Brian De Palma – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Il cinema e la rottura del nesso fra visione e conoscenza https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-e-la-rottura-del-nesso-fra-visione-e-conoscenza/ Tue, 23 Aug 2022 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73248 di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di [...]]]>

di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di produzione, fruizione e condivisione degli audiovisivi, da un’immagine cinematografica che, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del primo e la percezione di trovarsi il secondo presente davanti agli occhi1, da testi filmici strutturalmente cambiati rispetto all’epoca in/su cui venne steso il volume, le riflessioni da esso proposte su ciò che allora si definiva “contemporaneo” e che non è evidentemente più tale oggi, restano assolutamente utili e non solo come testimonianza di un importante passaggio epocale avvenuto e, per certi versi, oltrepassato, ma anche perché del contemporaneo in cui si è immersi rappresentano l’alba.

Vale la pena dedicare alle riflessioni sviluppate da tale volume due distinti scritti; il primo incentrato sulla rottura del nesso tra visione e conoscenza ed il secondo sulla questione identitaria ed il suo rapporto con l’alterità nel cinema che testimonia la crisi del visivo.

Al fine di evitare fraintendimenti circa il ricorso al temine “contemporaneo” utilizzato nel libro di Canova per definire quanto era tale due decenni fa, all’epoca della sua prima stesura, si eviterà il più possibile di farvi ricorso, sostitutendolo con una più neutra indicazione di perido.

Le analisi presenti in L’alieno e il pipistrello – in cui, rispetto alla sua prima uscita, è stato aggiunto in coda un breve capitolo dedicato a Joker come «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7) – restano di estrema utilità visto che, come scrive l’autore nella prefazione alla nuova edizione, «il cinema è rimasto uno dei pochi sismografi emozionali e cognitivi capaci di ricordarci che il semplice gesto del guardare un’immagine non significa anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato (o pretende di essere mostrato, o finge di esserlo)» (p. 6), inoltre, le «figure archetipe come Batman e Alien (il protettore mostruoso e il mostro protettivo) si confermano – anche a distanza di un ventennio – come imprescindibili icone dell’immaginario collettivo» (p. 6).

Il volume si apre facendo riferimento a Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997) di Andrew Niccol, film che narra di uno scenario in cui il corpo umano si è ormai consegnato alla dittatura dell’artificio e del simulacro e «le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà» (p. 11), ma al contempo racconta anche di una insopprimibile nostalgia della vista e del desiderio in forma scopica. «In un mondo completamente desensorializzato (asettico-lucido-inodore-insapore) la vista esprime la nostalgia del corpo, il suo eterno ritorno» (p. 11).

Le tematiche trattate dal film introducono dunque alcune questioni indagate dal libro: «la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile» (p. 12).

La sequenza di Entrapment (1999) di Jon Amiel, in cui si mostra il meticoloso allenamento con cui la protagonista, preparandosi a un furto, si esercita a muoversi facendo a meno dello sguardo, viene indicata da Canova come «sintomo di un destino epocale che sembra interessare tutto il cinema di fine millennio: la consapevolezza del progressivo declino della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente importanza che vanno assumendo, per converso, l’udito e il tatto» (p. 52). Costruito attorno al tema dell’eclissi dello sguardo, il film non manca di esprimere «la nostalgia per la civiltà dello sguardo nel momento stesso in cui prende atto, sul piano pragmatico-funzionale, del suo declino» (p. 52) .

Il cinema degli ultimi decenni del secolo scorso, di cui si occupa il volume, tende in diversi casi a palesare come l’occhio sia divenuto un simulacro di quel che è stato e lo fa insistendo su storie in cui i personaggi si trovano a – o decidono di – fare a meno degli occhi, suggerendo il sopraggiungere di una sostanziale perdita di fiducia nella vista.

Sono diversi i film che sottolineano lo scarto che si è venuto a creare fra visione e conoscenza, dunque dell’inaffidabilità dell’immagine. La messa in discussione dello statuto di quest’ultima è già presente nel cinema di fine degli anni Cinquanta, ma quel cinema «era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano» (p. 55), mentre invece quello di fine millennio «non ci crede più. Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Per lo meno: non crede più che il semplice gesto del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato» (p. 56).

Canova invita a cogliere tale scarto nella distanza che separa i protagonisti di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni e I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) di Peter Greenaway, rispettivamente un fotografo ed un disegnatore di vedute dal vero.

I due registi, consapevoli dell’incolmabile distanza che separa l’immagine dal reale, nel mettere in scena situazioni tutto sommato simili – indizi di un delitto presenti nelle riproduzioni sfuggiti ai rispettivi autori – optano per protagonisti che si pongono di fronte al rapporto tra immagini e reale in maniera decisamente diversa. Se il personaggio-fotografo, fiducioso nella possibilità che l’immagine sveli il reale, scopre l’accaduto «osservando attentamente non la realtà ma la sua riproduzione fotografica» ricorrendo all’ingrandimento per svelare quanto l’occhio umano non può cogliere, palesa la coincidenza di visione e conoscenza, nella sua ossessione riproduttiva, il disegnatore non coglie ciò che riproduce, non lo capisce, non lo conosce. Visione e riproduzione non garantiscono conoscenza.

Il cinema di fine Novecento, come può suggerire il film di Greenaway, tende a palesare «la rottura fra visione e conoscenza come una dolorosa menomazione. E talora reagisce al trauma offendendo l’occhio, cioè accanendosi proprio contro l’organo che ritiene responsabile della perdita» (p. 58). Un cinema che dunque rinuncia a vedere, che, di fronte alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, decide di non rapportarsi più al mondo attraverso lo sguardo. Un cinema che, consapevolmente, opta per la cecità.

Il film Occhi nelle tenebre (Blink, 1994) di Michael Apted racconta di una giovane violinista che ha perso la vista da bambina a causa di una violenta punizione inflittale dalla madre per il suo ostinarsi ad imitarla allo specchio. Un trapianto di cornea permette alla protagonista di riguadagnare parzialmente la vista ma la lascia incapace di capire se il suo sguardo sia “in diretta” o “in differita”; se ciò che intravede è quanto sta accadendo o se si tratta di un residuo visivo di un fatto accaduto nel passato. La cecità della violinista deriva dunque da

una colpa di tipo narcisistico-imitativo: non vede più perché, al contempo, si è illusa di poter essere come la madre e ha contemplato un po’ troppo se stessa davanti a uno specchio. Anche il cinema ha seguito un percorso analogo: si è illuso di saper imitare la realtà, di poterla riprodurre fino a confondervisi, e si è trastullato a lungo davanti alla propria immagine riflessa, guardandosi (pp. 61-62).

L’accecamento presente in numerosi film di fine millennio, secondo Canova, potrebbe essere letto come metafora di un’autopunizione per l’eccesso di fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale e per l’illusione di poter mettere in scena il suo essere linguaggio senza comprometterne il funzionamento. Un non voler vedere derivato dalla caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo che ha finito per ripiegare nella simulazione e nella virtualità abbandonando pretese ontologiche.

La metafora dell’accecamento coinvolge tanto il rapporto del cinema con il visibile, a favore dell’acustico e del tattile, quanto con il visivo, inceppando processi a cui era solito ricorrere come produttore di senso.

La dialettica tra visibile e non visibile è stata al centro della riflessione “moderna” sul cinema in autori come André Bazin, Noël Burch e Pascal Bonitzer per i quali «l’irrappresentabile o il non visibile si danno come tali solo a uno spettatore esterno (a un interpretante) che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire» (p. 67). Nel cinema di fine millennio, invece, è «lo stesso film a enunciare i propri limiti e a scandagliare i territori dell’irrappresentabile, confessando apertamente la propria incapacità di renderli visibili». Si tratta di un cinema «che tematizza la non visibilità. Che racconta di mondi che non sa visualizzare. O di tecnologie ipersofisticate che servono solo a visualizzare il mondo che noi già conosciamo (e che il cinema da sempre mette in scena)» (p. 68).

Il cinema che palesa la sua crisi, sostiene Canova, risulta decisamente più interessante di quello che la esorcizzava «inseguendo la produzione della “bella forma”»; è invece nell’infrazione di quest’ultima, nella sua lacerazione che, si dice convinto l’autore del saggio, il cinema sembra suggerire «qualcosa circa il proprio destino» (p. 68).

A partire da queste premesse, lo studioso affronta la messinscena della crisi del visibile nel cinema di fine Novecento proponendo tre livelli di riflessione: la rappresentazione del limite del filmabile attraverso il film Contact (1997) di Robert Zemeckis; la rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato nel film Psycho (1999) di Gus Van Sant; la rappresentazione del limite del virtuale nel film Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski.

Si viene così ad avere una nuova esperienza del sublime che non ha a che fare né con la grandiosità incommensurabile della natura, né con la sua straordinaria potenza, bensì, nei tre esempi, rispettivamente con la scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (sublime gnoseologico), dell’Identico (sublime intertestuale) e del Virtuale (sublime tecnologico).

«Contact (1997) è prima di tutto un film sull’altrove. Sul bisogno di altrove. Sulla necessità di portare lo sguardo oltre i confini del visibile e del filmabile per farlo approdare ad altri tempi e ad altri spazi» (p. 69). Allo stesso tempo, continua Canova, si tratta di «un film sull’impossibilità di tutto questo, sull’inadeguatezza della nostra strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) al fine di rendere visibile (e, quindi, di trasformare in cinema) questa necessità» (p. 69). Dunque, Contact si presenta come un «film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. Di queste immagini, quelle che finora hanno dato vita al cinema e ai film» (p. 70), tanto da proporsi come esempio di cinema sinestetico, soprattutto acustico.

«Ancora una volta: vedere non basta. Non è sufficiente per comprendere e capire; il tema della conoscenza mediante le apparenze, che impregna di sé tutta la storia del cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile, è anche il tema di Contact. Che entra direttamente nella crepa epistemologica apertasi fra visione e conoscenza, e ci lavora dentro» (p. 71). Non a caso la protagonista percepisce le cose con l’udito prima che con la vista.

Psycho di Gus Van Sant sembra amare talmente tanto il suo modello di partenza da produrne la morte.

C’è una strana coincidenza fra il gesto linguistico di Van Sant e il testo che egli rimette in scena. Psyco di Hitchcock narra di un figlio che uccide la madre, conserva il suo cadavere imbalsamato, assume le sue sembianze e prende il posto di lei. Il film di Van Sant fa la stessa cosa con la sua madre-matrice: la “uccide” e prova a prendere il suo posto. Ne conserva lo scheletro (lo storyboard), ne imita la voce (le musiche di Bernard Herrmann), ne mima le apparenze e le fattezze (i titoli di testa di Saul Bass), assume sul proprio corpo i segni di riconoscimento “materni” e fa di sé il simulacro della propria “genitrice” (pp. 76-77).

Un cinema che “imbalsama se stesso” come ultima possibile prerogativa dello sguardo: «di fronte alla perfezione inattingibile del già visto e del già mostrato, cerca di esprimere la propria “sublime” ammirazione con la produzione dell’identico e con l’esplicitazione del non-filmato, ma poi si rende conto che non è incrementando il visibile che può sperare di accrescere la tensione scopica dello spettatore e che, anzi, finisce per produrre proprio l’effetto contrario» (p. 77) .

Concentrandosi su Matrix, Canova sottolinea come spesso, guardando ad esso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un videogioco sia visivamente che narrativamente, tanto da rendere inopportuno affrontarlo ricorrendo ai canoni del cinema.

In perfetta sintonia con lo scenario della postmodernità, l’immagine di Matrix non è mai né “bella” né “vera”, tutt’al più è intensa, elegante o eccitante. Troppo piena (di segni, di pallottole, di corpi), troppo vuota (di senso?). Allo spettatore non è chiesto di “interpretare” alcunché, ma di prendersi tutto il piacere che riesce a catturare transitando dentro un gigantesco luna-park emotivo che funziona, in ogni istante, come uno stimolatore dei sensi (p. 80).

Eppure, sottolinea Canova, «Matrix è ancora cinema» a partire dai numerosi riferimenti al cinema che contiene. Lo è a modo suo, ribaltando la classica pretesa del cinema di simularsi reale, qua l’artificiosità è dichiarata, palesata.

Ma proprio qui sta il punto: per denunciare l’avvenuto dominio della simulazione, Matrix non può che essere a sua volta totalmente artificiale. Cioè finto, truccato, simulativo. E in ciò – in questa contraddizione, in questa doppiezza – sta al contempo la sua grandezza e la sua condanna. Assieme all’impressione che qui si sfiori davvero l’unica forma di sublime consentita al cinema di fronte alla visione della potenza e dell’inattingibilità delle tecnologie virtuali. Perché anche Matrix è, a suo modo, un film sulla crisi del visibile e sul tramonto dello sguardo. “Nessuno di noi può spiegare Matrix con le parole, bisogna vederla con i propri occhi” dice Morpheus a Neo. Appunto: che le parole fossero impotenti lo si sapeva già da tempo, ma il film delle sorelle Wachowski ci dice che anche lo sguardo non lo è da meno (pp. 81-82).

Dunque, il volume passa ad analizzare alcune crisi che si palesano in questo cinema di fine millennio: quella del diegetico, dell’iconico e delle forme filmiche.

A proposito della prima, lo studioso analizza in dettaglio Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nella cui struttura diegetica si intrecciano/alternano elementi di narrazione forte, debole e persino antinarrativa, tanto da rendere «indecidibile e indecifrabile il modello diegetico a cui effettivamente si ispira» (p. 85). La metanarratività su cui è costruito il film «si dà come forma ibrida, cioè come luogo di fuoriuscita dal canone e come punto di crisi delle forme narrative precedenti» (p. 89).

Per quanto riguarda la crisi dell’iconico, lo studioso si sofferma su Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) di John Woo, segnalando come i personaggi secondari, accontentandosi di osservare superficialmente la “maschera” dei due protagonisti, si limitino a credere a quello che vedono finendo per non vedere: «il modo di “guardare” e di operare identificazioni scopiche da parte dei personaggi di Face/Off rivela l’inadeguatezza di quei codici di riconoscimento iconico a cui essi stessi conferiscono la massima fiducia. Meglio: è lo sguardo di John Woo su di essi che rivela a noi spettatori la loro incapacità (o impossibilità) di riconoscere con gli occhi» (pp. 93-94).

Infine, per quanto concerne la crisi delle forme filmiche, Canova portata esempi riguardanti la soggettiva, la dissolvenza incrociata, il flashback ed il piano sequenza.

Nel primo caso lo studioso individua in Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow «il punto di crisi e di messa in discussione più radicale dello statuto della soggettiva» (p. 102) del cinema dei decenni terminali del secolo. Il film sembra suggerire che ad eccitare «l’umanità di fine millennio – secondo l’eterotopia scopica di Kathryn Bigelow – non è lo sguardo, ma la cosa vista. È la possibilità di vedere con l’occhio del protagonista il coito e la morte: […] ciò di cui i personaggi di Strange Days sembrano aver bisogno (e nostalgia) è l’ovvia banalità del nostro sguardo originario. Di ciò che esso era (e poteva) già prima dell’invenzione dei fratelli Lumière» (pp. 103-104). Insomma, film come questo si/ci interrogano a proposito del «rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto [della] relazione fra visione, emozione e conoscenza» (p. 106).

Per quanto riguarda l’uso “anomalo”, rispetto alla tradizione, della dissolvenza incrociata, Canova si concentra su Blackout (The Blackout, 1997) di Abel Ferrara, film che, nel suo insistito e reiterato utilizzo la annulla come figura di significazione. Blackout sembra suggerire che

in un universo scopico in cui la realtà non solo è registrabile e falsificabile, ma è quasi annullata dalla bramosia di sostituirla con i simulacri mentali e visuali ininterrottamente prodotti dai personaggi […], il rischio è che a un certo punto – come sperimenta in prima persona il protagonista del film – le immagini comincino a generarsi da sole, a prescindere dalla nostra volontà e intenzionalità, e si riproducano spontaneamente in modo impazzito, quasi in una sorta di metastasi scopica (p. 110).

Ecco allora il sopraggiungere del “blackout”, inteso come perdita del controllo sulla riproduzione tecnica del visibile, crollo definitivo dell’illusione riproduttiva dell’immagine, ma anche possibile ultima via di fuga percorribile. «È il battito di ciglia, la palpebra che si abbassa. È, ancora una volta, il rifiuto di vedere così; lo stacco nero, la nuotata verso il nulla su cui Ferrara chiude il suo film» (p. 111). La dissolvenza incrociata, anziché esibire l’avanzamento testuale del film, si propone dunque come una figura di paralisi.

Circa il flashback, trasformatasi nel corso del tempo da articolazione del racconto a nucleo tematico della storia, nel cinema che palesa le sue crisi finisce per perdere la sua funzione chiarificatrice

per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione. Più che un’opportunità, diventa spesso una condanna: segnala l’impossibilità di liberarsi dalle immagini del passato, che premono sul presente diegetico come una massa di ricordi mnemonico-visuali di cui i personaggi farebbero volentieri a meno. Da elemento di illuminazione diegetica, il flashback tende a diventare insomma un elemento di confusione; da figura di produzione del senso (o di messa in scena della sua pluralità e ambiguità: Welles e Kurosawa) si fa sempre più figura dell’implosione (o del collasso) di ogni senso possibile (p. 113).

Uno dei registi ad essersi spinto maggiormente in tale direzione è Abel Ferrara che infatti

fa del flashback la figura-chiave della memoria: individuale e filmica, ma anche storica, sociale e collettiva. Si veda, ad esempio, la trilogia formata da The Addiction (1995), da Fratelli (The Funeral, 1996) e dal già citato Blackout» (p. 113). Attaccare il flashback per Ferrara significa distrugge l’illusione, renderla impraticabile, obbligandoci «ad assumere il nostro atto di visione come unico oggetto ancora possibile per il nostro inappagabile desiderio di guardare (p. 116).

Per quanto concerne il piano sequenza, questo è storicamente passato dal presentarsi come forma filmica per eccellenza del realismo cinematografico a manifestarsi come manieristico segno linguistico autoriale di messa in scena e, ancora, nel cinema di fine millennio, «come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere» (p. 118).

In questo caso l’esempio su cui si sofferma il volume è quello del celebre incipit di Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma in cui

il piano sequenza non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra, piuttosto, l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo – fino al punto di rottura – le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, anche il suo non aver più idea di cosa guardare. O lo scarto fra ciò che si è scelto di vedere (di far vedere) e ciò che sarebbe stato giusto guardare (p. 119).

Snake Eyes, dunque. Occhi di serpente. Sguardo tentatore e al tempo stesso tentato, come quello «della “macchina” che desiderò il mondo agli albori del cinema, e che oggi si ritrova drammaticamente senza mondo, legato alle figure sfigurate di quel che è stata la visione filmica da un rapporto di struggente ma disincantata nostalgia» (p. 121).

 


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 


  1. Cfr. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Sul volume di vedano: Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale, “Carmilla”, 15 marzo 2016; Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale, in “Carmilla”, 22 marzo 2016. 

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Economie e narrazioni globali e transmediali. Il brand Gomorra https://www.carmillaonline.com/2018/04/10/economie-e-narrazioni-globali-e-transmediali-il-brand-gomorra/ Mon, 09 Apr 2018 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44762 di Gioacchino Toni

Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.

Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la [...]]]> di Gioacchino Toni

Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.

Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la prima è parte. Altrettanto globale appare quello che può essere definito il brand Gomorra che alla volontà di rendere internazionale la denuncia affianca una pianificata strategia dell’industria culturale indirizzata alla ricerca di un pubblico planetario. La necessità di denunciare ciò che è globale in maniera globale si intreccia con un’esigenza economica votata alla distribuzione internazionale. Se dal punto di vista economico, sappiamo, si possono tranquillamente veicolare contenuti anche scomodi se questi producono profitto, resta da verificare se il nobile intento della denuncia possa reggere ai meccanismi di mercato di uno spettacolo alla spasmodica ricerca del successo di audience.

