BRICS – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

]]>
Sparse riflessione ferragostane https://www.carmillaonline.com/2024/10/10/sparse-riflessione-ferragostane/ Thu, 10 Oct 2024 20:40:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84730 di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della [...]]]> di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente  provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.

Il pessimismo della ragione

“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante,  tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore,  ed il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.

Del resto, in quanto a transizioni sistemiche, abbiamo alle spalle una pesante eredità di fallimenti o, meglio, di regressioni a forme, diverse, di capitalismo di Stato o di capitalismo tout court: persino laddove le condizioni soggettive erano più favorevoli  (la Cina di Mao carica  delle pulsioni egualitarie derivanti dalla “rivoluzione culturale”) si è registrata la sconfitta della “sinistra”.

Salvo pensare, come fanno non pochi illusi, che un’economia pianificata, meglio se gestita da un partito  comunista al potere,  sia sinonimo di socialismo.

En passant, come è stato che la classe operaia pretesa al potere, nell’ultima Unione Sovietica, si sia lasciata depredare fabbriche ed aziende senza colpo ferire?

Di fatto, la rottura storica dell’Ottobre ’17 ha realizzato una duplice eterogenesi dei fini: da una parte lo sviluppo economico (industria pesante) è stato provvidenziale, risolutivo nella guerra contro l’aggressione nazista, dall’altro, e su una più lunga lunghezza d’onda, è stato ispiratore delle lotte di liberazioni anticoloniali in tutto il mondo: su questo aspetto è stato  lungimirante il genio di Vladimir Lenin.

Anche a seguito del naufragio del “socialismo reale”, oggi l’umanità sembra avviarsi senza freno alcuno verso l’autodistruzione  vuoi per un ecatombe nucleare vuoi per un’inarrestabile, progressiva catastrofe climatica. Il movimento pacifista, vent’anni fa protagonista su scala mondiale, è annichilito, colpito ingiustamente, tra l’altro, dall’accusa di filoputinismo.

Quel che poteva convenzionalmente essere creduto come diritto internazionale, per quanto precario, è a pezzi; il potere regolatore dell’ONU annullato, sostituito artatamente dalla potenza, aggressiva in ogni continente, della NATO; l’Unione Europea sopravvive in quanto autolesionisticamente “sdraiata” sugli USA. L’assenza di un vero ordine internazionale è tale  che Israele può impunemente continuare nei suoi sistematici massacri del popolo palestinese, al limite del genocidio.

Tuttavia, a livello globale si manifesta la tendenza, contrastata dall’Occidente (in opposizione al “resto del mondo”),   verso il multipolarismo, agìto in particolare dai Paesi BRICS, che attuano nei loro scambi commerciali un processo di de-dollarizzazione, cioè di concreta contestazione  di una incontrastata egemonia non solo economica. Ovviamente un’alternativa di società è altra cosa.

La logica ineluttabile dell’accumulazione capitalistica confligge con la realtà di un “mondo finito”, della limitatezza di risorse naturali, non riproducibili: iato acuito  dall’accresciuta produttività assicurata dall’automazione  e dall’intelligenza artificiale. E’ come dire che la contraddizione capitale – lavoro, pur permanendo ed allargandosi, trascenda producendosi nella forma di una non più ricomponibile crisi ambientale, nel disastro.

Nel contempo un equilibrio quasi secolare connotato dall’egemonia USA (Bretton Woods) si è rotto, l’unipolarismo  imperiale è incrinato dall’emergere prepotente di nuovi centri ed economie-mondo: un passaggio lungo e tormentato quanto inevitabile che solo una guerra generalizzata può bloccare,  a spese dell’intero pianeta e a costo della sua rovina. Poiché la Cina è l’obiettivo vero e finale dell’offensiva occidentale, chi si augura una sconfitta della Russia in Ucraina  non si rende conto che essa può indurre quel Paese asiatico ad anticipare le mosse dell’avversario entrando direttamente in guerra a fianco della Federazione Russa.

La globalizzazione, oggi in crisi per ragioni geopolitiche di cui sopra, ha visto imporsi  a livello mondiale il modello neoliberista, onnipervasivo e tendenzialmente totalitario,  modello che ha ridefinito in senso fortemente individualistico il profilo dell’homo oeconomicus (la concorrenza purchessia come paradigma, variante  economico/politica del conflitto armato: vincitori e vinti, vivi e morti): da qui la privatizzazione dei beni comuni ed il venir meno dell’welfare. Di più il predominio della finanziarizzazione,  se da un lato espone il sistema mondiale a ricorrenti crisi speculative, dall’altro oscura, rende anonima l’identità, il volto del padrone di turno (fondi di investimento) rendendolo sfuggente ad un potenziale scontro di classe.

Sul piano delle forze politiche le vecchie discriminanti, come quelle in Occidente tra europeisti e sovranisti, sono ormai un ricordo del passato; nell’affermarsi delle democrature e della “società del controllo” la vecchia discriminante antifascista post-seconda guerra non può che cadere, l’estrema destra rientra dunque pienamente nel gioco politico, anche se con una postura di alternativa neo-reazionaria. Quando il declino di una società incombe, come è ora il caso degli Stati Uniti d’America, la collaudata alternanza di potere assicurata dal bipartitismo perfetto entra irrimediabilmente in crisi, tanto che l’auspicata vittoria presidenziale della democratica Kamala Harris non è pensabile possa avvenire senza gravi sconvolgimenti, al limite della guerra civile.

