Brescia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Questi sono tempi di smascheramenti. Intervista a Valeria Raimondi, infermiera e poetessa in servizio a Brescia https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/questi-sono-tempi-di-smascheramenti-intervista-a-valeria-raimondi-infermiera-e-poeta-in-servizio-a-brescia/ Tue, 14 Apr 2020 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59428 di Pina Piccolo

Nel contesto del primo mese di quarantena per il coronavirus in Italia, ho spesso pensato a chi è direttamente coinvolto nella cura di chi contrae o può aver contratto il contagio. Tra gli amici che fanno parte del personale sanitario mi è spesso venuto in mente la mia amica poeta e curatrice (in diversi sensi) Valeria Raimondi, della quale ho sempre stimato il senso critico e le capacità organizzative oltre che di scrittura. A giugno del 2019 infatti, sotto la sua curatela, è uscito per Pietre Vive ed. “La [...]]]> di Pina Piccolo

Nel contesto del primo mese di quarantena per il coronavirus in Italia, ho spesso pensato a chi è direttamente coinvolto nella cura di chi contrae o può aver contratto il contagio. Tra gli amici che fanno parte del personale sanitario mi è spesso venuto in mente la mia amica poeta e curatrice (in diversi sensi) Valeria Raimondi, della quale ho sempre stimato il senso critico e le capacità organizzative oltre che di scrittura. A giugno del 2019 infatti, sotto la sua curatela, è uscito per Pietre Vive ed. “La nostra classe sepolta, cronache poetiche dai mondi del lavoro”, progetto che raccoglie poesie di una trentina di lavoratori e lavoratrici distribuiti su tutto il territorio nazionale; progetto presentato, sotto molte forme, in differenti realtà politiche, associative e culturali di molte città italiane. Questa è l’intervista che Valeria ha rilasciato per il programma radio AfroBeat a cura di Wuyi Jacobs, mandata in onda dalla stazione storica di sinistra WBAI di New York l’otto aprile 2020.

Grazie Valeria per aver ritagliato il tempo per questa intervista in questo periodo di intenso lavoro che ti vede direttamente coinvolta ad affrontare l’epidemia come parte del personale sanitario di Brescia.  Presentati per il pubblico e facci un breve quadro delle diverse fasi che tu, le tue colleghe e colleghi avete attraversato dalla fine di febbraio ad ora, in una delle città che costituiscono l’epicentro dell’epidemia.

Mi presento. Vivo a Brescia, una città della regione Lombardia, nel Nord dell’Italia.
Svolgo la professione di infermiera da circa quarant’ anni.
Nella mia quotidiana occupazione, da fine febbraio vivo questa emergenza prestando servizio presso un’Azienda Sociosanitaria che comprende alcuni ospedali situati nell’epicentro dell’infezione.
L’emergenza ha riguardato via via le province di Lodi, Cremona, Bergamo e Brescia. Queste ultime due, confinanti, sono tuttora le provincie che contano il maggior numero di contagiati e morti. Da fine febbraio ad oggi nei luoghi di lavoro tutto è cambiato.
L’evoluzione è stata rapida, anche perché non c’è mai stato un vero piano pandemico.
Negli ospedali si sono susseguite le prime fasi di distanziamento, sono stati introdotti i primi DPI (dei quali poi parlerò) e sono state date le prime convulse risposte alle ordinanze di Governo e Regione Lombardia con chiusure, riaperture e di nuovo chiusure di molti Servizi.
Nel frattempo, sono iniziate le riorganizzazioni dei reparti, ma non viene deciso, per esempio, che i Pronti Soccorsi non possano accogliere, mescolati ad altre tipologie, pazienti con sintomi influenzali o segni di polmonite, e forse questa è stata una miccia buona per innescare la diffusione.
Non viene mai neppure decretata alcuna “zona rossa” che possa contenere e regolare il contagio, come hanno denunciato giustamente alcuni Sindaci. La gravità della situazione diviene via via più evidente e così si saturano Pronti Soccorsi e relative OBI (Osservazione Breve Intensiva) oltre che per le normali attività, per i numerosi accessi di pazienti sintomatici in attesa di ricovero o di isolamento. Alcuni, sempre più numerosi, finiscono nelle Rianimazioni, dove gli operatori e le macchine respiratorie sono già ridotte, visti i tagli di spesa sanitaria pubblica che hanno preceduto questa nuova emergenza.

Descrivici il tuo luogo di lavoro nelle strutture sanitarie di Brescia. Come sono cambiate le cose rispetto alla tua consueta routine di lavoro?

Le cose sono cambiate principalmente sotto due aspetti: l’organizzazione del lavoro e la costante incertezza conseguente all’emergenza.  Una tale situazione pare aver colto impreparati i nostri ospedali che di giorno in giorno hanno modificato procedure e protocolli sulla base delle scelte di Regione Lombardia, scelte spesso neppure uniformi rispetto ai decreti ministeriali e non omogenee rispetto alle altre Regioni (naturalmente ciò che accade dentro gli ospedali rispecchia la confusione di ciò che accade anche fuori). Come si può comprendere, salta la programmazione dei turni lavorativi che da mensile o settimanale diventa giornaliera. Saltano i giorni di riposo e dai primi giorni di marzo anche le ferie del personale vengono bloccate. Le ore straordinarie aumentano oltre l’ordinario.

Dalla mia posizione osservo cambiamenti anche nella attività routinaria, poiché i pazienti affetti da patologie oncologiche, croniche, cardiache, con traumi o emergenze chirurgiche, ancora necessitano di assistenza! La dialisi o le riabilitazioni o le cure salvavita non possono cessare. Ma anche per questa utenza, sia a causa della paura che dei disagi, diventa più critico e rischioso accedere. Tutti gli operatori si rendono conto di altri risvolti: le donne che devono partorire non avranno accanto il compagno perché dalla seconda metà del mese di marzo l’accesso non è più permesso a parenti e neppure agli accompagnatori. Lo stesso accade per i pazienti oncologici. Esiste poi la preoccupazione dei parenti che non possono fare visita ai loro congiunti poiché le visite sono state sospese per tutti i ricoverati. Per chi lavora nel primo soccorso, nelle Terapie intensive o nelle Rianimazioni la situazione è drammatica, le ore giornaliere lievitano, la fatica è tanta, si accumula un senso di impotenza, una grande pressione psicologica e anche tanta rabbia (l’idea che l’”eroismo” possa anche fare a meno del martirio!). Per alcune ragioni, che vedremo, il personale realmente operativo è sempre meno, si ammala o si infetta.

Potresti parlarci della situazione del personale sanitario in generale nella regione? Avete in dotazione apparati di protezione adeguati e in numero sufficiente? Come si spiega la morte di oltre cento tra medici, infermieri e altri operatori in campo sanitario?  

La storia della Sanità della regione Lombardia è piuttosto conosciuta, meno lo è quella dei lavoratori: lo smantellamento della sanità pubblica a favore di quella privata, con l’impoverimento della prima, ha significato minor tutele per tutti, differenze di trattamento economico e di stipendi a parità di funzioni e profili professionali, riduzione di posti letto ma carichi sempre maggiori di lavoro, accumulo di ore straordinarie per lo più non pagate, blocco del rinnovo dei contratti del pubblico impiego, blocco delle assunzioni o assunzioni temporanee (che neppure oggi diventano definitive mentre si reclutano medici pensionati), convenzioni tra pubblico e privato che hanno messo a repentaglio posti di lavoro, con tagli di servizi e di personale. All’interno di questo quadro già compromesso si deve ora affrontare una nuova realtà: neppure la salute e la sicurezza nei posti di lavoro può essere assicurata.

Con la legge 81 del 2008 si era definito il concetto di prevenzione e protezione e, distinguendo le tipologie di rischio, si era proceduto a dotare di specifici Dispositivi di Protezione Individuale i diversi operatori. Ma evidentemente è mancata un po’ di lungimiranza: non si è pensato di rifornire gli ospedali di sufficienti e soprattutto adeguati dispositivi. Il problema dei DPI è stato il primo a presentarsi, sia in termini di carenza che di inadeguatezza. La carenza ha riguardato da subito, quantomeno in questa regione, le mascherine. La dotazione poteva coprire le situazioni normali forse, ma non quelle straordinarie. Il vero problema è che non è mai stato redatto un protocollo unico di intervento. Si comprende immediatamente che scarseggiano le mascherine di classe superiore, ffp2 e ffp3, che inizialmente vengono definite come corrette per assistenza in presenza di infezioni virali epidemiche. Ma ecco che le istruzioni operative del Ministero della Salute e del Welfare della Regione Lombardia di giorno in giorno decadono, cambiano, si complicano.

Le misure di distanziamento definiscono un metro come sufficiente per non avere contatto diretto e così decade l’indicazione dei dispositivi avanzati (anche nelle stanze di isolamento con pazienti positivi e malati talvolta) e resta consentita solo durante particolari manovre, nelle Rianimazioni. Ma le manovre a rischio sono molte e le distanze nei processi di assistenza non sempre sono possibili! Devo dire che da qualche giorno nuovi protocolli contemplano il “possibile” uso di mascherine avanzate in assistenza a pazienti positivi. Si osserva spesso una cosa paradossale: un operatore con mascherina chirurgica che esegue prestazione ad un paziente che indossa una mascherina modello ffp3 mentre dovrebbe essere il contrario. Questa a mio avviso una delle prime cause di una massiccia diffusione del virus tra gli operatori sanitari. Di conseguenza si manifesta il problema “tamponi” come test privilegiato per diagnosticare l’infezione. Un’altra direttiva di poche settimane fa stabilisce che questi tamponi, d’ora in poi non vengano più eseguiti agli operatori che hanno assistito o avuto contatto diretto con pazienti ammalati (o trovati positivi a CoVid-19) ma solo a chi presenta sintomi. Intanto tamponi e quarantena continuano a essere garantiti, se non erro, agli sportivi, ai politici e a quanti sono privilegiati da sempre.

Dalla scorsa settimana, dopo le proteste dei lavoratori e sindacati in alcune Aziende si applica un unico provvedimento: viene rilevata (o chiesto di autocontrollarsi!) ai soli dipendenti, la temperatura corporea, che sotto i 37,5 gradi viene definita accettabile e la persona considerata “asintomatica”. E questa oggi è la prevenzione. Così cresce in modo esponenziale il numero di sanitari che si ammalano e purtroppo qualcuno di loro muore. I luoghi in cui si doveva curare sono diventati luoghi del contagio per pazienti e lavoratori.

Potresti parlarci dei tagli alla sanità pubblica, il rapporto tra il pubblico e il privato in ambito sanitario e quali sono stati gli effetti dei governi di destra che si sono susseguiti negli anni?  Abbiamo assistito a processi simili anche nelle altre regioni?

Certamente Regione Lombardia, come altre regioni del nord Italia, ha una grande responsabilità nello smantellamento del welfare sanitario, grazie alle gestioni dei partiti di centrodestra dei quali Formigoni è stato regista sin dal 1997.  Allora, grazie alla legge che aveva come principio ispiratore la “sussidiarietà solidale” allo scopo di uniformare l’offerta sanitaria ossia di realizzare la tanto desiderata autonomia, i privati entrarono prepotentemente nel Servizio Sanitario Regionale, supportati e foraggiati dal pubblico, riservando per sé i settori più remunerativi dell’assistenza. Si assicurarono così minimi costi e impegni per massimi profitti.

I privati si prendono, per esempio, le Residenze Socio-Assistenziali o le Riabilitazioni, lasciando al pubblico la gestione di settori meno redditizi quali i servizi di pronto soccorso, alcune costose specialità, la psichiatria. Dentro questa gara il pubblico si vedrà tagliare migliaia di posti letto con un continuo impoverimento sia in risorse materiali che umane. Vengono ridotti anche i controlli regionali sulle strutture accreditate, molti servizi vengono esternalizzati, si rende libera l’intramoenia, ossia l’esercizio della libera professione dei medici dipendenti delle strutture pubbliche (che diventa il modo più semplice per ovviare, per chi può pagare, alle liste d’attesa che si allungano proprio sotto la gestione Formigoni). Contemporaneamente si ha l’occupazione dei posti strategici nella macchina sanitaria regionale da parte di uomini adatti e fedeli.

Queste scelte di autonomia hanno anche un retroterra ideologico che si è manifestato nella distruzione della rete dei consultori pubblici e che si concretizza anche in altri settori (ne è un esempio il massiccio finanziamento alle famiglie che scelgono le scuole private). Le gestioni regionali d’altra parte hanno potuto contare sulla libertà di azione consentita da gran parte del centrosinistra, sotto forma di compartecipazione al potere attraverso accordi e concessioni di convenzioni. Ora come ora l’emergenza Coronavirus non è certo redditizia per i centri privati: convertire una clinica in cui si fanno costose operazioni o si fanno pagare, per una camera, prezzi esorbitanti, non conviene. Da qui anche il problema del minor controllo su situazioni, dati, sicurezza del personale perché meno controllo pubblico, si sa, significa poter insabbiare molte più cose. Ora sappiamo che i focolai nascosti nelle strutture private sono stati un veicolo di contagio, così come alcune residenze per anziani.

Qualcuno si chiede se esista ancora il Servizio sanitario nazionale. Pare che in questa situazione ogni Regione decida da sola anche se trasferire o meno del personale sanitario in zone particolarmente esposte. Forse era importante che almeno le regioni Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte costruissero una politica comune e forse il Governo avrebbe potuto e dovuto vigilare che queste autonomie gestionali non diventassero un ostacolo alla cura dei pazienti.

Come sono cambiate le cose a Brescia, nella città e nella provincia nel loro insieme?

Nella nostra città e nella nostra provincia tutto è cambiato radicalmente, come in quasi tutto il paese, anche se chi vive lontano dal contagio percepisce più un senso indefinito di paura cui non crede fino in fondo che un senso di responsabilità. La socialità è completamente venuta meno e dirottata sui social, si lavora e si studia da casa (con tutte le implicazioni che poi cercherò di analizzare) e anche fare la spesa o raggiungere la farmacia diventa un problema soprattutto per i soggetti più fragili o meno consapevoli. Oltretutto le misure di contenimento derivanti dai provvedimenti di limitazione delle uscite, in continuo aggiornamento, non sono sempre di facile e chiara interpretazione. Ma quello che vorrei sottolineare, rispetto agli operatori sanitari o appartenenti a categorie a rischio per contatti giornalieri intensi, è come siano stati lasciati soli a gestire il proprio autoisolamento all’interno delle famiglie (sempre perché i controlli sono negati nonostante le costanti richieste di lavoratori e Sindacati).

Inoltre, la produzione di beni (anche non essenziali!) non è mai cessata nel bresciano o nel bergamasco. I diktat di Confindustria e le sue pressioni sui Governi, piuttosto sensibili alle esigenze del profitto, hanno allargato le maglie delle attività ritenute essenziali. Così gli operai continuano a recarsi in fabbrica e chi viene separato nei reparti (dove i DPI sono insufficienti e riciclati per giorni) si ritrova poi assembrato negli spogliatoi o nelle mense: ovviamente queste persone la sera rientrano in famiglia diventando così veicolo di infezione. Sono cambiate molte cose soprattutto per i nostri anziani che si vedono iperprotetti dalle misure di contenimento, ma poco coinvolti e molto esposti quando si bloccano i ricoveri, oppure costretti a rinunciare alle consuete abitudini, a non uscire all’aperto, a non ricevere visite, ma a vivere comunque nella stessa casa dei lavoratori e dei potenziali vettori di infezione.

Offrici uno squarcio sulla tua vita quotidiana durante questa quarantena. Abbiamo visto le immagini dei convogli militari che portano via le bare per la cremazione in altre città visto che non c’era più posto nel crematorio di Bergamo.  Qual è stato l’impatto di questa morte diffusa e brutale sulla popolazione locale e nazionale?