Nel saggio di Giuliana Benevenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV (Il Mulino, 2017), si indaga uno dei casi più importanti di narrazione transmediale italiana capace di espandersi su diversi media: al libro di Roberto Saviano, uscito nel 2006, sono poi seguite una trasposizione teatrale, andata in scena per la regia di Marco Gelardi la prima volta nel 2007, una cinematografica, uscita nelle sale nel 2008 e realizzata da Matteo Garrone, dunque la fortunata serie televisiva affidata a Stefano Sollima e mandata in onda a partire dal 2014.

Il caso Gomorra offre interessanti spunti di analisi sia a proposito di produzione di titoli globali che di formazione progressiva di un franchise a partire dalla pubblicazione di un libro. L’altro celebre esempio di successo transmediale italiano è Romanzo criminale che al libro del 2002 di Giancarlo De Cataldo ha visto succedersi il film del 2005 diretto da Michele Placido e la serie televisiva di Stefano Sollima trasmessa a partire dal 2008.

Nel saggio di Giovanna Benvenuti Gomorra, in tutte le sue varianti mediatiche, viene visto come un prodotto in linea con il generale rinnovamento del contesto culturale nazionale che prende il via con la trasformazione dell’industria culturale italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento quando, sull’onda di fenomeni analoghi già in atto in altri paesi, anche l’editoria nostrana intraprende un processo di concentrazione e di propensione all’internazionalizzazione. La ricerca di visibilità globale sembra divenire, dagli anni Novanta, un elemento centrale in un panorama italiano contraddistinto dalla sostanziale coincidenza tra produzione e commercializzazione.

Qualcosa di analogo accade anche nel settore audiovisuale che, all’inizio degli anni Duemila, adotta una strategia «orientata a produrre blockbuster in grado di alimentare un franchise, ovvero in grado di sostenere una product line di film simili e una gamma di prodotti di intrattenimento a esso collegati» (pp. 16-17). Tali strategie intraprese dall’industria culturale italiana, che così si allinea a quanto già da diversi decenni accade negli Stati Uniti, non mancano di determinare reazioni risentite nella critica e negli ambienti accademici sostanzialmente ostili al dominio della “cultura visuale” accusata di mettere in crisi lo “specifico letterario”. Tale timore ha finito spesso per prendere la forma della strenua difesa della distinzione tra letteratura alta e di massa.

Nel nuovo contesto narrativo italiano, figlio anche delle disillusioni, del ripiegamento sul privato e della grande trasformazione neocapitalista, diversi autori sembrano confidare più sulle caratteristiche empatiche e affettive proprie di una narrazione performativa, piuttosto che sulle capacità riflessive e costruttive. Tra questi autori la studiosa colloca Saviano che, individuando i limiti di un’operazione di mera esibizione di documentazione nella sua volontà di denuncia, preferisce sperimentare nuove forme di comunicazione in cui si intrecciano «prova documentaria, finzione e autofinzione romanzesche» (p. 25).

Da tali riflessioni nasce il libro Gomorra. Qui l’autore ricorre a «una strategia retorica intesa a eliminare, apparentemente, la stessa differenza tra lettore reale e lettere implicito, creando l’impressione che non esista mediazione nel dialogo tra autore e lettore» (p. 27). Lo scrittore adotta una strategia dell’enunciazione che fa coincidere il soggetto dell’enunciato con il soggetto dell’enunciazione tentando di rimuovere «ogni effetto di distanziamento o di controcanto: tra i due soggetti (quello dell’enunciato e quello dell’enunciazione), la coincidenza o la congiuntura sembrano funzionare senza che si formino residui di senso, senza che si aprano crepe o fessure. Si ha in questo modo una “presa di parola” che […] sembra, cioè, solamente implicata da una tensione etica che si riversa in dovere della “rivelazione”: lo scrittore (ossia il personaggio del racconto retroattivamente prodotto dal dispositivo di scrittura appena menzionato) ha così un unico scopo e un unico compito, quello di portare a evidenza gli addentellati del Sistema camorristico» (pp. 28-29).

Le gravi minacce ricevute da Saviano, che lo obbligano a vivere sotto scorta, tendono ad imporre al lettore una sorta di “fiducia acritica” nei suoi confronti e a tal proposito non sono mancate prese di posizione ostili nei confronti dell’autore accusato di utilizzare la fiducia che gli viene concessa per intervenire anche su questioni mal conosciute.

Benvenuti sottolinea come il patto su cui si fonda il rapporto con il lettore in Gomorra sia istituito dalle dichiarazioni del personaggio-scrittore che, tra le altre cose, insiste su come la situazione locale di cui narra non sia che un microcosmo di un meccanismo criminale di portata internazionale aprendo così il libro ad un interesse globale. Nel saggio viene ricostruita la genesi del libro Gomorra a partire dall’attività di Saviano come giornalista ripercorrendo le pubblicazioni degli articoli sul blog «Nazione Indiana» (2003-2005) e sulla rivista «Nuovi Argomenti» che fanno da traccia alla pubblicazione editoriale.

A proposito dell’accostamento della scrittura di denuncia di Saviano a quella di Pier Paolo Pasolini, Benvenuti sostiene che il primo «contamina la letteratura con qualcosa che probabilmente Pasolini avrebbe disdegnato, cioè appunto l’immaginario mediatico» (p. 64). Lo scrittore napoletano, però, continua la studiosa, si propone di introdurre uno scarto importante rispetto a tale immaginario «decostruendo il fascino che promana dagli eroi del male, ponendo al centro della narrazione la propria diretta testimonianza». Differente è anche lo “sguardo parziale” pur ricercato da entrambi gli scrittori e se Pasolini, rivendicando esplicitamente l’autonomia della cultura dalla politica, attribuisce al romanzo un valore differente rispetto a quello dell’articolo che riprende la cronaca, Saviano non intende fare distinzioni.

Se dal punto di vista letterario lo scrittore napoletano trae ispirazione da Pasolini, da quello cinematografico Scarface, nella versione di Brian De Palma del 1983, rappresenta un punto di riferimento importante come modello da rovesciare: si tratta pertanto di riscrivere il mito veicolato dal film al fine di depotenziarlo attribuendo valore a chi si oppone al nichilismo dell’eroe del male. «Nel libro la deepicizzazione delle storie di camorra è resa possibile dai continui inserti saggistici, riflessivi, che spezzano il filo della narrazione, già comunque organizzata a episodi. […] Se l’immaginario contribuisce a creare la realtà, occorre creare un mito positivo, quello di uno scrittore ribelle che sfida il Sistema» (pp. 75-76). Siamo di fronte a una costruzione che avviene sia dentro che fuori il libro e, sostiene la studiosa, Saviano ha dato luogo a un’automitobiografia volta a combattere una violenza intessuta di mitologia.

Il primo adattamento di Gomorra è per il teatro e lo spettacolo viene messo in scena la prima volta nel 2007 da Marco Gelardi che, in collaborazione con lo stesso Saviano, decide di ridurre la mole delle vicende narrate dal libro concentrandosi su di un numero limitato di storie. Il linguaggio, come nel libro, risulta aggressivo e iperbolico con personaggi fortemente tipizzati. «A differenza di quanto accade nel libro, la pièce introduce il legame costituito dalla presenza del protagonista Roberto, interpretato da Castiglione […] In tal modo, come nel libro, il personaggio Roberto si confonde con la persona di Roberto Saviano e tale sovrapposizione è resa ancora più stringente dalla decisione di inserire quale prologo dello spettacolo l’intero discorso tenuto da Saviano a Casal di Principe, del tutto assente, ovviamente, nel libro» (p. 111). La certificazione di veridicità della narrazione che nel libro viene data dall’ubiquità del narratore-testimone, nello spettacolo teatrale verrebbe garantita dal prologo.

Nella trasposizione cinematografica operata da Garrone, anziché affidarsi ad una poetica del dire volta a dissezionare la realtà esponendone la brutalità attraverso un registro stilistico dell’eccesso, si assiste invece ad un’operazione di sottrazione rifuggendo dal modello del gangster movie tradizionale. Il film elimina la figura di Saviano narratore e personaggio che nel libro rappresenta l’opposizione al degrado. L’opera cinematografica mostra il modo di vivere e la cultura di chi ha a che fare con la camorra evitando eccessi stilistici e spettacolarizzazioni. Anche Garrone si pone il problema di come rappresentare il Sistema evitando di conferire fascino al potere dei boss e, a tal fine, decide di raccontare cinque storie di personaggi di secondo piano evidenziando il contrasto tra le loro vite e l’immaginario cinematografico di cui si nutrono. «Il regista, dunque, favorisce una lettura del film come reportage di guerra, legando il significato politico alla sua capacità di presentarsi come veicolo di informazione e proponendo il proprio come un cinema di impegno civile» (p. 95).

Sarebbe dunque la modalità con cui il film cerca una risposta emozionale, oltre che cognitiva, ad indurre lo spettatore a prendere posizione contro la cultura malavitosa. Anche Garrone, come Saviano, intende dar conto delle ramificazioni globali del Sistema evidenziando come il suo funzionamento sia del tutto in linea con quello del neoliberismo. «Lo spettatore è così colto dal legittimo dubbio di non essere davvero al di fuori della guerra di camorra, se è vero che essa è metafora di una guerra indotta dal sistema capitalistico, qui guardato nel suo volto più oscuro e cupo, nella sua disumanità» (p. 99).

Secondo Benvenuti il film non dovrebbe essere ricondotto all’interno del genere noir, quanto piuttosto al racconto distopico e, per certi versi, ciò appare ancora più evidente rispetto al libro grazie all’omissione della presenza dell’eroe-testimone che si ribella al Sistema. «La lettura distopica della realtà attuale situa il libro di Saviano in bilico tra un presente nel quale la catastrofe è in atto e un futuro ancora possibile, ma segnato da eventi che non sembrano avere fine, anche perché riproducono, in forme diverse, la catastrofe che è da sempre in atto. Se nel libro Saviano si prospetta come il sopravvissuto, che reca testimonianza della catastrofe, quasi assurgendo al ruolo di eroe tragico – mentre la prospettiva di Garrone rimane sempre quella di un outsider –, possiamo attenerci per lui – ma, in ultima analisi […] per la filiera mediatica che inaugura – alla definizione proposta da Giorgio Agamben di colui che, sempre inattuale e inadeguato rispetto al proprio tempo, può definirsi davvero “contemporaneo”» (p. 104).

Come Romanzo criminale, anche la serie Gomorra assume il punto di vista criminale sul mondo, permettendo così, come solitamente avviene nel genere noir, di mettere in scena lo sguardo sul lato oscuro del Paese, fatto di criminalità, certo, ma anche di relazioni intessute da quest’ultima con quei poteri che si presentano come la quintessenza della legalità. Come era accaduto con Romanzo criminale, dopo il successo del libro e del film arriva la serie televisiva, in questo caso particolarmente votata all’esportazione del brand a livello internazionale.

Secondo la studiosa la serie non può essere considerata come un adattamento del libro o del film: siamo piuttosto di fronte a una loro espansione narrativa forte anche di ricerche sugli sviluppi del Sistema svolte da Saviano successivamente. Lo showrunner della prima serie, andata in onda nel 2014, è Stefano Sollima, con diversi episodi affidati nel varie stagioni (2014, 2016, 2017) alla regia di Francesca Comencini, Caludio Cupellini e Claudio Giovannesi.

In linea con la pratica transmediale, la serie è pensata per essere fruibile autonomamente dal libro e dal film che l’hanno preceduta; è pertanto possibile approcciare il brand Gomorra a partire da una qualsiasi delle sue produzioni per poi decidere se e come affrontare le altre. La vera novità della serie, secondo Benvenuti, risiederebbe nella volontà di «rappresentare una storia criminale che molto deve alla tradizione del gangster movie, seguendo codici e ricercando effetti che gli spettatori sono abituati a incontrare nella serialità statunitense, ma non i quella nostrana» (p. 131).

Le esigenze della serialità televisiva comportano una modalità narrativa capace di fidelizzare l’audience tendenzialmente attraverso un’economia affettiva incentrata sui personaggi. Uno dei grandi problemi posti dalla serie è pertanto come riuscire a conciliare personaggi che permettano al pubblico di affezionarsi con il brand Gomorra costruito sulla negazione di eroi del male affascinanti. Come può, allora, distinguersi da altre serie, a cui narrativamente strizza l’occhio, magari non interessate all’impegno e alla denuncia? Sarebbe «in primo luogo Roberto Saviano a garantire il patto realistico sul quale è concepita la serie. Insieme a lui, il patto è garantito dagli espliciti pronunciamenti di registi, produttori e attori» (p. 133).

A differenza del film di Garrone basato sulla sottrazione, la serie intraprende la strada del tono epico della saga familiare di mafia. «Rinunciando all’eroe che si ribella al Sistema […] la serie, diversamente da quando aveva fatto il film, costruisce una mostruosa epica del male, che solamente contaminandosi con la distopia, mantiene una distanza critica verso ciò che rappresenta» (p. 135). Ciò dovrebbe essere rafforzato anche dall’assenza del lieto fine sebbene, vale la pena ricordare, l’happy end manchi spesso anche nelle produzioni che tendono a mitizzare agli occhi dell’osservatore le figure dei malvagi. Nel caso di Gomorra, sostiene Benvenuti, la mancanza del lieto fine vorrebbe però ricordare al pubblico che ciò a cui ha assistito si perpetua quotidianamente nei territori controllati dalla criminalità organizzata e su tale pretesa di realismo sembrerebbe fondarsi la strategia di marketing dell’intero brand.

Quanto Gomorra riesca nel suo intento di evitare che lo spettatore provi empatia per i personaggi, capaci di dar luogo a un piccolo star system, è difficile da dire. Inoltre, ricorda la studiosa, la crescente forza iconica di Saviano lo pone al centro di una responsabilità importante visto che è divenuto parte integrante del sistema mediatico che promuove il franchise. «Il caso Gomorra permette di mettere in luce la complessità del rapporto fra scrittore e mediatori culturali (proprietari dei mezzi di diffusione dei prodotti culturali, logiche di mercato, committenza, pubblicità, addetti stampa, editor, conduttori televisivi), mostrando quali negoziazioni e quali contraddizioni siano caratteristiche della contemporaneità» (p. 197).

Con le riprese della quarta stagione alle porte, resta da chiedersi se davvero la serie televisiva sia riuscita nell’intento di ribaltare Scarface e se davvero abbia saputo evitare di mettere in piedi una sorta di racconto epico autoconsolatorio, anch’esso nichilista in fin dei conti, agli occhi di chi si torva a vivere quello squallore e quello sfruttamento che la serie intende denunciare. Roberto Saviano ha più volte sottolineato come l’eventuale immedesimazione del pubblico si dia non con la realtà ma con la sua rappresentazione. Questo, però, poteva valere anche per il film di De Palma. Evitando di scivolare in semplicistiche letture di causa-effetto, viene da chiedersi se, molto più semplicemente, rispetto alle nobili premesse, la montagna (il brand Gomorra) non abbia finito col partorire un topolino (per quanto esteticamente ben riuscito ed economicamente redditizio).

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La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca https://www.carmillaonline.com/2017/12/21/la-corazzata-pote%cc%88mkin-non-cagata-pazzesca/ Thu, 21 Dec 2017 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42220 di Mauro Gervasini

[È in libreria Divine Divane Visioni di Filippo Casaccia aka Dziga Cacace, Odoya, 2017, pp.462, € 24,00. Ne anticipiamo l’introduzione scritta da Mauro Gervasini, critico cinematografico e direttore del settimanale FilmTV]

Con un nome tra il serio e il faceto già di suo, Dziga Cacace si esercita da anni nella critica cinematografica: com’è noto terza professione di tutti, seconda per chi non ama il calcio. Lo fa però tenendo fede al vecchio detto Nomen omen, che nel caso della sua identità presunta traccia una duplice [...]]]> di Mauro Gervasini

[È in libreria Divine Divane Visioni di Filippo Casaccia aka Dziga Cacace, Odoya, 2017, pp.462, € 24,00. Ne anticipiamo l’introduzione scritta da Mauro Gervasini, critico cinematografico e direttore del settimanale FilmTV]

Con un nome tra il serio e il faceto già di suo, Dziga Cacace si esercita da anni nella critica cinematografica: com’è noto terza professione di tutti, seconda per chi non ama il calcio. Lo fa però tenendo fede al vecchio detto Nomen omen, che nel caso della sua identità presunta traccia una duplice missione. Il situazionismo formalista di Dziga, esteta sopravvissuto alla prospettiva Nevskij, e la pratica dei bassifondi di Cacace, un tipo oscuro che pare uscito da una commedia di Mariano Laurenti. A differenza del dottor Jekyll, ignaro di trasformarsi nottetempo in mister Hyde, Cacace è perfettamente consapevole di essere anche Dziga, e viceversa. Anzi, diciamo pure che la cosa si fa più intrigante quando nella medesima recensione si scorgono echi di entrambe le voci. Come ad esempio in quella dell’“immortale capolavoro” di Sergej M. Ejzenštejn, La corazzata Potëmkin, restituito al suo legittimo e consacrato valore da Dziga senza che Cacace se ne possa lamentare più di tanto. A volte, lo confesso, si spera nella prevalenza del secondo, che nonostante l’etimo napoletano ha un curioso intercalare genovese. Stupendo in questo senso l’incipit de Le due sorelle: «L’attacco del film avrà sicuramente provocato spontanee polluzioni in quei fanatici che s’esaltano con tutte quelle fregnacce sullo spettatore voyeur che guarda un personaggio voyeur, a sua volta osservato – non visto – da qualche altro voyeur che bla, bla e altre belinate discorrendo». Sono passato anch’io attraverso le “belinate” qui messe alla berlina e vale la pena continuare a dissacrare, nonostante la critica cinematografica, come la nostalgia, non sia ormai più quella di un tempo: conta sempre meno, è inascoltata, soprattutto non convince più nessuno ad andare al cinema e questo purtroppo lo confermano le cifre disastrose se si guarda al gradimento di pubblico dei cosiddetti film d’essai. Nel libro di Dziga Cacace però non si aprono dibattiti, non si rifondano correnti estetiche, non si fa storiografia, non si vanno a comporre campioni statistici per indagini sociologiche. No, semplicemente si prendono i film e ci si sbatte contro con il corpo, i sensi, a volte il cuore. Sorprende nella narrazione del Nostro questo essere colto dalla visione quasi suo malgrado all’improvviso, magari facendo zapping nella notte o ritrovando qualcosa d’inatteso su una VHS (preistoria, lo so, ma tant’è) che avrebbe dovuto registrare tutt’altro – è il caso di Un orfano chiamato San Mao di un anonimo cinese caro a Enrico Ghezzi –, oppure acquistando una cassetta a caso dall’edicolante di Bonassola. Lo stupore di Cacace (o Dziga, qui si confondono di nuovo) è contagioso. Frequentatore abituale (in gioventù) del leggendario Cineclub Lumière di Genova, nel capitolo Lo sguardo mutilo colleziona recensioni brevi, quasi in forma di diario, con annotazioni che riportano anche il critico con i piedi per terra (non si sarà mica assopito guardando questo piuttosto che quello? Boh…). In tutto ciò, esercitando in modo così forsennato la lettura trasversale dei film, capitano anche stroncature che meriterebbero duelli all’alba (diciamo che De Palma non è il suo regista preferito, e quando ho letto la rece de La presa del potere di Luigi XIV «di un pesantissimo Roberto Rossellini» mi è venuto un colpo…) ma ovviamente fa parte del gioco. D’altro canto la schiettezza del Cacace a volte provoca più invidia che rabbia. Per dire: la recensione di Bus in viaggio di Spike Lee inizia così: «Dio che ciofeca». Lo penso anch’io ma non so se avrei potuto scriverlo. Eccolo, il senso di un’operazione che trasuda competenza e paradossale buonsenso: fare della critica cinematografica un esercizio (anche) liberatorio.
Dziga Cacace ci riesce. Anzi: ci riescono.