L’alternativa “socialismo o barbarie” sembra sciogliersi in maniera inequivocabile.

Nel tentativo di governare la spinta neoliberista e di addomesticarla in una “terza via” (Tony Blair), i due poli in cui classicamente si era diviso il movimento operaio, stalinismo e socialdemocrazia, entrambi inchiodati su un paradigma sviluppista, si sono degradati in social-liberalismo:  è il caso di dire, come in effetti è accaduto, simul stabunt vel simul cadent.

L’imperialismo persiste nella forma di economie di rapina nei confronti del Terzo e del Quarto Mondo (quasi una seconda accumulazione originaria?), anche se prosegue la tendenziale unificazione capitalistica del pianeta (l’Africa?) nel segno di un’altissima socializzazione del lavoro, segnata da una diffusiva economia della conoscenza e da una crescente produttività garantita dalle tecnologie, specialmente da quelle derivanti dalla rivoluzione informatica e robotica.

Nel contempo il lavoro precedentemente concentrato in grandi agglomerati di manodopera risulta ora spazialmente frantumato  e governato da algoritmi unilateralmente imposti e dunque di difficile controllo e contestazione; mentre riemergono forme di lavoro schiavistico, permane il lavoro gratuito di cura, specialmente ad opera delle donne. A queste asimmetrie corrisponde un’inaudita concentrazione verso l’alto delle ricchezze ed uno sventagliamento delle diseguaglianze  che non si era storicamente mai verificato.

In passato era il conflitto, agito dai sindacati e non solo, a frenare tali tendenze e a garantire tramite il fisco una certa  redistribuzione verso il basso: oggi, anche laddove la sinistra ha assunto connotati liberali regna l’atomizzazione sociale:  essa in qualche modo subisce l’ideologia americana del  “siamo tutti (e ciascuno in maniera diversa) proprietari, tutti imprenditori di se stessi”,  ciò che rende impossibile la ri-formazione di una coscienza di classe. La  contraddizione capitale – lavoro viene oscurata anche laddove, sotto regimi ferocemente autoritari (tipicamente in Estremo Oriente), lo sviluppo delle forze produttive e della manifattura è decisamente più intenso, manifestandosi sotto forme fabbrichistiche.

Se parliamo dell’Occidente, in particolare dell’Italia la contraddizione capitale – lavoro evoca il movimento operaio, una soggettività antagonista, comunista, ma oggi del tutto latente: nel breve/medio periodo non si intravedono le condizioni della rinascita di una coscienza di classe, per le ragioni già enunciate. Forse quando diventasse egemone la consapevolezza per via ecologica dell’intollerabilità del sistema, nuove ragioni antagonistiche potrebbero arricchire e fare riemergere la contraddizione capitale – lavoro.

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 19: First Strike? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/il-nuovo-disordine-mondiale-19-first-strike/ Fri, 04 Nov 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74620 di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare. E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

[...]]]>
di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile.
La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare.
E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

Ancora una volta occorre dunque sottolineare e ricordare ciò che, da più di un decennio, l’autore va affermando in testi, articoli e interventi sulla questione della guerra: elemento ineliminabile di una società fondata sullo sfruttamento di ogni risorsa ambientale e umana, sulla concorrenza più spietata sia a livello economico che sociale e sulla spartizione imperialistica del mercato mondiale e dei territori di importanza strategica (sia dal punto di vista geopolitico che economico-estrattivistico).

Tanto da spingerlo a rovesciare, come già aveva fatto con largo anticipo Michel Foucault nel corso degli anni ’70, la celebre affermazione di Karl von Clawsevitz nel suo contrario, ovvero che sarebbe proprio la politica a costituire nient’altro che la continuazione della guerra con altri mezzi1. Con buona pace di chi ancora oggi, pur proclamandosi antagonista e antimperialista, pensa che le logiche della politica istituzionale possano (o almeno dovrebbero) sfuggire alle logiche della guerra e dei suoi sfracelli.

Certo non ha colpa chi si accorge del precipitare delle situazioni create da conflitti ritenuti locali in guerra mondiale soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali, dopo anni, se non decenni, di totale disattenzione per le logiche profonde dell’imperialismo e, forse soprattutto, per la “questione militare” e la sua “arte”, mai sottostimata invece dai teorici autentici del pensiero rivoluzionario: da Marx a Lenin, da Engels a Trotzkij fino alla Sinistra Comunista (nelle figure di Jacques Camatte e Roger Dangeville) e a Guy Debord.

Dinamiche di sottovalutazione legate sia ad una superficiale convinzione dell’avvenuto superamento delle contraddizioni interimperialistiche, scaturita sia dalle predicazioni liberal-democratiche che da un certo estremismo di maniera che ha fondato le sue valutazioni di classe sulle analisi del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) originatesi dalla riflessione di alcune formazioni armate a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Solo apparentemente confermate dai processi di globalizzazione economica degli ultimi decenni.

Ma questa disattenzione, chiamiamola così, affonda le radici anche in un rifiuto dello studio di quella che abbiamo qui chiamato “questione militare”, legato sia in un’imbelle concezione pacifista dell’antimilitarismo di stampo cattolico che a una concezione, di tale questione, iniziata con lo stalinismo che, proprio nella figura del piccolo padre di tutte le Russie, fin dallo scontro sulla campagna polacca dei primi anni ’20, si era opposto all’utilizzo degli specialisti militari sia nell’esercito rosso, fortemente voluta invece da Trotzkij per rafforzare l’armata rossa durante la guerra civile 1918-21, che nelle scuole di formazione dei quadri militari, per dare maggior spazio ai commissari “politici” e ai rappresentanti del partito2.

