e la religione cos’è, se non un’immensa messa in scena? È come il wrestling, però sul ring ci si fa male: si recita, ma i colpi pesano un accidente e se il tuo cuore è infiacchito da troppe cazzate, prima o poi si spezza. Come quello dello spettatore, ecco. La canzone di Bruce Springsteen sui titoli di coda è bella, ma non mi smuove come avrei voluto, è un ricarico un po’ troppo costruito. A proposito di musica: la colonna sonora è volutamente cafona e falsissima, secondo i gusti perversi del protagonista, con tanti gruppacci chiassosi degli anni ‘80 come Quiet Riot, Scorpions e altri. E Randy lo dice: li ha fottuti quel cazzo di Kurt Cobain! È vero e aggiungo: per fortuna, dando una sveglia a tutta la scena musicale e garantendo una sopravvivenza mainstream al rock per almeno ancora un decennio. (13/11/11)

(Continua – 83)

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Game, set, match! https://www.carmillaonline.com/2013/08/18/game-set-match-2/ Sat, 17 Aug 2013 22:01:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7153 di Filippo Casaccia

Batti! …batti lei! (Fantozzi)

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Andre Agassi, Open, Einaudi, 2011, pp.502, € 20; Adriano Panatta, Più dritti che rovesci, Rizzoli, 2009, pp. 221, € 17; John McEnroe e James Kaplan, Serious, Sphere, 2003, pp. 325, £ 9,99; e altre cosine en passant.

Era odioso. Ed era odiato. Un odio condiviso anche da se stesso, Andre Agassi, per il personaggio che i media gli avevano attribuito. “L’immagine è tutto”, diceva di lui una funesta pubblicità. E il campioncino – tirato su da un padre tirannico e bambino prodigio già a 7 anni, quando scambiava colpi a Las Vegas coi [...]]]> di Filippo Casaccia

Batti! …batti lei! (Fantozzi)

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Andre Agassi, Open, Einaudi, 2011, pp.502, € 20; Adriano Panatta, Più dritti che rovesci, Rizzoli, 2009, pp. 221, € 17; John McEnroe e James Kaplan, Serious, Sphere, 2003, pp. 325, £ 9,99; e altre cosine en passant.

Era odioso. Ed era odiato.
Un odio condiviso anche da se stesso, Andre Agassi, per il personaggio che i media gli avevano attribuito.
“L’immagine è tutto”, diceva di lui una funesta pubblicità. E il campioncino – tirato su da un padre tirannico e bambino prodigio già a 7 anni, quando scambiava colpi a Las Vegas coi campioni di passaggio, gente come Connors, Borg o Nastase – era rimasto sotto questa etichetta. E io un po’ ci avevo creduto.
Il tennis era ancora sulla tivù pubblica e i palinsesti rispettavano le durate degli incontri, non il contrario. Poi a inizio ‘90 è arrivata la pay-tv e addio scambi interminabili, il pomeridiano piacere ipnotico di quel toc toc delle pallettate, specie sulla terra. Magari di Parigi (ricordo un Vilas – Wilander durato 4 ore e mezza!).
Sul finire di quella magica stagione mi era capitato di vedere un giovane punk, in calzoncini di jeans e coi capelli come uno scoiattolo, dare una stracciata al povero Barazzutti nel primo turno di un torneo che ho dimenticato. Punk, dicevano i giornalisti, perché lo aveva sentenziato McEnroe, uno che di ribellione sul campo se ne intendeva eccome. Ma ad Agassi piaceva il pop, con una funesta predisposizione per Barry Manilow.
E questa è una confessione minima, tra le tante che emergono nello straordinario Open, un’autobiografia di 500 pagine che va giù liscia come una Bud Ice (la preferita del coach Brad Gilbert), facendoti sperare che duri ancora un po’, che ci sia ancora qualche piccolo aneddoto e qualche grande verità da leggere in più.