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Il reale delle/nelle immagini. Spettacolo e irrealismo della società reale https://www.carmillaonline.com/2017/10/01/39984/ Sat, 30 Sep 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39984 di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre [...]]]> di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre più spesso la realtà riprodurre la finzione [su Carmilla]. Se da una parte il reale ama replicare il finzionale, è vero anche che spesso quest’ultimo tende, e forse proprio per questo, a fare del primo il suo tratto distintivo

generando effetti visivi o letterari di contenuto dentro contenuto, come il romanzo dentro al film o viceversa, citazionismi religiosi o mitologici raffigurati o “girati” dentro una scena che con le allusioni non hanno nulla in comune. La mise en abyme dà vita a un doppio, come nel caso dello specchio, condividendo con questo l’artificio o la stregoneria che gli consente un simile effetto. La mise en abyme fa di ciò che ha originato un medium, un ingresso da attraversare, investigare e forse anche da riempire, poiché è proprio lì che si cela l’essenza di un’opera. La creazione di un’entità (persona o oggetto) come doppione di un’entità primaria possiede un’elevata somiglianza a tal punto da far cadere in stato confusionale chi osserva o legge; eppure, nonostante la considerevole attendibilità, questa risulta evanescente, intangibile e parzialmente confutabile, poiché l’accesso dentro l’abisso è collocato all’infinito. Conseguentemente, la mise en abyme produce una trascrizione che riverbera quel principio auratico custodito nell’opera originale. Un’ombra senza tratto distintivo alcuno, poiché calco di un’autentica natura (p. 91).

Cutrona ricorda come a partire dalla tragedia greca il termine spettacolo implichi l’atto del guardare qualcosa o qualcuno da parte di un pubblico, dunque si tratta di un’esperienza antropica dipendente inizialmente da riti religiosi, poi caratterizzata dal legarsi del mito del dramma al racconto. Lungo tale percorso la storia dello spettacolo ha finito con l’intrecciarsi fortemente con quella dei media dando vita ad un rapporto contraddittorio.

Il fascino delle rappresentazioni ha contribuito a modificare la percezione ed i valori dell’uomo, tanto che lo stesso capitale si è sempre più smaterializzato «mediante un’evoluzione da merce a immagine e da immagine a merce […] È lo Zeitgeist della nostra epoca, è proprio da lì, che tutto inizia e finisce, non c’è altra forma di creazione di un hic et nunc, se non quella di un continuo set cinematografico, che si tratti degli studios di larga fama piuttosto che, quelli di un talk show […] di casa nostra. Le regole non cambiano, il gioco ha sempre un solo fine: mimare la vita» (p. 12). Inutile, sembrerebbe, provare a resistere o scontrarsi sul terreno dello spettacolo in quanto quest’ultimo pare in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria.

All’interno di un capitalismo votato all’immateriale, ogni oggetto conta in quanto merce ed a contare è la sua forma simbolica. Se il valore di un bene, oltre che dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo, dipende sempre più dalla condivisione che l’immagine-merce e merce-immagine riescono ad ottenere, allora, suggerisce Cutrona, «più forte è il lancio dell’immagine-merce più visibile e condivisibile è la merce-immagine, pertanto si tratta dell’odierno valore di scambio, il potere della circolazione che conta sull’astrazione. Lo spettacolo in tutte le sue forme è attualmente il titolare della produzione, l’unica risorsa che si fa immagine della società capitalistica avanzata» (p. 12). Sarebbe dunque nello spettacolo che risiede il vero motore dell’irrealismo della società reale, visto che sempre più spesso il reale tende a richiamare o duplicare la finzione-spettacolo rendendo sempre più indistinguibili i due mondi.

Guy Debord indica come caratteristiche di quella che definisce società dello spettacolo integrato (sintesi di spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) «il rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente» (pp. 14-15) e, suggerisce Cutrona, «Il rinnovamento tecnologico, l’eterno presente e il falso indiscutibile, sono le proprietà del mondo postmoderno» (p. 15). Essendo entrati in un’epoca in cui l’individuo tende ad avere un contatto con la realtà soltanto attraverso le immagini – si pensi, ad esempio, come la ripresa effettuata con lo smartphone rimpiazzi l’osservazione diretta dei luoghi attraversati – lo spettacolo oggi sembra rappresentare

la struttura scheletrica dell’odierna società dei consumi, sorretta da un rapporto sociale tra individui, a sua volta mediato da immagini. Se il bene principale è l’immagine, il consumatore contemporaneo è lo spettatore, il proletariato a cui si riferiva K. Marx si è evoluto nella classe dei famelici spettatori di fantasmagoria, certamente più consapevoli di un tempo. Curiosità e zelo determinano l’approccio a sperimentare nuove dinamiche e modalità di fruizione che, in questo punto culturale idealizzano l’audiovisivo come fondamento del dialogo collettivo, linfa vitale dell’l’imago-sfera (quel serbatoio di innumerevoli immagini fluttuanti disponibile a tutti), popolata da binari di ogni paese (p. 15).

Se in generale, rispetto al passato, è comunque sicuramente cresciuta la coscienza critica degli spettatori nelle modalità di fruire la realtà e le sue rappresentazioni, vale la pena soffermarsi sui tentativi di resistenza e di conflittualità più consapevoli ed a tal proposito Cutrona passa in rassegna alcune proposte della Psicogeografia, nella sua messa in discussione del luogo, e del fenomeno Lettrista, anticipatore di alcune linee di forza proprie dell’Internazionale Situazionista.

La Deriva Lettrista implica un modo di intendere libero finalmente da ogni pregiudizio, un’osservazione attenta dello spazio ma anche degli avvenimenti che ci circondano, capacità questa, di sottolineare il valore in ogni dettaglio. Qualunque spazio, una città, un paesaggio, smette di essere agli occhi di un Lettrista un appezzamento di terra, ma un’area contenente svariati codici dettati da un’ideologia dominante, visualizzarli costituisce la prima finalità. Una critica radicale per azzerare la società della merce e rendere l’uomo libero.
Analoga pratica è la Deriva Situazionista, ancora una volta la liberazione dai dispositivi ambientali percepiti come dispotici. Un volontario smarrimento tra il vagare e il cercare senza meta e scopo; il senso di questo sbigottimento, è aprire la mente verso nuovi, inattesi e magari anche, estranianti aspetti della realtà. Una sorta di training sensoriale che consente di avvertire nuove intuizioni, percezioni ed esperienze estetiche attraverso cui i soggetti si relazionano (pp. 23-24).

Arriviamo così al détournement situazionista, pratica che

mira a far deviare chi lo pratica da certi alienanti e dispotici meccanismi culturali, specialmente se legati alla comunicazione di massa, recepiti in forma acritica […]. Il détournement può essere visto come una deriva che procede, però, da un’idea di critica politica o culturale finendo col modificare oggetti estetici già dati (testi, immagini, suoni, ecc.) […] Una pratica combinatoria che, trova un senso inaspettato per “dirottare” il principale intento di quello specifico codice comunicativo. Testi o immagini risultano estranei, inattesi e portatori di una nuova direzione di significato che originariamente non avevano. Il détournement è definibile come un particolare caso di Deriva attivato sul fronte storico-culturale e mediatico della società dello spettacolo (p. 24).

Da tempo Jean Baudrillard insiste nel segnalare come la società contemporanea sia ormai talmente alienata da farsi manifestazione di illusione (le merci), in cui lo spettatore finisce con l’essere un lavoratore a sua insaputa ed i mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione, hanno contribuito enormemente a tale trasformazione.

Nel suo saggio, Cutrona sottolinea giustamente come ben da prima dell’avvento della cultura di massa, eventi riguardanti la collettività si erano manifestati tanto nell’antichità, quanto in età medievale e, agli albori della modernità, nel periodo rinascimentale ma, sostiene lo studioso, oggi «l’uomo e i suoi sentimenti, sono ormai ridotti a merce in codici e algoritmi» (p. 25), dunque questi utenti-spettatori vengono costantemente monitorati ed analizzati per vendere loro insieme al prodotto «anche un pezzo di ideologia racchiusa in esso» (p. 25).

Venendo al meccanismo della mise en abyme, ovvero alla questione specifica del volume di Cutrona, secondo Andrè Gide in un componimento si trova la coincidenza «tra il narratore (costruzione letteraria e testuale) con il narratario (il personaggio che compare nel testo come eventuale ed ipotetico destinatario di ciò che il narratore enuncia, il lettore reale, può identificarsi nel personaggio che “legge” fino a coinciderci)» (pp. 27-28); siamo dunque di fronte ad un’esperienza riflessiva che attraverso un procedimento d’identificazione astratta conduce ad un ragionamento. «Una duplicazione interna all’autore, dapprima, che dà vita ad una forma d’arte, che vive una vita propria, come una realtà autonoma, libera ed indipendente. Racchiude in se stessa, in modo univoco, l’opera dentro l’opera. Un soggetto sdoppiato, già connaturato nel proprio sé, decide di creare un oggetto, un’estensione del proprio sé, mediante idee o congetture, più o meno astratte, che seguono un cammino proprio, in un destino temporalmente sconosciuto» (p. 28).

Se la narrazione è un modo di organizzare la realtà, sostiene Cutrona, allora opere come i romanzi ed i film sono da intendersi come delle istruzioni utili per creare un processo immaginativo ed il «meccanismo narrativo che vi è dietro ad una delle forme scelte, ha a che fare con la nostra percezione della realtà. In questo processo, una realtà si trova entro un’altra realtà, la prima, è caratterizzata da precise coordinate: la porzione del suolo di mondo che stiamo occupando, la seconda, è quella che immaginiamo mediante stimolazione, ora illusione, ora realtà» (p. 34). Probabilmente è il linguaggio audiovisivo ad offrire le possibilità più complesse di quella mise en abyme capace di rivoluzionare la percezione, «potenziando la prospettiva di visione, mediante una registrazione del reale, caustica per gli occhi dello spettatore e urtante per la sua sensibilità, creando non a caso, il suo artificio con precisione millimetrica, provocando una vertigine fra illusione e realtà» (p. 47).

A questo punto nel saggio ci si occupa di opere pittoriche, letterarie e cinematografiche a partire da alcuni dipinti di Jan van Eyck e Diego Velázquez a rappresentanza delle tante opere che hanno fatto ricorso alle proprietà di duplicazione proprie dello specchio inserito nella scena o del quadro nel quadro. Ed è proprio nella pittura fiamminga del XV secolo che può essere facilmente rintracciato, suggerisce Cutrona, il principio creativo della mise en abyme. Si pensi ad esempio al celebre ritratto de I coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, dipinto che ad ogni scansione visiva rivela nuovi particolari e nuove tracce da indagare, per non parlare poi della presenza dello specchio, elemento chiave della mise en abyme, «che raddoppia l’ambiente almeno in due dimensioni, mostrando le spalle dei protagonisti, e non solo» (p. 30). Nel corso del XVII secolo Diego Velázquez è soprattutto attraverso il meccanismo del dipinto nel dipinto, del mettere un’immagine all’interno di un’altra, che costruisce la mise en abyme; si pensi a produzioni come Las Meninas (1656), Le Filatrici (1657) e Cristo in casa di Marta e Maria (1620).

In ambito letterario la tecnica della mise en abyme è indagata da Cutrona in opere come Questo non è un racconto (1772) di Denis Diderot, romanzo breve caratterizzato dal meccanismo del racconto nel racconto, L’idolo delle Cicladi (1965) di Julio Cortázar, che narra le vicende di tre archeologi alle prese con un manufatto dai poteri magici e della raccolta di racconti di genere fantastico Finzioni (1944) di Jorge Luis Borges. Di quest’ultima raccolta Cutrona indaga i racconti in cui si palesa la mise en abyme più esplicitamente: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (1940), ove l’immaginazione è «il solo ed unico medium che riflette una realtà, dentro una realtà, che non esiste materialmente ma idealmente» (p. 36), La Biblioteca di Babele (1941), in cui il gioco della «ripetizione, o ri-presentificazione della realtà si manifesta in un “collocato all’infinito”, da qui: en abyme» (p. 36), e Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), racconto ove libri e labirinti «offrono al lettore continue e infinite possibilità: di creazione, proiezione e duplicazione della realtà» (p. 36). Questi scritti di Borges, sostiene Cutrona, rappresentano una dimostrazione di come siano infinite «le possibilità, i livelli, le strutture, che danno vita ad un ordine: finito e infinito, reale o virtuale, scritto, dipinto o rappresentato, che fonda radici su un caos apparente ed ermetico» (p. 37).

Per quanto riguarda la produzione cinematografica il riflesso allo specchio rappresenta la mise en abyme per eccellenza e tale gioco di riflessi può offrire allo spettatore parecchi suggerimenti circa i protagonisti; dal riflesso allo specchio è possibile cogliere la loro vanità o il disgusto che provano per se stessi, il volere identificarsi nel riflesso o il timore provato nei suoi confronti.

Nel saggio vengono affrontati diversi film a partire da Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913) di Stellan Rye, ove «il doppio, possiede una consistenza autonoma e diviene un doppio persecutorio per il giovane studente. Si tratta della fuoriuscita di una parte del sé, e indica forse, l’esistenza di una dimensione inaccessibile» (p. 40).
In Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931) di Rouben Mamoulian, lo specchio svolge un ruolo importante nel gioco di riflessi, duplicazioni ed identificazioni di Jekyll/Hyde ed in Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, Cutrona si sofferma sulla celebre inquadratura in cui, sul finire del film, la solitudine di Charles Foster Keane viene suggerita attraverso un gioco di riflessi infiniti ottenuti dal riflettersi del protagonista su uno specchio posto di fronte ad un altro specchio.
In Fino all’ultimo respiro (À Bout de souflle, 1960) di Jean-Luc Godard, non mancano giochi di sguardi e riflessi tra i protagonisti davanti allo specchio e per quanto riguarda Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, lo studioso si sofferma inevitabilmente sul celebre monologo allo specchio del protagonista interpretato da Rober De Niro.
Per quanto riguarda Femme Fatale (2002) di Brian De Palma, l’analisi fa riferimento all’inquadratura costruita sul film nel film in cui vediamo la protagonista intenta a guardare alla tv La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder.
In Secret Window (2004) di David Koepp, il protagonista, in preda al suo alterego, si trova riflesso “in maniera surreale” allo specchio come nel dipinto La riproduzione vietata, (1937) di René Magritte ed in Harry Potter e i doni della morte (Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 1, 2, 2010) di David Yates, lo studioso fa riferimento tanto alla suddivisione dell’anima del signore oscuro Lord Voldemort in varie parti che al meccanismo generale proprio dell’intero ciclo Harry Potter in cui è possibile «riscoprire nuove interpretazioni come un gioco che cambia le sue regole di continuo, anche a distanza di anni; soffermandosi, i livelli di finzionalità espletati nella saga non lasciano traccia di alcun artificio, piuttosto, richiamano l’attenzione in un percorso rocambolesco tra realtà e finzione» (p. 45).
Infine, un doveroso esempio di cinema d’animazione conduce Cutrona ad affrontare Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki, film in cui «lo specchio non riproduce solamente la realtà, ma la altera, la manipola» (p. 45).

La mise en abyme, però, sostiene Cutrona, oltre che come un artificio, una mistificazione del reale, dovrebbe essere intesa come estensione del pensiero, come strumento utile per indagare «una porzione di tempo, spazio, privo di fondo e temporalità» (p. 92). Per certi versi la mise en abyme può essere paragonata ad un sogno che «attinge dal reale ma lo ricrea in uno spazio mobile, vicino ma distante al contempo, lasciando un’impronta senza alone alcuno» (p. 92).

All’interno dell’attuale epoca caratterizzata dall’ipertrofia visiva, l’individuo-voyeur tende a credere a – e sentirsi rappresentato da – tutto ciò che passa davanti ai suoi occhi come si trattasse di verità indiscutibile. Meglio sarebbe, sostiene Cutrona, «tenere ben presente i punti di vista critici dei Lettristi prima e Situazionisti dopo, i quali, teorizzavano una certa libertà da ogni dispositivo percepito come dispotico e controllato, annullando di fatto, il pensiero umano; come ha sostenuto del resto anche Baudrillard, affermando che il soggetto non esiste, e al suo posto invece vi è un sistema capitalistico avanzato nel quale è inevitabile rispecchiarsi» (pp. 92-93).

Ciò che fa del «manovratore di emozioni la divinità di una società dello spettacolo fatiscente andrebbe criticamente contrastata», suggerisce lo studioso, in quanto «si limita esclusivamente a mimare la vita, inseguendo l’arte per il gusto dell’arte, piuttosto che provare interagire con essa, al fine di impreziosirla, mediante un osmotico processo di parole e immagini» (p. 93). È a partire da tale ragionamento che si analizzano I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1983) e L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991) di Peter Greenaway. La prima opera, strutturata su complesse stratificazioni narrative, «ha instillato l’idea che la mise en abyme non enfatizza esclusivamente la percezione visiva, ma giustifica in un certo qual modo, la propria esistenza per il solo fatto di essere portatrice del frammento di un originale» (p. 93). Il secondo lavoro di Greenaway preso in esame, invece, secondo lo studioso dimostra come il cinema possa ricorrere ad artifici «per dimostrare che un testo non è mai soltanto un testo, bensì, l’inizio di un percorso che produce effetti nella mente dello spettatore. Un viaggio ipertestuale che si serve continuamente di mise en abyme per tracciare l’esistenza di un legame tra la ripresentificazione di un contenuto e la stimolazione di un processo immaginativo appena iniziato, omaggiando l’estetica che ha sempre garantito un senso alla struttura diegetica rappresentata» (p. 93).

I film Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002), diretto da Spike Jonze e scenggiato da Charlie Kaufman, e Synecdoche, New York (id., 2013) scritto e diretto da Charlie Kaufman, rappresentano un esempio di come le trovate narrative della sceneggiatura siano traducibili in racconto audiovisivo. «È evidente la sintesi che la mise en abyme o più precisamente in questo caso la metalessi, risulti utile a sintetizzare le silhouette psicologiche di un personaggio, e quindi la sistematica coincidenza tra autore, regista, sceneggiatore, attore protagonista. Ben distante da ogni rigore logico, la sostituzione di un’istanza narrativa con un’altra comporta una forte tematizzazione di ruoli e figure nel quadro-film» (pp. 93-94).

Il metalinguaggio al quale si perviene attraverso l’opera nell’opera – il teatro, il romanzo o il dipinto all’interno di un audiovisivo – mostra che un film non è semplicemente una serie di fotogrammi e, soprattutto, come bene esplicitato da Synecdoche, New York di Kaufman, che risulta impossibile rappresentare il reale a causa del suo essere in continuo divenire. Dunque, la mise en abyme deve essere intesa «come un’entità mutaforma che rende possibile il trasferimento di una proprietà in un’altra, plasmando continuamente struttura (dalla pittura alla sceneggiatura sino al film e alla videoarte) non compromettendo mai, quel principio auratico racchiuso in un’opera» (p. 94).

