BR – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fronte del porto: storia e memoria dell’Autonomia operaia ligure https://www.carmillaonline.com/2021/04/14/fronte-del-porto-storia-e-memoria-dellautonomia-operaia-ligure/ Wed, 14 Apr 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65750 di Sandro Moiso

Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, vol. VII, Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 336, 20,00 euro

«Il fenomeno eversivo ha sempre trovato in Genova un «humus» particolarmente fertile: non è necessario, infatti, risalire al periodo risorgimentale (quando le maggiori città italiane insorgevano ripetutamente contro l’aggressione delle milizie straniere, che appoggiavano i dispotici governi locali, abbracciando senza riserve la politica unitaria dell’unico Stato veramente italiano e cioè il Regno di Sardegna; e Genova, invece, insorgeva contro [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, vol. VII, Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 336, 20,00 euro

«Il fenomeno eversivo ha sempre trovato in Genova un «humus» particolarmente fertile: non è necessario, infatti, risalire al periodo risorgimentale (quando le maggiori città italiane insorgevano ripetutamente contro l’aggressione delle milizie straniere, che appoggiavano i dispotici governi locali, abbracciando senza riserve la politica unitaria dell’unico Stato veramente italiano e cioè il Regno di Sardegna; e Genova, invece, insorgeva contro quest’ultimo costringendolo ad una dura repressione) per trovare esempi di cruente sommosse contro i pubblici poteri attraverso episodi di guerriglia urbana organizzata.
È sicuramente il caso di quanto successe il 14 luglio 1948, quando alla notizia dell’attentato al segretario del Partito comunista, on. Palmiro Togliatti, contrariamente a quanto si andava verificando in altre città […] a Genova scoppiò una vera e propria insurrezione generale contro i poteri locali dello Stato e contro una formula di Governo che solo pochi mesi prima, al termine delle elezioni politiche del 1948, aveva ricevuto i suffragi della stragrande maggioranza degli elettori[…].
Analoga situazione si andò profilando alla fine del giugno 1960, quando una protesta anche legittima contro l’autorizzazione a celebrare in Genova – Medaglia d’oro della Resistenza – il congresso del M.S.I., si trasformò ben presto in un tentativo di insurrezione contro l’autorità del governo.
I fatti del 1960, comunque, non devono essere interpretati in chiave di mera contestazione, anche se violenta, del congresso del M.S.I., ma – probabilmente – quale primo sintomo di quel malessere che avrebbe qualche anno dopo travagliato tutta la sinistra rivoluzionaria, delusa della nuova impostazione ideologica dei partiti di quella storica, ormai attratti dalla politica delle «convergenze parallele» che sarebbe poi sfociata nel «centro sinistra» e, più tardi ancora, nel «compromesso storico» con l’ingresso del P.C.I. nella maggioranza di Governo.
Resta il fatto, comunque, che episodi del genere ebbero come diretta conseguenza:
–– l’assuefazione a considerare l’autorità legittima e democratica dello Stato, perdente in partenza
–– il grave rischio di una latente potenzialità criminosa;
–– la possibilità di strumentalizzazione per fini eversivi di una piazza che è facile ad esserlo»1.

A parlare così, come avrà già visto chi avesse consultato la nota a piè di pagina, non è un sociologo o un giornalista bensì il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia effettuata l’8 luglio 1980.
Se certe parole e considerazioni sulla bocca del gestore dell’azione stragista di Stato nei confronti dei militanti delle BR sorpresi nel “covo” di via Fracchia il 17 maggio del 1979 possono sembrare oggi ridicole se non offensive, è altresì certo che, come ho già sostenuto a proposito dello sviluppo di altre esperienze di lotta, la geografia politica e psicologica e la memoria storica dei territori contano non poco nel determinarne la combattività e resistenza dei loro abitanti. Sia in positivo che in negativo.