Cosa che, all’epoca dei grandi processi di Mosca (1936-37), costò la decapitazione dello stato maggiore sovietico, soprattutto con il processo per tradimento e l’eliminazione di Michail Nikolaevič Tuchačevskij (Smolensk, 16 febbraio 1893 – Mosca, 12 giugno 1937) autentico innovatore del pensiero militare della guerra di movimento moderna, supportata da truppe corazzate, aviotrasportate e meccanizzate3, con i conseguenti disastri militari subiti dall’Armata rossa nel corso della fase iniziale dell’Operazione Barbarossa ovvero dell’invasione nazista del territorio russo.

Questi due fattori, riassunti qui fin troppo sinteticamente, hanno quindi grandemente contribuito allo sviluppo di una tradizione politica che ha per troppo tempo eluso il problema della “centralità della guerra” nel sistema di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali. Un’analisi che troppo frequentemente ha scambiato la dominazione di stampo coloniale e neo-coloniale esterna come l’unico settore in cui l’Occidente avrebbe dovuto e potuto ancora dispiegare la sua potenza militare. Condividendo perciò, anche se indirettamente, la stessa concezione degli apparati militari ad effettivi “ridotti ma professionalizzati”, messa in pratica da gran parte degli eserciti dei paesi più avanzati.

Ancora una volta con il plauso del ‘pacifismo’ che vedeva nell’abolizione degli eserciti di leva un passo avanti verso un mondo privo di guerre o, almeno, lontano da quelle di portata planetaria. Cadendo così in una duplice ed egoistica contraddizione che mentre da un lato si rassegnava ad una sorta di guerra in permanenza fuori dai territori delle metropoli imperialiste per mantenere i privilegi economici di queste ultime, dall’altro vedeva nell’abolizione della leva una riduzione del militarismo all’interno delle società in cui questa fosse stata abbandonata.

L’anticolonialismo perdeva così la concezione internazionalista per rifugiarsi tra le sottane del pietismo solidale, mentre la storica questione dell’armamento delle masse sfruttate attraverso la formazione militare universale (o almeno maschile), difesa dal socialismo radicale fin dai tempi di Friedrich Engels, veniva accantonata a favore di eserciti professionali di stampo pretoriano, in cambio dei sempre corruttibili “diritti individuali”. Che, oltretutto, non ledevano affatto i diritti degli Stati di contribuire allo sviluppo e all’ampliamento del settore militare dell’economia industriale. Settore in cui, a differenza di tanti altri, l’Italia è sempre stata ai primi posti a livello mondiale.

Oggi, tra guerra in Ucraina e dichiarazioni del neo-ministro della difesa Guido Crosetto sulla necessità di provvedere ad un aumento del numero di soldati a disposizione della ‘nazione’, il risveglio è stato piuttosto brusco, seppur ancora confuso. Oltre a tutto ciò, la notizia della dottrina del diritto al First Strike dichiarata apertamente dal presidente americano ha certamente contribuito a seminare ulteriormente la paura di una guerra aperta, diffusa e devastante tra i grandi schieramenti militari e le grandi potenze economiche, fino ad ora, per alcuni, inconcepibile. Eppure, eppure…

Non è certo il quadrante centro-europeo a far dichiarare, per ora, agli Stati Uniti la necessità dell’uso per primi dell’arma nucleare. Sul fronte ucraino le forze della Nato, seppur con vaste contraddizioni al proprio interno, hanno trovato il modo di far combattere e soffrire, in nome dei propri interessi strategici, prima di tutto i militari e i civili ucraini. Mentre tutto intorno all’area interessata direttamente dal conflitto, per vecchi e mai sopiti odi e interessi nazionalistici, altri stati, come la Polonia e gli stati baltici, potrebbero contribuire con il sangue dei propri soldati e la parziale devastazione dei propri territori a mantenere a lungo il conflitto in una dimensione di dissanguamento progressivo dell’esercito russo.

E’ possibile fare questa affermazione poiché ciò che l’attuale conflitto ha rivelato fin dai primi giorni è di aver dato inizio ad una nuova guerra di grandi eserciti, in cui i corpi specializzati (mercenari occidentali, della Wagner o corpi speciali britannici [qui]) possono svolger un ruolo soltanto se attorno ad essi esiste una fitta e ampia rete logistica di supporto, oltre che il paravento di un gran numero di corpi di soldati e di civili sacrificabili. Su entrambi i fronti del conflitto.

Il sogno di una guerra lampo oppure “altamente tecnologica”, con risparmio di vite e militari impegnati nei combattimenti è andato via via dissipandosi, lasciando al suo posto le immagini e lo svolgimento di una guerra convenzionale fatta di artiglieria, fanteria, truppe corazzate, avanzamenti e ripiegamenti che richiedono un gran numero di soldati impegnati e tempi estremamente lunghi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Qualunque essi siano e da qualsiasi parte in conflitto siano essi stati, o meno, dichiarati.