Consapevole di come i nuovi media abbiano rivoluzionato le modalità percettive dell’individuo, Cutrona, nella parte finale del libro, si sofferma anche sul computer game  The Sims (1999) sviluppato da Will Wright, mostrando «le potenzialità di una realtà riprodotta su scala, selezionando dall’interno storie di tutti i giorni, che si intrattengono col reale mediante relazioni […] Giocare a The Sims consegna all’utente o spettatore, una visione corredata di illustrazioni mediante l’uso di una Gestalt che si serve di un’identificazione unitaria» (p. 95). Dunque, il volume, oltre a concentrarsi sulla «mise en abyme come modello di coincidenza, sovrapposizione o ripresentificazione di storie tra personaggi come avviene nella metalessi» (p. 10), si occupa anche del ritratto del reale visto da un particolare angolo di prospettiva e visione: «il metagaming, grado evoluto ed espanso di percezione, sperimentazione e comprensione» (p. 10). In questo ultimo caso lo studioso si concentra su The Sims, gioco che deve il suo successo alla particolare capacità di trasporre il proprio sé in una dimensione altra ricca di aspirazioni e sogni. «Una sessione di gioco può rappresentare un modo per fronteggiare i problemi del reale, transitando dentro la propria vita non solo come spettatore, mediante un percorso virtuale e interpersonale» (p. 81).

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La violenza nel cinema contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/10/21/la-violenza-nel-cinema-contemporaneo/ Wed, 21 Oct 2015 21:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25382 di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, [...]]]> di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, autore del saggio “Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo”, si ravvisa la certezza che le immagini della violenza, in un modo o nell’altro, agiscano su chi le osserva ed, inoltre, in entrambi i casi, si ripropone l’annosa questione circa la difficoltà, se non l’impossibilità, di misurare la disposizione alla violenza di un individuo prima e dopo aver osservato immagini violente. Di maggiore utilità, secondo l’autore, risultano gli studi che, anziché preoccuparsi delle reazioni del pubblico di fronte alla violenza cinematografica, si occupano di come la violenza che attraversa la società influenzi il desiderio di assistere a film violenti.

Voglio-vedere-il-sangueUno dei motivi del successo della violenza cinematografica è dovuto al fatto che le regole del cinema narrativo impongono alla violenza sullo schermo di non essere gratuita, di avere un senso ed una struttura, cioè che vi sia consequenzialità tra gesti e comportamenti dei personaggi. Il cinema, a differenza di altri media in cui le immagini tendono ad essere decontestualizzate, offre allo spettatore una logica narrativa capace di far comprendere la violenza senza che per forza la si debba condividere. Nel cinema dell’epoca del codice Hays, ad esempio, la censura più che alla rappresentazione della violenza è interessata alle modalità di rappresentazione del mondo del crimine; “Il problema, ieri come oggi, non consiste nel tasso di violenza e sangue presente sullo schermo, quanto nella prospettiva morale a partire dalla quale – attraverso la narrazione – il film ordina e struttura le proprie immagini”. La violenza in un film, per poter essere socialmente e culturalmente accettata, necessita di una giustificazione che permetta allo spettatore di valutarla moralmente. La morale sembra dunque rappresentare, ben più delle reazioni dello spettatore e delle sue inclinazioni all’aggressività, un elemento di collegamento importante tra la violenza reale e quella immaginaria, in quanto gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi.

wild-bunchNel cinema classico hollywoodiano, l’accettabilità della violenza considerata legittima deriva dal fatto che i film permettono di confrontarla con una violenza malvagia, fonte di disturbo per la morale dello spettatore. Nel saggio viene argomentato come i film, maggiormente discussi a proposito della rappresentazione della violenza, tendenzialmente sono quelli che scompaginano il rapporto tra violenza malvagia e violenza legittima.
Probabilmente “il momento in cui, nella rappresentazione cinematografica della violenza, la morale e l’estetica non risultano più del tutto funzionali l’una all’altra” è databile attorno alla fine degli anni ’60, quando escono film come Gangster Story (1967, di Arthur Penn) ed The Wild Bunch (1969, di Sam Peckinpah). A risultare spiazzanti sono: “la dimensione estetica della violenza” (es. uso di immagini rallentate nelle scene più crude); il fatto che a risultarne vittime siano proprio i personaggi per cui simpatizzano gli spettatori; una narrazione che induce il pubblico ad identificarsi con fuorilegge. Ecco allora che, secondo Gandini, “senza un chiaro giudizio morale a reggerla, la violenza cinematografica si carica improvvisamente di una componente di ambiguità che lascia interdetta la critica e induce il pubblico a reazioni, per l’epoca, sorprendenti e inattese”.

Per quanto riguarda il cinema moderno e contemporaneo, molti studiosi hanno notato come il parziale affrancamento della violenza cinematografica dalla struttura narrativa porti spesso ad una maggiore complessità della messa in scena della violenza e come ciò provochi negli spettatori reazioni molto diverse; da un lato tutto ciò può produrre nel pubblico un’attrazione emotiva nei confronti della violenza mostrata slegata dalle valutazioni morali, dall’altro lato può produrre, invece, in base alle scelte estetiche adottate dal film, una sorta di straniamento dello spettatore rispetto alla violenza, inducendolo a concentrarsi “sul modo della rappresentazione più che sui contenuti”. Secondo diversi studiosi, è a partire dai tardi anni ’60, quando “diventa ‘celebrativa’, che la violenza viene resa oggetto di processi di stilizzazione elaborati al punto da richiamare (…) l’attenzione del pubblico sull’eleganza della forma più che sulla brutalità dei contenuti”.

BronsonIl saggio si sofferma su di una serie di film – Strange Days (1995, di Kathryn Bigelow), Sucker Punch (2011, di Zach Snyder), Kick Ass (2010 di Matthew Vaughn), Natural Born Killers (1994, di Oliver Stone), Bronson (2008, di Nicolas Winding Refn) – che, pur in maniera decisamente diversa, pongono interrogativi circa il rapporto tra violenza e sguardo, sui meccanismi della visione, sulle modalità con cui lo spettatore, attraverso un processo di straniamento, si mantiene a distanza dagli eventi e sulle implicazioni morali.
A partire dagli anni ’70, quando le maglie della censura si allentano, il cinema inizia ad esibire sempre più palesemente la violenza, tanto che l’autore parla di un passaggio dall’avarizia espressiva alla bulimia estetica che ha condotto tanti registi contemporanei “a rispecchiare la violenza più che a riflettervi, a renderla più accattivante che legittima”. Non è infrequente che ad uscirne sacrificata sia proprio la morale a scapito dell’estetica. Con la crescita dell’estetica della violenza, della sua massima visibilità, si è avuta una contrazione dell’immaginazione e lo spostamento della questione morale in un ambito di discussione esterno al film.

L’autore individua anche alcuni film in cui la violenza, anziché descritta, viene semplicemente evocata. La parsimonia nell’esposizione della brutalità al cinema è storicamente legata a ragioni di carattere morale ma, tale modalità, funziona in quanto costringe il pubblico a supplire con la fantasia alla carenza visiva: deve immaginare ciò che il film non mostra fino in fondo. Tale coinvolgimento in termini di immaginazione induce lo spettatore a contribuire direttamente alla rappresentazione. A tal proposito nel saggio vengono esaminati film come Dogville (2003, di Lars Von Trier), Manderlay (2005, di Lars Von Trier) e Redacted (2007, di Brian De Palma). I primi due film del regista danese, che trattano il ruolo della violenza nei rapporti sociali, presentano una smaterializzazione estrema della scenografia, con una voce narrante che commenta in maniera asettica gli eventi che portano la vittima ad optare per una forma di ritorsione violenta. Le due opere di Lars Von Trier vengono indicate da Gandini come “un’illustrazione delle modalità con cui i meccanismi della sovranità popolare partoriscono, legittimano e realizzano atti di violenza ai danni del singolo”, dunque, continua lo studioso, è a tale “idea della sovrapposizione fra violenza e diritto che si attiene lo stile dei film, nei quali i momenti di aggressività e sopraffazione vengono rappresentati con la medesima, inesorabile pacatezza con cui il popolo di Dogville e quello di Manderlay emettono le loro sentenze di morte, schiavismo e punizione corporale”. Visivamente la rappresentazione della brutalità sottostà “al principio di astrazione e razionalizzazione che governa i due film sul piano tematico, caratterizzandosi come un evento inessenziale, prosaico, ancorato alle ordinarie dinamiche di amministrazione democratica di una comunità. La violenza perde qui completamente i suoi tratti di sregolatezza, innanzitutto nel senso etimologico del termine, poiché entrambi i film ci mostrano come essa di fatto sia né più né meno che una regola, in virtù della quale viene tutelato il benessere delle due comunità”.
De Palma, nel suo Redacted, ricorrendo all’assemblaggio di filmati derivanti da fonti diverse (video amatoriali, reportage televisivi, immagini notturne ai raggi infrarossi, riprese delle telecamere di sorveglianza ecc.), sembra quasi realizzare un film che prende le distanze da quelle immagini, “il fatto che i materiali che compongono la tessitura visiva del film siano estrapolati da altri contesti e riproposti in forma sintetica e frammentata dispensa lo spettatore dalla reazione emotiva che pure essi avrebbero potuto o dovuto suscitare nella loro forma originaria”. Nel suo presentarsi come riproduzione di una violenza catturata da altri media, il film depura l’evento dal suo tratto più “sensazionale”, consentendo così alla riflessione di sostituirsi all’indignazione.
Sia nei film citati di Von Trier, che in quello di De Palma, si sostiene nel saggio, “la forma determina una distanza che permette al regista di sollecitare lo spettatore non tanto a guardare la violenza, quanto a guardare alla violenza, vagliandone cause e conseguenze che la generano e diffondono”. Gli aspetti violenti e sensazionalistici che toccano l’emotività degli spettatori vengono qui decisamente limitati nel tentativo di “rendere lo spettacolare non spettacolare”. Secondo Gandini, in tali opere, si attua un doppio atto di negazione. “Da una parte viene rinnegata l’immediatezza propria delle fotografie più cruente sull’argomento, dall’altra sono ripudiate le occorrenze stilistiche e narrative che corredano abitualmente la rappresentazione cinematografica del tema. È necessario, per dare risalto alla violenza e renderla nuovamente eccezionale, calarla in un contesto nel quale il cinema possa guardarla – e farla guardare agli spettatori – come fosse la prima volta”. Attraverso la strada dell’astrazione, nel danese, e della rimediazione, nello statunitense, tali opere determinano “un effetto straniante, indispensabile in un’epoca nella quale i media affrontano il tema dispensando a getto continuo visioni sempre più stereotipate a beneficio di spettatori sempre più distratti”.

funny game - remote controlNel saggio viene affrontato anche il film austriaco Funny Games (1997, di Michael Haneke) – di cui esiste un remake americano del 2007, ad opera dello stesso regista – opera in cui la violenza tende, per lunghi tratti, ad essere nascosta allo sguardo dello spettatore. La macchina da presa indugia spesso su luoghi diversi da quelli in cui si sta compiendo violenza affidando al sonoro il compito di farla immaginare allo spettatore. Il fatto che uno dei due assassini volga più volte lo sguardo in macchina, contribuisce a coinvolgere lo spettatore negli eventi, inoltre, suggerisce Gandini, tale espediente “accorcia ulteriormente la distanza fra i due personaggi e il regista, poiché alla fredda crudeltà con cui Haneke distilla la violenza ai suoi spettatori si unisce l’impressione, generata appunto dagli sguardi in macchina, che i due ragazzi operino da registi interni della vicenda, dettandone tempi e modi anche alla macchina da presa, nella piena consapevolezza che ‘lì fuori’, oltre lo schermo, qualcuno li sta guardando”.
Mentre nei film di Von Trier e di De Palma “la forma della violenza viene utilizzata per riflettere sulla sua genesi ed evoluzione”, nell’opera di Haneke essa “serve a mettere sotto i riflettori le sue conseguenze”. L’austriaco intende “smantellare ‘l’innocente complicità’ che correda la violenza cinematografica” e “portare lo spettatore a solidarizzare con le vittime piuttosto che con i carnefici”. Haneke non concepisce la sua estetica della violenza “in termini di contenuto, ovvero nei suoi tratti di cruento sensazionalismo, ma di ricezione, ovvero dal punto di vista di una possibilità di lettura, oltre che di visione, della brutalità umana. È per questo che in Funny Games alle inquadrature fuori campo (…) ne fanno puntualmente seguito altre in campo, dove allo spettatore è data piena possibilità di cogliere nel dettaglio gli effetti della violenza che in precedenza aveva potuto percepire soltanto sul piano sonoro”.
In Dogville, sul finire del film, quando Grace decide di vendicarsi, vi è una sequenza in cui la violenza si palesa sia sul piano visivo che drammatico, analogamente anche in Funny Games si giunge a “dare al pubblico un assaggio di quello che il film, sotto il profilo estetico, non vuole essere”: si tratta della scena, girata e montata in maniera diversa dal resto del film, in cui la protagonista riesce a sparare alla testa di uno dei due giovani comportando l’affannosa ricerca, da parte dell’altro ragazzo, del telecomando per “riavvolgere gli eventi”. Il saggio si sofferma sulla logica di tale sequenza che proietta l’attenzione dello spettatore “sul carattere illusorio e manipolabile della violenza cui ha assistito sino a quel momento (…) La natura convenzionale del frammento espulso non riguarda (…) solo il piano stilistico ma anche quello narrativo, poiché la scena vede la vittima ribellarsi e vendicarsi del suo carnefice. La vicenda dunque ritrova qui, sia pure solo per un pugno di inquadrature, una logica morale, basata sulla ritorsione”.
Riflettendo sul frammento “anomalo” di Funny Games, Gandini sottolinea come lo spettatore giustifichi il ricorso alla violenza della donna in quanto reazione ad una violenza invece ingiustificabile operata dai due giovani. Per certi versi, con tale sequenza, il pubblico “viene attirato nell’orbita di violenza alla quale si illudeva, attraverso la condanna dei personaggi, di rimanere estraneo. Provando sollievo e soddisfazione per il modo con cui la moglie si sbarazza del ragazzo, egli smette di rinnegare la violenza in quanto tale, proprio perché in quel punto assume verso di essa un atteggiamento di approvazione e complicità (…) lo spettatore sin lì crede di poter uscire dal film confortato nella sua convinzione che la violenza è comunque odiosa e sbagliata, mentre in realtà, a causa di quella scena, dovrà uscirne con la convinzione che la violenza può essere sbagliata oppure legittima, a seconda delle circostanze morali che la preparano e motivano. Nello stesso tempo quel frammento – riavvolto con suprema disinvoltura in virtù di un telecomando – ci dice anche che la violenza del cinema, per quanto possa suscitare in noi sentimenti di adesione ai personaggi che la subiscono e di avversione per quelli che la infliggono, è volatile, inconsistente e relativa”.
In diversi film la questione della legittimità morale o meno del ricorso alla violenza diventa problematica, si pensi, ad esempio, ad A Clockwork Orange (1971, di Stanley Kubrick), pellicola in cui la classica contrapposizione “fra tutori e trasgressori della legge non poggia su una distinzione morale in grado di giustificare la brutalità dei primi e condannare quella dei secondi”.

sawLa produzione cinematografica degli ultimi decenni risulta decisamente variegata, tanto che non mancano esempi di film volti a tranquillizzare lo spettatore che la “violenza dei giusti” finisce col prevalere su quella “dei malvagi”, d’altra parte, sostiene Gandini, il pubblico “non ha mai smesso di volere un cinema capace di essere, al contempo, violento e morale (…) Può essere che talvolta non apprezzi la morale di un film se non la vede scritta nel e col sangue; ma certamente vuole che il sangue, nel corso del film, prima o poi si incanali lungo percorsi di retribuzione e castigo, colpa ed espiazione”. Non è, pertanto, affatto detto che un’estetica violenta neghi implicazioni di carattere etico o morale. Allo stesso tempo non è nemmeno detto che una maggior complessità estetico-narrativa comporti la scomparsa della morale.
L’imbarazzo morale provato dallo spettatore che, al cinema, osserva con piacere episodi violenti, si stempera grazie alla promessa narrativa che, prima o poi, quella violenza verrà giudicata e punita, pertanto, secondo l’autore, ad ogni “dilatazione visiva” della violenza corrisponde una narrazione in grado di giustificarla. A tal proposito ci si può riferire a quelle opere in cui la figura del killer moralista/moralizzatore agisce per punire la dilagante corruzione che lo circonda. In Seven (1995, di David Fincher) il serial killer agisce in preda ad un bisogno morale e la coppia di detective che indaga sui suoi omicidi, per dargli la caccia, si trova a doversi sintonizzare sulla “lunghezza d’onda morale del suo avversario”. Analogamente anche in Saw (2004, di James Wan) i crimini derivano dalla volontà di punire individui rei di colpe condannabili moralmente. In opere come Seven e Saw “estetizzazione e moralizzazione della violenza” coincidono e, secondo l’autore, se da un lato tali film sembrano “mettere in guardia lo spettatore contro gli eccessi della morale”, dall’altro “possiamo vedere nelle figure dei killer-moralizzatori, in quanto curatori ed artefici di messe in scena della violenza di grande complessità, un equivalente del regista dei film che li contiene, col quale condividono l’attenzione congiunta per l’etica e l’estetica del delitto. La loro condotta criminale rimanda implicitamente all’obbligo di dare alla violenza quei tratti di necessità (morale) e appariscenza (visiva) senza i quali essa oggi non può essere presentata né apprezzata”.
Nel libro non manca una riflessione su Fight Club (1999, di David Fincher), film ove, invece, la violenza diviene terapeutica; si ricorre ad essa per alleviare e curare le ferite della società contemporanea ormai totalmente anestetizzata.

reservoir-dogsL’ultima parte del saggio affronta alcune opere recenti che affrontano la violenza facendo i conti con la tradizione del cinema, soffermandosi su alcuni film di Quentin Tarantino – Reservoirs Dogs (1992); Pulp Fiction (1994); Kill Bill (2003 e 2004); Django Unchained (2012); Inglorious Basterds (2009) – e di Clint Eastwood. In questo ultimo caso, è inevitabile che, nel momento in cui le sue opere recenti affrontano la violenza, la sua presenza fisica nei film rimandi alla sua icona giovanile, dunque si inneschi un dialogo col passato.

gran-torinoIn Gran Torino (2008, di Clint Eastwood) l’ormai anziano protagonista si trova a fare i conti con il rimorso per le violenze compiute in gioventù nel corso della guerra in Corea. Il film si presenta dunque come una storia di “rimorso, pentimento ed espiazione” che, per compiersi, richiede al protagonista di riappacificarsi con la sua identità giovanile e di cimentatisi, un’ultima volta, con la violenza ma, stavolta, non in qualità di giustiziere, bensì di martire, “facendo del sacrificio del proprio corpo un atto di giustizia”.