Il volume appena uscito per DeriveApprodi sulla storia dell’Autonomia ligure costituisce la prima parte di una ricerca divisa in due parti/volumi e si proietta oltre i primi anni Ottanta, periodo che stabiliva tutto sommato la deadline dei volumi precedenti dedicati agli “Autonomi” dalla stessa casa editrice, per arrivare fino al 2001 e alla “macelleria messicana” messa in atto dallo Stato italiano e dalle sue forze del dis/ordine nelle strade di Genova occupata dal G8 e successivamente nei locali della scuola Diaz.

La grossolana e superficiale ricostruzione del generale buonanima dimenticava più di un fattore tra quelli che si erano riversati nella rabbia e nella combattività genovese e ligure. Per esempio la formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari in cui, insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava sempre il fatto che l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Ma, poiché nella Storia le cose non sono mai semplici o scontate, il testo (che nel primo volume raccoglie una ventina di testimonianze, memorie e ricostruzioni di singoli aspetti oppure di esperienze collettive), sottolinea come la storia antifascista della città e della regione e la forte presenza del PCI tra le fila della classe operaia, soprattutto della sua “aristocrazia”, impedì all’esperienza dell’Autonomia locale di esprimere la stessa radicalità che si era andata manifestando in altre città e regioni .

Ad analizzare la contraddizione tra disponibilità diffusa alla lotta e i limiti che la tradizione revisionista e antifascista ponevano al suo sviluppo sono in particolare l’intervista ad Emilio Quadrelli2 e la memoria “giovanile” di Nico Gallo3 contenute nel volume. L’insorgenza proletaria espressa in maniera potenziale e, talvolta, nei fatti finiva così, a partire dal piano teorico, col non trovare un’espressione adeguata poiché come afferma Quadrelli nell’intervista citata:

Genova è la città che più di altre si oppone sostanzialmente al XX Congresso e lo fa rimarcando una retorica, quella della Resistenza tradita, che diventerà il principale punto di riferimento e l’ordine discorsivo dominante di tutti coloro che inizieranno a porsi alla sinistra del Pci. Tutto ciò che ha ruotato intorno a Giovan Battista Lazagna oalla 22 Ottobre è ascrivibile a questo. Lo sguardo di chi si oppone al Pci, almeno nella sua grande maggioranza, è rivolto al passato piuttosto che al futuro. Non che il futuro a Genova non esista, ma questo futuro non trova, se non in minima parte, una sua grammaticae finirà con l’essere sempre confinato dentro un lessico, sicuramente più radicale, le cui coordinate non riescono però a rompere con il passato. Diciamo che sul piano della scrittura la sintassi non si modifica.
Prendiamo il 30 giugno 1960. Lì, sicuramente, nella pratica e nella materialità delle cose ci sono elementi non secondari di rottura, ma questi elementi rimangono in potenza e non trovano una qualche sistematizzazione teorica e organizzativa. Il giugno 1960 non è piazza Statuto, questo mi sembra essere il nodo della questione e anche il motivo per cui Genova rimarrà, rispetto all’Autonomia, sostanzialmente estranea. Nel giugno 1960 non mancano sicuramente aspetti similari a piazza Statuto, soprattutto in rifermento alla composizione di classe ma, e qui si situa l’enorme differenza tra i fatti di Genova e quelli di Torino, dal primo emergerà centrale e come memoria l’antifascismo radicale e militante, dalla seconda l’anticapitalismo radicale e militante.