Le giornate si susseguono uguali e lentissime, tutto è come sospeso. I paesi sono deserti, le code per la spesa alimentare e la farmacia sono le uniche uscite consentite insieme a quelle per recarsi nei luoghi di lavoro. Ma vorrei qui fare un altro tipo di riflessione. Personalmente, come molti credo, vivo una dimensione che conosco: quella dei periodi di totale sospensione durante le lunghe malattie delle persone care. Le energie sono tutte lì (e sono sorprendentemente richiamate e riscoperte), si sta dentro la situazione, non se ne può stare lontani, si tentano cure, si allevia ciò che si può alleviare, si sogna la guarigione, ci si fa forza. Ma ora manca il sostegno esterno delle relazioni, si vive l’angoscia in solitudine, con pochissime distrazioni, senza respiro, senza l’aiuto della presenza ferma e rassicurante di ciò che la natura intorno, gratuitamente sempre regala.
Credo che la paura sia un’emozione legata al pericolo, mentre l’ansia, l’angoscia, altri sentimenti comuni e attuali, derivino dal senso di impotenza di fronte agli errori, alle contraddizioni e alle lacune di questo sistema ritenuto un “modello”, ma che, al contrario, mette ulteriormente in pericolo. Dell’angoscia si nutre la rabbia, rabbia per qualcosa di profondamente ingiusto come le scelte scellerate del passato o come l’informazione manipolata di sempre.
Chi perde o ha perduto qualcuno è costretto a vivere un surplus di dolore non rielaborabile, un dolore senza dolcezza, “che dura”: spesso le condizioni di chi ha contratto il virus peggiorano improvvisamente e allora il ricovero è tardivo, ci si saluta ed è possibile non ci si veda più. Viene restituita… una bara che verrà portata a chilometri di distanza e qualcuno dovrà attendere giorni e mesi perché la procedura di cremazione possa essere eseguita e si possa finalmente… piangere.

Potresti raccontarci quali sono le tue preoccupazioni nei confronti delle misure di contenimento, il distanziamento sociale, la salute mentale e tutte le altre implicazioni politiche e sociali che ne derivano?

Personalmente rifletto anche sulle possibili implicazioni o emergenze che deriveranno da questa situazione. La cosa più grave ritengo sia non aver testato la popolazione a rischio di contagio, ossia non aver immediatamente e sistematicamente separato di volta in volta i casi positivi da quelli negativi. Le ricadute a pioggia sono state: sovraffollamento dei Pronti Soccorsi prima e delle Terapie Intensive poi (con conseguente tentativo di dissuadere dal ricovero i sintomatici lievi, le cui condizioni però sono precipitate rapidamente); abbandono del territorio per scarsa disponibilità dei medici curanti a valutare e visitare a domicilio, anche in mancanza di un vero piano di intervento (medici costretti dentro questo sistema, a definirsi negli anni più come impiegati che come clinici); abbandono del territorio per trasferimento di personale da lì ai reparti di isolamento (ridurre del 70-80 per cento le forze in campo nell’assistenza domiciliare, con pazienti mai diagnosticati o non in grado di seguire correttamente l’isolamento, ha significato lutti devastanti per molte famiglie); ricoveri tardivi di anziani, isolati nei reparti e nelle terapie intensive costretti a vivere gli ultimi momenti della vita senza la presenza di un parente con cui condividere paura e dolore, ma anche ricordi e affetto.

Ritengo che essere stati costretti a vivere il processo e percorso di fine-vita in questa maniera brutale lascerà gravi ripercussioni psicologiche personali e purtroppo, collettive. Vorrei aggiungere che le politiche di limitazione alle possibilità di uscite e spostamenti, certamente necessarie in linea generale, non gioveranno certo alle future dinamiche familiari, soprattutto laddove queste erano già compromessa da relazioni di potere (di uomini sulle compagne o di adulti su minori). Non gioveranno neppure a chi soffre di ansia o depressione; si notano, per fare un altro esempio, gli aumenti spropositati di consumo di alcoolici e la chiusura dei centri di “automutuoaiuto”.

Questi sono alcuni degli aspetti minori che non ho mai smesso di considerare con preoccupazione e angoscia dall’inizio di questa storia “sbagliata”. Penso anche al ricorso allo Smart Working, molto più diffuso, ovviamente, tra le lavoratrici che tra i lavoratori: ci si dovrà augurare non diventi, nel futuro, una modalità alternativa o addirittura sostenuta nelle politiche del lavoro (questo rischio è presente come lo è nella scuola a distanza!). Queste solo alcune delle possibili ripercussioni sulla socialità, sui sistemi educativi e sulle relazioni sociali. Ma anche molti altri equilibri salteranno. Per questo dico che oltre l’emergenza sanitaria ed economica forse doveva essere considerata e affrontata da subito l’emergenza sociale.

Cosa pensi si possa fare ora, non solo per per correggere gli errori, ma per fare in modo che nessuno venga lasciato indietro, specialmente in un momento in cui il governo invoca come immagine del paese la locuzione “siamo tutti nella stessa barca” mentre a livello di lessico promuove metafore belliche piuttosto che termini legati alla salute pubblica?  

Questa risposta si lega in qualche modo alle riflessioni precedenti. L’utilizzo di un gergo diffuso di tipo militare, “di guerra”, rivela la volontà di convincerci a riconoscere una causa o un nemico esterno a questi accadimenti. Ciò è chiaramente funzionale allo scaricare colpe piuttosto che a prendersi responsabilità del fallimento e dei danni di cui è responsabile questo sistema che si comincia a manifestare come “criminale”, grazie anche all’idea di autonomia regionale che sopravvive da decenni in una destra prima secessionista e federalista, ora sovranista e fascista, o in una certa parte di sinistra, complice. Vorrei anche aggiungere, a proposito di autonomie, che in questa regione, tra le più inquinate d’Europa, siamo stati particolarmente esposti a veleni ambientali e che nella pianura Padana è presente un certo tipo di desertificazione e un consumo spropositato di territorio, a causa di scelte scellerate da parte di tante parti politiche. Credo che non sia di poca importanza, insieme alla industrializzazione intensiva, nella genesi della diffusione,

Direi che questi, a voler bene leggere i fatti, sono tempi di “smascheramenti”!
In guerra, forse pare di essere tutti uguali, tutti sulla stessa barca. Ora non è così
In questi tempi di emergenza, affrontata con queste responsabilità, le ingiustizie sociali si acuiscono. Chi non può farsi curare, chi non ha soldi per una badante, chi non ha spazi adeguati in casa, chi ha un lavoro precario, chi è solo, avrà danni maggiori. Nessuno è uguale oggi, nessuno lo sarà domani.

Il tema della guerra è anche collegato fortemente al tema della sicurezza e della difesa.
Ecco che il senso di responsabilità sia personale che collettivo, che nessun cittadino nega rispetto alle misure di contenimento (ossia il restare tutti a casa), potrebbe diventare un alibi per scaricare ogni responsabilità di fallimento o di successo sui cittadini stessi, i quali dovrebbero essere chiamati a scegliere la vita o la sicurezza (la sicurezza verrà garantita al confine dei comuni e regioni da controlli, oltre che da parte delle forze dell’ordine, anche da quelle dell’Esercito, con alcuni bravi cittadini collaboranti).

Concluderei così.
Dover scegliere tra vita e libertà è un falso.
Perché i due concetti, sia nel pensiero che nel concreto, dipendono da un’analisi dell’attualità costruita su un passato che non ha ragionato e neppure custodito le due cose.
Io penso che le elaborazioni di lutti, di perdite, ma anche di cambiamenti, si costruiscano “oggi”, si facciano “dentro l’emergenza” e non “dopo”.
Si fanno con un pensiero critico e collettivo.
Ossia, dal modo di affrontare un’emergenza dipende la ricostruzione del dopo.
L’errore peggiore è pensarla, e dunque affrontarla, a compartimenti stagni.
Dobbiamo fare attenzione: l’emergenza affrontata senza un pensiero critico, sarà anche emergenza politica, sociale e psichiatrica.

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Economia e crimini di guerra: il capitale getta la maschera https://www.carmillaonline.com/2020/04/09/economia-e-crimini-di-guerra-il-capitale-getta-la-maschera/ Thu, 09 Apr 2020 18:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59320 di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue. In tutti i sensi. In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e [...]]]> di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.

Nonostante il fatto che i politici, gli economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.

Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»1

Nel suo libro l’autore indica infatti una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali, affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.

Si puntualizzano specifiche responsabilità politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.

Sono di per sé tutte affermazioni e supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli costitutivi.

Come sanno gli appassionati di puzzle è invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre procedere dal generale al particolare e non viceversa per giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano, o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di classe.

Ecco allora che si rende necessaria una prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.

Ogni crisi può rappresentare un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.

Accanto a ciò si sta già scatenando un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie sociali più deboli e ricattabili.

Assisteremo nel più breve lasso di tempo ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative, ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più presto (qui).

Dopo aver versato lacrime di coccodrillo sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati. Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo. Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha voluto veramente dichiarare.

Confindustria ha in mano le redini della partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.

“Ora è costretto ad ammetterlo anche l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane, aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5

Mentre Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le polemiche le facciamo alla fine».6

Sfacciataggine? Dissennatezza? No, soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.

Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22 marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei tempi stabiliti.

Ecco allora che l’autentico bombardamento di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.

Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.

Sono le imprese della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della produzione, dei consumi e del profitto.

Sia ben chiaro, anche per il nostro avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal 2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività perduta.

In un paese in cui mai nessun tipo di calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra mondiale in poi (qui), e dove l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.

Insomma, mentre gran parte dell’attenzione dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte, altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo iper-sfruttamento.

Ancora una volta saranno le fabbriche e i luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.

Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.

Per questo non possiamo ripetere gli stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro unico vero nemico, il capitale.

Proprio perché, come scriveva Friedrich Engels nel 1844-45:

”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.”9

Il capitale ha dichiarato e iniziato la sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.


  1. Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020  

  2. Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo  

  3. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”, Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  4. Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale guidata da Vincenzo Boccia (qui)  

  5. Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco, Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020  

  6. M. Franchi, cit.  

  7. Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020  

  8. Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7 aprile 2020  

  9. K.Marx—F.Engels, La sacra famiglia, cap.IV, Nota marginale critica  

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Sull’epidemia delle emergenze / fase 4: pandemia, crisi, clima e guerra https://www.carmillaonline.com/2020/03/24/sullepidemia-delle-emergenze-fase-4-pandemia-crisi-clima-e-guerra/ Mon, 23 Mar 2020 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58907 di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

“ We can do it together” (Boris Johnson)

“ Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)

“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva. La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)

“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)

“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.” (The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)

“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)

“E’ la guerra. Tutto è più [...]]]> di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

“ We can do it together” (Boris Johnson)

“ Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)

“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva.
La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)

“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)

“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.”
(The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)

“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)

“E’ la guerra. Tutto è più immediato” (Perfidia – James Ellroy)

Per una volta iniziamo la nostra cronaca da oltre frontiera. Prendendoci, oltretutto, la libertà di modificare parzialmente i nomi dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Quello che salta subito agi occhi ovunque, dalla Francia agli Stati Uniti passando per l’Australia, è che per i governi e i media la preoccupazione più importante fino ad ora è stata quella di salvaguardare economia, produzione e profitti.

Come al solito gli americani sono i più pragmatici ed espliciti, motivo per cui il Wall Street Journal può tranquillamente ratificare, nell’editoriale redazionale del 20 marzo, che nessuna società può salvaguardare a lungo la salute pubblica al costo di minare quella economica. Chiaro abbastanza no? Ma se l’organo per eccellenza del capitalismo e della finanza americana lo afferma con chiarezza, anche qui da noi non sono mancate le spinte in tale direzione. L’abbiamo misurato con l’enorme ritardo con cui il governo degli ominicchi e degli abbracci è giunto a decretare una chiusura vaga e fumosa che lascia non pochi dubbi sulla sua reale entità, evitata a ogni costo fino all’ultimo momento e poi, una volta varata, posticipata per dare una nuova mano agli squali di Confindustria.

Uno degli aspetti più evidenti è dato dal fatto che la richiesta ufficiale per giungere a tali chiusure non è mai pervenuta dalle associazioni imprenditoriali o da almeno una delle forze di governo, ma principalmente dalle associazioni dei medici che operano sui territori maggiormente colpiti dal virus (qui e qui) e dai sindaci delle province di Bergamo e Brescia (qui), con il secondo che non ha esitato a puntare il dito sulle associazioni degli imprenditori e le loro responsabilità, a livello centrale e regionale, nel ritardare il più possibile la chiusura delle fabbriche.

«Se fossimo partiti tutti prima, il contagio quanto meno sarebbe stato più diluito. Qui è arrivato da Lodi, da Cremona. Come a Bergamo – rileva – si tratta di una zona molto industriale, molto commerciale, dove la gente si sposta rapidamente. Noi, come dodici sindaci dei capoluoghi lombardi, il 7 marzo avevamo chiesto sia alla Regione che al governo di chiudere le attività produttive, tenendo aperte solo la filiera di igiene per la casa e quella alimentare. Oltre alla manutenzione dei servizi pubblici essenziali. Il numero dei lavoratori nelle fabbriche è molto elevato. Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito». Così ha affermato, in un’intervista al Fatto quotidiano del 17 marzo, Emilio Del Bono, sindaco di Brescia1 di area Pd.

Pur muovendo molta aria, meno espliciti sono stati i governatori delle Regioni del Nord e la Lega che hanno invece sviluppato un discorso meno esplicito sulla necessità della chiusura, giocando d’anticipo sul governo emanando, in autonomia, nuove misure restrittive che comunque non toccavano minimamente gli interessi padronali. In un conflitto tra potere centrale e Regioni che ha assunto ancora una volta prima di tutto i caratteri del confronto elettoralistico e della salvaguardia dei rapporti con le associazioni di categoria degli industriali, dei banchieri e del commercio.

Ma il vero motore sotterraneo, per giungere alla proposta di serrata dei luoghi di lavoro e delle fabbriche è stato rappresentato dalle fermate spontanee dei lavoratori delle fabbriche, soprattutto di quelle grandi, e dei magazzini. Tutta una serie importante di blocchi, picchetti, astensioni dal lavoro e resistenze varie che l’opinione pubblica e i media hanno quasi ignorato, ma che non è passata inosservata ai tutori dell’ordine che già si preparavano alle varie misure di contenimento della conflittualità (qui).

Le parole di Maurizio Landini, poste in esergo, ben sintetizzano le paure che i sindacati confederali, sempre tardivi a ricevere ed accogliere le richieste dal basso, hanno sventolato davanti al naso di Conte e degli imprenditori. Imprenditori tetragoni insofferenti, fino all’ultimo momento, a qualsiasi ipotesi di chiusura degli stabilimenti, come ha denunciato fin dal 12 marzo un uomo non certo di sinistra come Carlo Nordio, in un editoriale del Messaggero:

“Poteva e doveva vincere la ragione. Quella dei previdenti, ingiustamente liquidati come Cassandre dagli sprovveduti. Invece è arrivato – per giunta con grande ritardo – il solito compromesso di palazzo. Conte chiude l’Italia a metà. Non c’è l’atteso e necessario blocco totale che serve al Paese per arrestare il contagio e garantire la salute pubblica. Ma solo la chiusura di negozi e commercio, salvando ovviamente alimentari e prima necessità. Restano fuori industrie e fabbriche. Una grave omissione che potremmo scontare tutti a causa delle falle che lascia aperte nella cruciale guerra al virus. […] vi è tuttavia una categoria intermedia, che tenta di conciliare il diavolo con l’acqua santa. Alludiamo alla richiesta inoltrata al Governo dalla Regione Lombardia, che da un lato chiedeva, giustamente, la chiusura delle attività commerciali, artigianali, ricettive e terziarie (escluse, com’è ovvio, quelle assolutamente essenziali), ma dall’altro comunicava che era stato raggiunto un accordo con Confindustria lombarda “che provvederà a regolamentare l’eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese”. Insomma, par di capire, la chiusura o meno delle fabbriche sarà affidata – secondo il premier – alla iniziativa degli industriali.”2

Cosa che dopo la delusione dovuta alla mancata chiusura di tutte le imprese attesa dal Dpcm Conte, ha fatto sì che la lotta ripartisse, con dimensioni che non si vedevano da decenni, in numerosi stabilimenti del settentrione dove gli operai e le operaie sono tornati ad incrociare le braccia, quasi sempre con astensioni dal lavoro pari al 100% dei lavoratori. Dall’Avio di Rivalta e Borgaretto all’Alessi Tubi, alle Officine Vilai, all’Alcatar, alla Brugnasco di Avigliana in Piemonte fino a tante altre aziende lombarde (qui). Mentre la Fiom di Verona ha proclamato due giorni di sciopero a partire da oggi e, nelle zone più colpite dal virus, gli operatori sanitari scalpitano per la macanza di sufficienti protezioni individuali e per i turni massacranti dovuti al mancato turn over del personale ospedaliero.