Perché Open è uno straordinario romanzo in prima persona, scritto da Agassi con l’aiuto del premio Pulitzer J.R. Moehringer, ma attribuito al solo tennista per preciso rifiuto del giornalista di apparire sulla front cover: “questa storia è tua”. E se il professionista avrà dato una patina splendente al racconto, è indubbio che qui ci sono i ricordi, le riflessioni e l’amarezza di un uomo che non ha paura di aprirsi, come da titolo, e rivelare tutto il travaglio interiore che lo ha perseguitato fino a fine carriera, quando – complice l’amore con Steffi Graf e perché venuto a capo dei tanti demoni che lo perseguitavano – ha saputo chiuderla in maniera grandiosa. O perlomeno così ha saputo raccontarcela.
L’odio di cui si diceva più sopra, Agassi se l’è portato dietro anche dopo il ritiro dai campi da tennis. Quando Open è uscito in USA subito son rimbalzate da noi le prime anticipazioni, frutto evidentemente di un aggressivo ufficio stampa. Prima la banalità pop (Agassi usava il parrucchino!), poi quella che dà il frisson proibito (usava le metamfetamine!) e infine la stoccata finale: Andre Agassi, 8 volte vincitore di Slam, odiava il tennis con tutte le sue forze.
E subito, da più parti, condanne e scomuniche: “Come si permette?”, “Sputa dove ha mangiato!” e altri moralismi d’accatto, cui purtroppo hanno abboccato giornalisti che hanno pur dato dignità al mestiere: “Cosa vi aspettate da uno che viene da Las Vegas?”. Tutti improvvidi commenti smentiti dalla lettura di Open, un autoritratto disarmante, dove non puoi che voler bene a un autore che racconta la sua storia senza sconti per nessuno, soprattutto per se stesso.
Io giocavo come un piede (e per quel che ve ne può importare ero innamorato di Gabriela Sabatini e Manuela Maleeva) e che Agassi insulti lo sport dei “gesti bianchi” (Gianni Clerici ©) mi importa assai. Non mi offende. Né che usasse droghe, parrucche e odiasse un padre infame. Perché il libro è bello, ma veramente, e di questo dovremmo parlare, perché ci fa scoprire le motivazioni interiori di tutte quelle azioni esteriori che invece abbiamo visto in tivù, sui campi da tennis più importanti della terra, dal 1986 in poi: i dolori occultati, la fragilità del corpo umano e della psiche, perché il tennis è lo sport dell’autoanalisi continua.
E che lo sport uccida – e non lo dice soltanto Maurizio Costanzo – è vero. Pensate ai calciatori della vostra infanzia, quando la preparazione atletica era ancora improvvisata: erano dei vecchi a trent’anni. Tirati, rugosi, pelati. Lo sport professionistico porta il tuo corpo a fare cose che normalmente non farebbe. E Agassi è stato allenato e costruito per primeggiare sin dalla più tenera età, preda di un padre orco che aveva costruito un lanciapalle meccanico (il “drago”) che faceva colpire al piccolo Andre fino a mille palle al giorno.
Il memoir ci racconta il tentativo, frustrato all’inizio ma infine vincente, di riprendersi la vita, di sfuggire al genitore cercando nuovi padri putativi e magari finendo dalla padella alla brace (come nella scuderia di Bollettieri, un collegio definito “Il signore delle mosche con colpi di diritto”). C’è l’amore ingenuo e disastroso per Brooke Shields (e i rapporti col mondo vacuo di Hollywood, pure peggio di Las Vegas) e poi il lungo inseguimento di Steffi Graf, ennesima ragazza prodigio. E c’è l’ostinazione che porta Andre a giocare ai massimi livelli fino al 2006, quando è il corpo a dire basta perché ogni match è diventata una via crucis. L’ultimo incontro (in realtà penultimo) con Baghdatis è un’autentica Passione laica, e apre e chiude questa straordinaria autobiografia dove seguiamo dal miglior punto di visto possibile (piazzati avanti alla linea di fondo, per colpire sempre in anticipo e di controbalzo) vent’anni di tennis professionistico, 20 anni!, in cui Agassi termina la generazione di McEnroe e Connors e vede nascere quella che si sta estinguendo solo ora, quella di Federer.
Il piacere della lettura non è inficiato da una traduzione che rende il ritmo secco della limpida scrittura originale. Va però anche detto che ci sono smarroni colossali, come la confusione tra football americano e calcio (ancora?!) o la traduzione dei titoli di canzoni (We’ll Be Together che diventa inopinatamente Noi staremo assieme, manco fossimo ai tempi dell’autarchia e de Il lato aprico della strada). Vabbeh.