Potrebbe sembrare impietosa e, almeno in parte immeritata, l’analisi appena fatta, ma rivela un aspetto che, in misura diversa, aveva finito col limitare tutta l’esperienza della Sinistra extra-parlamentare italiana pre-Autonomia e che troppo spesso finì col manifestarsi anche nei ranghi liguri di quest’ultima, nonostante la varietà delle esperienze, e purtroppo ancora in una parte significativa dell’antagonismo attuale. Finendo col costituire una sorta di proustiana madeleine democratica e antifascista, destinata a fuorviare e paralizzare qualsiasi iniziativa di classe. Passata, presente e (speriamo di no) futura.
Ma, come affermano i curatori del volume, nell’Introduzione:

Rileggere le vicende della seconda metà degli anni Settanta oggi, alla luce dell’eredità che le idee e le gesta di una minoranza ribelle e comunista hanno lasciato negli stessi compagni e compagne che vi presero parte e nei movimenti nuovi e contemporanei, rappresenta una doppia sfida: al rischio del feticismo da una parte, all’abitudine alla rimozione dall’altra. Oggi è tempo di bilanci critici, non di memoir, di rivendicazioni postume o di continuità nostalgica. Non lo è nemmeno di ricerca equivoca e ipocrita dell’oblio. Ma questa è anche una sfida che si alimenta del presente; che cosa sono i Movimenti oggi ci spiega cosa siano stati quelli del passato (quali i loro passaggi obbligati e quali le opzioni mancate).
Il fatto che l’Autonomia operaia negli anni Settanta sia stata a Genova e in Liguria, rispetto ad altre aree in Italia, una vicenda minore (meglio: che ha fatto parlar meno di sé rispetto ad altre) non costituisce un buon motivo per non scriverne. Da un lato ci sono abbondanti ragioni che spiegano perché, nonostante la storica centralità, economica e industriale, della città e della regione, e nonostante la ricchezza culturale espressasi localmente almeno fino alla fine degli anni Sessanta, una prassi innovativa come quella dell’operaismo prima e dell’Autonomia operaia poi si sia schiantata contro il muro della composizione di classe locale e della sua rappresentanza politica. Dall’altro un Movimento così ricco nei suoi momenti culminanti (il Settantasette romano e bolognese) e così persistente nel tempo e radicale nelle analisi, è proprio nelle situazioni apparentemente più povere o meno clamorose che può meglio essere studiato, perché è lì che si presenta in modo più addensato ed essenziale. Ed è lì che l’arretratezza del contesto può mostrare in anticipo i segni del suo superamento4.

Per fare questo i due curatori hanno fatto proprio una scelta corale del racconto di tutta quella esperienza poiché, come affermano ancora nell’Introduzione a proposito della metodologia utilizzata:

L’Autonomia è un personaggio collettivo che partecipa alla vicenda assieme e attraverso i suoi protagonisti. Ognuno/a delle compagne e dei compagni che hanno accettato di scrivere – qualcuno/a per la prima volta – ha condotto il racconto in soggettiva. Il lavoro dei curatori è consistito nell’induzione di un processo di
ricomposizione molecolare. Quel Movimento, finito in un cono d’ombra storico, era un mosaico di istanze e voci distinte che assumeva la diversità come un elemento di ricchezza, perché la forza del comune denominatore era tale da consentire di espandere la diversità delle opzioni al di là di ogni limite, senza tuttavia snaturarsi e, fino al 1978, evitando sovradeterminazioni di una parte sul tutto; la multiformità dei contributi che presentiamo crediamo che diano conto di tutto ciò.
La ricostruzione di trent’anni di storia dei movimenti a Genova e in Liguria è declinata dal punto di vista dell’Autonomia operaia, che è uno sguardo di parte che non ha mai inteso essere neutro o storicamente obiettivo. È la prima ricostruzione narrata in prevalenza dai protagonisti e testimoni diretti senza i filtri all’opera nelle uniche fonti di informazione finora disponibili, i resoconti usciti dai tribunali, dalle questure e dalle redazioni dei giornali5.

La lettura del volume appena pubblicato ci permette pertanto di ri/leggere dall’interno e in contro luce un’esperienza collettiva che finisce, proprio per la sua intrinseca contraddittorietà, col rivelarsi più interessante di altre, proprio a causa delle sue debolezza e sconfitte perché, come ricorda Sandro Mezzadra al termine di questo primo volume con le parole scritte da Rosa Luxemburg all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista a Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»6.