L’abbiamo detto nella terza fase di questa serie di riflessioni: la crisi disvela l’anima di classe e la guerra civile che la normalità quotidiana e la società dello spettacolo solitamente nascondono.
Mentre, però, alcuni grandi stabilimenti hanno chiuso al primo accenno di ripresa dello scontro di classe, sono state quasi ovunque le piccole, piccolissime e medio-piccole aziende ad opporsi alla chiusura e a portare avanti la produzione, chiamando in causa la responsabilità degli operai nel mantenerle in vita. Un discorso/ricatto odioso che fa, finalmente, piazza pulita di quel pietismo per i piccoli imprenditori che è stato cavalcato dal populismo di ogni risma nel corso degli ultimi anni.

Per non fare troppo torto ai piccoli comunque vediamo cosa ha detto in un’intervista Giuseppe Pasini, il presidente degli industriali bresciani che è anche alla guida della Feralpi, uno dei principali produttori siderurgici in Europa, a proposito delle condizioni di salute in fabbrica:

“Abbiamo avuto anche qualche positività, non puoi non averne, ma le aziende hanno messo in atto tutti i controlli e le procedure di sanificazione previste dal governo. Hanno fatto quello che dovevano fare. E Non è detto che quelli che sono stati trovati positivi dentro l’azienda abbiano contratto il virus sul posto di lavoro. Magari sono rimasti contagiati nei giorni precedenti all’ordinanza di chiusura, fuori dalle aziende.“3

Già, affermazione che si accompagna bene con la colpevolizzazione individuale che viene fatta continuamente dagli organi di informazione e dai governanti con il proposito allontanare da sé ogni responsabilità in materia di contagio e mancati provvedimenti per prevenirlo e contrastarlo.
Tralasciando il grottesco flash- mob di solidarietà cui la Abb, azienda italo-svizzera che occupa nei suoi stabilimenti in Italia seimila dipendenti, ha chiamato suoi operai (qui):

“Quasi un terzo dei contagi si trova tra le distese di aziende d’ogni genere dei due polmoni economici d’Italia, Brescia e Bergamo. La prima in vetta alla classifica per densità produttiva, seguita da Milano e, appunto, Bergamo, che ha 4.305 contagi e 84 mila imprese attive nelle quali lavorano 385 mila dipendenti. Brescia ha 3.783 contagi, 107 mila ditte e 402 mila lavoratori. Stare a casa è più facile dirlo che farlo qui, dove per ammissione di Confindustria Lombardia il 73% di piccole, grandi e medie imprese sta andando avanti, come in tutta la regione. Come dire che nelle aree più epidemiche mezzo milione di lavoratori continua a fare avanti e indietro casa-lavoro, anche se poi in fabbrica si è cercato di rispettare i protocolli imposti per decreto. A Brescia nel settore industriale sono stati raggiunti 63 accordi per la sicurezza anti-Covid sul lavoro. A Bergamo soltanto 2, informa la Fiom. Che non possa bastare per contenere la crescita esponenziale dei contagi lo pensano i tecnici del comitato scientifico che affianca il governo e che suggerisce a Conte di «fermare tutto salvo le filiere che producono beni di consumo essenziali». Ci mette la faccia il Presidente dell’Ordine di Milano Roberto Carlo Rossi che tuona: «Mandare avanti la produzione è stato un gravissimo errore, dobbiamo chiudere tutto, lasciare aperto solo chi produce beni alimentari, prodotti per la salute e l’igiene. Vedo ancora capannoni e cantieri pieni di gente, è una follia». E che non siano tutte produzioni di beni essenziali lo si intuisce scorrendo l’elenco delle imprese nelle due province, dove a fianco a quelle zootecniche troviamo aziende che producono acciaio, chiusure industriali per capannoni, verniciature, calcestruzzi, strumenti elettronici. Ma anche auto di lusso come la Bugatti, o armi come Beretta e Perazzi.”4

Al di là del dramma implicito nei numeri, si può e deve affermare che mai come ora il movimento antagonista ha avuto tra le mani tali potentissimi strumenti critici per assalire l’ordine esistente, proprio nel cuore del cuore del capitalismo industriale e finanziario, italiano ed internazionale. Il problema è che gli imprenditori e i loro rappresentanti nei governi e negli Stati lo hanno immediatamente capito davanti ai tre giorni di fuoco nelle carceri e alle prime fermate operaie, affidandosi alle ordinanze prefettizie e agli apparati militari e polizieschi per il contenimento di eventuali proteste e insofferenze diffuse5, mentre ancora tardano a comprenderlo molti compagni, pur volenterosi, che si arrabattano ad inseguire dibattiti piuttosto fumosi sulla limitazione delle libertà individuali (come se il lavoro salariato e coatto non fosse già di per sé la più stringente e odiosa limitazione delle libertà individuali, nato guarda caso proprio all’epoca della fondazione del carcere moderno6) oppure sull’inaspettato pericolo (come se non fosse già presente da lungo tempo) di fascistizzazione di uno Stato che dal fantasma concreto del ventennio non si è poi mai liberato, piuttosto che approfondire l’analisi critica del presente e del divenire che ci attende per poterlo meglio affrontare e rovesciare.

Mentre nella società dello spettacolo attuale, senza necessità di adunate oceaniche, la mobilitazione solidale con lo Stato e il capitale nazionale può essere convocata via FB, Twitter, WA e tutti gli altri social per invitarci a sventolare il tricolore dai balconi e dalle finestre, ad accendere fiammelle e torce cantando inni nazional-popolari di ogni genere e risma e diffondere l’idea dello spionaggio collettivo per denunciare qualunque comportamento ritenuto anomalo, mentre le forze dell’ordine procedono con assoluta arbitrarietà a eseguire direttive confuse e mai chiare e a comminare multe e ammende a pioggia. Il pop incontra il nazionalismo con alcune tra le più note influencer che iniziano ad imbrattare le coscienze collettive fingendo un impegno che resta comunque tutto di parte.

La crisi da coronavirus ha aperto anche un’altra solida possibilità in cui si incrociano due grandi temi che, fino ad ora, erano stati unificati nelle idee (di alcuni) ma lontani tra di loro nella realtà materiale: la lotta operaia e la lotta per l’ambiente. In questi giorni infatti risulta sempre più chiaro che la lotta per la difesa della salute, in fabbrica e fuori, è strettamente intrecciata al discorso della crisi climatica e ambientale. Occorre sviscerare il tema e diffonderlo in una situazione che per un certo periodo sarà feconda e ricettiva. Un metro di Tav vale quanto centodieci giorni di terapia intensiva è solo l’inizio di una parola d’ordine destinata a coinvolgere molte più persone e molti più lavoratori rispetto a prima, in un contesto in cui:

“Chi segue anche da dilettante questi fenomeni sa che da anni una nube tossica sosta sul cielo della pianura padana.[…] la nostra più grande pianura ha condizioni meteo-climatiche e geofisiche uniche in Europa, e che gli inquinamenti dominanti sono dovuti agli allevamenti intensivi, alla concimazione chimica dei campi, ai fumi della fabbriche, alle emissioni dei motori diesel.
Mancano per la verità, in questo sintetico quadro, gli inquinanti atmosferici che non sono affatto scomparsi nelle città con la riduzione dello smog e che sono in aumento: l’ozono e il particolato M5 ed M10, le minute particelle che si depositano nei polmoni dei cittadini europei.[…] Oggi il Covd19 colpisce cittadini dai polmoni compromessi da decenni di smog.[…] Ebbene, questi dati non ci consolano e oggi servono a poco. Ma sono indispensabili per l’immediato futuro, per ripensare con radicale severità lo sviluppo capitalistico dominante.”7

“La correlazione tra inquinamento atmosferico ed infezioni delle basse vie respiratorie è ormai scientificamente dimostrata. E’ un fattore che aggrava la situazione infettiva senza alcuna ombra di dubbio”, dice Giovanni Ghirga, membro dell’Associazione medici per l’ambiente. Il 19 febbraio ha scritto una lettera pubblicata dal British Medical Journal, sottolineando l’esistenza di un comune denominatore tra l’esplosione in Cina, Sud Corea, Iran e Italia del nord: tutte aree dove l’indice di qualità dell’aria è molto basso.
Una ricerca della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha già trovato una risposta: esaminando i dati delle centraline che rilevano lo smog e in particolare il superamento dei limiti di legge, ha potuto trovare una correlazione con il numero dei casi di persone infettate dal Covid-19. Le curve dell’infezione hanno avuto delle accelerazioni, a distanza delle due settimane necessarie alla manifestazione, con i livelli più alti di polveri sottili.
Numerosi esperti dunque stanno ora identificando nel cambiamento climatico e nell’inquinamento le cause che hanno portato il Pianeta a essere vittima della pandemia.
«La correlazione tra attività antropiche e diffusione dei virus è sempre più evidente. E non è un caso se le aree di maggiore diffusione del Covid-19 sono le stesse dove si verificano più casi di patologie oncologiche. Bergamo, e soprattutto Brescia, hanno i numeri più alti di bambini malati di cancro. Inoltre, a causa della tolleranza indotta, vale a dire al fatto che mediamente le persone hanno già un certo grado di infiammazione polmonare, non è stato possibile accorgersi subito dell’espansione. I sintomi lievi non sono stati notati.»”8

Non si contano ormai le ricerche che dimostrano che crisi climatica, consumo del suolo, inquinamento industriale e coronavirus sono strettamente collegati e che l’unica alternativa è quella di rovesciare di direzione e senso l’attuale produttivismo industrialista e capitalista, di cui il lavoro salariato costituisce l’indispensabile corollario. Tenerne conto diventerà sempre più obbligatorio, anche di fronte alla minaccia contenuta in uno studio realizzato dall’Organizzazione del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi) che dimostra che la pandemia rischia di provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro al termine del tunnel attuale9. Cui però, senza esitazione, occorrerà contrapporre i milioni di morti che la stessa pandemia, ultima di una lunga serie di morbi contemporanei, potrebbe causare proprio a causa del regime attuale. Ad esempio in Italia, dove negli ultimi vent’anni sono stati tagliati 70.000 posti letto, a beneficio di una sanità privata che anche negli attuali frangenti cercherà di gonfiare i propri guadagni con autentici profitti di guerra che lo Stato, esattamente come durante i due conflitti mondiali, non si è minimamente preoccupato di calmierare, contribuendo così a ridistribuirne i costi sulla pelle dei cittadini.

Insomma o la vita o il salario e il suo vampiro, il profitto.
Termini decisivi e incompatibili tra chi lotta per salvaguardare la specie e chi lotta e opprime per salvaguardare il presente modo di produzione. Inconciliabili tra di loro e, oltre tutto, irriformabile il secondo. Se ne faranno una ragione le anime pie che lo credono capace di modificarsi per mezzo del green capitalism.

Non a caso quello che molti governi, e molti titoli anticipati in apertura, mettono in risalto è l’autentico clima di guerra che si va via via allargando sul pianeta. Guerra psicologica e di classe, poca guerra al virus e tanta preparazione per i giochi militari e geopolitici, tutt’altro che pacifici, che seguiranno la crisi economica mondiale, ineludibile alla fine della pandemia e già durante il suo decorso.

Con buona pace di tutti coloro che hanno sempre pensato alla guerra allargata come ad un’ipotesi risibile e catastrofista, proprio nel pieno di questa crisi, ogni potenza sta già giocando le sua carte e mettendo in campo le sue strategie economiche e geopolitiche. La fine dell’Europa Unita si profila come scenario credibile ormai, con la politica dell’ognuno per sé, in cui la Germania ha già iniziato a schierare tutte le sue pedine in vista di un terzo tentativo di riprendersi un lebensraum ormai di dimensioni continentali, con buona pace per portavoce del governo che hanno sventolato con troppa bramosia i “soldi facili” provenienti dal Mes (qui).

La Cina si presenta come la vincitrice, per ora, politica del confronto basato sulla crisi indotta dal Covid-19 e i suoi medici, medicinali e aiuti fanno parte di un moderno Piano Marshall sanitario indirizzato a raccogliere consensi e alleati all’interno del pianeta NATO. Idem per la Russia che con il suo invio di aerei, medici e virologi oltre che ospedali da campo in Italia gioca sullo stesso campo, pestando un po’ i piedi sia alla prima che agli Stati Uniti. Non sono pochi gli indizi del sorgere di un rinnovato bipolarismo in cui l’Europa torna frontiera e terreno di contesa e l’Italia un nuovo tassello cruciale da conquistarsi al proprio campo.

Gli Usa nel chiamare, come vuole Trump, lo stesso virus con il nome di virus cinese già affilano le armi comunicative che saranno ben presto affiancate da nuove armi di distruzione di cui il missile ipersonico (capace di volare ad una velocità superiore di cinque volte a quella del suono, qui) appena testato è solo l’anteprima. Mentre nemmeno la gara per la scoperta, produzione e distribuzione del vaccino sfugge ad una logica di confronto che soltanto nella guerra aperta per il controllo del mercato mondiale troverà, presto o tardi, la sua soluzione.

Ospedali da campo di varia nazionalità, truppe per le strade da New York a Milano, discorsi sempre più marcati da termini come nemico comune, guerra, solidarietà nazionale preparano, o almeno dovrebbero preparare, le popolazioni al clima di guerra reale che seguirà a questo periodo di clausura; quando non solo gli interessi geopolitici, ma la fame, le economie disastrate e parassitate e le rivolte per una vita degna dilagheranno in scontro aperto nei tessuti metropolitani. Riuscirà il nostro nemico collettivo e dichiarato, che per ogni nazione avrà prima di tutto il volto del proprio governo e dei propri spietati imprenditori, a ottenere l’effetto desiderato (qui)? Forse, soprattutto se noi, dopo aver seppellito in silenzio i nostri morti ed aver accettato per forza di cose quarantena ed isolamento, non sapremo opporci, sia nelle lotte che nell’immaginario politico che le produrrà e di cui sarà il prodotto, con altrettanta forza e determinazione al suo percorso catastrofico, che in questo ultimo periodo ha ulteriormente sfoggiato il suo volto più autentico, cinico e spietato.

In tutti i frangenti e con ogni mezzo necessario.

“Noi abbiamo il compito quasi impossibile di promulgare un amore che sia ancora più spietato, e con uno spirito di sacrificio che non avremmo mai conosciuto, se non fossimo stati chiamati dalla Storia. In questo momento, le nostre opzioni sono soltanto due: fare tutto, oppure non fare nulla.” (Perfidia – James Ellroy)


  1. https://www.giornaledibrescia.it/brescia-e-hinterland/coronavirus-del-bono-le-fabbriche-andavano-chiuse-prima-1.3467623  

  2. C. Nordio, I ritardi del governo. Compromesso al ribasso che lascia esposto il Paese, Giovedì 12 Marzo 2020 il Messaggero  

  3. G. Colombo, “Il motore bresciano si sta fermando”. Intervista a Giuseppe Pasini, Huffington Post 20 marzo 2020  

  4. I. Lombardo, P. Russo, Governatori e scienziati a Conte: “Fermi le fabbriche in Lombardia”, La Stampa 20 marzo  

  5. Si veda come esempio https://torino.repubblica.it/cronaca/2020/03/22/news/
    il_questore_torino_e_ubbidiente_ma_in_periferia_primi_segnali_di_insofferenza_-251968980/?ref=RHPPTP-BH-I251947184-C12-P5-S11.3-T1  

  6. M. Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Mondadori 1978 e D.Melossi, M.Pavarini, Carcere efabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, il Mulino 1977  

  7. P. Bevilacqua, Ambiente e pandemia: il drammatico connubio della pianura padana, il Manifesto 20 marzo  

  8. M.Bussolati, Sembra che il Covid-19 colpisca più duro nelle aree più inquinate, Business Insider 18 marzo 2020  

  9. P. Del Re, Coronavirus: la pandemia provocherà 25 milioni di disoccupati, la Repubblica 20 marzo  

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Sull’epidemia delle emergenze /fase 3: poi fu la volta delle fabbriche e della classe operaia… https://www.carmillaonline.com/2020/03/14/sullepidemia-delle-emergenze-fase-3-poi-fu-la-volta-della-fabbrica-e-della-classe-operaia/ Sat, 14 Mar 2020 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58620 di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa? […] noi ci sentiamo in trappola e ci chiediamo: perché io sono qui?» (un operaio brianzolo a «Repubblica»)

Già perché siamo qui? In fabbrica, chiusi in casa, in quarantena oppure in ospedali che stanno per scoppiare ? E’ quello che molti iniziano a chiedersi, come in un romanzo di Stephen King oppure in un’ennesima [...]]]> di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa? […] noi ci sentiamo in trappola e ci chiediamo: perché io sono qui?» (un operaio brianzolo a «Repubblica»)

Già perché siamo qui? In fabbrica, chiusi in casa, in quarantena oppure in ospedali che stanno per scoppiare ? E’ quello che molti iniziano a chiedersi, come in un romanzo di Stephen King oppure in un’ennesima serie prequel o sequel di “The Walking Dead”.