La propagande deve fare i conti con le necessità di una guerra il cui compito non è soltanto quello del search and destroy cui, da diversi decenni, si erano abituati i commentatori e gli spettatori, interessati o meno, come nel caso di tanti, e comunque fallimentari, interventi della Nato o degli USA e delle forze armate occidentali, in aree del mondo esterne al cuore dell’Europa o delle metropoli imperialistiche, ma anche, e soprattutto, quello di conquistare, mantenere e occupare vaste porzioni di territorio, urbano o meno, compreso all’interno di aree densamente popolate, industrializzate e ricche di impianti e investimenti agricoli, industriali, minerari e quant’altro.

Uno scenario che non si vedeva dalla fine del secondo conflitto mondiale e che per forza di cose, nonostante le promesse e le illusioni sul superamento delle modalità di quello e delle contraddizioni che lo avevano causato, rinvia a quello nelle modalità, terribili e distruttive, di svolgimento.
Per anni infatti ci si è interrogati, a livello militare e politico, tattico e strategico, sulla possibilità di lasciar definitivamente da parte i grandi apparati bellico-militari che avevano rappresentato la più tipica caratteristica delle forze armate nazionali degli Stati moderni.

Per anni le scrivanie dello studio ovale o degli altri centri di potere occidentali sono state inondate di proposte di apparati difensivi, e quindi immancabilmente offensivi alla faccia di tutte le anime belle che pensano di poter separare la difesa dall’offesa o viceversa, miranti a diminuire il numero dei militari impiegati in servizio attivo, attraverso la formazione di corpi d’élite o unità destinate alle operazioni speciali, altamente addestrate e appoggiate da tecnologie particolarmente avanzate sul piano della sorveglianza elettronica dei territori e delle forze nemiche oppure destinate a colpire con estrema precisione gli obiettivi nemici (singoli individui, unità o basi militari che siano).

La guerra intelligente, che tale non è mai stata come hanno dimostrato le stragi di civili in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche successive alla riunificazione tedesca, si è però rivelata utile ed efficace, se non si contano le vittime reali e i danni collaterali in cui rientrano solitamente, nei confronti di paesi che non potevano porsi sullo stesso piano militare e tecnologico di Stati Uniti, Israele, Europa Occidentale, ma che, allo stesso tempo, potevano riuscire a mettere in difficoltà i più forti aggressori attraverso tattiche e tecniche di guerriglia che hanno fatto sempre più propendere anche le forze armate più importanti verso forme di guerra asimmetriche e non convenzionali.

Ma sulla distruttività della guerra moderna, fin dagli albori del XX secolo, in ambito civile si è già parlato diffusamente negli articoli precedenti di questa serie per rispondere all’idiozia formale dei “crimini di guerra” (come se già questa non costituisse di per sé stessa un crimine); mentre è sul gran numero di soldati necessari per condurla, quando si tratti di confronti militari tra potenze di “pari grado”, che è necessario soffermarsi per comprendere dove sta il rischio reale dell’utilizzo dell’arma nucleare.

Truppe relativamente poco numerose, con grande uso di tecnologie sofisticate e dell’arma aerea, in mancanza di necessità o possibilità di mettere gli stivali per terra (boots on the ground), hanno relativamente funzionato nella “guerra al terrore”, senza però mai ottenere risultati decisivi, come il ritiro dall’Afganistan ha in seguito dimostrato. Un modello di guerra “coloniale tecnologicamente avanzata” che il conflitto in Ucraina sta testando in profondità.

Se c’è un elemento evidente del conflitto attualmente in corso è infatti quello dell’uso di tecnologie avanzate a fianco delle tattiche militari classiche derivate ancora dal secondo conflitto mondiale: largo impiego di artiglieria, fanteria (meccanizzata e non), truppe corazzate, lanciarazzi/missili multipli, sommergibili, aviazione e…droni. Soprattutto questi ultimi costituiscono la novità più rilevante, quella che, sia a livello di rilevamento della posizione degli avversari che della distruzione localizzata e precisa degli obiettivi, ha messo maggiormente in difficoltà le forze armate di Putin fino ad ora.

Ma che ha anche rivelato, almeno nell’ultimo periodo, come, pur costituendo una tecnologia innovativa e perniciosamente precisa, anche un paese non propriamente all’avanguardia come l’Iran può produrre su vasta scala e con risultati di poco inferiori a quelli ottenuti con quelli prodotti dalla Turchia o in area occidentale. Un gap tecnologico facilmente aggirabile e capace di rivoltarsi nel suo contrario. Ovvero una tecnologia dal costo non elevatissimo che anche chi non appartiene ai settori della difesa della Nato e dei suoi satelliti può facilmente procurarsi (ed utilizzare pericolosamente).

Ora diventa evidente, e chi scrive l’ha affermato fin dai primi giorni del conflitto, che le armi nucleari accumulate per decenni negli arsenali dell’Est e dell’Ovest, oltre che in quelli di svariati altri stati (allineati e non), non sono affatto armi giocattolo o spaventapasseri con cui minacciare gli avversari senza però aver la reale intenzione di utilizzarle. Tutto sommato nemmeno durante la Guerra Fredda fu del tutto così, anche se allora i margini per una trattativa erano molto più ampi di quelli odierni. Inoltre Nagasaki e Hiroshima stanno lì, ancora adesso, a dimostrare che l’impero americano non è disposto a fermarsi, se lo ritiene necessario, davanti a nulla. Cosa cui, con evidente facilità, si sono adeguati anche i suoi principali ed ‘imperialistici’ avversari: Russia e Cina. Come ha affermato Cechov nei suoi scritti sul teatro: “se un’arma da fuoco compare in scena nel primo atto di un’opera, sicuramente avrà sparato prima dell’ultimo”.