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Nooo, non esiste sporco Impossible https://www.carmillaonline.com/2015/09/25/no-non-esiste-sporco-impossible/ Fri, 25 Sep 2015 21:00:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25403 di Gianpietro Miolato

590x332xm_i_5_1.jpg.pagespeed.ic.BIgX5zqg4AL’assenza di sporco. Dell’ultimo capitolo della saga di Mission: Impossible è questo l’aspetto che mi ha colpito di più. Prima d’arrivarci, però, meglio fare un quadro generale. Realizzato a quattro anni da Protocollo Fantasma, Rogue Nation riporta sullo schermo l’agente Hunt e lo inserisce in una nuova situazione ai limiti della logica per salvare le sorti della pace nel mondo. Coadiuvato dalla cricca di agenti/amici già apparsa nel terzo e quarto episodio, Ethan si muove tra Europa (Vienna e Londra) e Africa (Marocco) per sconfiggere Solomon Lane, super-cattivo di turno [...]]]> di Gianpietro Miolato

590x332xm_i_5_1.jpg.pagespeed.ic.BIgX5zqg4AL’assenza di sporco.
Dell’ultimo capitolo della saga di Mission: Impossible è questo l’aspetto che mi ha colpito di più. Prima d’arrivarci, però, meglio fare un quadro generale.
Realizzato a quattro anni da Protocollo Fantasma, Rogue Nation riporta sullo schermo l’agente Hunt e lo inserisce in una nuova situazione ai limiti della logica per salvare le sorti della pace nel mondo. Coadiuvato dalla cricca di agenti/amici già apparsa nel terzo e quarto episodio, Ethan si muove tra Europa (Vienna e Londra) e Africa (Marocco) per sconfiggere Solomon Lane, super-cattivo di turno a capo del Sindacato, organizzazione terroristica speculare all’IMF (Impossible Missions Force).
Nell’ottica della saga, Rogue Nation svolge più che efficacemente il proprio compito e porta a casa un incasso che supera il mezzo miliardo di dollari (dati Box Office Mojo all’11/09/2015), e un plauso dalla critica specializzata (Rotten Tomatoes segna il 92% di recensioni positive; Metacritic il 75%; Richard Roeper del Chicago Sun-Times assegna 3.5 stelle su 4). I motivi del successo sono da ritrovarsi nella conferma di elementi che hanno decretato il successo dell’intera saga: località esotiche in cui svolgere l’azione; sequenze pirotecniche ben orchestrate (quella all’Opera di Vienna su tutte); donne emancipate pronte all’azione; spruzzate di umorismo per smorzare la seriosità degli eventi (è qui evidente l’ampliamento del ruolo di Simon Pegg rispetto ai capitoli precedenti); ; happy end consolatorio e Tom Cruise al massimo della forma e della giovinezza (il magazine Now riferisce grazie a una miracolosa maschera esfoliante da 210 dollari a seduta, a base di merda d’usignolo, farina di riso e acqua: contento Tom). Christopher McQuarrie, quinto regista al timone del franchise e chiamato dopo tre collaborazioni col protagonista (Operazione Valchiria; Jack Reacher; Edge of Tomorrow), conosce bene gli ingredienti con cui lavorare e li organizza per fornire allo spettatore quello che si aspetta. In particolare dirige le scene le sequenze d’azione utilizzando un montaggio concitato, così da infondere un senso di costante frenesia attraverso inquadrature che durano pochi secondi. Piacere della conferma, dunque. E qui sorge il problema.
Terminata la proiezione mi sono posto una domanda: cosa mi ha dato questo film oltre a due ore di spensieratezza? Quando vado al cinema a vedere un film come Rogue Nation non ci vado con l’intento di trovare una metafora del presente o altre fesserie intellettualoidi. Ci vado con l’intento di divertirmi. Se poi c’è qualche chiave di lettura ulteriore al semplice tempo della proiezione tanto meglio, ma non è indispensabile. In tutto questo, però, la domanda che mi sono posto era ben consapevole di quello che mi aspettava; sapevo che “l’intrattenimento immediato” sarebbe stato il fine ultimo della pellicola, eppure mi è parso non fosse abbastanza nemmeno così.
Se paragono M:I 5 a Terminator 2 in un’ottica di confronto tra film d’azione, posso esprimere un giudizio di gusto preferenziale, ma non posso non riconoscere che Cameron abbia rivoluzionato l’utilizzo degli effetti speciali grazie all’innovazione apportata al morphing. Alla luce di ciò, allora, che innovazione ha apportato M:I 5? Che cosa ha avuto di nuovo da dare allo spettatore?
Lungo i 131 minuti mi è sorto il dubbio che il film non avesse altra ragion d’essere se non Tom Cruise. Da qui l’attenzione sull’assenza di sporco di cui ho scritto all’inizio. Negli scontri, nelle scazzottate, negli incidenti, nei salti e contro-salti, l’attore non si sporca. Non importa quanto l’ambiente attorno a lui sia malsano o quanto gli avversari possano sanguinare, lui ne esce immacolato (solo dopo una caduta in moto gli abiti non sono puliti, ma Tom è illeso). Questa capacità di superare i limiti dell’umana escoriazione epidermica, è qualcosa che già era stato ben evidenziato nei capitoli precedenti. Riproporlo è rientrato nell’ottica di riconferma che ha portato alla buona riuscita del film. Ma oltre a questo qual è il fine ultimo (oltre l’incasso)? Legittimamente può non essere nessun altro se non il box office – cosa da non biasimare contando i 150 milioni di dollari investiti – però risulta una scelta limitata.
Lo scorso anno è uscito nelle sale un film intitolato John Wick. Diretto da Chad Stahelski (e David Leitch, non accreditato), la pellicola mostra le gesta di un ex killer che, dopo aver subito un torto personale e il furto dell’auto, compie una mattanza dei suoi nemici. Alcuni elementi sono riscontrabili nella saga di M:I: il superomismo del protagonista; l’intento intrattenitivo alla base della fruizione; l’assenza di sovrastrutture interpretative. Due elementi, però, differiscono in maniera importante: il protagonista sanguina e soffre; le scene d’azione sono assemblate con montaggio non frenetico.
Guardando un film come John Wick viene da chiedersi come mai in Rogue Nation si abbia rinunciato in toto ad un approccio in cui a un pugno seguisse un’escoriazione o in cui una scazzottata fosse comprensibile nel suo svolgersi.
Con questo non voglio appellarmi a idee di “realismo”. So bene che pretendere una precisa consequenzialità logica non è ammissibile in un film che dichiaratamente non vuole proporla, così come so che parlare di realismo riferendosi al cinema è assai ambiguo (anche in un film dei fratelli Dardenne non c’è un realismo “completo”, in quanto tagliare dall’inquadratura alcune vicende è una scelta che elimina parti del reale), però un briciolo di verosimiglianza non avrebbe guastato. Questo poteva essere un elemento innovativo della saga e poteva dar ragione di un di più visivo. E se proprio vogliamo andare in fondo, e teniamo sempre John Wick come metro di paragone, McQuarrie avrebbe potuto girare le scene d’azione prendendo fiato, lasciando che le inquadrature durassero 3-4 secondi, dando quindi allo spettatore la possibilità di stupirsi seriamente per gli stunt di Cruise perché in grado di comprenderli (d’accordo, c’è la propagandata sequenza di Tom appeso al portellone di un aereo che impressiona, ma non basta in un arco narrativo di oltre due ore). Brian De Palma e John Woo avevano infuso una profonda dose di autorialità alle scene d’azione (coi virtuosisimi tecnici, il primo; con la messa in scena dell’azione a mo’ di balletto, il secondo); J.J. Abrams ha tentato di infondere spessore umano a Hunt (vedi la figura della moglie); Brad Bird ha usato un montaggio frenetico ma non confuso (vedi la sequenza di Dubai). McQuarrie no.
Non si è avuto il coraggio di osare e si è andati sul sicuro – inteso come “stordimento = intrattenimento”.
La domanda sull’utilità di questo film resta per me senza una risposta positiva. Certo, il franchise risulta sano ed efficace, Tom Cruise conferma di non sbagliare un colpo al botteghino e un sesto capitolo è già in fase di pre-produzione. Ma cosa resta di più, al di là di un film che ha molto incassato?
Io non lo so e difficilmente credo riuscirò a scoprirlo.
Temo anche di fronte a Mission:Impossible 6.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 57 https://www.carmillaonline.com/2014/03/13/divine-divane-visioni-cinema-de-papa-0506-57/ Thu, 13 Mar 2014 22:40:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13380 di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005 Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta [...]]]> di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005
Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta distrutti sul pouf di casa (non abbiamo ancora un divano!) e al cinema mai, giusto alcuni Dvd musicali oggetto di recensioni per le mie scorribande editoriali e poco altro. E quando guardavo lo scarno elenco di titoli (il mio computer è pieno di elenchi – nomi, dischi, libri, film, diete, amici, nemici etc. – e, lo so, un Lexotan aiuterebbe) aggiungevo un commento qui, un parere là, una curiosità, e voilà, eccoci daccapo. Come sempre senza ordine, intelligenza e competenza, ma francamente non ci sono mai state e quelle potete cercarle – buona fortuna – in tutti i recensori ufficiali che infestano qualunque pubblicazione. Perché criticare non costa nulla e nessuno vi dice mai cos’ha visto prima e soprattutto cos’ha mangiato quel giorno lì. Ma niente polemiche oziose: come diceva Clint Eastwood, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue.
Qui c’è posto e, se vi accontentate: prego, dopo di lei.
Dunque: la piccina dormicchia e, dopo un’ottimo primo mese, con le classiche 5 o 6 sveglie notturne, abilmente gestite in decrescita, Barbara e io abbiamo poi aspettato la cosiddetta svolta del 70° giorno, evento mitologico che secondo alcuni pediatri dovrebbe sancire la fine dei pasti della notte. Invano. No. Da noi non è arrivato, ‘sto cazzo di miracolo del 70° giorno. Però, pian pianino siamo venuti a capo della faccenda. Certo, abbiamo le facce come due zombie, specialmente da quando Sofia ha deciso che svegliarsi all’alba e non addormentarsi più sia cosa salutare. Ma finalmente adesso, a 5 mesi di vita, cominciamo a ragionare, con una o due sveglie al buio. E adesso ci guardiamo un film, che va bene le gioie della paternità e tutto il resto, ma c’è vita anche nel cinema. La scelta cade su un prestito che, guarda il caso, è un film per bambini. A visione ultimata, che dire? Come sempre, grande Pixar. Ottimo l’apparato scenografico, divertente la storia, azzeccato il disegno dal tratto spigoloso. Diverse ideuzze che rendono scoppiettante le vicende di una famiglia di super eroi a riposo. Buono, con la scena finale col bimbetto rovente superlativa. Carini gli extra. Sì, lo so: sembra il rapporto di un carabiniere, ma il mio cervelletto, oggi, non può elaborare diversamente e se non vi va potete non firmare il verbale, ok? (Dvd; 18/9/05)

556 – Born to Boogie, e chi no?, di Ringo Starr, UK 1972
1972. I figli della rivoluzione non aspettano altro: un folletto che sappia riprendere in mano la tradizione del rock n’roll di vent’anni prima, quando con Little Richard trionfavano una sensuale ambiguità e un’animalesca glossolalia. Marc Bolan, il ragazzo del ventesimo secolo, aggiunge alla formula un po’ di britishness, potenziando il look con lustrini e trucco. E il rock – dopo anni di troppo impegno che hanno distanziato la mente dal corpo – diventa glam e torna a liberare da lavoro, genitori e morale corrente. Born to Boogie è un rockumentary d’ingenuità commovente: mette in fila diverse esibizioni di Bolan e dei suoi T.Rex e le raccorda con surreali intermezzi felliniani (indovinate un po’: nani e suore). Ma nella sua semplicità, racconta un’epoca attraverso musiche, colori e facce: quelle estasiate del pubblico, quella sognante di Bolan, quella non ancora calcolatrice di Elton John (coi capelli veri) e infine quella del regista: il Beatle minoritario, ma non meno intelligente, Ringo Starr. Ricchissimo di extra (due documentari, due concerti e altri bonus), Born to Boogie è il modo perfetto di riproporre un vecchio film su Dvd: con amore. (Dvd; 1/10/05)

DDV5702 Suspiria557 – L’ansimante Suspiria di Dario Argento, Italia 1977
‘Anvedi! Storia che va subitissimo in vacca (perlomeno ai miei occhi, che sono dei piccolo Rudolph Giuliani a tolleranza zero), attori ultracani, ambientazione in una scenografia scintillante, coloratissima, folle e completamente falsa. Argento ha rivendicato l’ambientazione fiabesca e il film andrebbe visto così: una favola horror, onirica e straniante. Barbara rantolava dopo pochi minuti, a me invece Suspiria ha tutto sommato divertito, perché è un film pazzoide e senza senso alcuno se non il piacere ludico del racconto e della folgorazione visiva (e non è poco) e sto vivendo ancora una sorta di euforia post partum che mi rende imprevedibile anche nei giudizi. Chissà, in altri momenti, davanti a un film così, avrei potuto sparare al televisore. Magari a Miguel Bosé (è nel cast, assieme a Jessica Harper e Stefania Casini, la grande che in Novecento ha stretto contemporaneamente i membri di De Niro e Depardieu). Ah: due settimane fa è morto Franco Scoglio, allenatore cosmico del Genoa, poeta, professore e santone. L’ho intervistato nel 2002 e prima mi ha fatto venire un infarto per telefono, facendomi credere di essersi dimenticato l’appuntamento e di essere all’estero, poi mi ha preso per il culo durante e dopo l’intervista chiamandomi affettuosamente tutto il tempo “testa di cazzo”. “Quanti modi esistono per battere un calcio di rigore, mister?”, gli ho chiesto: “Ventuno… e sono tutti sbagliati”. Era un grandissimo e – come diceva lui – non parlava mai ad minchiam. (Dvd; 17/10/05)

558 – 1-2-3-4! End of the Century: the Story of the Ramones di Michael Gramaglia e Jim Fields, USA 2004
Certe volte il miglior rock nasce da grandi antagonismi: è il caso dei Ramones, quattro misfits affratellati dalla comune refrattarietà a tutto ciò che li circondava. È il 1974 quando, reietti di quel Queens troppo lontano da Manhattan, i Ramones spazzano via i fratelli maggiori capelloni e manierati e gettano i semi di tutto il rock a venire, ispirandosi alle sonorità di Stooges e New York Dolls. Le canzoni tornano a durare un paio di minuti e a colpire duro. Le canta Joey, il nerd per eccellenza, ipersensibile e naif, e le suona su una Mosrite scrostata il dittatoriale e cinico Johnny, mentre l’eroinomane bruciato Dee Dee percuote un basso. Oggi i Ramones originali sono tutti morti, eccetto il batterista Tommy che se n’è tirato fuori per primo garantendosi la vita, ma il suono, quella ruvida attitudine filtrata da un ampli scassato, è destinato ad accompagnarci per sempre, dalle cantine ai palchi di tutto il mondo. End of the Century racconta in maniera spietata e toccante di come dal letame (magari al CBGB) nascano i fiori e quattro asociali, brutti, sporchi e (talvolta) cattivi abbiano saputo scuotere dalle fondamenta e rifondare il rock. Gran film e gran gruppo, perché la musica non è solo musica. Gabba gabba hey! (Dvd; 23/10/05)

DDV5703 Emerson Lake559 – Welcome my friends to Beyond the Beginning di Nick Ryle, UK 2005
Visione divertentissima della storia di uno dei gruppi più tamarri e sboroni della storia del rock, gli Emerson Lake & Palmer. Dovendo intervistare a breve due terzi della band per Rolling Stone ho unito lavoro e colpevoli passioni e faccio un preambolo per chi ignora chi siano questi signori: se sei un perverso o se ami il prog più avventuroso (le due cose non si escludono) gli ELP sono la morte tua: tecnica micidiale e sfrenata teatralità, con in repertorio – tra le altre cose – un congegno che permetteva ad Emerson di performare per aria, legato a uno Steinway rotante, tipo il Corsair del lunapark. Dopo l’uscita della programmatica autobiografia del tastierista, Pictures of an Exhibitionist, dove trovate con autoironia e franchezza sesso, droga e liti della band più fastosa dei Settanta, è arrivato, per l’evidenza visiva, anche il monumentale dvd Beyond the Beginning, con assortite melodie dolcissime, cavalcate strumentali e diversi momenti esilaranti. Come il batterista Palmer che, in un assolo che lo impegna come un polipo, riesce anche a suonare una campana tirandone la corda coi denti. O come il circense Emerson che accoltella il suo organo, lo prende a calci, gomitate e ceffoni e infine lo monta, nel senso che se lo fotte allegramente pur di tirarne fuori suoni inediti. Visto il simpatico prodottino digitale, che mette in fila la biografia della band con interviste abbastanza prevedibili e immagini invece decisamente interessanti, vi relaziono sugli incontri coi suddetti musicisti. Keith Emerson, l’uomo che quando eravamo piccini suonava il pianoforte sulla spiaggia nella sigla di Variety, è al Live Club di Trezzo. Mi presento offrendogli una bottiglia di Fernet Branca, di cui lo so ghiotto. Imbarazzo: lo hanno da poco operato al cuore e rifiuta con fermezza. Cerca di mettermi a mio agio definendosi ipocondriaco ma quest’uomo s’è rotto (suonando il piano) dita, naso e costole e, cadendo dalla moto, s’è pure aperto la testa (“Il mio teschio è bianco!”). Oggi s’è dato una calmata ed è un amabile sessantenne in forma, che compone ancora al piano ma ha l’iPod col quale ascolta jazz dei fifties. Negli ultimi vent’anni l’amore per la musica è andato di pari passo alla disattenzione per gli affari e un recente divorzio lo ha steso finanziariamente. Per cui ha venduto i coltelli della gioventù hitleriana (dono di Lemmy dei Motorhead, allora suo roadie) con cui massacrava il suo Hammond e nei vari traslochi ha perso di vista la mitica giacca d’armadillo o certi costumini sbarluccicanti che lo facevano sembrare un cioccolatino Quality Street. Il punk diede una spallata al prog, e mi fa notare che oggi vive a cinque minuti da Johnny Rotten. Lui in un condominio, Rotten in un villone. Ma i rovesci della vita non gli hanno tolto il piacere dell’improvvisazione e, in un concerto dove ci delizia con un repertorio che spazia dai Nice al ragtime, si toglie lo sfizio di eseguire la Toccata e fuga di Bach al contrario (cioè suonando l’Hammond da dietro). Una settimana dopo, vicino a Como, incontro Carl Palmer. Ha fama di precisino e lo conferma dicendomi tutti i titoli esatti degli album che tiene nel suo iPod (anche lui jazz). Carl non ha mai smesso di suonare e ha cavalcato la nascente MTV con gli Asia. Oggi ammette che per quelli della sua generazione è più difficile di un tempo, ma il passato è passato ed è nella dimensione live che trova ancora la sua realizzazione (“Suonando sono una persona migliore”). È conciliante con chi scarica la musica da Internet, confessa di guardare golosamente un programma tivù domenicale con cori di chiesa e riesce a indignarsi sinceramente per la guerra in Iraq. Poi il concerto: può un batterista fare uno show per appassionati delle pelli e divertire anche gli altri? Può, altroché. Il pub Black Horse ospita buona musica rock mentre ti servono fantastici burritos e altre ghiottonerie da vecchio West. È stipato di fanatici che studiano religiosamente la batteria ancora silente di Carl o le chitarre in parata dell’axeman italiano per eccellenza, Andrea Braido (c’è chi sostiene che abbia un dito scarnificato, per ottenere sonorità inedite toccando le corde; non verifico). Quando lo show comincia è un’epifania di tecnica: ci sono i classici degli ELP e assortite acrobazie chitarristiche ma anche un appassionante assolo di batteria, cosa che mai avrei detto. E che fine ha fatto il saccarinoso Greg Lake? Prima o poi becco anche lui, promesso. (Dvd; 7/11/05)

DDV5704 Grateful Dead560 – The Grateful Dead Movie, uno sballo di Jerry Garcia, USA 1977
Utopia hippy, ritorno alla natura, recupero delle forme musicali tradizionali, l’idea di una famiglia che non sia vincolata dal sangue, uso liberale di sostanze per permettere alla mente e al corpo (e alla musica) di spaziare… Questo e altro erano i Grateful Dead, band e concetto che potevano nascere solo nella California degli anni Sessanta e prosperare nell’America prima illusa e poi presa per il naso, dagli anni Settanta fino ai Novanta. Prevedendo uno iato nell’attività concertistica, nel 1974 Garcia decise: giriamo un film. Una troupe in acido agli ordini di Leon Gast (il genio di Quando eravamo re, documentario sullo storico match in Zaire tra Muhammed Ali e Gorge Foreman), riprese i concerti tenuti al Winterland di San Francisco e, dopo tre anni di lavoro per il montaggio, nelle sale arrivò The Grateful Dead Movie. Oggi, recuperato dagli archivi, è il Graal dei Deadhead, il colorato pubblico dei fan dei Grateful che hanno continuato a seguire religiosamente i concerti del gruppo fino alla morte del buon Jerry, nel 1995. Lungo come solo certe jam chitarristiche del leader, piacevolmente datato, è la messa in scena dell’ultimo sballo collettivo, già nostalgico e fuori tempo. All’epoca se lo filarono in pochi, oggi è la dimostrazione che quando uno è un’artista, può creare un universo immaginifico con una chitarra ma anche montando una pellicola. Cosa sono 5 ore di tempo di fronte alla vostra vita? Vi aspettano film, musica celestiale e bonus in abbondanza, da vedersi magari con un’innocente paglia in mano: Garcia vi benedirà col suo sorriso bonario dall’alto dei cieli. (Dvd; 21/11/05)