  1. L’indole eversiva dei genovesi. L’audizione di Carlo Alberto Dalla Chiesa in Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, Vol.VII. Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 69-70  

  2. L’altra Autonomia operaia. Intervista a Emilio Quadrelli di Roberto Demontis e Giorgio Moroni in R. Demontis – G. Moroni (a cura di) Gli autonomi vol. VII, op. cit., pp. 235-249  

  3. Nico Gallo, Periferie, autonomie, librerie e cortei in R. Demontis – G. Moroni (a cura di), op. cit., pp. 250-260  

  4. Introduzione, op. cit., pp. 6-7  

  5. Ibidem, pp. 7-8  

  6. R. Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in Scritti scelti, Einaudi, Torino 1975, p. 680 cit. da S. Mezzadra, Postfazione con prologo in op. cit., p. 333  

]]>
La storia di un estremismo operaio https://www.carmillaonline.com/2019/10/17/la-storia-di-un-estremismo-operaio/ Thu, 17 Oct 2019 21:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55218 Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, pp. 240, euro 18,00

[E’ difficile, ancora a distanza di decenni, vedere affrontata la storia della lotta armata e delle sue organizzazioni in Italia senza che questa sia ammantata da una serie di paramenti sacri ideologici o di memorie giustificazioniste che rischiano, quasi sempre, di far affondare la Storia in un mare di problematiche etiche, morali o di appartenenza settaria politico-partitica e che finiscono coll’eludere la questione principale: ovvero come sia [...]]]> Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, pp. 240, euro 18,00

[E’ difficile, ancora a distanza di decenni, vedere affrontata la storia della lotta armata e delle sue organizzazioni in Italia senza che questa sia ammantata da una serie di paramenti sacri ideologici o di memorie giustificazioniste che rischiano, quasi sempre, di far affondare la Storia in un mare di problematiche etiche, morali o di appartenenza settaria politico-partitica e che finiscono coll’eludere la questione principale: ovvero come sia stato possibile che il fenomeno della lotta armata in Italia (non unico nell’Occidente di quegli anni) abbia visto l’adesione di un numero altissimo (questo sì unico) di operai alle sue organizzazioni, sia principali che secondarie.
Ed è invece proprio quello che cerca di fare Chicco Galmozzi con un testo che, nel ricostruire la genesi delle formazioni armate legate a quella che sarebbe poi diventata più nota come Prima Linea, concentra proprio l’attenzione su come tale iniziativa avesse preso forma proprio all’interno della classe operaia e delle sezioni operaie di Lotta Continua, a partire da quella di Sesto San Giovanni. Rivelandosi come uno dei migliori testi pubblicati fino ad ora sulla storia della classe operaia e delle sue lotte nel corso degli anni Settanta. Si potrebbe dire, forse, la Storia che ancora mancava di quella fase della storia della lotta di classe in Italia.
Un’interpretazione che manda a monte sia l’idea dell’ineluttabilità di ogni scelta che quella marxista-leninista, più vicina a quella delle BR, della coscienza importata nella classe operaia dall’esterno ovvero da avanguardie, rivoluzionari di professione e, in ultima analisi, da un’organizzazione politica pregressa.
Qui di seguito vengono presentati due estratti dal testo stesso, il primo tratto dall’introduzione curata da Marco Grispigni e il secondo direttamente dalle pagine di Galmozzi. S.M.]