Ora siamo vicini se non all’ultimo, almeno al penultimo atto del decorso storico dell’imperialismo occidentale e, soprattutto, americano. Sicuramente non è tanto la Russia di Putin a rappresentare la prima minaccia economica e militare per gli Stati Uniti, ma lo sono sicuramente la Cina e la situazione di rifiuto del comando statunitense (e della sua moneta) sviluppatasi non soltanto nell’ambito dei BRICS, ma in ogni continente esterno alla porzione occidentale del mondo.

Scontro, ipotizzabile su scala mondiale e dalle alleanze contraddittorie e non ancora del tutto date, che oltre a costituire il vero epicentro del terremoto economico e militare attuale, di cui la campagna ucraina di Putin potrebbe rivelarsi soltanto come un modo (parzialmente fallimentare) di saggiare il terreno avversario dopo il disastro afgano (qui e qui), sta alla base dell’inevitabile terzo o quarto conflitto mondiale (dipende soltanto dai punti di vista)4 ormai prossimo (almeno sulla scala del tmpo storico), se non già in atto.

Conflitto in cui il numero di soldati necessari potrebbe ampiamente sopravanzare le disponibilità di arruolamento statunitensi ed europee e, soprattutto, la disponibilità al sacrificio e alla sofferenza delle popolazioni occidentali e del loro dispendioso stile di vita e che richiederebbe sicuramente la necessità di anticipare le mosse dell’avversario, si pensi alla caldissima questione di Taiwan e del controllo del Mar della Cina e del Pacifico Orientale, con un primo e “decisivo”(?) lancio di testate o bombe nucleari.

Situazione drammatica, ma da tempo ampiamente prevedibile anche senza il recente annuncio del presidente dormiente.

(19 – continua)


  1. Si veda: Sandro Moiso, Warzone ovvero da Flint a Flint: la guerra come condizione di esistenza, introduzione a S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismo, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 11-15  

  2. Spesso inseriti con il compito di controllare e indirizzare tutte le scelte militari sulla base delle tattiche e alleanze elaborate o concordate con altre forze dalla direzione del Partito, anche nell’ambito della guerra partigiana come avvenne durante la Resistenza, più che di fornire un’effettiva ed adeguata formazione politica ai militari e ai combattenti.  

  3. Cui la strategia della “guerra lampo” di Erwin Rommel, e degli altri generali della Wermacht nel corso della prima parte del secondo conflitto mondiale, si ispirò invece totalmente.  

  4. Si veda ancora in proposito: S. Moiso, War! e Yankee Doodle Goes to War in S. Moiso, La guerra che viene, op. cit., pp. 28-39  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 8: mai più per un pugno di conchiglie https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/il-nuovo-disordine-mondiale-8-mai-piu-per-un-pugno-di-conchiglie/ Tue, 22 Mar 2022 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71094 di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu [...]]]> di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu un commercio tra eguali, basato su diverse valute. Soprattutto conchiglie importate dalle Maldive e dal Brasile.
Nel corso del tempo, le relazioni tra Africa ed Europa si incentrarono sempre di più sul commercio degli schiavi, danneggiando il relativo potere politico ed economico dell’Africa, mentre i valori di scambio monetario si spostarono drasticamente a vantaggio dell’Europa.

Questo, almeno, è quanto raccontato e analizzato da Toby Green, Senior Lecturer di Storia e cultura lusofona africana presso il King’s College di Londra, in un testo molto importante e sicuramente destinato a diventare di riferimento per quanto riguarda la storiografia sul colonialismo1.

Se l’imposizione di un sistema monetario basato sul denaro, come feticcio e valore equivalente per gli scambi commerciali, si rivelò decisivo per lo sviluppo degli scambi avviati dalla prima grande globalizzazione coloniale e capitalistica, oggi l’assoluta e trionfale diffusione del sistema su cui si fondò l’accumulazione primitiva e l’instaurazione di un autentico regime di rapina, basato sullo scambio ineguale, causa, sia al cuore che alla periferia dell’impero occidentale, sconvolgimenti pari soltanto a quelli che la rapida diffusione della rete e dei social ha causato al sistema di informazione e disinformazione mediatica, politica e militare operativo tra gli Stati e tra i governi di questi e i loro cittadini2.

Apparentemente, fino ad ora, la narrazione dell’attuale conflitto russo-ucraino sembra essere stata relegata ad una guerra tra due nazioni, in cui una è formalmente aggredita mentre l’altra riveste i panni dell’aggressore, oppure ad una guerra tra Russia e Nato con l’Unione Europea come addentellato. In realtà, se osservata con maggior distacco e su un piano storico più ampio, questa guerra, soltanto per ora non ancora trasformatasi in mondiale, porta alla luce contraddizioni e criticità che per lungo tempo, sicuramente in Occidente, sono state nascoste sia dai governi che dalla comunicazione mainstream.
Non solo, però, ma anche da una concezione, ancora figlia del colonialismo e dell’idea, ereditata spesso anche da certo socialismo e anarchismo di ispirazione tardo ottocentesca, del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” ovvero della necessità per la “razza bianca” di farsi carico dell’educazione politica e morale, oltre che economica, dei popoli “altri”.