561 – L’emozione fredda di Mad Dog and Glory di John McNaughton, USA 1993
Commedia strana, algida e inaspettata, conosciuta in Italia col titolo da strapazzo Lo sbirro, il boss e la bionda (complimenti vivissimi ai distributori nostrani), è frutto del regista dell’osannato Henry pioggia di sangue, film che anni addietro mi ha fatto cagare a sifone. Un boss mafioso (De Niro, prigioniero della parte) vuole sdebitarsi con un fotografo della polizia (Bill Murray) e gli regala una settimana con Glory, cameriera in debito (Uma Thurman). I due si innamorano, complicazioni. Ne esce una storia carina a tratti, però trattenuta, ed è più l’incertezza del piacere, come se non decollasse mai e dove molte volte mi chiedo: ma dovevo ridere, qui? Boh: gode di statura di film di culto, ma praticamente tutti i film dove ha recitato Bill Murray lo sono e io non faccio parte del fandom. Per cui, niente, non lo consiglio granché. (Dvd; 6/12/05)

DDV5705 Weather Underground562 – The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel, USA 2003
Anche gli americani hanno avuto i loro “terroristi”. Il ritratto è impietoso e per fortuna poco corretto politicamente: una banda di sfigati in fuga perenne, idealisti fino all’autolesionismo, ignoranti come delle capre, cui però, in qualche maniera, non puoi che voler bene. Il racconto è chiosato da storici destrorsi che non risparmiano stilettate e noi europei rimaniamo interdetti: una cosa grave come la lotta armata non può essere gestita da degli hippie frustrati. Però questi sapevano bene chi e cosa colpire: non gli uomini ma i simulacri del potere, i palazzi e le banche. Una lotta velleitaria, confusa, ma sincera. La fine ingloriosa e l’infinitesimale incidenza sull’opinione pubblica sono riscattati dall’umanità di questi non tanto beautiful losers e dalla compassione che suscitano per una scelta apparentemente suicida ma in realtà altissima perché veramente ideale e non calcolata. Il film è molto stimolante (anche se sinceramente sopravvalutato) e io e Barbara abbiamo avuto un tuffo al cuore quando abbiamo visto dove sono nati i Weathermen: al motel Capri di San Francisco dove eravamo finiti tra le bestemmie una notte dell’agosto 2002, dopo aver cercato per una giornata intera una camera nella Napa Valley. (Dvd; 9/12/05)

DDV5706 Festival Express563 – Si parteeee! Festival Express di Bob Smeaton, USA 1994
Chi era particolarmente ricco, un tempo, il tour se lo faceva in aereo (vedi il faraonico Starship One usato da Led Zepp e compagnia cantante). Se no c’era il buon vecchio pullman, con centinaia di musicisti dimenticati in aree di servizio mentre pisciavano o indulgevano in altre attività ricreative. Finché a qualcuno non venne un’idea folle: la tournée, stavolta, facciamola in treno! Siamo nel 1970 e a bordo zompano Janis Joplin, Grateful Dead, the Band, Buddy Guy e altri hobos affamati di avventure. Le fermate sono ai festival di Toronto, Winnipeg e Calgary, in Canada. Ovviamente il pubblico hippie vuole assistere gratis ai concerti: casini a non finire, discussioni tra artisti e management e poi, ogni sera, il miracolo di performance elettrizzanti. Janis strapazza il blues, i Dead sono nel periodo campestre, la Band sprigiona insospettabile energia, Buddy Guy sembra connesso all’amplificatore… Dal treno era difficile scendere e i musicisti si dedicarono anima e corpo ad alcol, droghe assortite e jam straordinarie. E i pochi che dormivano, si persero decisamente qualcosa. Nessuno sperava che esistessero immagini di questa allegrissima follia, finché dagli archivi, nel 1994, non son saltate fuori delle bobine sospette. Bob Smeaton (già compilatore del monumentale ed essenziale The Beatles Anthology) s’è messo al lavoro e oggi possiamo staccare anche noi il biglietto del Festival Express per viaggiare a fianco della compagnia di sballoni. Rigorosamente in inglese, con tante bonus tracks: una pacchia per chi ama le buone vibrazioni, una scoperta per chi non sa da dove veniamo. E quando Janis si scortica la gola, io ho pianto, giuro. All aboard! (Dvd; 10/12/05)

DDV5707 Parenti serpenti564 – Parenti serpenti di Mario Monicelli, Italia 1992
Visto a Natale, giustamente in famiglia, a Genova. Buona partenza che promette tantissimo, ma poi il film non mantiene e diventa presto una rottura di palle. Sarà pure cattivo (e lo è fino in fondo, senza assoluzioni di comodo, ed è il grande pregio del film), ma serve ritmo, cari. Monicelli dispensa il consueto cinismo, ma ne risente anche il film, piagato da sciattezza visiva e con troppe vignette che sfociano nella macchietta (il cast non è eccezionale, purtroppo). Una riunione di famiglia vede diversi nuclei riunirsi a Sulmona intorno agli anziani genitori, che annunciano che poi qualcuno se li dovrà prendere a carico. Finale col botto, coerentemente maligno, dopo aver descritto un’Italietta meschina attaccata a denaro, ignoranza e tornaconto. Mah. Rivisto, mi ha deluso molto: si affloscia nella seconda parte, senza verve, al risparmio. Oh, lo vedi, perché Monicelli è mica un fesso, però è più il dispiacere per lo spreco che la felicità per quel che vale. (Diretta La7; 26/12/05)

565 – Un soffio al cuore di natura elettrica di Pietro Maria Tirabassi e Riccardo Sgalambro, Italia 2005
Il titolo riesce a dire tutto: trattasi di dvd-concerto allegato all’ultimo live di Franco Battiato, notevole sia per la qualità della performance (rarefatta ma molto rock) che per la soluzione produttiva, con l’alta definizione che permette una regia minimale e inventiva e una troupe ridotta all’osso. E Francuzzo beddo nostro è sempre grandissimo. (Dvd; 28/12/05)

DDV5708 Five Easy Pieces566 – Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, USA 1970
Storico titolo che racconta dell’insofferenza di Bobby (Jack Nicholson) verso la famiglia e la società. Un inno alla libertà (anche se quando è così “individuale” vedo anche dell’egoismo, ma non sto a sottilizzare), un po’ datato ma ancora valido, con almeno una scena stracult, quando Nicholson parla col padre malato che però ormai non capisce più una mazza. Vedendolo non posso non pensare alla parodia di Riccardo Pangallo (Lo spezzone) in onda su RaiTre a Va Pensiero quasi vent’anni fa. Film pensoso-anni Settanta, Cinque pezzi facili non è facile per niente, ma è libero e sincero e comunque godibile, forse più per i significati che gli attribuiamo che per quello che realmente dice. Ma sto anche diventando cinico, per cui poco attendibile. Il finale con Jack Nicholson che abbandona in una stazione di servizio l’insopportabile (e mostruosa) Karen Black è impagabile. Bello. (Diretta Sky; 29/12/05)

567 – L’inaspettato Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Italia 2005
Beh, non male. Figlio dodicenne di ricconi bresciani in crociera viene recuperato e portato a terra da dei migranti. Tornato a vivere coi suoi, decide di dare una possibilità a chi lo ha salvato, con conseguenze non pienamente prevedibili. Ovviamente – siccome si parla di immigrazione clandestina – il film non se l’è cagato quasi nessuno perché al posto della meglio gioventù qui si parla della peggio adultità e ci sono molte facce scure. Però m’è sembrato un film civile senza essere edificante, schematico com’è sempre Giordana, ma coraggioso, non facilmente consolatorio e con un elemento fantastico, fiabesco, che illude e (forse) affranca dalle sofferenze terrene. (Dvd; 30/12/05)

DDV5709 Viva Zapatero568 – Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti, Italia 2004
Film decisamente interessante, anche se non so fino a che punto riuscito, per un argomento molto difficile da toccare senza essere frainteso. Servirebbero più pagine per un’opera che è volutamente provocatoria, scostante, ambigua, personalistica, maligna e paracula al tempo stesso, e affronta il caso di censura subito dall’autrice col suo programma televisivo Raiot, occasione per allargare il discorso anche allo stato della libertà dell’informazione nel nostro paese. Ma non ho né competenza dialettica né voglia: la Guzzanti – autenticamente geniale sinché l’ormone non le oscura il lobo frontale – non mi merita, neanche se avessi cose intelligenti da dire. (Dvd; 2/1/06)

569 – Il pippatissimo Scarface di Brian De Palma, USA 1983
Drogato, urlato ed esageratamente divertente, gli anni Ottanta su pellicola, con godibile ambiguità. (Dvd; 6/1/06)

570 – L’ubriacante Mondovino di Joseph Nossiter, Francia 2004
Il business del vino, tra produzione industriale, standardizzazione del gusto e resistenze locali. Cinematograficamente non vale molto: ripetitivo, girato veramente col culo e organizzato male. Ma il tema è spumeggiante e la galleria di personaggi molto curiosa (e in taluni casi inquietante). Per cui alla fine me lo sono scaraffato e ingollato con soddisfazione. Sa un po’ di tappo, con sentori di sottobosco e letame, ma il retrogusto è singolare e – oh, siamo tutti antiamericani o sono loro un po’ birichini? – alla fine hai la conferma che il Capitale distrugge tutto, anche una bevanda antica come il vino. (Dvd; 17/1/06)

DDV5710 negrita571 – Viaggio Stereo di Gianni Russo, Italia 2003
I miei amati Negrita, in un live in qualche modo amaro (di lì a poco il batterista originale avrebbe mollato il colpo) e con un repertorio che pesca nell’ultimo album (Radio Zombie), interlocutorio. I concerti hanno perso progressivamente l’improvvisazione e l’estensione dei pezzi, cosa che negli anni passati mi faceva godere di bestia, ma c’è sempre un bell’approccio ruvido. In un’intervista che gli feci a fine 1998 mi ero fatto promettere solennemente che non avrebbero mai abbandonato il funky rock degli esordi. Evidentemente si cresce e si cambia. E la colpa, è chiaro, è mia che voglio tornare ai miei vent’anni (quando però avevo ragione quasi su tutto). Siccome i cinque della band non fanno proclami politici di bassa lega, non pubblicano inascoltabili dischi finto-impegnati e non offrono golosi spunti per il gossip, non sono i beniamini della stampa specializzata e/o militante né hanno mai raggiunto un successo di massa da stadio. Meglio così: lascio gli altri a ubriacarsi di Negramaro novello o a calarsi qualche merda afterhours: io preferisco sempre il mio Chianti dei colli aretini, ormai vecchio di dieci anni e sempre gagliardo. (Dvd; 17/1/06)

572 – Il folgorante Che idea nascere di marzo di Osvaldo Verri, Italia 2005
Un collega adorabile, uno che qualunque cosa sia accaduta negli anni Settanta, lui c’era (ed era probabilmente colpevole!), ha girato questo straordinario corto sulla morte di Fausto e Iaio – diciottenni del Leoncavallo assassinati nel marzo 1978 –, difficile ma, nella pur breve durata, pieno di tuffi al cuore e di speranza. Come Ma chi ha detto chi non c’è sui titoli di coda. E bravo Osvi! (Dvd; 22/1/06)

573 – Tokyo Monogatari di Yasujiro Ozu, Giappone 1953
Come certi vini: fermo, completamente. Ma invecchiato benissimo e di pronta beva. Viaggio a Tokyo è splendido: un’emozione antica che ho delibato con commozione. (Oh, dopo aver visto Mondovino non riesco più a evitare paragoni enologici!). (Vhs da RaiTre; 28/1/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 57)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 52 https://www.carmillaonline.com/2013/09/06/ddv52/ Thu, 05 Sep 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8887 di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981 La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni [...]]]> di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981
La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni imperanti modelli produttivi risulta felicemente povero di mezzi ma ricco di idee, come quella beffarda e geniale della Manhattan ridotta a un carcere. E l’aereo dirottato che ci finisce schiantato è… beh, diciamo un’intuizione criminale azzeccata, anche se dubito che Osama Bin sia un appassionato di Carpenter, regista anarchico, mai banalmente qualunquista, sempre attento a ricordarci che il Potere è marcio, corrotto, violento e senza alcuna pietà nei confronti dei misfits che lo combattono. L’edizione in Dvd regala un veloce ma interessante documentario che ripercorre le tappe produttive del piccolo gioiello, nato da una sceneggiatura dei tempi dell’università, pensata – guarda il caso – per Clint Eastwood. Cast spettacolare che include anche Ernest Borgnine, Harry Dean Stanton e Isaac Hayes (e subito sentiamo tutti il chugga chugga del wah wah di Shaft). Rivisto durante gli anni del liceo (sicuramente in seconda, probabilmente anche più avanti e mai più dal 1995 in poi), lo vidi la prima volta all’Instabile di Genova nell’estate del 1982, con la mia amica Roberta. M’era piaciuto moltissimo: avevo già ragione. Carpenter promise che MAI avrebbe realizzato un sequel. Mentiva. (Dvd; 23/1/05)

ddv5202513 – La febbre del sabato sera sedata da Pasazerka di Andrzej Munk, Polonia 1963
Il mio sabato ideale: a casa, con un capolavoro polacco, in lingua originale. Barbara recalcitra e m’impongo poco democraticamente, tirando fuori anche la Giornata della memoria e il dovere civile di vedere un film in tema. Cede e ci vediamo l’incompiuto La passeggera del regista Munk, morto in un incidente d’auto prima di aver ultimato il montaggio. Dopoguerra pacificato. Lisa, che è stata guardia ad Auschwitz, è in crociera e le sembra che una delle passeggere sia Marta, una ragazza ebrea con cui aveva instaurato un tremendo rapporto di potere durante la prigionia. Racconta al marito, edulcorando la vicenda e mascherando la sua meschinità con la compassione. Un film eccezionale, forse anche aiutato dalla sua incompletezza che rende scarni ed essenziali i momenti ambientati al presente (narrati da una voce fuori campo su foto delle scene). Il lager come universo concentrazionario dove è annullata ogni umanità e un biglietto, uno sguardo, una carezza, diventano gesti per cui vale la pena di rischiare la vita. L’orrore della dignità calpestata continuamente, l’illusione degli aguzzini di essere assolti dalla loro cattiveria concedendo avarissimi scampoli di carità, sottomessi sempre all’opportunismo. Munk sceglia una strada difficile: l’incerto tormento personale di Lisa, l’indifferenza di fronte all’immane tragedia e la ricerca di una complicità con una prigioniera per sentirsi meno colpevole. Splendido. In nottata, tra l’altro, Fuori Orario l’ha riproposto, facendolo precedere dal toccante Notte e nebbia di Alain Resnais, visto anni fa e rivisto, impietrito e insonne, non appena ci son capitato su, scanalando. Agghiacciante e dolorosamente necessario. (Vhs da RaiTre; 29/1/05)

ddv5203514 – L’horror de paura Ju-On The Grudge di Shimizu Takashi, Giappone 2003
Nipponata orrorifica dove l’oggettiva impossibilità di distinguere i personaggi rende trama e comprensione oltremodo difficoltosi. Ma non c’è molto da girarci attorno: una casa infestata da bimbo, madre e gatto nero, vittime in passato di un capofamiglia sanguinario. Chi frequenta la casa ha le visioni e prima o poi viene risucchiato in soffitta. Perché The Grudge è piaciuto, tanto da diventare un cult e autorizzarne un rifacimento hollywoodiano? Boh! Direi perché ormai qualunque cosa presenti qualche vago motivo d’interesse diventa allora un’opera d’arte da elevare sopra lo squallore generale. E The Grudge un vago motivo d’interesse lo ha nel fare una paura del diavolo, al di là della farraginosità assolutamente non necessaria e nonostante la staticità narrativa, poco aiutata dall’espressività da bassorilievo di alcuni attori. La scommessa, in questi horror metafisici e metà stronzate, è trovare un modo per farci accapponare la pelle e se da ogni angolo spunta e poi scompare il pallidissimo bimbo Toshyo, beh, lo spaghetto viene eccome. Peggio ancora quando ti appare la madre che rantola come un radiatore rotto e ha capelli degni di Tina Turner metà anni Ottanta. Nella totale indifferenza della trama, mi son goduto un’oretta e mezza di fifa blu. Per cui ve lo consiglio? Mah! Vi lascio nel dubbio: non vi devo niente, io. Dvd affittato dal Blockbuster di Papiniano: sfornito, con commessi da freakshow che non sanno che lavoro fanno e ti mettono in coda per ore. Ah, domenica Prodi è stato intervistato dalla Dandini: per la gioia del Nano, sotto una funerea luce da confessionale il Professore ha risposto disastrosamente alle domande della dentona. Ci meritiamo tutto. (Dvd; 3/2/05)

ddv5204515 – La puzzonata The Peacemaker di Mimi Leder, USA 1997
Il classico film fracassone e ottuso del venerdì sera di Italia1: un richiamo troppo perverso per rinunciarvi. Stavolta tocca a The Peacemaker, film d’azione molto stereotipato, povero di psicologie e, più in generale, di idee che lo distinguano all’interno del genere. Mentre la guerra in Bosnia va concludendosi portando seco un pericoloso carico di vendetta, un’esplosione atomica (!) insospettisce il fisico nucleare Julia Kelly (Kidman), ingenuotta primina della classe. Le affiancano il gaglioffo e non cristallino Thomas Devoe (Clooney), che, da tenente colonnello dei servizi segreti, sa bene come funzionano le cose nel disintegrando ex impero sovietico. La strana coppia è litigarella, ma finirà coll’amarsi (la cosa è intuibile fin dal manifesto del film), ma la regia mette da parte ogni smanceria e va dritta al sodo, con inseguimenti, botti e decisioni fatali dei soldati americani, pronti a sacrificarsi per il bene mondiale. In questa messa in scena muscolare di una regista che vuol far vedere che ha due coglioni di titanio, si salva solo una battuta profetica: di fronte al pakistano cattivo che ha studiato ad Harvard, Clooney chiosa: “Eh già, li abbiamo istruiti quasi tutti noi, i terroristi!”. Se c’è un motivo d’interesse in The Peacemaker è nella compresenza di due attori che da lì a breve sarebbero diventati star a tempo pieno. Nicole Kidman, non ancora sfigurata dalla chirurgia estetica tanto da sembrare oggi la gemella di Eva Grimaldi, pare una ragazzina, con occhi azzurrissimi e capelli rossicci. È di ieri la dichiarazione dello stilista Karl Lagerfeld che ha definito il suo corpo “bizzarro” (è una dichiarazione ripresa da tutte le agenzie di stampa e probabilmente propagata da quello dell’attrice stessa). In effetti ha gambe da fenicottero, sederone e tronco magrissimo e quando corre sembra una papera. Clooney, invecchiando, ha invece guadagnato charme e qui è ancora tutto adrenalina, anche se lo sguardo da giuggiolone promette già quella simpatia sorniona che lo fa amare da donne e uomini. Film molto lungo, non particolarmente ispirato, ma infettivo: visto il primo quarto d’ora, diventa difficile mollarlo. (Diretta tv su Italia1; 4/2/05)