gsm02Finisci un libro così e sei orfano. Ne vuoi ancora. Altro tennis, altri scambi, altri ace.
Su Carmilla, ho ripescato una vecchia segnalazione di Giuseppe Genna a proposito dello scriba Gianni Clerici, esegeta del tennis mondiale e raffinatissimo narratore (anche se l’Erba rossa consigliata mi ha annoiato, nonostante la preziosità stilistica). Allora mi son comprato Non avrei mai vinto Wimbledon, firmato proprio da lui, Giuseppe. Perché preso dall’entusiasmo tennistico volevo leggerlo e poi chiamarlo e chiacchierare di questa comune passione. Solo che il romanzo non era suo. Cioè: era di Giuseppe Genna, ma di un altro Giuseppe Genna, un avvocato bolognese… e d’accordo che Giuseppe, il mio Giuseppe, ha personalità cangiante e proteiforme, ma mai avrei potuto credere a un omonimo Genna che non ha neanche la buona creanza, lui o il suo editore, di aggiungere magari una lettera puntata, un secondo cognome, uno pseudonimo per non essere scambiato per Genna I (come i calciatori, tipo Sentimenti IV). Comunque ‘sto benedetto Non avrei mai vinto Wimbledon alla fine l’ho affrontato, perché sono di Genova e una volta preso un libro me lo leggo eccome, fosse anche una porcata. E non lo è, ma non è neanche ‘sta gran cosa e alla fine della faccenda ho pensato che questo Genna 2.0 mi aveva fregato due volte. Amen.

gsm03Ansioso di altre letture a base di racchettate ho polverizzato le 56 pagine di Roger Federer come esperienza religiosa (leggine qui, grazie a Girolamo De Michele), ennesima e geniale incursione di David Foster Wallace nel mondo del tennis e della bellezza, spiegata anche con l’ausilio di formule matematiche. Poi ho rinunciato a leggere la storia di Nadal (Rafa, che va bene tutto, ma in canottiera, no. Scusate, ma in canottiera ci potrà giocare Bossi, non il primo al mondo, eh), così come ho declinato l’acquisto delle recentissime bio della Schiavone e della Pennetta (ragazze mie: non ci si racconta a carriera in corso!). Ho tentennato, invece, su C’era una volta il tennis, scritto da Lea Pericoli sulla carriera di Nicola Pietrangeli, ma lì il problema è che, con tutta la simpatia per la testa vaporosa della Lea e per le sue evocative telecronache seventies, ho poca simpatia per Pietrangeli, che oltre ad avere le idee un po’ confuse su Pinochet e altre faccende politiche, è stato pure compagno di Licia Colò, mio impossibile amore adolescenziale. Per cui niente.