Conosciamo intanto l’unica risposta certa che il governo degli ominicchi e dei quaquaraquà sembra voler e saper fornire: poteri di polizia dati per decreto all’esercito che pattuglia le strade e ulteriori misure restrittive per tutti i cittadini, perché «dopo l’emergenza sanitaria e quella economica, il governo teme possa scoppiare anche quella della sicurezza pubblica, come successo nelle carceri. Dunque è necessario prepararsi in tempo, e cominciare a pensare a piani d’azione per le foze dell’ordine e, nel caso, per l’esercito. La rivolta delle carceri è stato solo un antipasto di quello che potrebbe accadere in caso di diffusione incontrollata dell’agente patogeno. Nelle regioni, il timore è che un’escalation dell’epidemia crei disordini. Negli ospedali, nei supermercati, nelle piazze. “Bisogna essere pronti ovunque e cercare di coinvolgere maggiormente i militari- spiega una voce autorevole di Palazzo Chigi- Senza allarmare la popolazione, ma senza farsi trovare impreparati per l’ennesima volta”». Come si afferma in un articolo di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, In che Stato siamo, sull’Espresso n° 12 del 15 marzo 2020.

Per quanto ci riguarda lo avevamo già annunciato dieci giorni or sono e confermato mercoledì scorso: tolte le minime e necessarie prebende, repressione e militarizzazione sarebbero state le uniche dimostrazioni di forza che un governo spaventato dalle proprie responsabilità, dalle possibili conseguenze elettorali e in apparente perenne crisi di identità avrebbe dato. Prima alle rivolte nelle carceri italiane ed ora alle proteste spontanee dei lavoratori, soprattutto delle fabbriche metalmeccaniche, del Nord e del Sud. Inevitabili tutte, sia le proteste e le rivolte che le risposte date. E vedremo subito perché.

Poco è bastato perché le odiose caratteristiche di classe della nostra società, che in altri momenti potevano essere più o meno nascoste dietro i paraventi formali della democrazia rappresentativa e televisiva, del cicalare mediatico e inconcludente per natura, oppure del rito del consumo di merci inutili elevato a unica ragione di vita e metodicamente eseguito ogni fine settimana in quegli autentici lager della psiche che continuiamo a chiamare centri commerciali, venissero alla luce tutte insieme. Nella maniera più chiara e lampante possibile.

Lo Stato e gli imprenditori, individualmente o attraverso le loro associazioni, hanno gettato la maschera. Senza pensarci due volte. Ce lo hanno detto in faccia, ciò che Marx ed Engels affermavano già quasi duecento anni or sono nel Manifesto del Partito Comunista: «il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese» (21 febbraio 1848). E’ il difensore e il promotore di quegli interessi. In pace come in guerra oppure durante un’epidemia. E in alcuni di questi frangenti non può più nasconderlo.

Gli operai, invece, pur digiuni di teoria, negli stessi momenti, vedono adesso sulla propria pelle che la favoletta della comunanza degli interessi nazionali o del “bene comune” non è altro che tale. Lo comprendono sulla loro pelle e su quella dei loro famigliari e, anche se è vero che in taluni frangenti possono essere stati sviati dal loro interesse primario da vaghe promesse inerenti il lavoro, i mutui e il benessere condiviso, non possono far altro che reagire. Viene ora alla luce la totale alterità dei loro interessi rispetto a quelli dei datori di lavoro e del capitale nel suo insieme.

Si chiama classe contro classe, lotta di classe oppure guerra di classe. Non occorre dichiararla, esiste nei fatti. Quotidianamente, anche se sono i momenti apicali della catastrofe sociale a rivelarne l’esistenza, senza possibilità di compromesso. Una guerra senza quartiere che viene combattuta subdolamente per anni dalla classe al potere e dai suoi meschini rappresentanti politici in una situazione di normalità, ma che rivela tutta la sua urgenza e ferocia, con la discesa in campo di tutti gli apparati repressivi e militari necessari, nel momento in cui gli attori inconsci (gli oppressi e i lavoratori), pungolati all’estremo da paura e frustrazione, diventano coscienti del gioco e del ruolo reale di carne da macello che sono costretti a svolgere dai fatti concreti e drammatici che li coinvolgono, senza più alcun paravento istituzionale o retorico.

E’ esattamente quello che è avvenuto e sta avvenendo in questi giorni.
Il governo ha fatto finta di chiudere tutto, ma di fronte alle richieste delle singole categorie ha ceduto, su quasi tutta la linea. Se questo avesse significato soltanto che rimanevano misteriosamente aperte attività come quelle delle profumerie, dei ferramenta, delle lavanderie o altro, ciò avrebbe significato ben poco. Al massimo l’impossibilità del governo di mostrare lo stesso pugno di ferro che ha così generosamente distribuito tra i carcerati in rivolta.

Il problema vero, scusate l’artificio retorico poiché già tutti come lettori lo avete pensato e compreso, è stato causato dal fatto che di fronte alle proteste, agli scioperi spontanei e anche all’assenteismo (fino al 40%) che si sono manifestati nelle fabbriche di fronte all’obbligo del continuare la produzione, anche in assenza parziale o totale di qualsiasi provvedimento che tutelasse la salute dei lavoratori, Conte e il suo governo hanno appoggiato in toto le richieste di Confindustria. Aggiungendo il danno a ciò che già di per sé era ridicolo.

Dalla Lombardia a tutta la regione padana, giù fino all’Ilva di Taranto i lavoratori hanno compreso automaticamente che lo scambio lavoro/salario contro salute non era più accettabile. Così come non può più essere accettabile un’etica lavorista che mette la produttività e la coscienza del proprio ruolo produttivo avanti a qualsiasi altra esigenza. Quell’etica del lavoro di stampo calvinista (con cui stanno facendo,ad esempio, i conti i lavoratori transfrontalieri italiani impiegati in Svizzera) che denuncia come una sorta di peccato ogni forma di assenza dal lavoro stesso.

Insieme agli scioperi, diffusi e numerosi su tutto il territorio nazionale, a saltare agli occhi sono i numeri delle assenze dalle fabbriche. Per malattia o altro. Rivelando così che la fuga, la diserzione, l’assenteismo sono la prima manifestazione della rivolta individuale contro l’oppressione e la condanna contenute implicitamente nelle costrizioni per i soldati in guerra e per gli operai obbligati a lavorare durante un’epidemia che può avere conseguenze mortali o comunque molto gravi per interi nuclei famigliari. Sono, al contrario di quanto il lavorismo spesso denuncia e pur nel loro piccolo, gesti audaci, micro-resistenze, autentici prodromi del rifiuto collettivo e meglio organizzato che verrà.

Ma procediamo con ordine vediamo di ripercorrere insieme le ultime giornate e le loro conseguenze.
La diffusione del virus covid19 nei luoghi di lavoro, dalle piccole imprese alle medie e grandi fabbriche sino ai cantieri edili, riflette il clima del paese e procede, tra la propaganda di guerra dei media che da un lato porta ad appiattirsi sull’unità e la fedeltà allo Stato, e un negazionismo che sottovaluta la portata del virus (caratterizzato da ‘tanto non capita a me’ o ‘è come una semplice influenza’).

Questa situazione, nei luoghi di produzione e lavoro, investe una classe operaia e un mondo della produzione segnato da anni di sconfitte, di diminuzione salariale e soprattutto dal ricatto del mantenimento del ‘posto’, della paura di trovarsi disoccupati o con un reddito di molto ridotto.
Il sindacato confederale (la triplice) cerca come sempre un punto di incontro con Confindustria e governo basato sul fornire i DPI e garantire le misure di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Col passare dei giorni e l’aggravarsi della situazione, inizia a girar voce di colleghi colpiti dalla malattia (dati che molte aziende nascondono), la prima risposta generale si manifesta con un aumento delle ore di mutua che nei giorni che precedono gli scioperi, su dichiarazione di confindustria e dei sindacati confederali, viene stimata al livello di un 30-40% di “assenteismo”.

I giorni che precedono la giornata degli scioperi del giovedì 12 marzo, tranne qualche lodevole iniziativa come quella dei S.I. Cobas dell’11 marzo a Pomigliano alla FCA Auto, vedono prevalere nelle aziende un clima di confusione, paura, rabbia e di attesa. Ci si aspetta molto dall’imminente decreto che viene emanato nella notte dell’11 marzo e annunciato alla nazione dal discorso di Conte. Tutti pensano che verranno chiusi tutti i posti di lavoro tranne quelli riguardanti i servizi essenziali. Le misure del decreto, in realtà, prevedono la chiusura di negozi ecc. ma escludono completamente la chiusura dei luoghi di produzione, affidando alle singole imprese la scelta o meno del fermo e richiamando ad un generico rispetto delle norme di sicurezza.
Appare chiaro che, dopo giorni di scontri interni a Confindustria e nella CGIL tra FIOM e CGIL, vince ancora una volta la logica che antepone il profitto alla salute.

Il discorso di Conte si rivela quindi, in un bagno di realismo capitalista, un vero e proprio schiaffo alla classe operaia dei settori produttivi. Come al tempo delle guerre mondiali del secolo scorso, ancora una volta i proletari sono carne da macello.
Il provvedimento, nei fatti privilegia la continuità della produzione senza imporre alle aziende il rispetto preciso delle norme di sicurezza in una sorta di autoregolamentazione e di conseguenza non si capisce come norme rigide vengano applicate sui territori per quanto riguarda il commercio e la mobilità delle persone mentre ciò non vale per le imprese.
La mattina del 12 marzo, senza dichiarazione di sciopero alcuna da parte dei sindacati confederali, inizia con fermate all’interno delle fabbriche e uscite di massa dalle stesse, con scioperi spontanei, con picchetti e presidi sostenuti dai delegati interni -pur stando a distanza di un metro l’uno dall’altro- che coinvolgono l’intero paese, in particolare Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna.

A Genova si attiva lo sciopero dei portuali, a Mantova la Cornegliani si ferma, mentre i S.I. Cobas proclamano lo sciopero provinciale a Modena, scioperi anche alla Valeo di Mondovì, alla Whirlpool di Caltanissetta, alla MTM, IKK, Dierre, Trivium ad Asti, Vercelli e Cuneo, solo per citarne alcuni.
Sono coinvolti tutti settori dalla produzione alla logistica, finanche alcune sigle dei riders, il cui fermo del lavoro coincide con l’assenza totale di salario.
La parola d’ordine in tutti i luoghi di lavoro è chiara: chiusura totale.
Come la lotta dei detenuti dei giorni prima assumeva indulto e amnistia quali parole d’ordine, quella della classe operaia è chiusura assoluta.
Sia in un caso che nell’altro il sindacalismo e le associazioni riformiste del carcere cercano di spostare la questione sulle condizioni di salute necessarie per rimanere al ‘gabbio’ della galera e della fabbrica.

Pur all’interno delle contraddizioni del fronte confederale con la Fiom che dà copertura agli scioperi e chiede la chiusura, ma poi nelle parole della segreteria generale dichiara “nelle aziende ‘a norma’ lavoreremo, in quelle che continueranno a fare resistenza proseguiremo a fare gli scioperi e a non lavorare” dividendo così il fronte operaio, assistiamo ancora una volta all’ergersi della parola ‘lavoro’ al di sopra di tutto. Questo si nota bene anche in in un volantone, distribuito ai lavoratori dalla FILLEA CGIL (edili), che ricorda: “ … che il lavoratore non può assentarsi immotivatamente dal lavoro, non presentarsi sul luogo del lavoro in mancanza di provvedimenti dell’Autorità Pubblica per la mera preoccupazione di contrarre il virus e senz’altra motivazione rappresenta una fattispecie di assenza ingiustificata sanzionabile disciplinarmente…” una vera e propria intimidazione mascherata da informazione.

La giornata dello sciopero coincide peraltro col non poter più nascondere da parte delle aziende i moltissimi casi di contagio, come è successo al cantiere del tunnel del Frejus che ha cercato per alcuni giorni di tacere la presenza di due possibili contagiati con lo scopo di non perdere un appalto. Il cantiere è stato poi chiuso dopo la ‘scoperta’ di una verità nota a tutti e cioè che ivi non si poteva lavorare in sicurezza (distanze ecc.).
La situazione del contagio sui posti di lavoro diventa un bollettino di guerra: dalla Pirelli di Settimo Torinese, dove l’operaio ricoverato non è certamente un anziano eppure si trova in terapia intensiva, all’operaio della SITAF in terapia intensiva, alla LEAR di Grugliasco, all’Amazon di Torrazza Piemonte, alla Piaggio, alla FIAT di Rivalta, ecc.
I sindacati confederali, invece di lanciare l’unica parola d’ordine possibile – sciopero generale fino alla chiusura degli stabilimenti e cantieri-, aprono tavoli formali e informali tesi a fermare la conflittualità operaia e a trovare mediazioni tutte interne a confindustria, governo e burocrazie sindacali. Nella realtà è un balletto di aziende che chiudono per pochi giorni in modo autonomo con la scusa di sanificare gli ambienti.

Il risultato dei vari tavoli sarà a tutti evidente dopo l’incontro in video conferenza del 13 marzo tra governo e parti sociali che raggiungerà l’obiettivo centrale di prendere tempo e tenere tutti al lavoro con un decreto che continua ad essere rinviato e con proposte come la distribuzione di guanti e mascherine a tutti, ammesso e non concesso che venga poi realmente attuata. Si capisce benissimo, per chi conosce i luoghi della produzione, come dalle mense agli spogliatoi, alle macchinette del caffè, al posizionamento dei macchinari si sia tutti schiacciati, ed è praticamente impossibile mantenere il metro di distanza di sicurezza.
Come è evidente, se la ‘soluzione’ fossero le mascherine e i guanti non si capisce come mai siano stati chiusi piccoli esercizi di paese in cui è fattibilissimo entrare una persona alla volta e non le fabbriche.

Lo capiscono gli operai delle maggiori aziende di Torino, dove i fermi produttivi nelle aziende metalmeccaniche (Meccanica di Mirafiori, Mopar, Denso, Teksid, MAU, Maserati, Thales Alenia Space, Carrozzeria di Mirafiori soltanto per citarne alcune) arrivano a coinvolgere dodicimila lavoratori in un giorno. Crescono le preoccupazioni per il numero dei contagiati nelle fabbriche e aumenta il numero di coloro che incrociano le braccia, in una spirale che sembra, soprattutto sul fronte della lotta, inarrestabile.

Nella mattina del 14 marzo la beffa è compiuta, sindacati confederali e governo firmano un protocollo che conferma come il tema si affronterà azienda per azienda e la chiusura sarà contemplata solo per adeguare i luoghi alle norme di sicurezza sanitaria. Invece che unire e generalizzare la lotta dei lavoratori, le confederazioni sindacali li isolano impresa per impresa e delegano la difesa della salute ai rappresentanti della sicurezza (RLS). Mentre nel decreto è prevista l’ulteriore beffa dei 100 euro in busta paga per chi è costretto a lavorare1.
Si dovrà attendere lunedì, alla riapertura dei posti di lavoro, per vedere quale sarà la risposta concreta dei lavoratori, se vi sarà un aumento di quello che i padroni e burocrazie sindacali chiamano ‘assenteismo’, se si ripartirà con scioperi e fermate o se il trucchetto del ‘garantire la salute pur lavorando’ col ricatto del posto di lavoro, prevarrà su paura, rabbia e ribellione che possono rimettere in discussione la passività conflittuale di questi ultimi decenni.

Siamo di parte, è vero e lo dichiariamo apertamente poiché il compito di chi vuole mettere in discussione il capitalismo è evidente: soffiare sul fuoco.
E proprio per questo motivo ci teniamo a sottolineare ancora alcune cose. Ad esempio le motivazioni addotte per tener aperti gli stabilimenti. Come quelle del presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti: «Di fronte alla crescente emergenza del Coronavirus è indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende. Le imprese lombarde, fortemente orientate a continuare a garantire la continuità aziendale, si impegnano a rafforzare le proprie misure di prevenzione e contenimento dell’epidemia in linea con le indicazioni dell’ISS»2. Peccato che siano proprio i due poli industriali della regione, Brescia e Bergamo, a veder crescere in maniera esponenziale il numero dei contagiati. Di cui sarebbe ora di fornire i dati non per fasce di età, ma per categorie lavorative e sociali (lavoratori dipendenti, pensionati, disoccupati, casalinghe, lavoratori autonomi, studenti, etc.) per poter avere un quadro più preciso della situazione reale, fuori e dentro i luoghi di lavoro. Le stesse zone in cui, mentre scriviamo, la produzione manifatturiera si ferma con una adesione che raggiunge i picchi del 100% di adesione agli scioperi e si si fa più veemente la protesta degli infermieri, lasciati sempre più spesso senza tamponi e senza protezioni a fare turni massacranti esposti al contagio3 proprio e degli altri e dove oggi ha perso la vita un altro operatore sanitario per il virus.