Da qui lo sfoggio in gran spolvero, in ogni occasione e soprattutto in tempi di giustificazionismo di guerra, delle idee di democrazia, libertà civili e individuali e diritti formali che hanno finito spesso col coinvolgere nelle diatribe interimperialistiche, militari ed economiche, anche porzioni di classi e partiti che, invece, avrebbero avuto interesse a tenersi ben lontane da tali questioni. Non per indifferenza, ma proprio per presa coscienza della truffa, esercitata soltanto in nome degli interessi proprietari e finanziari, contenuta in tali immorali chiamate alle armi (ideologiche prima e militari successivamente) di coloro che dai conflitti militari ed economici del capitale hanno sempre e soltanto da perdere, spesso la vita ma mai le “storiche” catene.

Ora, di fronte al baratro della natalità occidentale, in vista di un 2050 in cui le stime demografiche prevedono che su circa dieci miliardi di abitanti del pianeta soltanto un miliardo o poco più sarà dislocato in Europa e Nord America, è evidente che, in maniera prima impercettibile poi sempre più evidente, la lotta per le risorse e le ricchezze del pianeta ha cominciato a vedere protagoniste nazioni che, fino a qualche decennio or sono, l’idea colonialista del mondo ereditata dall’Occidente insieme alle sue fortune dai secoli precedenti contribuiva a definire come sottosviluppate, in via di sviluppo oppure appartenenti al Terzo Mondo (quando il secondo era rappresentato dal cosiddetto socialismo reale di stampo sovietico).

Alcune di queste nazioni (come India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Nigeria, Etiopia, Congo e Tanzania) non soltanto appartengono al gruppo di quelle destinate ad avere il maggior incremento demografico nel prossimo futuro, ma sono anche tra quelle che alla votazione avvenuta recentemente alle Nazioni Unite si sono astenute dal condannare la Russia e dall’approvare le sanzioni internazionali nei confronti del suo regime e della sua economia. Tra queste appunto, oltre alla Cina, troviamo infatti l’India, il Pakistan, il Congo, la Tanzania e altre trenta variamente dislocate tra Asia, Africa e America Latina3.

Quella astensione, occorre ribadirlo con forza, non ha segnato certamente un appoggio più o meno mascherato all’autocrate del Cremlino, erede a sua volta della tradizione di un impero sovranazionale, sia in epoca zarista che in epoca staliniana e post-staliniana, ma piuttosto una sorta di rivendicazione di indipendenza di diverse nazioni, certo non tutte di pari grado e importanza o estensione spaziale e demografica, dall’ormai insopportabile e antistorica pretesa dell’Occidente di essere punto focale e riferimento per il mondo intero.

Sono stati e nazioni spesso di diverso credo religioso, in alcuni casi divise da rivalità economiche, militari e talvolta etniche, quasi sempre governate da partiti e personaggi tutt’altro che progressisti, ma accomunate sempre dall’essere state in precedenza colonie degli imperi occidentali e dal far parte di un’umanità colorata e non bianca.
Intravedere in tutto questo una prosecuzione della lotta anti-coloniale sarebbe certamente illusorio e fuorviante, ma occorre coglier in tutto ciò un aspetto importante di quel “nuovo disordine mondiale” di cui si va parlando, anche in questa serie di articoli, da diverso tempo a questa parte.

In prospettiva, una separazione di interessi anche dal dollaro e dal suo sistema, che, sicuramente, le drastiche sanzioni prese dall’Occidente nei confronti della Russia, in primo luogo l’esclusione dal circuito Swift per i pagamenti interbancari e le transazioni finanziarie internazionali, hanno contribuito indirettamente a incoraggiare.
Da questo punto di vista si può iniziare a cogliere proprio ciò che si diceva in apertura, ovvero che quello che era diventato strumento di dominio ed accentramento economico alle origini del capitalismo (la moneta europea nelle sue varie forme nazionali, auree e cartacee), rafforzatosi poi, dopo Bretton Woods4, con la “folgorante” carriera del dollaro come strumento monetario internazionale per gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie su scala planetaria, inizia a rivoltarsi proprio contro coloro che per secoli oppure decenni ne hanno mantenuto il controllo. Dando vita a guerre, non solo “monetarie”, di cui anche la creazione dell’euro è stato un effetto, che sempre più si orientano alla sostituzione della moneta americana con altre, bitcoin compresi.

Come era già stato proposto al decimo summit dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) tenutosi a Johannesburg, in Sud Africa nel 2018. In tale contesto, nella più totale indifferenza europea, un atteggiamento miope che ha rivelato tutta l’impotenza politica dell’Unione europea di fronte ai grandi cambiamenti geopolitici che stanno determinando la storia, i cinque paesi, soprattutto Russia e Cina, avevano confermato politiche di diversificazione delle loro riserve monetarie e di progressiva dedollarizzazione delle economie.

In Russia, per esempio, nell’ultimo decennio la quota dell’oro è decuplicata, mentre gli investimenti nei titoli di debito del Tesoro USA sono calati al minimo. Se nel 2010 Mosca deteneva obbligazioni americane per 176 miliardi di dollari, nel 2018 ne deteneva 15 miliardi. La Russia è poi fra i primi cinque paesi per riserve auree. Secondo alcune stime, all’epoca del summit deteneva circa 2.000 tonnellate di oro, pari al 18% di tutte le riserve auree nel mondo. Simili processi erano in corso anche in Cina, che negli anni precedenti il 2018 aveva acquistato 800 tonnellate d’oro, e, anche se in modo più attento, aveva diminuito gli investimenti in titoli di debito americano, scesi dal picco di 1,6 trilioni di dollari del 2014 ai circa 1,2 trilioni5.
Mentre l’Europa, nel frattempo, ha preferito trascurare i Brics intesi come gruppo, sottovalutando che esso, nel frattempo, rappresentava all’epoca il 23% del pil mondiale e il 18% dell’intero commercio globale, limitandosi a rapporti bilaterali.