gsm04E alla fine – non trovando nulla su Gianni Ocleppo, ach! – mi son buttato sul titolo più ovvio, Più dritti che rovesci, autobiografia del Panattone nazionale, dal quale mi aveva respinto fino a quel momento una copertina stilosa ma incongruente: Adriano che colpisce in volée bassa da fondo campo, grazie ai prodigi di photoshop e all’ignoranza di chi lo utilizza (ma del resto la cover della Pericoli su Pietrangeli è un fotomontaggio dei due che hanno appena colpito contemporaneamente la palla: talvolta la sciattezza editoriale sa essere deprimente).
Dunque: la storia di Adriano Panatta è carina, gradevole, ma senza sorprese. Ben scritta, equilibrata, ma che, tutto sommato, lascia un senso di incompiutezza. Un libro così si costruisce con uno scrittore di professione, un giornalista (in questo caso l’esperto Daniele Azzolini) che deve diventare il coach dei tuoi ricordi, quello che ti cava fuori i sentimenti, le sensazioni, anche le curiosità, le cose – insomma – che vale la pena leggere perché qualificano una vita. E invece qui senti un’avarizia mnemonica: ti manca sempre qualcosa, qualcosa che ancora non hai letto nelle tante interviste concesse a ogni ricorrenza della vittoria in Davis. Per cui Più dritti che rovesci intrattiene e va via veloce, ma risulta un’occasione persa. Ti rimangono delle domande dentro e il racconto così distaccato e distante fa anche perdere importanza ai fatti narrati.
Poi, certo, fare un paragone con la scientificità di Agassi e del suo manifestissimo ghost Moehringer è ingiusto (e c’è proprio della sapienza nell’aver organizzato il testo di Open: il dono, l’ascesa, le sfide, la caduta, il riscatto e il premio finale: la famiglia felice), perché l’indolenza della biografia di Panatta, riflette probabilmente il carattere di Adriano stesso, campione senza sforzi, dotato di classe naturale, in un’epoca in cui sembrava tutto molto improvvisato, senza manager e senza coach.
Lo chiamavano Ascenzietto ed era il figlio del custode del circolo tennistico dei Parioli, Ascenzio. Umile di origine, socialista, beneducato, sornione, Adriano cresce sotto le cure del maestro Belardinelli, della scuola di Formia, colui che aveva insegnato al Duce i rudimenti del tennis (invano, direi, vedendo i film Luce). E il compagno Adriano, per provocarlo affettuosamente, si faceva crescere i capelli e andava agli allenamenti col Manifesto bene in vista fuori dal borsone delle racchette. Il libro ha il suo nucleo centrale nel racconto dell’anno mirabile 1976: Adriano scala la classifica ATP fino al quarto posto vincendo gli Internazionali di Roma e il suo unico Slam, il Roland Garros di Parigi (superando incredibili sfighe il giorno della finale), e infine conquistando anche la Davis, in Cile, con contorno di tipiche polemiche italiote: si va o non si va, in casa di Pinochet? Si va e gli si dà una lisciata, giocando pure – su idea di Adriano – il doppio decisivo in maglietta rossa, così, tanto per rompere le balle ai fascisti cileni.
In Più dritti che rovesci ci sono gli amorazzi (Mita Medici e Loredana Berté, che poi Panatta farà conoscere al grande amico Bjorn Borg, accendendo la miccia della coppia più deflagrante degli anni Ottanta), la frequentazione del nostro jet set (i tennisti della domenica Tognazzi, Gassman e Villaggio), la finale di Davis rubataci in Cecoslovacchia (quando esisteva un paese chiamato così…), alcune felici invenzioni linguistiche (il pallettaro “che sembrava di caucciù”) e tanti nomi che in me evocano memorie commoventi: Guido Oddo, Bitti Bergamo, Tonino Zugarelli, Wojciech Fibak, Balázs Taróczy, Manuel Orantes, José Higueras, Ilie Nastase e pure Roscoe Tanner, l’uomo che arrivò a battere ai 240 orari. Un mondo di racchette di legno che non esiste più e che Panatta aveva contribuito a creare: oggi il tennis è scomparso dai campi, più lucrosamente riconvertiti e affittati per il calcetto a 5.
Nel racconto di Agassi trovate dolore ed espiazione, qui divertimento, leggerezza, scaramanzia e bella vita, affrontate da impunito sorridente, sempre, nonostante tutto. Perché – di nuovo come da titolo – non sono state sempre rose e fiori, ma Panatta sorvola con eleganza e ritrosia, anche se sarebbe questa la polpa del dramma che manca al libro.
(Nota: pure qui, la cura editoriale lascia sconcertati… Nei ricordi della finale di Davis del 1979, a San Francisco, salta fuori un supertifoso ciccione che indossava la maglietta di… Roberto Baggio. Avete capito bene: Roberto Baggio. Nel 1979).

gsm05Bene, soddisfatto? Non ancora. Ho surfato in Rete e non ho resistito: a questo punto volevo e dovevo leggermi anche le bio di Nastase e McEnroe. Quella del primo si presentava benissimo, solo che – estrema beffa, involontariamente in linea con quelle dell’estroso agonista rumeno – Amazon mi ha mandato una copia fallata di Mr Nastase: all’esterno tutto okay, dentro, giuro, The Summer Tree, primo capitolo della saga fantasy The Fionavan Tapestry di tale Guy Gavriel Kay. Che non ho letto, perché – genovese o meno – tutto ha un limite, eh (peraltro Ilie nel 1986 ha scritto un poliziesco pubblicato da “Il Giallo Mondadori”, pensa te!).