Altri rappresentanti di singole aziende si sono espressi invece così: «No a chiusure temporanee di natura volontaria e facoltativa. Andrebbero a generare scompensi e disparità. Le nostre aziende stanno già subendo contraccolpi economici e continuando così a singhiozzo ne andremmo a subire non di meno»4. La ferrea logica dell’interesse individuale, travestito dal solito o tutti o nessuno (destinato a sfociare quasi sempre nel nessuno). Accompagnate, queste ultime riflessioni, da ciò che sta davvero al centro degli interessi degli imprenditori e che non riguarda la salute collettiva, ma l’export, come afferma in un’intervista il presidente di Apindustria, Douglas Sivieri: «I dati ci confermano una tendenza negativa che già avevamo osservato nel 2019 (3,7% in meno rispetto al 2018). Saranno però dati che rimpiangeremo e credo che chiunque, in questi momenti, metterebbe la firma per avere i numeri del 2019 a fine 2020»5.
Cogito ergo sum: meglio l’aumento percentuale dei contagiati e dei morti, piuttosto che un’ulteriore diminuzione percentuale dell’export. Difficile però convincere i lavoratori con questi discorsi.

Ecco allora la chiamata nazionale alle armi, proprio come un tempo. Si moltiplicano gli inviti a cantare dai balconi l’Inno di Mameli e Bella ciao oppure a recitare preghiere sul tetto del duomo di Milano, così come ha fatto nei giorni scorsi l’arcivescovo di Milano, per una bela Madunina che, a quanto pare, può andar bene sia per invocazioni di carattere medievale che per i cori nazionalpopolari.
Poi è arrivato l’ineguagliabile Tito Boeri, con la sua perorazione per Quei lavoratori al fronte6, in cui ancora una volta chiede l’abolizione di quota 100 (la sua bestia nera), l’abbassamento dei salari dei dipendenti delle compagnie aeree (come se queste non stessero già chiudendo per conto loro, per le cattive amministrazioni che si sono succedute negli anni e certo non soltanto a causa degli stipendi dei dipendenti) e altre amenità retoriche del genere, inserite in un clima di guerra che ci deve abituare a quel che verrà: il grande sacrificio comune.

Adesso, dopo l’esplosione delle carceri, con l’avanzare dell’insubordinazione nei luoghi di lavoro, la richiesta sempre più pressante di ulteriori misure poliziesche da parte di quei settori di Stato più reazionari, l’insofferenza che pare aumentare assieme alle multe per violazione della quarantena, non resta che vedere dove e quando tutta questa conflittualità, per ora latente e compressa, troverà il suo canale di sfogo saldando micro-resistenze individuali, rifiuto collettivo, e intolleranza a questa condizione perenne di miseria, in un unico grande fuoco.

A più di cento anni di distanza la vera questione è ancora quella posta da Rosa Luxemburg: socializzazione o barbarie.
Noi siamo ancora per la prima, contro questa barbarie travestita da progresso e sviluppo.
Ma questa volta non saremo più noi a pagare.


  1. Annalisa Cuzzocrea, Cento euro per chi resta al lavoro, la Repubblica 15 marzo 2020  

  2. Massimo Lanzini, Chiudere o no? Cresce l’elenco delle fabbriche che si fermano, Giornale di Brescia, giovedì12 marzo 2020  

  3. Infermieri, monta la protesta: «Non siamo carne da macello» – la Repubblica, 14 marzo 2020  

  4. M. Lanzini, cit.  

  5. Giornale di Brescia, giovedì 12 marzo 2019  

  6. la Repubblica, sabato 14 marzo 2020  

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Parigi 1871 – Varsavia 1944 – Kobane 2019? https://www.carmillaonline.com/2019/10/15/parigi-1871-varsavia-1944-kobane-2019/ Tue, 15 Oct 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55375 di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador [...]]]> di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador a Hong Kong, passando per le gigantesche manifestazioni giovanili in difesa dell’ambiente, della giustizia climatica e della specie, un enorme movimento tellurico scuote le società, all’Est come all’Ovest o in Medio Oriente.
Un tempo almeno si sarebbe cantato Tutto il mondo sta esplodendo…, ma oggi no: ognuno si schiera con una causa e in ogni causa troveremo chi si schiera sulla base di uno degli elementi elencati in apertura oppure con uno dei due fronti in lotta adducendo motivazioni tratte dal grigio frontismo ereditato dal ‘900.

Tutto ciò non indebolisce soltanto i movimenti in lotta contro l’iniquo presente, ma fa sì che vada persa qualsiasi lucida e necessaria capacità di analizzare le mosse di quello che dovrebbe essere il nostro avversario unico (il modo di produzione capitalistico) e quelle che dovrebbero essere messe in atto da un movimento realmente antagonista.

Piace ai media, in tutte le loro forme, parlare di vittime, soprusi, dolore e terrore, in una maniera tale da creare confusione, come succede nel percorso della Salita della Memoria a Brescia, dove con le formelle sono state affiancate vittime e carnefici di una violenza che sembra essere più una manifestazione del Male assoluto che non il prodotto di reali contraddizioni sociali e battaglie di classe. Così, per fare un esempio, il commissario Calabresi può essere posizionato subito dopo l’anarchico Serantini, mentre di Giuseppe Pinelli non si trova neppure traccia.

Così in queste ore drammatiche, mentre il secondo esercito della Nato, appoggiato dalle milizie integraliste, ha iniziato a schiacciare la resistenza curda nel Rojava, tutti si sono affrettati a denunciare il genocidio (che Erdogan stava evidentemente pianificando da tempo) e a condannare l’azione turca, senza però mai toccare l’argomento dell’esperienza organizzativa, politica, economica, ambientale, di parità di genere e militare che le forze democratiche curde stanno da tempo portando avanti in una delle aree più calde (dal punto di vista militare e geopolitico) del pianeta (qui).

Se la questione profughi durante l’estate scorsa, quando la sinistra istituzionale preparava il proprio immeritato ritorno al governo, ha visto mobilitazioni generose e ampie, la mobilitazione in solidarietà con i curdi del Rojava e le loro unità di combattimento e protezione ha incontrato maggiori difficoltà, di modo che le manifestazioni in loro appoggio, anche se gli ultimi giorni hanno visto ampliarsi il loro numero, non sono mai state fino ad ora abbastanza unitarie oppure abbastanza forti da poter premere su un governo vile e pauroso, incapace di prendere posizione proprio a causa degli interessi delle più di 1400 imprese italiane che operano in Turchia, con la quale l’interscambio commerciale italiano ruota intorno ai 20 miliardi di euro annui.

In tale contesto, poi, i dubbi di molti “compagni” o presunti tali deriverebbero dal fatto che i curdi del Rojava hanno accettato, al fine di potersi armare, l’aiuto americano nel periodo della loro sanguinosa lotta contro l’ISIS, con la quale hanno rappresentato l’unica vera opposizione militare vincente all’espansionismo di Daesh nel Medio Oriente.

Altri ancora, incapaci di pensare alla Russia di Putin come a uno dei tanti attori dell’imperialismo nella regione, non riescono a slegare l’attivismo politico e diplomatico, oltre che militare, del nuovo zar di Mosca dalle loro personali e ingiustificate fantasie nostalgiche sull’URSS di staliniana memoria, contribuendo così a proiettare nel mondo contemporaneo ideali frontisti che già contribuirono alla distruzione del proletariato europeo e della sua autonoma iniziativa di classe nel corso del secondo conflitto mondiale.

Purtroppo, però, anche chi cerca in tutti i modi di appoggiare e difendere l’esperienza del Rojava, dimentica la Storia e può illudersi che un cambiamento di alleanza (il passaggio delle milizie curde a fianco delle truppe di Assad, con l’appoggio molto vago della Russia) oppure un intervento diplomatico europeo possano contribuire a risolvere la situazione militare sul campo. No, cari compagni, state sbagliando anche voi. Soprattutto quando si difende il Rojava mettendo in primo piano la sua azione anti-ISIS piuttosto che l’importanza del suo esperimento politico.

Immemori della Storia ignorate un paio di cose niente affatto secondarie.
La prima è data dal fatto che nessun rappresentante dell’imperialismo internazionale, nonostante le gravi contraddizioni politico-militari ed economico-territoriali che lo attanagliano, potrebbe mai difendere con convinzione e mezzi adeguati un esperimento sociale teso alla sua destituzione e a quella del modo di produzione e dei rapporti di forza sociali che lo fondano.

Non solo gli Stati Uniti hanno “tradito”, ma pure gli europei, anche quando fingono di voler condannare il sovrano di Ankara. La cui potenza militare, la posizione geo-politica e, ancora una volta, l’interscambio commerciale (80 miliardi di euro annui con la sola Europa) è più importante per la Nato e l’Occidente di qualsiasi altra considerazione umanitaria e “democratica”.
Anzi in realtà, forse, nessuno ha tradito, neanche Trump: semplicemente ognuno ha agito o agisce in base al proprio interesse prioritario. Ai vertici del quale non sta sicuramente la questione curda o la salvezza del Rojava; mentre tutti sono disposti ad inviare le proprie cannoniere in difesa dei giacimenti di petrolio, come sta accadendo in queste ore per i giacimenti ciprioti (qui), ma non a bloccare collettivamente ed immediatamente la vendita di armi al regime di Ankara.

La seconda questione è anche più semplice anche se, una volta dimenticata la Storia dei conflitti sociali e militari, sembra oggi più difficile da comprendere.
Il dramma che sta per avvenire a Kobane, e nelle altre località dove si è maggiormente manifestato l’esperimento del confederalismo democratico curdo, è già avvenuto altre volta nella Storia degli ultimi 148 anni.

Infatti dopo la sconfitta delle truppe francesi e di Napoleone III a Sedan nel 1870, i comandi prussiani non ebbero difficoltà a lasciare che una parte dell’armata francese si riarmasse per reprimere nel sangue l’esperimento della Comune di Parigi, prima forma di autogestione politica, militare ed economica del proletariato francese ed europeo. Il muro dei federati al cimitero di Père-Lachaise, dove il 28 maggio del 1871 furono fucilati 147 comunardi superstiti dopo la caduta della città nelle mani delle truppe versagliesi, è ancora lì a ricordarcelo, anche se tanti corrono a visitare da turisti quel cimitero ricordando soltanto che lì si trova la tomba di Jim Morrison.

L’avanzata delle truppe di Assad, in compenso, sarà lenta. Putin non vuole una divisione della Siria che metta in pericolo la presenza delle basi russe in quell’area e, contemporaneamente non vuole irritare il novello compare Erdogan, che ha contribuito ad armare con i più moderni sistemi di difesa e di attacco attualmente a disposizione della tecnologia militare russa. Per questo si è già chiamato fuori, mentre i militari siriani si stanno spostando verso Kobane, ma quando arriveranno ancora non si può sapere con certezza.
Motivo per cui vale qui un secondo esempio.

Tutti ricordano la gloriosa e disperata rivolta del ghetto di Varsavia nelle primavera del 1943 (19 aprile – 16 maggio). Unico ghetto ad insorgere contro il tentativo tedesco di deportarne tutti gli abitanti, vide circa cinquecento giovani male armati (con revolver e bottiglie molotov principalmente) tener testa per quasi un mese, sotto il comando di Marek Edelman (membro del Bund – Unione Generale dei Lavoratori Ebrei), a migliaia di soldati tedeschi e membri delle SS.
Sono però di meno coloro che ricordano l’insurrezione dell’anno successivo (1 agosto – 2 ottobre 1944), quando l’intera città insorse contro l’occupazione nazista, mentre le truppe sovietiche si trovavano già alle porte della stessa. I combattimenti portarono ad una prima ritirata delle truppe della Wermacht, che però poi tornarono in forze per sconfiggere la resistenza polacca e massacrare decine di migliaia di abitanti (donne e bambini compresi, naturalmente) sotto gli occhi impassibili dei comandanti sovietici che fecero entrare le truppe tra le rovine della città soltanto nel gennaio del 1945.

Stalin e i sovietici preferirono sicuramente assistere al massacro e alla distruzione della città simbolo delle resistenza polacca dalla riva orientale della Vistola, piuttosto che aiutare un popolo ritenuto non solo nemico, ma anche coraggioso, ribelle e fieramente desideroso d’indipendenza.
Proprio quel popolo che sia la Prima Internazionale che Marx e i volontari garibaldini, nel corso di due sfortunate spedizioni (quella di Francesco Nullo, fucilato dalle truppe zariste a Krzykawka, il 5 maggio 1863, e quella di Stanislao Bechi, caduto a Włocławek il 17 dicembre 1863) cercarono di appoggiare durante l’insurrezione del 1863 contro il dominio zarista.

A settant’anni di distanza l’uno dall’altro, questi episodi sembrano anticipare quello che sarà, in assenza di una maggiore solidarietà internazionalista su scala mondiale, il destino dell’esperimento confederalista del Rojava, a meno che i curdi stessi non scelgano una strada di rinuncia ai loro ideali.
L’invasione turca della Siria del Nord-est ha diverse motivazioni e ancora più diverse sono le contraddizioni in loco che faranno del Vicino Oriente il luogo in cui si scatenerà, molto probabilmente, il prossimo conflitto globale, ma affinché quest’ultima possibilità si dispieghi in tutta la sua orribile determinazione e potenza occorre che il Rojava sia sconfitto, sottomesso e distrutto. Molto probabilmente nel balbettio insignificante dell’Europa (che su quelle sponde finirà di affondare come a Monaco nel settembre del 1938), nel rumore assordante delle manovre diplomatiche di Stati Uniti e Russia, nel mugugnare di opposizioni che dopo aver perso il faro dell’internazionalismo troppo spesso si perdono nel frontismo e nelle dispute ideologiche ormai mummificate, e, soprattutto, tra le urla, i lamenti e le bestemmie dei feriti e dei morenti, dei combattenti e dei civili del Rojava. Ovvero di questa nuova Comune al centro dell’inferno che viene .

Un’area in cui, ancora una volta, si giocherà sulla pelle dei più deboli una partita cinica e spietata, dove anche i profughi diventeranno sempre più un’arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei oppure autentica una volta spostati nel Nord-est siriano ed invitati a difendere il territorio. assegnatogli dal nuovo Saladino, contro i curdi. Anche questa una storia assolutamente non nuova se si pensa che la Francia colonizzò l’Algeria deportando là molti insorti del 1848 e il Regno Unito l’Australia deportandovi sottoproletari e ribelli irlandesi, solo per fare rapidamente due riferimenti storici.

Mentre in un paese politicamente vile da troppo tempo, in cui i combattenti di ritorno dalle miliziue curde sono inquisiti, i traditori di Abdullah Öcalan1, e di qualsiasi altra opzione che non sia quella di servire fedelmente gli interessi del capitale nazionale ed internazionale, fingono di stracciarsi le vesti, stazzonandole peraltro soltanto un po’.

Ultima ora

A dimostrazione della sua ‘democraticità’ e ‘neutralità’, Facebook ha oscurato i profili di alcune testate italiane indipendenti da sempre schierate a fianco della battaglia condotta dai curdi del Rojava. La Redazione di Carmillaonline si schiera e solidarizza con Infoaut, Contropiano, Dinamopress, Radio Onda D’Urto, Globalproject.info e Milanoin movimento.com, nel denunciare l’accaduto, probabile premessa ad ancor più gravi censure future nei confronti di chi si opporrà alla guerra, non solo turca.