Se tale processo andrà avanti, sarà certamente lungo e richiederà scelte dolorose soprattutto per le classi lavoratrici di quegli stessi paesi, se non sanguinose sul piano politico-militare, mentre la centralizzazione finanziaria e monetaria a livello mondiale non è certo per ora ancora in discussione. Però iniziano ad essere messe in discussione l’autorità della moneta e delle istituzioni che la hanno fino ad ora rappresentata. Certo è che non saranno più le conchiglie di ciprea o nzimbu, di cui si parlava in apertura, a soddisfare le intenzioni e le mire dei rappresentanti di tutte quelle economie che definire emergenti costituirebbe ormai soltanto un pallidissimo eufemismo.

Intanto si possono citare alcuni episodi “esemplari”. Iniziando dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che in un Tweet avrebbe definito boomers (vecchi coglioni o qualcosa del genere) i rappresentanti del Senato americano che rimproveravano minacciosamente il suo governo nello stesso momento in cui relativizzava il dollaro (scelto nel 2001 come «moneta nazionale» da predecessori) instaurando il bitcoin come seconda «moneta nazionale» nel giugno 2021.
«Ok boomers», ha twittato Bukele. «Non siamo la vostra colonia, il vostro cortile o il vostro zerbino. Non immischiatevi nei nostri affari interni. Non cercare di controllare qualcosa che non puoi controllare». Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno «zero giurisdizione» in El Salvador, una nazione sovrana e indipendente».

Bene, non siamo certamente davanti ad uno delle economie più importanti del pianeta e nemmeno davanti ad un governo rivoluzionario, anzi, ma cogliamo la connessione con gli altri Stati latino-americani astenutisi nel voto alle Nazioni Unite, esattamente come El Salvador (Bolivia, Nicaragua e Cuba e Venezuela che, semplicemente, non ha nemmeno votato), senza dimenticare, però, nemmeno quei vertici militari brasiliani che scoraggiarono Trump, più delle mobilitazioni pro-Maduro in Venezuela, dal posare gli stivali militari americani sul terreno sudamericano per risolvere il fallito tentativo di rovesciamento del regime venezuelano messo in atto da Juan Gaidò.
Movimenti e soggetti nazionalisti? Certamente. Rivoluzionari? Per niente. Ma che, rappresentano un autentico pain in the ass per l’amministrazione degli Stati Uniti proprio nel continente che pensava di avere assoggettato una volta per tutte.

Di maggior peso, invece, appare sul piano internazionale l’atteggiamento del primo ministro pakistano Imran Khan che, dopo che i capi di 22 missioni diplomatiche, comprese quelle degli stati membri dell’Unione Europea, avevano rilasciato una lettera congiunta il 1° marzo, sollecitando il Pakistan a sostenere la risoluzione nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, ha affermato, durante un raduno politico: «Cosa pensate di noi? Che siamo i vostri schiavi… che qualsiasi cosa voi diciate, noi la faremo?»
Opportunismo tattico? Molto. Spirito di rivalsa di una nazione islamica sempre ambigua nel comportamento nei confronti dell’Afghanistan e dei talebani? Probabile. Retorica nazionalista adatta a nascondere i veri propositi e obblighi di un governo comunque considerato filo-occidentale? Ancor più probabile.

Dall’Africa non sono giunte voci altrettanto “chiare”, ma l’elenco di nazioni astenute è davvero impressionante, a partire dal Sud Africa e continuando, oltre alle due citate prima, con Algeria, Angola, Burundi, Repubblica Centro Africana, Madagascar, Mali, Mozambico, Namibia, Sudan, Sudan del Sud, Uganda e Zimbabwe. Mentre Etiopia, Marocco, Guinea, Togo, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale e Burkina Faso non hanno nemmeno votato.

E’ evidente non soltanto che la presenza militare russa e quella economica cinese esercitano ormai una forte influenza sulle politiche interne ed estere di quei governi, ma anche che un certo spirito di rivalsa anti-occidentale, condiviso da ampi settori dell’opinione pubblica locale e utile a sedarne in anticipo le eventuali proteste per condizioni di vita dovute alle politiche economiche messe in atto da quegli stessi governi, agita gran parte dei paesi ex-coloniali.

Occorre qui ripeterlo: non si tratta più di lotte di liberazione nazionale, com’era avvenuto fino alla metà degli anni Settanta o, ancora, con il passaggio di poteri in Sud Africa nei primi anni Novanta, ma piuttosto di una sorta di rivendicazione della possibilità di partecipare, con voce in capitolo, al gran banchetto della spartizione delle ricchezze mondiali che, a quanto pare, l’Occidente e il suo imperialismo sembrano ben determinati a trattenere tra le proprie mani o, per meglio esprimere il concetto, grinfie.

La favoletta della globalizzazione che avrebbe reso tutti più ricchi e moderni con relativa equità è fallita da tempo6, ma la diffusione dei sistemi produttivi ad essa associati ha portato a risultati imprevisti. Come la scalata cinese al predominio nella produzione industriale e lo sviluppo dell’economia indiana e l’importanza di entrambe le nazioni nella formazione di ingegneri e tecnici dalle conoscenze e abilità che spesso superano quelle occidentali in diversi settori avanzati. Mentre l’espansione del capitalismo cinese in Africa, come si è già detto, ha poi contribuito al resto.