gsm06Mi rimaneva, allora, solo Serious, la riedizione in paperback dell’ormai introvabile You Cannot Be Serious (del 2002). Per chi è cresciuto con l’attacco al Palazzo d’Inverno tennistico, quelle due memorabili finali di Wimbledon dove un mancino rossiccio e indisponente sfidava lo strapotere di Borg, questa bio è finalmente la verità dietro al Mito. Ed è una verità agrodolce. McEnroe è simpatico e arguto come pochi, ma sembra non volerti mai dire tutto, troppo impegnato a salvaguardare la sua buona immagine di ora (padre di 6 figli, telecronista, mercante d’arte) e a giustificare i comportamenti di allora. Comportamenti che ovviamente lo hanno fatto amare a una generazione – la sua –, odiare da tutte quelle precedenti e considerare uno stravagante da quelle posteriori.
Anche Nastase urlava all’arbitro. Ma Ilie era un istrione inguaribile, non c’era mai rabbia o cattiveria, solo un’indole cazzona insopprimibile. John McEnroe invece portava in campo le nevrosi del ragazzino cresciuto a Queens, che non sopportava certe regole, che voleva giocare in squadra (da cui l’affezione per la Davis), che era il più giovane tra le prime superstar del tennis e che voleva essere in realtà una rockstar. Cosa che proverà anche a carriera finita con l’improbabile John McEnroe Band di cui ricordo un’infausta (a detta dei giornali ma anche per ammissione dello stesso leader) data al Covo di Nord Est di Santa Margherita. Esito discutibile per chi – appassionato di Led Zeppelin, Black Sabbath e Grand Funk Railroad – aveva preso lezioni di chitarra, in cambio di ore di tennis, da Van Halen, Santana e Joe Walsh… (McEnroe si giustifica asserendo che anche Sinatra, una volta, aveva suonato lì).
John batteva tutto storto. Un movimento che nasceva lentamente, rannicchiandosi verso il basso per poi salire e distendere tutto il corpo, saltare in avanti e battere repentinamente, in un esplosivo movimento unico. Quando l’avversario rispondeva Johnny Mac era già a rete ed era la fine: il serve and volley alla massima potenza.
John colpiva di dritto col polso in avanti, con una naturalezza unica, come se la racchetta fosse il logico proseguimento del braccio. John sfasciava racchette e seggioline, insultava arbitri, incredulo dei loro errori (You can’t be serious!) e litigava col pubblico.
Era quello che ci aveva fatto amare questo gioco nei primi ’80, quando ogni nazione aveva i suoi idoli (Vijay Amritraji per l’India! Victor Pecci per il Paraguay, e con l’orecchino!) e noi ragazzini italiani eravamo ormai orfani.
Il libro ha tutto questo e ripercorre la carriera dello sportivo in maniera abbastanza ovvia, pur partendo la narrazione l’11 settembre, con un’improcrastinabile seduta di analisi cui l’autore non ha rinunciato neanche quel giorno, salvo poi rendersi conto di cosa stesse accadendo. Vorrebbe e potrebbe essere una metafora della vita del protagonista del libro, ma purtroppo, come detto, c’è poco di autoanalitico in Serious e le confessioni sembrano edulcorate. I ricordi poi, certo, son comunque straordinari e la parata di amici e comprimari imperdibile: dall’irreprensibile Borg al sibaritico Gerulaitis, dallo zotico Connors al glaciale Lendl. Il centro della narrazione, però, stavolta non è una vittoria o l’apice di carriera raggiunto a 20 anni (con la domanda senza risposta: “Where I would go now?”), semmai la sconfitta che interruppe il dominio di McEnroe nelle classifiche, una fatidica finale al Roland Garros persa al quinto set col tremendo Ivan. Da quel match e da quello Slam perso e mai più sfiorato, John non seppe più vincere ai massimi livelli. Si sposò con Tatum O’Neal – come successo ad Agassi, un’altra star giovanissima che comprendeva cosa significasse fare quella vita lì – ebbe figli, squalifiche, periodi sabbatici, una separazione acrimoniosa (di cui qui si legge poco o nulla) e ancora tantissimo tennis professionale, ma sempre in posizioni di retroguardia, incalzato dai giovani turchi come Becker o Agassi stesso. La vita dopo è interessante, con la scoperta dell’arte, col proprio talento affabulatorio messo a disposizione del tennis televisivo e con la Davis seguita da capitano del Team USA, ma è tutto giornalistico e per nulla epico: rispetto ad Open, qui non c’è il dramma, ma solo la cronaca. E se anche qui l’amore è la retribuzione finale di tutta questa carriera esistenziale e sportiva, l’unione con la musicista Patty Smyth (sì, proprio così: come Patti Smith, ma con le Y) è riferita quasi in termini burocratici. Peccato. Le 300 pagine scorrono comunque piacevolmente e a libro concluso si conferma la simpatia che questo irlandese cocciuto, polemico e assolutamente ansioso di protagonismo ispirava quando era in campo.
Serious chiude con l’ipotesi di entrare in politica (non è chiaro in che partito) e l’affermazione a effetto: “sono assolutamente serio”.
Non è (ancora) accaduto. E chissà se avrebbe senso.

(Prima che Alessandro Baricco ne sancisse il successo editoriale, avevamo già parlato sulle pagine di Carmilla di Open da quel dì. Come la sponsorizzazione di un Giuliano Ferrara non rovina La versione di Barney, così quella dell’intellettuale torinese non scalfisce la bellezza del libro di Agassi. E perciò vi riproponiamo la nostra recensione sui generis: se non avete ancora letto Open, forse è la stagione giusta).

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