  1. Nel 1998 le autorità siriane scelsero di non consegnare il leader del PKK ai Turchi, ma gli intimarono di lasciare il paese. Per Öcalan fu l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di asilo politico durante la quale egli si rifugiò prima in Russia da cui fu invitato ad allontanarsi dopo pochi giorni.
    Da Mosca Öcalan giunse a Roma il 12 novembre 1998 dove il leader del PKK si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere asilo politico, ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il governo D’Alema a ripensarci.
    Non potendo estradare Öcalan in Turchia, e a causa del ritardo nella concessione del diritto d’asilo, che fu riconosciuto a Öcalan troppo tardi, il 16 gennaio 1999, dopo 65 giorni, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi.. Il “caso Öcalan” fu origine di critiche al governo D’Alema, accusato tra l’altro di aver trascurato gli articoli 10 e 26 della Costituzione italiana che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.
    Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del Millî İstihbarat Teşkilatı[9] durante un suo trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi e portato in Turchia dove fu subito recluso in un carcere di massima sicurezza. Dove tutt’ora sconta l’ergastolo  

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Un altro 12 dicembre https://www.carmillaonline.com/2016/12/14/un-altro-12-dicembre/ Tue, 13 Dec 2016 23:10:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35298 di Sandro Moiso

12_dicembre_2016 Quarantasette anni fa, il 12 dicembre 1969, al culmine di una stagione di formidabili lotte, lo Stato, la classe dirigente italiana e i loro servi non seppero rispondere in altro modo che con una provocazione di stampo terroristico che, con l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, causò 17 morti e 87 feriti. La Strage di Piazza Fontana, come sarebbe stata in seguito ricordata, aprì però non solo una stagione di attentati, ma anche quella in cui la strategia della tensione contribuì a provocare una levata di scudi antifascista in difesa [...]]]> di Sandro Moiso

12_dicembre_2016 Quarantasette anni fa, il 12 dicembre 1969, al culmine di una stagione di formidabili lotte, lo Stato, la classe dirigente italiana e i loro servi non seppero rispondere in altro modo che con una provocazione di stampo terroristico che, con l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, causò 17 morti e 87 feriti.
La Strage di Piazza Fontana, come sarebbe stata in seguito ricordata, aprì però non solo una stagione di attentati, ma anche quella in cui la strategia della tensione contribuì a provocare una levata di scudi antifascista in difesa dei diritti dei lavoratori, delle donne, dei giovani e della Costituzione che avrebbe rafforzato notevolmente le ragioni dello scontro di classe e liberato istanze e forze prima apparentemente sopite.

Sarà un caso, ma il 12 dicembre di quest’anno un mondo politico asfittico, una classe dirigente in fuga dalle proprie responsabilità e una concezione dittatoriale del potere e dei rapporti tra cittadini e Governo hanno prodotto qualcosa di molto simile. In faccia a milioni di italiani (che hanno compattamente votato affinché il regime della corruttela bancaria e mafiosa, dello sfruttamento scellerato di una manodopera sottopagata e maltrattata e dell’esaurimento di qualsiasi risorsa ambientale ed economica ai fini della pura e semplice appropriazione privata se ne andasse per essere sostituito da un governo, almeno apparentemente, eletto democraticamente) il PD e il suo ciarliero segretario, un incartapecorito rappresentante delle istituzioni, una sua pallida ed insignificante controfigura, i rappresentanti nemmeno più tanto oscuri delle consorterie bancarie e massoniche oltre che i rimasugli di un europeismo che vive ormai soltanto nella rappresentazione mitologica e punitiva che ne viene fatta, hanno fatto scoppiare un’altra bomba. Forse di portata ancora peggiore e anche più dannosa.

Il Governo clone, più che fotocopia, del governo Renzi, nasce con già sulle spalle l’aumento dei morti sul lavoro, l’aumento delle vittime del disastro ambientale (dall’inquinamento di Taranto, Brescia e della Terra dei fuochi al dissesto idrogeologico fino al mancato rispetto delle norme anti-sismiche), l’aumento dei suicidi per fallimenti, perdita del posto di lavoro oppure dei risparmi di una vita; tutti causate dai suoi consimili negli ultimi cinque anni:
Oltre ad avere alle spalle un aumento della povertà che è stato del 141% negli ultimi dieci anni, più del doppio rispetto al 2005.1

Disagio, rabbia, stanchezza sono stati sicuramente il motore principale della fragorosa vittoria del No nel recentissimo referendum costituzionale. Hanno costituito la molla del poderoso calcio in culo con cui i lavoratori, i giovani, i disoccupati, le donne italiane hanno risposto all’arroganza del governo e dei suoi ducetti. Risultato che potrebbe raddoppiare con il referendum contro il job act che dovrebbe svolgersi questa primavera. Eppure una classe dirigente priva di capacità politiche, o fosse anche solo di “impresa”, ha voluto, cercato, imposto un’altra prova di forza. Più brutale e coatta di quel referendum che ha già virtualmente fatto saltare i denti dalla bocca di parecchi suoi imbonitori. Probabilmente per fare vedere davvero chi ha le palle, sia a livello nazionale che in Europa.

ministri-2016 Questa è infatti la narrazione che il segretario del PD Matteo Renzi vorrebbe dare ancora per vincente sia presso le congreghe europee che presso i suoi dissennati elettori. Poletti ancora al Ministero del Lavoro, la Boschi premiata con un innalzamento della sua funzione e del suo ruolo, Lotti ministro con varie deleghe alle nomine più delicate, Alfano passato dagli Interni agli Esteri per evitare la prossima valanga delle conseguenze delle menzogne e delle omissioni sul caso Shalabayeva e così via tutte le altre conferme indicano proprio questa strategia o, meglio, mancanza di strategia. Così come ogni atto dissennato del potere spesso rivela. Tanto da far rilevare che l’unica rimossa d’ufficio, la Giannini, con il pretesto che sarebbe stata la “buona scuola” (ma non era renziana la proposta?) a causare la vittoria del No, era l’unica ministra i cui dipendenti (gli insegnanti), secondo alcuni istituti di ricerca, avrebbero votato, anche se con una maggioranza risicata, principalmente per il Sì.

L’Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, in un recente report ha rilevato che gli stipendi in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale e che peggio fanno solo Spagna e Portogallo, che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto.2 Ma il clone di Renzi in un discorso durato appena 17 minuti, in un’aula parlamentare semi-deserta, non ha nemmeno sfiorato l’argomento mentre invece ha confermato sostanzialmente tutti gli obiettivi del precedente governo e la volontà di rimanere in sella fino a quando il potrà contare su una risicata maggioranza di voti.

Bluffatori patentati che fingono di essere determinati, ma che in realtà, come tutti i rappresentanti di regimi autoritari, non possono far altro che ribadire la propria arroganza e la propria incoerenza travestendola di effimera progettualità (“Oggi dico una cosa e poi domani un’altra, tanto che differenza fa? Ho salde in mano le redini del potere!”). Uomini e donne di governo su cui sarebbe forse ora di indagare più approfonditamente per verificare da dove arriva , per esempio, l’autorevolezza di un ministro che rappresenta un partito da 2% dei voti oppure quella di un Ministro dedito “obbligatoriamente” alle infrastrutture (con altro vocabolario: alle grandi opere).

A tutto ciò gli italiani che hanno votato No il 4 dicembre sapranno ancora adeguatamente rispondere, non c’è dubbio. E magari anche con gli interessi. Mentre c’è da dubitare, piuttosto, che siano quelli che hanno cavalcato il fronte dello scontento a sapere o volere rispondere in maniera adeguata a questa provocazione. Giornalisti che rinunciano a girare il coltello nella piaga per non fare soffrire il governo appena insediato oppure leader politici che promettono generiche manifestazioni di piazza. Ma dove, quando, come: no, non lo dicono. Magari aspettando, con un po’ di sceneggiate da Aventino (Che, ricordiamolo, già non servì a un cazzo con Mussolini…figuriamoci adesso!), che gli animi sbolliscano per conservare il loro apparente stato di perenne opposizione. E di moderatori, si intende!

Certo le scuse possono essere molte: le scadenze europee (sempre quelle al primo posto); il salvataggio delle banche anzi della Banca più antica del mondo; la definizione della nuova legge elettorale….certo! Ma tutto ciò potrebbe essere fatto sotto l’occhio attento di piazze occupate, magari proprio nella capitale, da cittadini, lavoratori e giovani furiosi, incazzati e vigili.

Dietro al clone non c’è solo l’originale fiorentino con il suo cerchio magico. C’è l’Europa dei sacrifici e del taglio della spesa pubblica, dell’impoverimento generalizzato,3 del salvataggio degli interessi dei grandi speculatori e delle banche. Un’Europa imbottigliata nelle sue contraddizioni il cui tappo sta per saltare. Come i timori sollevati in Germania e Francia dalla sconfitta referendaria del Sì hanno ben dimostrato fin dal 5 dicembre.

grande-dittatore Oggi quelle forze si stanno giocando il tutto per tutto e non c’è molto da scegliere: occorre rovesciare il tavolo delle trattative e degli accordi, del bon ton e dei sorrisi sprezzanti, delle minacce sovra-nazionali e degli accordi internazionali. In gioco ci sono la sopravvivenza e il miglioramento o il peggioramento ulteriore delle condizioni di vita di decine di milioni di persone e questo governo è un baluardo davvero troppo debole per contenere l’ondata in arrivo.

Certo non ci sarà da andare troppo per il sottile: “se ci sarà, lui non ci sarò io” non è più un modo per ragionare del presente stato di cose. Oggi occorre costruire la più larga opposizione possibile a partire dal basso: dai movimenti di lotta come quello NoTAv ai centri sociali, dai sindacati di base a tutti i residui di opposizione che rimangono nei partiti e nei sindacati di ogni risma e a tutta la rabbia e l’insoddisfazione che si sono depositate nella società. E non importa se in alcuni casi il tutto potrebbe assomigliare ad una sorta di movimento dei forconi: saranno la determinazione di chi partecipa e le parole d’ordine e i programmi a scegliere chi dovrà porre un severo stop al ceto politico ed imprenditoriale parassitario che ci sta soffocando. E a determinarne la vittoria, elettorale e/o sociale, assediando i palazzi del potere in cui si sono arrogantemente, ma anche paurosamente e vilmente arroccati i nostri avversari.


  1. Secondo una recente inchiesta oggi 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia. Basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Un incremento che non ha risparmiato nessuna area della penisola: al nord il numero dei bisognosi è addirittura triplicato. E’ il profilo degli effetti causati dalla crisi (economica e occupazionale) iniziata nel 2008. Ma il dato che emerge con prepotenza è che spesso il lavoro – per come si è configurato dopo la crisi – a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti. Tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. Tuttavia gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l’Istat è sufficiente un’ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso, aumentano coloro che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. I lavoratori pagati con i voucher erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli over 65 (circa 4,5% si trovava in povertà assoluta). La crisi, distruggendo posti di lavoro e riducendo le opportunità di impiego, ha capovolto questa situazione. In un decennio il tasso di povertà è diminuito tra gli anziani (4,1%) mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni e nella fascia tra i 35 e i 64 anni.
    Il numero di donne che vivono in povertà assoluta è più che raddoppiato tra 2005 e 2015, un andamento coerente con quello del resto della popolazione. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, percentuale molto simile a quella di tutti i residenti in Italia (3,3%). Una quota che nel 2009 era salita al 4%, sia per le donne che per l’intera popolazione. Nel triennio successivo per le donne si arriva fino al 5,8%, per poi superare il 7% nel 2013, livello su cui si attesta anche nel 2015. Questo dato complessivo nasconde ulteriori situazioni di disagio sociale che riguardano in particolare il genere femminile. Cfr. qui 

  2. Cfr. qui 

  3. Sul piano dell’impoverimento fanno peggio di noi soltanto Germania, Estonia e Bulgaria, mentre ancora più ampio è il numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale. In questo caso agli individui a basso reddito vengono sommati coloro che vivono in situazioni di grave privazione materiale oppure in famiglie a “bassa intensità di lavoro”. Secondo l’Eurostat, tra 2005 e 2015 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 25,6% al 28,7 per cento. In tutta l’Unione europea, l’Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro. Il rischio è cresciuto anche in Svezia e Germania. La quota di famiglie in povertà assoluta è quasi raddoppiata. Erano 819mila nel 2005, mentre oggi sono quasi 1,6 milioni, con un balzo dal 3,6 al 6,10%. Su 100 famiglie, 6 non possono permettersi un tenore di vita accettabile. Ma il disagio è ancora più vasto secondo altri indicatori: il 38,6% delle famiglie non può far fronte a spese impreviste (erano il 29% nel 2005). Sono aumentate del 65% quelle che non possono permettersi di riscaldare la propria abitazione e dell’81% quelle che non consumano pasti proteici almeno 3 volte a settimana. I nuclei familiari più in difficoltà sono quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in cerca di occupazione. Le famiglie che dipendono da una persona che sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile. Come si diceva, tra le famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato rispetto al 2005, passando dal 3,9% all’11,7% del 2015. È più che raddoppiata la probabilità di trovarsi in povertà assoluta se il capofamiglia è un lavoratore autonomo, mentre la stessa probabilità rimane contenuta per le famiglie dei colletti bianchi, anche se in proporzione, rispetto al 2005, anche per esse è aumentata di quasi dieci volte. Cfr. ancora qui 

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Frammenti di vite spezzate https://www.carmillaonline.com/2016/06/07/frammenti-vite-spezzate/ Mon, 06 Jun 2016 22:01:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30859 di Fiorenzo Angoscini

Quaderni FLC pinto Quaderni della Piazza, Giuseppe Magurno e Marina Renzi (a cura di), LUIGI. Una storia semplice (con Ezia Valseriati, 2013, pp.94, euro 10,00); GIULIETTA. La tête bien faite (2014, pp.154, euro 10,00); LIVIA. La ricerca dell’umano (2014, pp.144, euro 10,00); ALBERTO. Una questione scientifica (2015, pp.156, euro 10,00); CLEMENTINA. Una concreta utopia (2016, pp.186, euro 10,00); EUPLO, BARTOLOMEO, VITTORIO. Percorsi del lavoro (2016, pp.152, euro 10,00), Federazione Lavoratori della Conoscenza-CGIL Brescia

In occasione del 42° anniversario della strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974) si è conclusa [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Quaderni FLC pinto Quaderni della Piazza, Giuseppe Magurno e Marina Renzi (a cura di), LUIGI. Una storia semplice (con Ezia Valseriati, 2013, pp.94, euro 10,00); GIULIETTA. La tête bien faite (2014, pp.154, euro 10,00); LIVIA. La ricerca dell’umano (2014, pp.144, euro 10,00); ALBERTO. Una questione scientifica (2015, pp.156, euro 10,00); CLEMENTINA. Una concreta utopia (2016, pp.186, euro 10,00); EUPLO, BARTOLOMEO, VITTORIO. Percorsi del lavoro (2016, pp.152, euro 10,00), Federazione Lavoratori della Conoscenza-CGIL Brescia

In occasione del 42° anniversario della strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974) si è conclusa la “fatica” editoriale intrapresa quattro anni fa dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza, quella che era la CGIL Scuola, il sindacato a cui erano iscritti ben cinque degli otto caduti nella piazza bresciana, assassinati dalla bomba fascista del 28 maggio 1974.

E proprio il titolo della collana, coniato appositamente per tale iniziativa, è esplicito, chiaro, inequivocabile: Quaderni della Piazza. Per sottolineare la centralità, ed importanza, di questo luogo.
Simbolo di democrazia, incontro e confronto, area libera nel senso di spazio dove proporre e verificare tesi, avanzare proposte, sostenere convinzioni e adottare decisioni conseguenti.
Nel 2000, durante le manifestazioni (ed occupazione permanente della piazza) per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, uno dei migranti protagonista di quelle lotte, definì Piazza della Loggia “il nostro parlamento”.

Questa dichiarazione, o slogan semplificato, rende molto bene il significato che gli si è voluto attribuire, il ruolo che ha svolto, l’importanza che ha assunto.
Nella “Piazza” ci si raduna, ci si incontra, si discute e dibatte, si decide: tutti e tutti insieme.
Un grande esempio di democrazia diretta e partecipata.

Molto significativa l’affermazione, scritta da Pierpaolo Begni, segretario provinciale FLC CGIL di Brescia, nella premessa dell’ultimo “quaderno”, quello dedicato ai tre caduti, lavoratori “manuali” e non “intellettuali” come gli altri cinque, ma che vale per tutti: “Un impegno fatto di attenzione per l’altro e soprattutto voglia di affermare il dissenso rispetto al riemergere del fascismo…precursori del progetto di democrazia radicale che emerse dalle lotte degli anni ’70”.

Il lavoro dei curatori, certosini tessitori ed indagatori delle esperienze umane, culturali, sindacali, politiche e professionali degli otto antifascisti trucidati dopo (molto tempo dopo) la Liberazione dal nazifascismo, è stato condotto con discrezione, eleganza, leggerezza (nel senso di non intrusione invasiva) raccontando molte delle sfaccettature, anche della vita privata, di ognuno di loro. Tracciando dei profili personali molto coinvolgenti.