Il libro di Enrico Galmozzi è importante e utile. Come dice il sottotitolo racconta quello che condusse una serie di persone, soprattutto operai, quelli che un tempo venivano definiti «avanguardie di fabbrica», da Lotta continua alla scelta della lotta armata, e infine alla creazione dell’organizzazione Prima linea. Potremmo dire, seguendo il modello di Guerre stellari, che il libro narra il «prequel» della storia di Prima linea.
Di libri di memorie di chi in quegli anni fece la scelta della lotta armata siamo pieni: pentiti, dissociati, irriducibili un po’ tutti hanno contribuito a questo filone che, specie nei primi tempi,
incontrava un certo interesse del pubblico, alimentato anche dalle campagne forcaiole di gran parte della stampa. «Non hanno diritto di parola», «Devono tacere e ringraziare la magnanimità dello Stato» erano le affermazioni ripetute sulle pagine di giornali e riviste – e sto citando le frasi più «garantiste».
Personalmente, come studioso di quegli anni, anche se non fossilizzato sulle vicende della lotta armata o terrorismo, a seconda di come si decida di nominare quelle vicende, ho sempre pensato che i libri di memoria sono per lo storico un’utile fonte, una delle tante che occorre incrociare per ricostruire il senso e le vicende di qualsiasi periodo. Alcune di queste memorie possono essere particolarmente interessanti offrendo allo studioso il punto di vista, le motivazioni, le reazioni al concatenarsi degli eventi, e spesso le riflessioni a posteriori, di chi visse in prima persona quelle vicende, oltre l’accesso a fonti dimenticate o più difficili da trovare. In altri casi prevale invece il fastidio, specie quando prevale l’approccio autobiografico giustificativo nel quale, indipendentemente dal pentimento o meno per quello che si è fatto, si propone una chiave di lettura univoca di quelle drammatiche vicende. Mi riferisco ai non pochi libri in cui il proprio percorso individuale che dai movimenti (quali che fossero) arriva alla scelta della lotta armata viene letto come un percorso ineluttabile, che va nel senso della storia, per cui l’esito della lunga stagione dei movimenti non poteva che essere la sfida estrema, armata, allo Stato. Questa interpretazione, che nella versione «non pentita» continua a circolare in alcuni ambiti della cosiddetta «sinistra antagonista», mi sembra una ripetizione, in chiave di farsa come diceva il Moro di Treviri, di quelle letture dominanti nella storiografia di fede e osservanza comunista (nel senso del Pci) che leggevano tutta la storia delle prime forme di organizzazione operaie e contadine come l’inevitabile cammino verso i sindacati legati ai partiti storici della sinistra, il movimento operaio, ponendo nell’oblio, o definendo come «primitivi», tutti i filoni che non erano riconducibili in questo schema (che fossero anarchici o semplicemente repubblicani). Senza contare poi quanto questa lettura di quegli anni sia molto simile, anche se di «sinistra», a quella reazionaria per cui chi occupa una scuola, una fabbrica, un’università è un potenziale «terrorista in erba».
Il libro di Galmozzi mi sembra lontano da questo approccio.
Non perché nelle pagine che leggerete scorra una qualche forma di pentitismo, ma perché il percorso del gruppo di operai che abbandonarono Lotta continua per dar vita a Senza tregua e infine, dopo tre anni, a Prima linea non è mai presentato come il percorso ineluttabile e l’unico coerente, ma è semplicemente letto e descritto nel suo flusso, come una vicenda particolare di quel periodostorico, paradigmatica certo (e di qui il suo interesse per lettori che vadano oltre alla cerchia dei «reduci»), ma senza intenzione di spiegare il tutto con la parte.
A mio parere il lavoro di Galmozzi solleva alcuni nodi per l’interpretazione storiografica degli anni Settanta di enorme peso, questioni che vanno anche al di là del tema della violenza politicanelle sue varie forme.
Il primo è proprio il punto di inizio della storia narrata dal libro: il 1973. Galmozzi sottolinea come il tema che conduce alla rottura tra il nucleo di operai che facevano riferimento alla sezione di Lotta continua di Sesto San Giovanni e l’organizzazione è quello del «che fare» dopo la fine dell’occupazione dei «fazzoletti rossi» alla Fiat.
Tutti sono convinti che con la firma del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici si sia conclusa una fase storico-politica. Il lungo e duro ciclo di lotte, iniziato nel 1968 (Galmozzi a questo proposito ricorda, giustamente, che il ’68 in Italia, ma io direi non solo, non fu esclusivamente studentesco, ma anche operaio) si era concluso senza che le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria fossero riuscite a conquistare l’egemonia nelle fabbriche sulla classe operaia che rimaneva ancora in larga maggioranza legata ai sindacati e al Partito comunista1. La «spallata» nei confronti del riformismo non era riuscita. Su quale strategia seguire a fronte di questa constatazione si apre una frattura netta in Lotta continua tra l’opzione «neo-istituzionale» della maggioranza del gruppo dirigente del partito (accettata da gran parte dei militanti) e la scelta di radicalizzare ulteriormente il conflitto da parte di chi in quel momento sceglierà di lasciare l’organizzazione […]
L’altro tema del libro che mi sembra di particolare interesse è quello della caratteristica operaia dell’esperienza di Senza tregua. Galmozzi afferma che questa è «la storia di un estremismo operaio».
Nelle ricostruzioni storiche la questione del radicamento nelle lotte di fabbrica raramente viene affrontata. Non parliamo della pubblicistica per la quale l’intera stagione dei movimenti è esclusivamente una questione di «intellettuali in formazione», studenti e qualche operaio. In realtà le lotte di fabbrica che dal 1968 sconvolgono il paese, innescando un ciclo conflittuale che non ha confronti possibili con il resto della storia repubblicana italiana, sono guidate da numerosi operai che fanno riferimento alle principali organizzazioni rivoluzionarie nate in quegli anni. Sono questi operai estremisti che guidano il conflitto, spiazzando le organizzazioni sindacali, costrette per un lungo periodo a inseguire il movimento spontaneo, a coprire modalità di lotta spesso violente, accettandone, parzialmente, gli obiettivi. Questa presenza è stata normalmente nascosta, rimossa. La durezza del conflitto operaio, la violenza esercitata in fabbrica contro capetti, crumiri e, a volte, gli impiegati non è stata oggetto di lunghe e dettagliate analisi.
Galmozzi, che apre il libro con un rapido excursus sulle biografie della ventina di operai che nel 1974 guidano la fuoriuscita dalla sezione di Sesto San Giovanni di Lotta continua, nelle sue pagine ripercorre le forme di lotta e l’eco che ebbero sulla stampa e nel dibattito operaio interno alle fabbriche. La violenza operaia è diffusa in quegli anni; ne sono ben coscienti i sindacati e anche il Pci che ne parleranno esplicitamente solo a posteriori, dopo che la crescita delle organizzazioni armate diviene il problema centrale per la credibilità politica del partito. (pp. 5-9)