Nulla che spinga in direzione di quel superamento del modo di produzione attuale cui sarebbe giusto aspirare ormai in ogni parte del mondo, ma sicuramente tutti elementi di contraddizioni ormai insanabili, che rivelano l’intima essenza di quel disordine mondiale di cui abbiamo parlato così spesso. Di cui l’esplosione della guerra in Ucraina potrebbe costituire nient’altro che l’aperitivo per le portate principali che devono ancora essere messe in tavola.

Impressione rafforzata poi da altri fatti, spesso inerenti paesi legati tradizionalmente all’Occidente e che hanno votato a favore della condanna di Mosca. Come la Turchia che, da anni, sta conducendo un gioco diplomatico e militare a sé, sia nel Medio Oriente che in Asia Centrale e in Libia, talvolta convergente e talvolta divergente da quello condotto dalla Russia. Motivo per cui l’impegno di Erdogan nelle attuali trattative avrà sicuramente un prezzo anche per l’Occidente.

Oppure l’Arabia Saudita e alcuni paesi del Golfo che non hanno accettato la proposta di Biden di regolamentare il prezzo del petrolio aumentandone il flusso verso Ovest, ma rivendicato piuttosto il diritto di trattare prezzo e quantità dello stesso con la Cina. Così, sempre per l’area del Golfo, va segnalato che, se dall’inizio della guerra in Siria, 11 anni fa, il presidente siriano Bashar al-Assad ha viaggiato pochissimo al di fuori del Paese, e solo per recarsi in Russia e in Iran, il 18 marzo scorso si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, facendosi fotografare nel sontuoso palazzo dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati e sovrano di Dubai. Cosa che ha scandalizzato non poco il governo degli Stati Uniti.

Infine, occorrerebbe osservare ancora i comportamenti dell’India, che acquista il 70% dei suoi armamenti dalla Russia e che si è già dichiarata pronta ad acquistare gas e petrolio russo in quantità. Certamente in relazione alla sua rivalità economica e militare con la Cina, ma con un gioco diplomatico e finanziario che riduce, al momento, il ruolo dell’Occidente per quanto riguarda i suoi interessi i immediati.

Sarebbero ancora molto numerosi i casi e le contraddizioni che si potrebbero citare e soltanto i rappresentanti del capitalismo occidentale e i suoi media ed intellettuali asserviti sembrano non essersene accorti, continuando a raccontare storie che, come la strage al Teatro di Mariupol, poi smentita dagli stessi che l’avevano gonfiata ad uso propagandistico come autentica “carneficina”, rinverdendo i fasti della campagna di disinformazione europea ai tempi della caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, non costituiscono altro che continue fake news di cui, forse, stanno addirittura perdendo il controllo. Con rischio ulteriore di far precipitare il conflitto attuale, ancora locale, in uno su scala mondiale. In cui le classi meno abbienti avrebbero soltanto da perdere, in ogni angolo del pianeta.

Come c’è da attendersi, in fin dei conti, da un ambiente politico-culturale in cui l’imbecillità trionfante spacciata per informazione fa sì che personaggi del calibro di David Parenzo possano zittire in malo modo un esperto di questioni internazionali come Alessandro Orsini, se soltanto quest’ultimo osa criticare l’operato della Nato e degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan; oppure in cui i discorsi di Zelensky vengono scritti dallo stesso sceneggiatore della serie televisiva che lo lanciò verso l’attuale presidenza. Tra gli applausi dei media e dei politici europei e nord americani.

(8 – continua)


  1. Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021  

  2. Su quest’ultimo tema si veda su Carmilla il contributo di Gioacchino Toni contenuto in Il nuovo disordine mondiale / 7: il trionfo della disinformazione digitale di massa, 20/03/2022  

  3. Sullo stesso tema si confronti: Dario Fabbri, Una guerra per procura nel mondo che cambia, “Scenari”, 18 marzo 2022, pp. 2-3  

  4. Accordi di Deliberazione della Conferenza monetaria e finanziaria che si tenne dal 1° al 24 luglio 1944 presso la città di Bretton Woods, in New Hampshire (USA), con la partecipazione dei delegati di tutti i paesi alleati contro il Patto tripartito, compresa l’URSS. Entrati in vigore il 27 dic. 1945, oltre a prevedere la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, gli accordi istituirono il nuovo sistema monetario internazionale, basato sul principio di stabilità costituito dai cambi fissi tra le monete e dal ruolo centrale del dollaro. Tra i paesi firmatari, tra gli attuali appartenenti ai Brics attuali, risultava soltanto la Russia, all’epoca URSS.  

  5. Fonte: www.tendenzamercati.net  

  6. Se n’è parlato qui  

]]>
War! https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ Mon, 09 Sep 2013 23:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9243 di Sandro Moiso

Strangelove“War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della [...]]]> di Sandro Moiso

StrangeloveWar / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.

Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.

Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.

Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.

Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.

Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.

Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.

Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.

 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.

Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.

Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti […]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra […]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue […] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.

Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.

Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.

Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.

Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.

Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.

L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).

E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).

Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.

Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.

Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.

La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.

L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.

La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.

Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.

Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .

Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.

Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa detrminante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.

Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.

Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.

Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.

 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).

 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.

 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21

 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3

 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

]]>