Andando a briglia sciolta, senza ordine cronologico o d’importanza, si scopre che Bartolomeo Talenti, iscritto alla Federazione Lavorati Metalmeccanici (esperienza ‘unitaria’ di Fiom-Fim-Uilm), era “comunista, convintamente comunista. Ma, per motivi che non conosco (è il figlio Ugo che ricorda ndr) non aveva la tessera del PCI e non era iscritto, di conseguenza, a nessuna sezione. Acquistava e leggeva “ l’Unità” […] Seguiva, naturalmente, con preoccupazione gli attacchi alla democrazia che venivano dall’estrema destra e che avevano toccato anche Brescia. Ed era determinato come tutti gli antifascisti […] Per questo si trovava in Piazza Loggia” , oltre che padre indispensabile, provetto ed abile “basculatore-rampatore” (specializzazione della lavorazione dei fucili da caccia e precisione nell’industria delle armi) e calciatore-ala destra in un ruolo di buon livello professionistico (per i tempi di allora: anni ’40) in due formazioni di serie C: il Mantova (due anni) e il Brescia.

A Brescia, invece, Luigi Pinto foggiano del ’49, giunge nel 1972 per prendere servizio, come insegnante di applicazioni tecniche, presso la scuola media statale di Siviano a Monte Isola1 (Bs) dopo aver girovagato e lavorato in gran parte della penisola, Sardegna inclusa, come perito tecnico, diploma conseguito al termine dall’anno scolastico 1967-’68 presso l’Istituto Tecnico ‘Saverio Altamura’ di Foggia. Mentre frequentava l’Itis, durante le vacanze estive, svolgeva lavori precari e saltuari per potersi pagare i libri di testo dell’anno successivo.Nel settembre del 1973, solo otto mesi prima di essere dilaniato (morirà il 1 giugno 1974) dalla bomba nera, si era sposato con Ada Bardini, insegnante.Luigi era un militante dell’Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia.

Alla stessa organizzazione apparteneva anche Giulietta Banzi, insegnante del liceo classico ‘Arnaldo da Brescia’ e moglie dell’ avvocato Luigi Bazzoli, assessore democristiano all’urbanistica del comune di Brescia. Di famiglia e classe agiata, decise di affiancare “gli ultimi del mondo, gli ultimi di un tempo (per) dividere lavoro, amore, libertà”.2. Concorse, con Luigi Pinto, Livia Bottardi, Clementina e Lucia Calzari, Alberto Trebeschi, Pietro Bontempi, ed altri, a fondare il Sindacato CGIL Scuola a Brescia.
Il Nuovo Canzoniere Bresciano le ha dedicato un commovente ricordo musicale (tutto in dialetto) intitolato “La Giulia”,3 parole e musica di Tiziano Zubani.

Quaderni FLC lavoratori Sempre nell’ultimo ‘quaderno’, quello dedicato ai tre ‘operai’, si delinea la storia, la vita e, purtroppo, la morte, di un altro lavoratore ‘manuale’, questa volta della cazzuola, dei mattoni e della calce, dopo essere stato contadino e vignaiolo-cantiniere: Vittorio Zambarda.
Vittorio, inizia giovanissimo la sua attività antifascista, aderisce, subito dopo il 25 aprile, al Partito Comunista Italiano, nel quale milita fino al giorno della strage e della morte e per molti anni è segretario della sua sezione, quella della frazione Campoverde di Salò. Iscritto anche alla Federazione Lavoratori della Costruzioni-CGIL, il 26 maggio 1974, all’età di sessant’anni, due giorni prima della strage, termina una “vita di lavoro” e spera di potersi godere la meritata pensione.

Martedì 28 maggio è a Brescia, oltre che per partecipare alla manifestazione antifascista, anche per perfezionare la pratica di quiescenza, intesa come cessazione dal servizio del lavoratore.
Non riuscirà a “chiudere la pratica” e non potrà usufruire di quella parte di salario differito che mensilmente gli veniva trattenuto. Lo scoppio lo investe e ferisce gravemente. Muore il 16 giugno.

Di Livia, Clementina ed Alberto occorre parlarne collettivamente proprio per l’amicizia che li legava e le attività che condividevano. Livia, trentuno anni da poco compiuti, insegnava materie letterarie alla scuola media “Bettinzoli” ubicata nel quartiere dove anche lei abita; Clementina, coetanea di Livia, docente di Italiano all’ Istituto Magistrale “Veronica Gambara” ed Alberto (marito di Clementina), di poco più “grande”, ha 36 anni quando viene ucciso, laureato in fisica, insegna questa materia all’Itis “Benedetto Castelli” ed è iscritto al PCI. Partito a cui aderisce dopo aver frequentato e “praticato” l’ Oratorio della Pace4 ed essere stato iscritto al Partito Radicale (1957). La famiglia Trebeschi (con tutti i suoi ‘rami’ genealogici) è una delle più note, anche storicamente, dinastie bresciane. I due rami principali si differenziano totalmente ed ideologicamente. Uno, a cui appartiene Alberto, e il fratello Arnaldo, più ‘liberale-libertario’, l’altro, quello dell’ ex sindaco (1975-1985) democristiano Cesare Trebeschi (cugino di Alberto ed Arnaldo) più “conservatore”.5

Insieme e con il marito di Livia, Manlio Milani, la sorella gemella di Clementina, Lucia, suo marito Giorgio Zubani partecipano e contribuiscono ad organizzare le iniziative, e proiezioni, del Circolo del Cinema di Brescia (costituito nel 1966); con altri docenti ed insegnanti, come sopra già detto, fondano il Sindacato CGIL Scuola.
Inoltre, sono tutti, teste pensanti del “Circolo Culturale Arialdo Banfi” di Piazza Garibaldi-Porta Milano che, insieme ed affiancato dal “Circolo Culturale Julian Grimau” di Piazzale Arnaldo-Porta Venezia, sono tra i più attivi e vivaci della città. Anche i più spregiudicati, sia in senso politico che di costume. Per il ruolo e funzione che svolgono sono sempre “sotto tiro”6. A Livia Bottardi Milani, nel 1975, un anno dopo la strage, viene intitolata la sezione bresciana dell’Associazione Italiana Educazione Demografica, con cui aveva iniziato a collaborare nel 1972. Il 27 maggio dello stesso anno anche la biblioteca dell’Istituto Tecnico Commerciale “Cesare Abba” viene ‘intestata’ alla professoressa che, nell’anno scolastico 1972-1973, aveva insegnato lì.

Infine, ma non da ultimo, tutt’altro, incontriamo Euplo Natali, il più anziano (69 anni) delle otto vittime, marchigiano di Iesi (An) migrato a Brescia in cerca del duro mestiere. Per vivere.
Sulle rive del fiume Mella giunge diciottenne, dopo aver conseguito il diploma di Perito Industriale; era un tecnico “sì, non un operaio” tiene a specificare il figlio Elvezio nella sua testimonianza. La precisazione non è una presa di distanza, una discriminante rispetto alla classe operaia, bensì la riaffermazione di quella che in molti definiscono “l’etica comunista del lavoro”. I militanti politici dovevano essere i “migliori”, i più capaci e precisi. Dovevano essere, come sosteneva Brecht, “gli indispensabili”. Sempre a rischio di licenziamento, rappresaglia, trasferimento nei reparti confino erano i più professionalmente diligenti. Ma mai complici e, soprattutto, politicamente conflittuali.
Viene assunto alla Tubi Togni, poi Acciaieria Tubificio Bresciana, ma nel 1941 viene licenziato per motivi politici: è un antifascista convinto.
Grazie alle sue competenze professionali viene subito assunto alla Breda (fabbrica d’armi) e nel 1943, proprio per le sue capacità, viene reintegrato all’ATB.

Dal ’43 al ’45 non si sottrae al lavoro politico, non risulta ufficialmente essere un gappista ma rappresentante del PCI nel Comitato di Liberazione Nazionale della “Stocchetta” (località periferica di Brescia) dove risiede. Dal 1945 al 1948 è segretario della locale sezione comunista.
Terminato il mandato non accetta il rinnovo dell’incarico per “divergenze” con alcuni compagni. Pur essendo un comunista critico: “Rimase, comunque, sempre iscritto al PCI” . Ed alla Federazione Lavoratori Metalmeccanici (secondo la testimonianza del figlio Elvezio).

Purtroppo, recentemente (2013) l’immagine personale e politica di Euplo è stata infangata dalle farneticazioni di un fascista che ha tentato di coinvolgere (legittimato, purtroppo, da una indiretta ma irresponsabile accettazione di confronto che il presidente dell’associazione famigliari delle vittime strage di Piazza della Loggia gli ha concesso, marzo 2011) il militante antifascista e comunista in una impossibile trama perversa secondo cui, Euplo Natali, sarebbe autore e vittima dell’eccidio del 28 maggio 1974. “In primis tra le otto vittime di Brescia c’è un gappista ex-partigiano, Euplo Natali, sul quale si è fatto un insolito silenzio”. Tralasciando lo stile ”letterario”: è un nostalgico di cui non viene citato volontariamente né il nome del fascista in questione, tanto meno il titolo del sedicente romanzo storico di cui è autore, per non concedergli la benché minima “pubblicità”.

Basti ricordare che ad Euplo Natali è stata dedicata (ed è tutt’ora intitolata) la Casa del Popolo di viale Risorgimento, nel quartiere bresciano di Urago Mella. Zona popolare e proletaria nella zona ovest della città. Al suo nome è anche dedicata una Polisportiva che opera nello stesso rione.
Come sempre i fascisti sono ignoranti, stupidi ed arroganti. Oltre che assassini.

In chiusura non posso esimermi dal ricordare che Euplo Natali (ero giovanissimo: 9-10 anni, ed in maniera solo visiva: lo guardavo dalla finestra di casa mia nel Quartiere Primo Maggio, entrare ed uscire, insieme al figlio Rolando, entrambi sempre in bicicletta, dal cancello dell’officina “avvolgimento motori elettrici” dove collaboravano) e Livia Bottardi (che ho avuto come insegnante di Italiano, Storia e Geografia per un anno alle scuole medie inferiori) sono le due vittime della strage che ho avuto modo di conoscere prima dell’eccidio.


  1. Monte Isola è la più grande isola lacustre d’Europa, ed è al centro del Lago d’Iseo  

  2. Tratto da “L’Internazionale” di Franco Fortini  

  3. Che bèla la Giulia che bèla le sguanse culur del lat sintila parlà se lè bèla la te fa namurà. Sintila quand la dis “la vita bisogna doprala a cambiàs noalter e la nostra storia per fal gom le nostre mà”. Quand to sintit a parlà, sie dre a pensà ‘nde per me po’ me so ignit a scusà, sensa gna dit el perchè. E chela matina a la scola quand ghera l’ocupasiu’ disie a chèla sent la de fora sti atenti compagn al purtù. La Giulia la usa ”i fascisti i ria so dai mur la dedrè riciama i compagn stom po atenti se sa ol ndà aanti amo un dè”. Quand to sintit a parlà, sie dre a pensà ‘nde per me po’ me so ignit a scusà, sensa gna dit el perchè. E chela matina so en piasa co l’acqua che ignia so un po rada go dit “ve che sota l’ombrela che fet pò le en mèss a la strada”. La va sota el portec de frèsa en temp per dim l’oltima volta “a venser la sarà la vita” la nostra speransa e la canta. Quando to ìsta per tera, col sanc go pensàt sul a me vulie domandat amò scusa, ta ghet mia ìt vita a se. Che bèla la Giulia, lia bèla le sguanse culur del lat vidila le èn piàsa per tera e me con la oio de usà. La vita lè Giulia la vita che vens chèst tal pode surà e quand che so stracc ma sal dise argota garo bè emparat. Quand to sintit a parlà, sie dre a pensà ‘nde per me po’ me so ignit a scusà, sensa gna dit el perché. Ascoltabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=NCYUbrv67Wg  

  4. Vivace ambiente cattolico bresciano, annesso alla omonima Chiesa che appartiene alla Congregazione Oratori di San Filippo Neri  

  5. Per approfondire ulteriormente la figura di Alberto Trebeschi, vedi anche: C. Bragaglio, P. Corsini (a cura di), Alberto Trebeschi. Scritti 1962-1974. Diario, lettere, interventi, Brescia, Luigi Micheletti Editore, 1984  

  6. In luglio ed ottobre del 1969 i locali di Piazzale Arnaldo, dove hanno sede il ‘Circolo Grimau’ e la sezione ‘Aldo Caprani’ del PCI subiscono attentati. Domenica 8 marzo 1970, fascisti provenienti anche da altre province lombarde assaltano le sedi del “Circolo Banfi”, sezione “Giuseppe Gheda” del PCI e “Giuseppe Verginella” dell’ANPI di Piazza Garibaldi. Per questo raid squadristico, una vera e propria spedizione punitiva armata, vengo arrestati alcuni tra i più pericolosi arnesi del neofascismo regionale. Alcuni nomi: Annamaria Romagnoli (moglie di Giancarlo Rognoni) Nestore Crocesi, Francesco Petronio, Edoardo Ceft, tutti di Milano. Raffaele Maio, Enzo De Canio, Piero Raffi di Brescia, Pietro Tedeschi di Gottolengo ed alcuni componenti della cosiddetta banda di Salò: Umberto Lora, Vittorio Manca, Pietro Iotti. Diego Battista Odelli di Borno, Sergio Geroldi di Lovere, Marco Salvetti di Darfo, Federico Ghezza di Piancogno. Tre giorni dopo, una bomba ad alto potenziale distrugge la forneria dei fratelli Verzelletti, posta all’angolo tra via Pusterla e Piazzale Cesare Battisti a Porta Trento, e viene messa in relazione con l’assalto di Piazza Garibaldi. I Verzelleti, noti antifascisti comunisti, erano a difesa della sede. (Notizie tratte da 28 maggio 1974. Strage fascista a Brescia. Dossier di dieci anni di violenza fascista, Edizioni Movimento Studentesco, giugno 1974)  

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Una vampira si aggira per l’Europa. Carmilla On Tour: Brescia 27 febbraio https://www.carmillaonline.com/2016/02/20/una-vampira-si-aggira-per-leuropa-carmilla-on-tour-brescia-27-febbraio/ Fri, 19 Feb 2016 23:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28655 una vampira3 Anche una vampira dai candidi denti aguzzi come Carmilla può talvolta desiderare di abbandonare un’esistenza soltanto virtuale e decidere di uscire dallo schermo, sul quale è solita manifestarsi, per mostrarsi nella realtà. Per questo motivo alcuni redattori di Carmilla on line parteciperanno ad un incontro con i lettori che si terrà a Brescia presso il Caffé letterario Primo Piano (via Beccaria 10) alle ore 17 di sabato 27 febbraio.

Tale iniziativa, dal titolo “Una vampira si aggira per l’Europa: Carmilla. Resistenza culturale, controinformazione e schegge taglienti”, è inserita all’interno di Carmine Resistente, una manifestazione che si tiene annualmente a [...]]]> una vampira3 Anche una vampira dai candidi denti aguzzi come Carmilla può talvolta desiderare di abbandonare un’esistenza soltanto virtuale e decidere di uscire dallo schermo, sul quale è solita manifestarsi, per mostrarsi nella realtà. Per questo motivo alcuni redattori di Carmilla on line parteciperanno ad un incontro con i lettori che si terrà a Brescia presso il Caffé letterario Primo Piano (via Beccaria 10) alle ore 17 di sabato 27 febbraio.

Tale iniziativa, dal titolo “Una vampira si aggira per l’Europa: Carmilla. Resistenza culturale, controinformazione e schegge taglienti”, è inserita all’interno di Carmine Resistente, una manifestazione che si tiene annualmente a Brescia, tra febbraio e aprile, per arrivare alla celebrazione del 25 aprile. Promossa dalla locale Rete Antifascista e patrocinata dalla locale sezione dell’ANPI intitolata ai Caduti di Piazza Rovetta, quest’anno sarà dedicata all’ottantesimo anniversario dell’inizio della Guerra di Spagna e al settantesimo della Costituzione Italiana.