ddv5205516 – Un piccolo capolavoro, Mad Max 2 di George Miller, Australia 1981
Prima di interpretare un poliziotto isterico e spericolato (i vari Arma letale) e prima di dirigere un horror con protagonista Gesù Cristo, il reazionario Mel Gibson è stato un ribelle ricoperto di cuoio che sfrecciava sulla terra devastata dai conflitti nucleari. Unico obbiettivo, procurarsi la prossima tanica di benzina. Era l’ossessione degli anni Settanta (dopo la crisi petrolifera) e oggi ce ne siamo dimenticati: per risolvere facciamo ogni tanto una guerra a chi possiede il petrolio e si rimanda la soluzione al futuro, quando arriverà Mad Max sul serio. Per adesso godiamoci questo splendido memento cinematografico, arrivato in Italia col titolo Interceptor – Il guerriero della strada. Come aveva previsto Einstein, si combatte con le pietre, all’arma bianca e solo Mad Max ha un fucile a canne mozze, ma i proiettili sono rari e spesso difettosi. Abbondano balestre, coltelli e boomerang affilatissimi e vige la legge del più forte. Nella fattispecie i selvaggi che abitano il wasteland agli ordini del temibile e orrendo Humungus. Mad Max, da vero eroe anarchico e cinico, sceglie i buoni per interesse, perché gli possono assicurare un po’ di carburante, cioè vita, strada. La vicenda è divertente, senza cali di ritmo, equilibrata nella costruzione e azzeccata nello svolgimento, con un’introduzione e un finale suggestivi. Da un punto di vista figurativo, il film ha pesantemente influenzato tutto l’immaginario degli anni Ottanta, popolando la videomusica e la fantascienza cinematografica di punk mohicani, abbigliati come moderni gladiatori. Cinemascope oceanico per paesaggi (australiani) di selvaggia bellezza. Azzeccato score classicheggiante di Brian May, solo omonimo del chitarrista dei Queen. Gran film, visto con la cugina Alessandra. (Dvd; 5/2/05)

ddv5206517 – L’ambiguo (?) Rambo di Ted Kotcheff, USA 1982
Anche questo venerdì cado nell’agguato di Italia1: il film (visto anche recentemente) è perfetto per staccare i lobi cerebrali e identificarsi ottusamente nel protagonista, John J. Rambo, reduce dal Vietnam leggermente confuso e abbandonato a se stesso sulla fredda costa del Pacifico. Alla ricerca di un commilitone, ultimo superstite del suo battaglione, scopre che è morto di cancro dovuto al tremendo defoliante, l’agente arancione. Il commilitone, peraltro, era pure nero e – sicuro – i due assieme avranno fumato e si saranno calati più d’un acido. Fai due più due e ti viene un atroce sospetto: ma questo è mica un film di sinistra?! Possibile che abbiamo preso un simile abbaglio per tutti questi anni? Bisogna rivederlo tutto, Rambo, perché qui è in agguato una rivalutazione ideologica non da poco! Dunque: Rambo arriva a Hope, pacifica cittadina dove lo sceriffo Teasle (Brian Dennehy) è frustrato dalla monotonia e non vede l’ora di avere qualche problema per poter menare le mani. Un girovago è l’ideale e Rambo viene portato in cella per vagabondaggio. Siccome puzza da far schifo lo strigliano ben bene e minacciano di tagliargli i capelli perché sembra uno hippie; infine provano a fargli la barba, a secco (sai che roba: e tirargli un pizzicotto, no?). Alla vista del rasoio, Rambo ripensa alla sua prigionia in Vietnam e, come un cane di Pavlov, sbarella e sbava: mena tutti e scappa su pei monti (cane di Pavlov come recitazione, non come reazione, eh?). Teasle non ci pensa due volte e scatta la caccia all’uomo: finalmente un po’ d’azione! Ma c’è un problema, hanno sbagliato indirizzo: Rambo è un ex berretto verde decorato, sopravvissuto alla giungla vietnamita, e sceriffi e guardia nazionale (formata da ciccioni parolai) gli fanno un baffo. Lo riporterà alla ragione solo il colonnello Trautman (Richard Crenna), suo comandante in guerra, uomo talmente coraggioso da sopportare con infinita pazienza anche la frignata finale in cui Rambo tira via la maschera e dice, testuale, che la guerra era già vinta, ma qualcuno a casa, non ha voluto che finisse così. E i dubbi su una possibile riabilitazione rambistica svaniscono d’un colpo. Avevamo ragione da vendere, cazzo. Rambo il film è confuso quanto Rambo il personaggio, anche se come mero prodotto d’azione il film si fa vedere, lo ammetto. Sempliciotto, virile, girato economicamente, abbastanza ritmato, ben fotografato (Laszlo), recitato così cosà, con Stallone capace di due espressioni: o assente o piagnucolante. Sbattuto in carcere, di Rambo se ne rivaluteranno le qualità belliche e i capitoli successivi lo vedranno protagonista in Vietnam e nell’Afghanistan sovietico. Si parla di un quarto episodio: Iran? Corea del Nord? Tra le scene passate alla storia sicuramente il rammendo del protagonista che si ricuce una ferita sul braccio. In un’estate dei primi anni Novanta mia sorella calpestò in casa un ago lasciato per errore per terra. Gli entrò nel tallone e dovetti portarla al pronto soccorso dove un geniale infermiere – saputo l’accaduto – chiamò così il medico di guardia: “Megu, mia! U l’è arrivou u sciu Rambo!”. (Diretta tv su Italia1; 11/2/05)

ddv5207518 – Giochiamo a fare la guerra con The Warriors di Walter Hill, USA 1979
Il Bronx, un improbabile raduno notturno, con tutte le bande della città in tregua, perché Cyrus, il carismatico capo dei Riffs, ha da fare un discorsetto: se ci uniamo, non c’è polizia che tenga e New York sarà nostra. Ma il leader schizzato dei Rogues gli pianta una pallottola in corpo: Cyrus muore. Il caos, coi Warriors accusati dell’assassinio: casa è lontana una cinquantina di miglia e tutti vogliono fargli la pelle. Per tornare alla fetida Coney Island affrontano gli skinhead Turnbull A.C.’s, gli sfigatissimi Orphans, le assatanate lesbiche Lizzies, i Baseball Furies truccati da Kiss e infine i temibili Punks, col leader sui pattini. Botte da orbi e dei nove componenti la delegazione, due onorevoli perdite: il carismatico Cleon, subito fatto fuori dai Gramercy Riffs, e Fox, quello perbene, gettato da un agente sotto un vagone della metrò. L’esuberante Ajax (James Remar) viene invece arrestato perché ci prova con una poliziotta nel parco. Gli altri, capitanati dal sosia magro di Jim Morrison, Swan, raggiungeranno le livide spiagge dell’Atlantico e si chiederanno se sia valsa la pena di questa impresa. Grande western metropolitano, con una New York mitica e irriconoscibile, stilizzatissima grazie alla luccicante fotografia di Andrew Laszlo. La storia non è altro che l’attualizzazione dell’Anabasi di Senofonte (che sbulaccone, eh? Eddài, lasciatemela passare, su) e il vero valore di Warriors risiede nella messa in scena, all’epoca considerata d’insopportabile violenza (oggi fa ridere: poco sangue, niente droghe, nessuna arma da fuoco, volano solo pugni e qualche coltellata). Irrealistica la definizione delle bande giovanili, improponibile – perlomeno oggi – la mescolanza razziale, inesistente il realismo, ma il cinema americano ha sempre inseguito la leggenda. Coloratissimo, amaro, epico: non perfetto, ma comunque imprescindibile, perlomeno per la mia generazione. E a un certo punto, per pochi frame, c’è il mio amore Debra Winger, paffutella e tenerissima. (Dvd; 12/02/05)

ddv5208519 – The Untouchables di un ludico Brian De Palma, USA 1987
Per combattere Al Capone bisogna usare le maniere forti e mettere in conto che non ci saranno più amici sicuri, famiglia tranquilla e orari di lavoro da ufficio. Kevin Costner è lo specchiato federale che va a Chicago a scontrarsi con la polizia locale corrotta. Mette su una banda pronta a tutto (gli Intoccabili, appunto) e reagisce colpo su colpo al mefistofelico boss mafioso, passando pure al contrattacco e infine incastrandolo. Messa in scena sontuosa, attori in parte, pochi indugi autoriali, qualche esibizionistico pezzo di bravura (la scena della carrozzella, che omaggia Ejzenstejn), una più generale voglia di abbracciare il grande pubblico: è il cinema italo-americano nella sua variante più spettacolare, con un Morricone particolarmente fracassone e sintetico, un De Niro mattatore e i ricchi costumi di Armani. Divertente. Perso all’epoca, riguadagnato in versione originale e chilometrico cinemascope. Questa ottusa recensione si accompagna alla ferale notizia che ho smesso di comprare Film Tv. Avevo cominciato a leggerlo anni fa su consiglio di Marco Polese, compagno di straordinarie visioni al cineclub Lumière. Dopo gli ultimi mesi in cui non lo guardavo neanche, questa settimana mi sono semplicemente dimenticato di chiederlo in edicola. La rivista è forse diventata un po’ noiosa, ma soprattutto sono io a essere sicuramente diventato mortale: non c’è film che desideri vedere e – di conseguenza – non c’è articolo o recensione che voglia leggere. E poi, l’odierna critica cinematografica mi sembra un esercizio di dissezione di cadaveri. Qualche nome che mi piace? Beh, sì: il vivace Filippo Mazzarella, che leggo qui e là. Oppure Alessio Guzzano, libero pensatore dotato d’ironia e di creatività linguistica, che costruisce miniature finissime e ha gusto (e idiosincrasie, ma dichiarate). Ma altro non saprei. È colpa mia? È colpa mia, probabilmente. (Dvd; 13/02/05)

ddv5209520 – Lo spaventevole Zeder di Pupi Avati, Italia 1983
Beh, questa è storia. Scrivo esclusivamente pensando a Pier che un giorno leggerà queste righe e ricorderà anche lui quel fine agosto a Champoluc. Sarà stato il 1983, direi. Pier Paolo, alquanto precocemente, ha già “la ragazza”, Tiziana, e io sono il terzo incomodo. Fatto sta che in una serata ancora calda, finiamo lì, a casa di Tiziana per vedere questo horror, in prima serata sulla Rai. La casa verde era sul curvone per andare ad Antagnod ed era famosa perché si diceva che lì avesse soggiornato Bettega quando aveva dovuto curare i polmoni deboli. Chissà: io riferisco, ma non ho mai verificato tutta la vicenda, anche perché l’interesse è oggettivamente prossimo allo Zero Assoluto. Ricordo perfettamente che il film ci aveva fatto abbastanza cagare addosso e nell’intervallo avevamo riso come matti per una pubblicità micidiale di prodotti in gomma il cui slogan era “il chiodo fisso”: il nome dell’azienda era letteralmente martellato in fronte a un tipo. Altri tempi, altre strategie di marketing: darei una cifra per rivederla. La vicenda di Zeder vi ricorderà quella di altri più fortunati horror: esistono terreni speciali, detti terreni K, dove i cadaveri possono riprendere vita. Più o meno come nel cimitero indiano di Pet Semetary o come sul palco dell’Ariston a Sanremo. A proposito: lessi il libro di Stephen King durante l’Interrail europeo del 1989, quando conobbi Barbara. Faceva paura (il libro, non Barbara). Poi qualche anno dopo, con Ferro, abbiamo visto anche il film e faceva paura anche quello, ma per lo schifo. Tornando a Zeder: ancora bello inquietante, nonostante durante la visione Barbara e Alessandra abbiano anticipato mirabilmente tutti i colpi di scena perché lo ricordavano meglio di me. Sceneggiato da Pupi Avati assieme a Maurizio Costanzo che – dopo essersi occupato anche de La casa dalle finestre che ridono – da allora ha deciso di dedicarsi ad altre forme di orrore, tipo Buona Domenica. (Vhs da RaiUno; 15/02/05)

ddv5210521 – Il primo clamoroso episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra di Renato Pozzetto, Italia 1978
Questo episodio (di una trentina di minuti) è un po’ il Graal di certa commedia italiana anni Settanta, perlomeno per me e la mia famiglia. Mi sto addentrando nei meandri della salute mentale dei miei genitori e di mia sorella, ma da sempre, quando tra di noi uno dice “bestiale”, subito gli viene risposto con marcato accento lumbard “ha stabilito il record del letame!”, citando uno dei momenti stracult dell’episodio in questione. Protagonista è Pozzetto, ingenuo abitante di una casupola prefabbricata. Si guadagna da vivere consegnando merda di vacca col suo Ape Piaggio spoilerato e tirato da corsa, ma il frustrato Ponzoni lo assolda come cameriere col preciso piano di far secca la moglie ricca. Finirà tutto in un colossale sputtanamento, come canta strascicato Jannacci. Mezz’ora di surrealtà purissima, umorismo geniale e freddo come un ghiacciolo nel culo. Tra battutacce da declamare tra amici, nonsense e qualche ingenuità di regia, viene fuori una perla di follia, ma è di questa materia che sono fatti i sogni e i film che più amiamo, cari amici. Tra i tanti che appaiono c’è Giorgio Porcaro (con le mani “come due badiletti”) e soprattutto Massimo Boldi, fantastico cameriere ribelle con la Porsche che fa rivendicazioni proletarie agitando coltelli. Rivedendo Io tigro, tu tigri, egli tigra, ho goduto come sempre, notando però più i difetti che i pregi. Barbara era abbastanza attonita, ma certe cose o le vedi a tredici anni oppure non ne coglierai mai più la sublime poesia. (Vhs da RaiUno; 16/02/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 52)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 49 https://www.carmillaonline.com/2013/06/12/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-49/ Tue, 11 Jun 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6378 di Dziga Cacace

But Go Easy… Step Lightly… Stay Free (The Clash)

ddv4901481 – L’eversione ye-yé di Diabolik, di Mario Bava, Italia 1967 Film pop, coloratissimo, divertente, sfrenato e anarchico, eversivo con classe, sessantottino senza sapere che un anno dopo ci sarebbe stato il Sessantotto. Giusto per chi non ha mai letto il fumetto delle sorelle Giussani: Diabolik è un sofisticato criminale che si fa beffe dello stolido ispettore Ginko. Il tutato genio del crimine è un aitante belloccio e si accompagna alla fichissima Eva Kant (Marisa Mell), ambedue accecati dalla lussuria: non [...]]]> di Dziga Cacace

But Go Easy… Step Lightly… Stay Free (The Clash)

ddv4901481 – L’eversione ye-yé di Diabolik, di Mario Bava, Italia 1967
Film pop, coloratissimo, divertente, sfrenato e anarchico, eversivo con classe, sessantottino senza sapere che un anno dopo ci sarebbe stato il Sessantotto. Giusto per chi non ha mai letto il fumetto delle sorelle Giussani: Diabolik è un sofisticato criminale che si fa beffe dello stolido ispettore Ginko. Il tutato genio del crimine è un aitante belloccio e si accompagna alla fichissima Eva Kant (Marisa Mell), ambedue accecati dalla lussuria: non appena il colpo è compiuto (uno dei tanti, la trama non sceglie la consequenzialità come requisito) si va a far bisboccia trombando in mezzo a un mare di banconote, felici come un Paperon de’ Paperoni ingrifato. Tutto il film è attraversato da questa frenesia erotica e irriverente, in un montaggio schizzatissimo, tra scenografie psichedeliche e dai colori violenti e al suono di Morricone, che insaporisce con spezie indiane. Una gemma dove il lavoro onirico di Bava dei precedenti horror (quelli che conosco, perlomeno) trova naturalissima collocazione anche in un’opera artigianale che risulta tutt’altro che un fumettone. Bravo Bava e ottima La7 che con Alberto Crespi ha scelto il film per una prima serata, con un antipasto di mezz’ora con rivisitazione critica, interviste ai protagonisti e conservazione della memoria dei luoghi. Si tratta de La valigia dei sogni, uno dei pochi bei programmi (di cinema) in onda in tivù. (Vhs da La7; 1/9/04)

ddv4902482 – L’onanistico G3: Live in Concert di un cane, USA 1997
Ve lo dico prima: anno difficile. Vedrò una marea di titoli musicali per miei lavori recensorii. Parto con questo dvd prestato da Max che sa quanto mi piacciano le chitarre cafone. Trattasi di ottusa trasposizione su supporto digitale della prima tournée dei “Guitar 3”: in quell’occasione i tre chitarristi erano Joe Satriani, Steve Vai e Eric Johnson. La regia del concerto (di tal Jerry Bryant) è pedestre, poco aiutata da un lavoro di luci abbastanza casuale. Insomma: tecnicamente il prodotto fa cagare tipo aerosol. E la musica? Joe Satriani, pelato e con occhiali da mosquito, propone tre brani abbastanza melodici, anche se ricchi di svisate e tipici nitriti chitarristici. Divertente. Il timidone e pulitissimo Eric Johnson è il più raffinato del lotto: tre composizioni dove confluiscono jazz, blues e una puntarella di noia. E poi arriva Steve Vai, il supertamarro già protagonista di Mississippi Adventure. E anche qui il funambolo fa il pagliaccio: non metto in dubbio che sappia suonare cose turche e che diteggiare le partiture di Frank Zappa sia faccenda per pochi eletti, ma ascoltandolo sembra di essere a un saggio di chitarrismo ginnico degli anni Ottanta. Tapping frenetico, note iperacute e scale supersoniche su una chitarra a 7 corde, perché con 6 sarebbe troppo facile, ma musica quasi mai. Mah! Così sia: il pubblico, composto unicamente da caucasici nerd segaioli fanatici della sei corde, apprezza. Il Cacace, noto caprone allo strumento, soffre di invidia del pene, sì, ma rimane attonito di fronte a tanta esibita masturbazione. La jam finale vede i tre alle prese con brani storici: qui le canzoni ci sono e le svisate sembrano meno campate per aria. (Dvd; 1 e 2/9/04)

ddv4903483 – Rude Boy di Jack Hazan e David Mingay, Gran Bretagna 1980
Visione dovuta a urgenza professionale: beccatevi tosto il pezzo redatto per i tipi di Rodeo. A seguire ulteriori spigolature degno di cotesto contesto. “Coerente coi tempi, un guerrilla-movie che segue le gesta di Ray, sfaccendato, nichilista, amante della musica. Rude Boy è prodotto di pregio perché fotografa un’epoca e ci restituisce i Clash nel momento di maggiore impatto sonoro e mediatico, in un’Inghilterra scossa dall’esplosione punk, percorsa da sintomi fascisti e dall’insorgenza di quella gran sagoma della Thatcher. Inerti spettatori la già pagliaccesca monarchia e la vecchia sinistra parruccona. Film dalla gestazione travagliata, è per nulla agiografico e documenta la crescita della band, concerto dopo concerto, tra furbizie e ingenuità e grandissima carica agonistica, rossi come il sangue: strumentazione scarna, concerti da mezz’ora e Joe Strummer che si lava la maglietta con la scritta “Brigade rosse” in albergo, in proprio. Il plot è però noioso ed è sporco e sconnesso come le dentature dei primi veri four horseman. Film poco riuscito, ma maestoso proprio nel mettere in scena questo clima fragile, sull’orlo del precipizio, Rude Boy vive della musica straordinaria e i produttori del dvd, consapevoli della menata narrativa, hanno ideato un menu parallelo che permette di vedere soltanto le esibizione musicali, tralasciando il resto. Attenzione perché circola anche un’infame versione full-frame senza gli extra, qui tantissimi e gustosi. Un’ultima avvertenza dalla voce e dalla chitarra di Mick Jones: Stay Free”. Cosa posso aggiungere? Il film è quello che è, del resto Don Letts, i Clash l’avrebbero incontrato solo più tardi, e la band stessa contestò il risultato finale. Essenziale solo per chi ama la musica e la mitologia del quartetto, è un film-verità come se ne facevano un tempo, senza liberatorie, permessi e consensi alla privacy, armandosi di cinepresa a spalla e faccia tosta. Le immagini live sono straordinarie, senza stacchi, con la band sempre ripresa di spalle. Nel disordinato plot emergono alcune tragiche verità politiche ancora attuali (i fascisti che rialzano la testa, la disoccupazione che uccide, l’inutilità del Labour e l’inadeguatezza della sinistra militante) e si presagiscono i germi dell’allora futuro (da questo calderone politico/esistenziale nascerà il capolavoro assoluto London Calling). Comunque immensi Clash. Ah: da ieri Barbara e io aspettiamo un bambino. Se non è un teaser questo, eh? (Dvd; 4/9/04)