Il Carmine è il quartiere storicamente sottoproletario e proletario della città, inserito nel centro storico e a ridosso di San Faustino, quartiere ormai da anni abitato prevalentemente da immigrati che sfocia in piazza della Loggia, nelle cui vicinanze si trova il Caffé letterario in cui si svolgerà l’evento. Saranno presenti Franco Pezzini, Gioacchino Toni, Alessandra Cecchi e Sandro Moiso che, per rivendicare anche un ruolo di alterità nei confronti di quello che si vorrebbe che fosse l’unico “stato di cose presenti”, approfondiranno esperienze personali e collettive alla luce di quella resistenza ed opposizione culturale che da sempre caratterizzano la webzine dedicata al personaggio ideato da Joseph Sheridan Le Fanu.

una vampira1 Per sottolineare e ribadire certezze e diversità dell’immaginario non solo culturale, ma anche contraddire realtà date per scontate e discutere di critica e progetti per il futuro con gli ospiti “attivi” presenti in sala.
Chissà che tale esperienza non possa ripetersi in futuro in altre città e località…

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Formelle di Stato https://www.carmillaonline.com/2015/06/10/formelle-di-stato/ Wed, 10 Jun 2015 20:12:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23144 di Rinaldo Capra

formella 1Dalla pagina Facebook di Viviana Beccalosi, “notorio” assessore della giunta Maroni in quota Fratelli d’Italia, leggo: “Vigilia dell’anniversario della strage di Piazza della Loggia: ecco la “pacificazione” tanto cara alla sinistra: nella notte trafugata la lapide che ricorda Sergio Ramelli in Contrada Sant’Urbano,…. A Brescia continuano a esserci morti di serie A e di serie B. Vergogna!

Le sparate della Beccalossi ci ricordano i conflitti concreti della memoria incapsulati nelle lapidi, come se la celebrazione dell’indelebile scritta nel marmo, rappresentasse un’irrequieta memoria del confronto irrisolto tra principi opposti. Una conversazione sociale sull’Italia post-fascista e post-strategia della [...]]]> di Rinaldo Capra

formella 1Dalla pagina Facebook di Viviana Beccalosi, “notorio” assessore della giunta Maroni in quota Fratelli d’Italia, leggo: “Vigilia dell’anniversario della strage di Piazza della Loggia: ecco la “pacificazione” tanto cara alla sinistra: nella notte trafugata la lapide che ricorda Sergio Ramelli in Contrada Sant’Urbano,…. A Brescia continuano a esserci morti di serie A e di serie B. Vergogna!

Le sparate della Beccalossi ci ricordano i conflitti concreti della memoria incapsulati nelle lapidi, come se la celebrazione dell’indelebile scritta nel marmo, rappresentasse un’irrequieta memoria del confronto irrisolto tra principi opposti. Una conversazione sociale sull’Italia post-fascista e post-strategia della tensione, che apre una negoziazione tra le parti nella ricerca di una normalizzazione ideologica, ancor prima che emotiva.

Gli scontri sulle lapidi sorgono quando gli eventi che trattano sono ancora vicini e dividono profondamente. L’uso strumentale della memoria attraverso la lapide mira a un’indeterminatezza del sapere collettivo, per legarlo al racconto della lapide stessa e rendere la storia e i valori che l’hanno determinata un ricordo residuale, indifferenziato, alieno e confuso.

Lo stato, attraverso i suoi istituti, gestisce la memoria collettiva per normalizzare e mistificare la storia di strategia della tensione, conflitti di classe, terrorismo di stato e mitigare la tensione agli scontri sociali e ideali, sempre brucianti, che pervadono la società. La memoria condivisa, l’imposizione della compassione per le vittime, sempre e comunque, senza nessun distinguo, unisce tutti in un unico grumo d’incoscienza e in nome della non violenza, della conciliazione e del perdono per il bene comune ci rende plasmabili e reclutabili per tutte le lotte del capitale con violenza inaudita. La dissoluzione dei contenuti della storia ci sottrae non solo coscienza, ma libero arbitrio.

La rimozione della formella che commemora Ramelli è emblematica; il lavoro di alcuni storici (più storia e meno memoria?) vuole, ma non ha ancora potuto, archiviare e conciliare le cronache animate da fronti opposti, che si stanno fronteggiando in una partita tuttora in corso, con un neo-revisionismo del fascismo, in qualsiasi forma si sia manifestato.

In quest’ottica è esemplare il progetto di Casa della Memoria, Rotary Club, Comune di Brescia, Gruppo Locale Bu e Bei per il “ Percorso della Memoria”, sancito con Delibera Comunale n° 230 2012 e con l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica (è già eloquente la composizione dei promotori). Esso prevede la posa di formelle commemorative di tutte le vittime della violenza politica dal 1962 a oggi, in forma indifferenziata e arbitraria, ordinate in fuorviante ordine cronologico. Il percorso si snoda da Piazza della Loggia, esattamente dalla Stele che ricorda la bomba, verso la salita al Castello, via Sant’Urbano.

Ecco le finalità, testualmente: “Si ritiene che una collettività, desiderosa di giudicare serenamente una parentesi tragica della propria storia, debba avere il coraggio di ammettere e di ricordare il dolore pagato quale prezzo per sconfiggere la violenza di quegli anni. Questa testimonianza vuole raccogliere in un’unica espressione ciò che è affidato all’episodica rievocazione in manifestazioni deputate.

brescia_loggiaBene: raccogliere il tutto in “un’unica espressione” avvicinando, nelle lapidi poste con tanta pompa, vittime e carnefici in nome di una stagione di tolleranza e “serenità” è la manipolazione delle coscienze, assolvendo e riabilitando, senza che ci sia stata nessuna espiazione, i fascisti di ieri e di oggi e i loro folli ideali. Vedere in un tratto di quattro metri le formelle di Pinelli, di Serantini e più in alto di Calabresi è simbolicamente il rinnovato controllo di polizia su quei compagni, è disinnescare ogni possibile consapevolezza e mistificare la storia, oltre che fare un torto a Pinelli e Serantini. Ironia inconsapevole della cronologia esasperata.

E ancora, se la Delibera del 2012, con il Patrocinio del presidente della Repubblica e della Casa della Memoria, celebra le vittime della violenza politica e Pinelli è morto in questura mentre era affidato a Calabresi, di quale violenza politica è vittima? Calabresi quale violenta parte politica rappresentava, prima di esserne a sua volta vittima? Chi ha scelto, con tanta sensibilità, di metterli vicini evidenzia la volontà di portare avanti il processo tanto caro ai vari La Russa, Beccalossi e assessori della giunta Paroli, con il placet di parte della cosiddetta sinistra, di mettere repubblichini e partigiani, terroristi fascisti e immigrati o sindacalisti tutti sullo stesso piano.

La violenza è sempre inaccettabile, indegna e chi ne è vittima va subito santificato, salvo che sia un immigrato morto in cella nella caserma dei Carabinieri di Piazza Tebaldo Brusati, il 12 Dicembre (bel caso di sincronicità) 2010, in circostanze diciamo oscure, o qualche altro miserabile, che non sarà mai ricordato con una formella sulla salita di via Sant’Urbano.

Per altro ci sarà sempre qualche intellettuale di sinistra pronto a inerpicarsi in ardite teorizzazioni per creare il consenso revisionista; ecco che alla commemorazione del 28 Maggio s’imbarca anche lo storico (ex Lotta Continua) Giovanni de Luna, il quale sostiene la necessità di un nuovo sguardo verso le vittime delle stragi, verso la resistenza e che la strategia della tensione ha perso. Auspica un nuovo patto di cittadinanza per riavvicinare la classe politica all’opinione pubblica per dare spessore alla memoria, che altrimenti rimane sospesa. Paragona Piazza Loggia a Charlie Hebdo: un’apoteosi alla presenza dell’Ambasciatore francese.

Forse sfugge qualcosa: non è la memoria collettiva a essere sospesa, ma è la sua revisione continua che la desertifica. Lo stato non solo ha il monopolio dell’uso della violenza, ma della violenza ha anche il monopolio della gestione della sua memoria e celebrazione, piegandone tratti e contenuti secondo la convenienza politica del momento, e in un’ineguaglianza abissale di rapporti di forza, ci obbliga a guardare la nostra storia con una lente deformante fino a perderne per sempre la cognizione.

Enigmatica, in tal senso, l’adesione di Manlio Milani e della Casa della Memoria al progetto. Quarant’anni passati a elaborare lutti personali e lottare per ottenere una giustizia borghese negata, avrebbero fiaccato chiunque. La perdita, il dolore, la frustrazione è il muro invalicabile con il quale si va a cozzare, noi pensiamo solleciti lo spirito di rivolta, ma l’oppressione, l’umiliazione inesorabile e invincibile, alla lunga genera sottomissione, pietà logora e indeterminata, rabbia esausta e addomesticata. Il ruolo ieratico di infaticabile custode della memoria e della verità, usura e compensa squilibri emotivi, assorbe tutto, ma ha inevitabilmente una funzione politica.

I riti e i protocolli delle istituzioni rapiscono la ragione alla lunga e generano un ruolo pubblico, autoreferenziale, lunare a volte, che crede di incarnare tutte le istanze relative alla storia e alla violenza politica, ma finisce per essere strumento di quel potere che ha creato la strategia della tensione.
Si vede la liturgia e non la fede.

Poi tutti con i capi in testa, Sindaco, Casa della Memoria, Ambasciatore Francese e notabili vari, via di corsa a riposizionare la formella del fascista Ramelli e posare l’ultima, quella per Charlie Hebdo.

Per concludere un proverbio polacco di rara efficacia, citato in uno Spaghetti Western di Sergio Corbucci1 : “Ci stanno facendo spingere un secchio pieno di merda con un bastone troppo corto per non sentirne l’odore”.


  1. Il mercenario, 1969  

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1000 Miglia ed è subito corsa a… https://www.carmillaonline.com/2015/05/23/1000-miglia-ed-e-subito-corsa-a/ Fri, 22 May 2015 22:01:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22642 di Rinaldo Capra

1000m - 1 Maggio è per Brescia la 1000 Miglia ancor prima che il mese della Madonna. Liturgia della santificazione dell’oggetto che rappresenta il capitalismo per eccellenza: l’automobile. Tutti i negozi del centro, dal fruttivendolo alla boutique alla moda, espongono foto e oggetti evocativi di quella che chiamano “la più bella corsa del mondo”.

Si respira un’aria entusiasta e frenetica, tutti ne parlano e si sentono coinvolti direttamente. Una chiamata alle armi cittadina alla quale nessuno si sottrae. Persino la classe operaia, che nelle fabbriche ci lavora e che conosce la voracità dei padroni, ne è affascinata e [...]]]> di Rinaldo Capra

1000m - 1 Maggio è per Brescia la 1000 Miglia ancor prima che il mese della Madonna. Liturgia della santificazione dell’oggetto che rappresenta il capitalismo per eccellenza: l’automobile. Tutti i negozi del centro, dal fruttivendolo alla boutique alla moda, espongono foto e oggetti evocativi di quella che chiamano “la più bella corsa del mondo”.

Si respira un’aria entusiasta e frenetica, tutti ne parlano e si sentono coinvolti direttamente. Una chiamata alle armi cittadina alla quale nessuno si sottrae. Persino la classe operaia, che nelle fabbriche ci lavora e che conosce la voracità dei padroni, ne è affascinata e accorre a infoltire il pubblico acclamante.

Per le strade del centro compaiono i partecipanti stranieri e li riconosci da come camminano con piglio superbo e ispirato, esseri superiori consacrati al dio auto; con tracotanza entrano nei negozi e con loro ricchezza, tra carburatori e vecchi pneumatici, comprano e comprano, tra la soddisfazione e le moine dei bottegai. La grande fabbrica dell’ostentazione borghese è già a tutto vapore.

La città si adegua, si prostra direi, all’occasione di profitto facile e abbondante. Tutti i giornali, le radio e le televisioni locali e nazionali promuovono l’evento. La concomitanza e relativa vicinanza con l’Expo moltiplica gli entusiasmi e il sindaco e la giunta inneggiano a questo grande evento, che solo Brescia poteva generare e gestire. Piazza Vittoria, dell’architetto del fascismo Piacentini, è la passerella di presentazione.

arengario-dux Sull’Arengario del Duce, sono piazzate le telecamere delle televisioni per le dirette-TV, inquadrano la piazza che brulica di umanità varia che allestisce gli stand, accanto alla base che secondo le intenzioni di un assessore fascista della passata amministrazione, doveva ospitare il Bigio restaurato, statua dall’eloquente titolo: ERA FASCISTA del Dazi. L’idea era che la ricollocazione, dopo un dispendioso restauro, e lucroso per chi l’ha eseguito, dovesse avvenire nei giorni precedenti il 25 Aprile, scatenando l’ovvia polemica politica. Tuttavia il placet della Soprintendenza e di ampie parti della cosiddetta “intellighenzia” cittadina, la racconta lunga sulla sensibilità e vocazione di Brescia.

I concorrenti scorrazzano con le loro preziosissime vetture ovunque, badando bene di fare più chiasso possibile ed essere notati, visti, ammirati. Dispensano emozioni e invidie in tutti gli astanti, coccolati dal ruolo di ricco e strafottente, fieri di essere l’altra parte della lotta di classe, di essere dei padroni. Per qualche giorno tutto ruoterà attorno a questo circo e anche librai della cosiddetta sinistra, come qualsiasi bottegaio dicono: – Bene, gente in città, tanti stranieri, si potrà lavorare di più.-

Le ragazzine sognano principi azzurri e vip sulle loro spider che le prendano come compagne d’avventura, e i ragazzi o gli anziani nostalgici discutono di alberi a camme, lucidi radiatori e immaginano di avere a portata di mano il mito della velocità. Ma solo da lontano, senza toccare o infastidire, anestetizzati da un’invidia quieta e innocua, che rassicura i concorrenti e ne fa fedeli tifosi. Per partecipare al sogno e omologarsi a quegli esseri privilegiati, consapevoli di non poter mai farne realmente parte, per mitigare la frustrazione e poter comunque dire: – Io c’ero!-, gli basterà comperare un simbolo, un gadget, un cappellino, un ombrello ed ecco fatto: si è parte dello spettacolo.

La corsa vuole tutti complici, che contribuiscono, aiutano, sopportano, e i soliti capitalisti ne trarranno profitto. In perfetto stile capitalista, i padroni si sfidano a suon di querele e ricorsi per il controllo dell’ACI di Brescia e quindi della corsa, senza esclusione di colpi, fino a portare in galera il precedente patron Costantino Franchi e il presidente ACI Bontempi ai domiciliari.1 Comunque a prescindere da quale fazione abbia la meglio, a comandare sono sempre e solo padroni, banchieri, Tycoon inquisiti per insider trading, vip della Tv, semplici nobili o ricchi sfondati stranieri.

Passano gli anni, da regno a repubblica, da destra a cosiddetta sinistra, ma i miti sono sempre gli stessi e i proletari sono le vittime designate. Essi non solo devono far felici i padroni applaudendo ai loro divertimenti, ma anche rendere più redditizia la festa; devono comprare i costosissimi gadget, ombrelli, giubbini della Mille Miglia. I padroni sono sicuri che lo faranno, illudendoli di essere come loro e sedare ogni loro stinto di rivolta.

E non si accontentano, i padroni, di vendere Rolex e Chopard, borse di Gucci e di Hermes ai loro simili tedeschi, giapponesi e americani, ma vogliono anche i pochi Euro dei cappellini, portachiavi e altre stronzate comprate dalla gente comune. Devono guadagnare anche dall’invidia, dal sogno e dal desiderio di riscatto sociale di tutti. Tutti accorreranno, con la pioggia o il solleone, per di vedere i ricchi in parata.

Ma se la corsa è il deserto dell’etica, fuori dalla corsa, la città di Brescia, è un deserto di inquinamento, de-industrializzazione selvaggia, sfruttamento brutale dell’immigrazione e corruzione. Per fortuna domenica tutto finisce e per un anno ne parleranno solo i soliti per programmare l’ottimizzazione della speculazione per la prossima edizione e poi via di nuovo in corsa.

BMW-328Nessuna voce si è levata, nessuna manifestazione, i centri sociali, il sindacato, dove sono? Molti dei concorrenti sono padroni che cassa-integrano (30.000 unità annue) e licenziano senza pietà (+ 23,6 % nel 2014), chiudono fabbriche (2 fallimenti al giorno nel 2014)2 e evadono le tasse, ma la sinistra, la cosiddetta sinistra dov’è? Questo mio dire mi pare vox clamans in deserto.


  1. Corriere della sera 21 settembre 2007  

  2. Sono 6.035 i lavoratori metalmeccanici bresciani direttamente colpiti dalla crisi: 2.254 addetti sono alle prese con la cassa integrazione ordinaria, 3.396 dalla cassa integrazione straordinaria, 385 dalla procedura di mobilità. http://www.cislbrescia.it/2015/02/04/fim-cisl-impennata-di-licenziamenti-nel-secondo-semestre-2014/  

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