ddv4904484 – Caruccio, Below di David Twohy, USA 2002
Dal regista di Pitch Black, un soddisfacente thriller sottomarino parapsicologico, a discreta tenuta stagna. Ottima fotografia, buoni attori (tra cui l’intrigante Olivia Williams) e tensione sostenuta, ma se volete la trama ve l’andate a cercare in Rete, ché ora non ho tempo. Per affittarlo da Blockbusters ho fatto mezz’ora di coda, dopo averne persa un’altra a capire cosa si potesse vedere. Così imparo. A visione ultimata, scanalando pigramente tra i canali televisivi, becco dieci minuti di Anche gli angeli mangiano fagioli, monumentale gangster-spaghetti-movie con Bud Spencer e Giuliano Gemma. Non lo vedevo da 25 anni (primo film visto al parrocchiale di Champoluc, assieme a Pier Paolo e a tutta la fratellanza) e prima o poi me lo scoppio tutto intero, magari col bimbo in arrivo. E comunque ho riso come un fesso. E ne vado fiero, altroché. (Dvd; 6/9/04)

ddv4905485 – Gli occhi del testimone di Anthony Waller, USA 1995 e gli occhi pallati del Cacace
Billie è a Mosca, come truccatrice (muta) sul set di un film horror recitato da attori tremendi (la prima scena vede una morire peggio di Peter Sellers in Hollywood Party). A fine riprese tutti lasciano il set, ma lei ha dimenticato qualcosa. Torna indietro e assiste – non vista – alla realizzazione di uno snuff movie. Ma non può dirlo a nessuno, anche se gli assassini capiscono che c’è qualcuno che sa troppo. Prima mezz’ora da spaghetto vero, poi il film tiene bene e conclude con prevedibili colpi di scena a ripetizione, molto godibili. Da horror puro si trasforma in pastiche (anche con parti di commedia) e funziona meno. Però niente male: film di genere essenziale, ben teso, ricco di ideuzze, carico di letture triple incrociate con omaggi, plagi, citazioni (ce n’è per Carpenter, De Palma e pure Soavi), ammiccamenti e ribaltamenti arguti (che non so bene cosa significhi, ma avevo preso questo preciso appunto). Attori discreti, montaggio intelligente e una certa coerenza formale, anche se cinematograficamente dimostra più dei suoi dieci anni. Poi, complice una Vhs di Pier Paolo, ho visto con gli occhi gonfi come due uova sode le parti hot di Gocce d’acqua su pietre roventi di François Ozon, giovin regista che dopo l’insulso Otto donne e un mistero ho sempre evitato di recuperare. Ma ragazzi, qui si tratta di una pièce di Fassbinder, mica cazzi, e infatti eccovi la splendida ninfetta Ludivine Sagnier che regala dieci minuti d’antologia (o da infarto, dipende). Se una cosa così la becchi su Internet rischi l’arresto per pedofilia, ma questo è Cinema, signori, e Ozon è un Autore, per cui bando alle ciance e godetevi questa ventenne nuda con le grosse tette di marmo e il pelo irsuto, messa così in scena sicuramente per motivi artistici, eh. (Vhs da Retequattro; 8/9/04)

ddv4906486 – E beh, Reservoir Dogs di Quentin Tarantino, USA 1991
Becco Barbara dell’umore giusto e, dopo breve corteggiamento da vero marpione, la gravida cede e accetta di rivedere in versione originale il film che ha lanciato Tarantino. La violenza, i dialoghi, la musica e il montaggio diventano stile: Quentin rimescola tutto in perfetta accezione postmoderna e dà valore a elementi e tecniche che, per definizione (errata), sarebbero propri del cinema di serie B. Succede così che vecchie hit sconosciute (e un po’ zarre) diventino in colonna sonora clamorose perché perfettamente abbinate. Lo smontaggio della trama e il rimontaggio con anticipazioni, misteri e accostamenti incongrui ridefiniscono il concetto di editing e i dialoghi oziosi di tutti i giorni assumono epicità nella loro leggerezza e tremenda importanza: perché Madonna si sente come una vergine, “come se fosse veramente la prima volta”? Rivisto, Le iene, soffre anche di qualche lentezza e non sempre i dialoghi sono eccezionali, ma qui c’è già tutto il geniale regista che verrà e che, per fortuna, non imparerà la sintesi, concedendosi quella magnifica indolenza che rende grande il cinema (e che molti hanno contestato nel secondo episodio di Kill Bill). E al di là di tutto è eccezionale la capacità di Tarantino di dirigere un cast scelto perfettamente. È clamorosa la prova di Tim Roth e struggente il rapporto filiale che instaura col duro dal cuore tenero Harvey Keitel. Non da meno sono Steve Buscemi, Chris Penn e lo schizzato Michael Madsen. Breve, ma molto significativa, la comparsata di Ed Bunker. Purtroppo il dvd in edizione speciale della Cecchi Gori sembra che l’abbia fatto proprio lui con le sue manotte grasse: soffre di un riversamento mediocre (fotografia troppo chiara, definizione non ottimale, qualche scattino); in compenso tantissimi gustosi extra. Affari di famiglia: prima ecografia e il bimbo è un fagiolino di 14 millimetri, e si sente il cuore che batte già. E batte rock, oh yeah. (Dvd; 19/9/04)

ddv4907487 – Splendida, La donna della domenica, di Luigi Comencini, Italia 1975
In una Torino assolata, Mastroianni è il commissario Santamaria, un sornione ispettore romano alle prese con la proverbiale falsità cortese dei gianduia: un viscido geometra è stato ucciso a colpi di un curioso oggetto (un elegante cazzo di pietra) e ci son molti sospettati. Tra di loro la bella e annoiata signora Dosio (Jacqueline Bisset): col poliziotto sarà amore, e con quegli occhi vorrei vedere come no. Tra oziosi dubbi linguistici e intrighi sotterranei, Comencini, assieme ad Age e Scarpelli sceneggiatori, restituisce l’ottimo giallo di Fruttero e Lucentini e lo vena di commedia e sensualità, con feroce ironia nei confronti della dormiente borghesia torinese. La fotografia è ingiudicabile (qui dominata da un verde bottiglia, in full frame), il montaggio nervoso (sgraziato, anni Settanta: non saprei come definirlo, ma è subito individuabile se appena conoscete un po’ di film di quel periodo) e la regia economica e puntuale: la si apprezza soprattutto nell’eccezionale direzione del cast. Grandissime le interpretazioni di Jean-Louis Trintignant, Lina Volonghi, Claudio Gora, Omero Antonutti e Gigi Ballista. La Bisset non viene sfigurata neanche da un’atroce acconciatura e non importa se e quanto sia brava, è splendida e basta. Per gli appassionati delle minutaglie statistiche assolutamente inutili, noto l’incredibile incrocio attoriale con diversi film coevi di Paolo Villaggio. Qui ci sono: Pino Caruso (futuro Ovidio Camorra ne Il belpaese), Mauro Vestri (il dirigente cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli ne Il secondo tragico Fantozzi), Giuseppe Anatrelli (lo storico Calboni dei primi tre Fantozzi), Antonino Faa Di Bruno (patrigno in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno e Duca Conte Semenzara in Fantozzi) e soprattutto l’assoluto Ennio Antonelli (“Zio Antunello”, panettiere in Fantozzi contro tutti, cameriere nella trattoria “Gli incivili” in Fracchia la belva umana e qui nella parte del marmista che esclama: “mi hanno rotto diciotto cazzi!”). (Vhs da La7; 28/9/04)

ddv4908488/489 – The Godfather e The Godfather Part II di Francis Ford Coppola, USA 1972 e 1974
Ah, beh: masterpiece! Nello splendore del Dvd in lingua originale ci dedichiamo alla visione completa del mafia movie per eccellenza, secondo solo alla saga (e che gran saga!) di Concetta Licata. I fatti sono noti e noi, pubblico medio, rimaniamo irretiti dalla logica mafiosa che fa da motore alle vicende: la logica del legame familiare che è al di sopra della legge, il vincolo affettivo o puramente carnale che prevale su tutto. Coppola ci cattura con Michael (Pacino), il classico bravo ragazzo che esce dalla legalità per vendicare il padre e diventa il “buono” per cui tenere, contro mafiosi peggiori o poliziotti corrotti. Ed esattamente come certi protagonisti del film, anche noi perdiamo fiducia in Michael quando la legge degli affari prevale su quella degli affetti, al punto che fa uccidere il genero e il fratello Vito. È troppo e lo è esattamente nella logica mafiosa: i familiari non si toccano! Sublime ambiguità di Coppola che gode nel dipingere questo controverso affresco, ricco di personaggi memorabili, a partire dal carismatico Padrino (Marlon Brando con gote rimpinzate di cotone) fino al fisicissimo Sonny (James Caan). Splendidi anche i personaggi dell’avvocato fedele (Robert Duvall), di Kay moglie incredula (Diane Keaton) o della sorella viscerale e sottomessa (Talia Shire, non ancora Adrianaaaaa). Nel secondo episodio la saga viene approfondita: parallelamente alla scalata al potere di Michael – un potere che divora, annebbia e annichilisce –, Coppola ci fa vedere anche le radici della fortuna dei Corleone (in una sorta di prequel mixato al sequel). Il racconto ha la stessa atmosfera che puoi ritrovare nei capolavori epici di Leone, Bertolucci o Scorsese (giù giù, fino a De Palma). Non ricordo più chi lo avesse definito il “cinema italo-americano”, ma aveva perfettamente ragione. P.s. inutile, ma doveroso, se no finisce che son sempre troppo buono: il mio amato Bob De Niro è sinceramente legnoso e parla un tremendo finto siculo con accento americano. Ma con tutti i soldi spesi, un buon coach non potevate pigliarvelo?! Mah! (Dvd; 5 e 7/10/04)

ddv4909490 – Estenuante, La fuga di Delmer Daves, USA 1947
Una gran bella rottura di coglioni. Intendiamoci: fare un film che per una buona metà è in soggettiva è invenzione coraggiosa e meritevole. Ma il flirt con l’assurdo, tipo Detour (ma senza quel fascino malato) e la risoluzione eufemisticamente statica nonché ancor meno credibile del resto della vicenda, rendono l’esperienza piacevole come un istrice nei boxer. Il titolo cinetico, oltre tutto, è una menzogna perché trattasi di noir raccontato, tipo La squadra di RaiTre: azione poca e interpreti scultorei. In montaggio c’era l’abitudine di movimentare insertando primissimi piani assolutamente non in continuità, ma la pratica, al posto di dare vivacità, è oggi grottesca. Cacchio: per una volta che ho convinto Barbara a vedere un glorioso black and white di Fuori Orario, è uno smacco orrendo che pagherò caro. Humphrey Bogart è un capacchione enorme su corpo segaligno e non si capisce quale fascino potesse emanare, sia nella vita che nella finzione: fatto sta che Laureen Bacall si innamora di questo acromegalico addirittura prima di vederlo (e sapete perché? Perché era finito in carcere ingiustamente come suo padre… ma dove siamo? All’asilo?). Del resto lui è stato incastrato da una megera che gode a far del male al prossimo… così, alla cazzo. I critici seri vi diranno che film come questi restituiscono l’angoscia e l’indeterminatezza del primissimo dopoguerra, del crollo delle certezze e – siccome il protagonista è bendato dopo una plastica facciale – anche della mancanza d’identità. Però, credetemi, è un film storto come Cuccia e se faceva impressione vederlo in sala nel 1947, perché totalmente squinternato, oggi fa solo prudere le mani. La Bacall era molto elegante e non da meno gli interni art decò o gli esterni della solatìa San Francisco. Ma per queste cose c’è anche la rivista Architectural Digest, vi assicuro, ed è troppo poco per farmi appassionare a un film che gode di storica e immeritata fama, dovuta all’entusiasmo cinefilo di critici che mai rivedono i propri giudizi (e soprattutto i film). (Vhs da RaiTre; 6/10/04)

ddv4910491 – Bello!, Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, Italia 2004
Finalmente riesco ad andare al cinema. E son contento, perché Lavorare con lentezza è un buon film che prende il Mito (Radio Alice) e ci costruisce intorno, lavorando ai fianchi, con intelligenza, humour e profondità, parlandoci degli anni Venti, del ’77 e del 2001, con Lo Russo morto come Carlo Giuliani, per prepotenza connaturata allo Stato. Belle facce, ottimo montaggio, musiche scelte benissimo (a parte gli Afterhours che – scusate – fanno ridicolo scempio degli Area. Sono già in parentesi aperta per cui proseguo: ma gli Afterhours… quale melodia, verso, assolo o arrangiamento ci lasceranno quando smetteranno di suonare e il Mucchio Selvaggio di sponsorizzarli? Io ci ho provato, con i dischi, più volte, ma proprio non capisco, non ci arrivo. Per me sono come le regole del baseball: incomprensibili). Film felicemente contraddittorio, veloce e poi lento, in magnifica armonia, con protagoniste tutte le anime (bianche e nere) degli anni Settanta, mai didascalico, mai agiografico, mai ideologico. Ma con le idee ben chiare: no ai capetti e ai professori, sì alla leggerezza e alla libido organizzata. A tratti divertito, in altri momenti tragico, Lavorare con lentezza mescola la Storia con le storie (come insegnano i Wu Ming, qui co-sceneggiatori) e l’alto con il basso, ma senza alcuna spocchia critica. Si sente il piacere di narrare, perché la vita è così, non è una sega intellettuale e può capitare che vicino a Bifo ci sia Pippo Santanastaso. E del resto, dei due protagonisti, Sgualo fa l’urlo di Chen mentre Pelo sente i Led Zeppelin. Purtroppo eravamo in pochi, in sala. (Cinema Ducale, Milano; 11/10/04)

ddv4911492 – L’epocale Dont Look Back di D.A. Pennebaker, USA 1967 e, già che ci siamo, Sono incinta di Fabiana Sargentini
“Hai 24 anni e sei in tour in Gran Bretagna, con la certezza che tutto quello che ti circonda è vecchio e non ti può capire. Sei solo con pochi amici e un manager, Grossman, dalla faccia bonaria e dai modi prepotenti, che sa pretendere i tuoi soldi. E c’è pure Joan Baez che ti accompagna, fedele come un usignolo; c’è Donovan che prova a piacerti (e non ci riesce); ci sono i fan che ti chiedono The Times They Are A-Changin’ e storcono il naso di fronte alle canzoni più recenti, troppo visionarie e già impregnate di profumo d’erba. E il pubblico che ti ascolta mai potrebbe tollerare il fatto che presto proverai altro. E che non ti consideri un attivista politico e le tue canzoni non portano alcun messaggio. Non vuoi essere considerato un musicista folk, tanto meno pop e dirti “rock” è ancora troppo presto. Ma non importa: a chi interessano le definizioni, se non ai critici? Tu sei già superiore, già cinico, già oltre. Il documentarista Pennebaker segue Bob Dylan nella sua tournée britannica del 1965 e ci regala un incredibile ritratto dell’artista da giovane, fatto con una sola cinepresa e tanto cervello. Incontri, scontri, blues improvvisati, fumo denso, una macchina da scrivere, Ginsberg sullo sfondo: più parlato che musicale, è un film lontanissimo dall’odierna grammatica del rockumentary, ma che dice molto, molto di più. In un B&N coloratissimo, Dont Look Back è difficile, ma remunerativo. Ottimi gli extra, ma mancano i sottotitoli: si astengano i non anglomuniti”. Poche aggiunte alla recensione per Rodeo: Pennebaker inventa con questo film un nuovo atteggiamento produttivo. La troupe è ridotta a due persone indipendenti (l’audio è sincronizzato con una maneggevole e leggerissima cinepresa a 16mm, ma senza cavi a legare i movimenti) e il regista si mescola agli artisti fino a diventare invisibile, la classica fly on the wall, che respira l’odore del mito mentre si va facendo. Del giovane Dylan tabagista senti tutta la puzza, l’insicurezza e la sublime tracotanza, come quando tritura con un flusso di coscienza inarrestabile lo sprovveduto (e fuori dal tempo) Horace Judson, giornalista di Time, dicendogli che lui sa cantare bene come Caruso. Ed è vero. In testa alla pellicola c’è la famosa sequenza di Subterranean Homesick Blues, con Bob che sfoglia i cartelli con le parole chiave della canzone mentre Allen Ginsberg parlotta sullo sfondo. Distribuito nel circuito pornografico di San Francisco, arrivò poi nelle sale mainstream, col suo titolo programmaticamente sbagliato (Dont al posto di Don’t). Bello, decisamente. Aggiungo che in serata ho visto – sentendomi tirato in causa – anche Sono incinta di Fabiana Sargentini (Italia 2004, visto in diretta su RaiTre), documentario intelligente e gradevole: 69 uomini raccontano la loro reazione alle fatidiche parole pronunciate dalla partner come da titolo. Si va dallo stordimento ottuso alla fuga codarda, sino alla gioia più solare: nessun giudizio, nessuna visione preconcetta, ma una comprensiva e calorosa visione “femminile”. Non so chi tu sia, ma brava Fabiana! (Dvd; 21/10/04)

ddv4912493 – The Godfather Part III di Francis Ford Coppola, USA 1990
Terza parte, realizzata a distanza di 16 anni dalla seconda. La finezza psicologica, la costruzione per piccole addizioni, la visione d’insieme del grande affresco, sono però qui perse, in un roboante racconto molto eighties. Michael cerca una nuova rispettabilità: ha mollato tutti gli affari sporchi ma viene immancabilmente risucchiato nel gorgo delle vendette incrociate e stavolta è molto più vulnerabile, con una figlia (Sofia Coppola, paffutissima) che non vuole credere a quello che sa di lui e un figlio che preferisce cantare piuttosto che immischiarsi negli affari di famiglia. C’è poi il nipote birichino e incestuoso: Vinnie (Andy Garcia), irruento come il padre Sonny. Il film è godibilissimo, ma Coppola va dritto al cash e la tragedia gli prende la mano, in un crescendo inarrestabile: quando arrivano un simil Marcinkus, un simil Andreotti e un simil Gelli, assieme a un vero Papa Luciani, immancabilmente buono e avvelenato, beh, il terzo atto diventa un ricamino sul tessuto della leggenda. Peccato. Peccato che ci sia un cannolo assassino e un finale sulle arie della Cavalleria rusticana dove ogni luogo comune sulla mafia e sulla tragedia operistica procedono a braccetto, con colpo in mezzo al cuore della figlia del boss. Peccato per quel finto Calvi appeso sotto un ponte a Londra, apoteosi del kitsch. Peccato che il sosia di Andreotti venga ammazzato dicendogli (sublime vaccata!) “il potere logora chi non ce l’ha”. E peccato che tutto ciò sia avvenuto solo nella finzione. Ad ogni buon conto ci sarebbe materiale per ulteriori sviluppi: Vinnie è il logico futuro Padrino e chissà che… Nel frattempo, come attore, Garcia è pressoché scomparso e lo si sente quando sbraita contro la Cuba castrista, mentre la Coppola è invece diventata regista, immagino dovendo lottare contro i tantissimi pregiudizi e le malevole accuse di essere una figlia di papà. Ma perché, dài! (Dvd; 24/10/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 49)

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