La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. Questo spiegherebbe anche la particolare curvatura estremista che prenderà la rete operaia successivamente, e il ruolo che avrà nella fondazione stessa di Prima linea. Perché, va detto chiaro, in sede di ricostruzione storica si è parlato sempre del «golpe dei sergenti» come della rivolta del «quadro combattente», ma senza la rete operaia Prima linea non sarebbe mai nata.Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia.
Se questa sarà stata solo la fine di una storia o la fine della storia, ovvero se apparirà un nuovo soggetto motore del processo di emancipazione e liberazione da tutti i tipi di sfruttamento e di oppressione, solo il futuro ce lo saprà svelare. (p.136)

]]>
Storia di una donna: Franca Rame https://www.carmillaonline.com/2014/10/02/storia-donna-franca-rame/ Wed, 01 Oct 2014 22:06:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17791 di Sandro Moiso

Franca Rame Franca Rame con Joseph Farrell, Non è tempo di nostalgia, Della Porta Editori, Pisa Cagliari 2013, pp. 128, € 11,00

L’agile e, allo stesso tempo, interessante testo proposto da Della Porta Editori è frutto di un’intervista rilasciata a Joseph Farrell da Franca Rame, a pochi mesi dalla morte, nel febbraio del 2013 . Insieme alla trascrizione di questa Farrell, Professore Emerito di Italianistica presso l’Università di Strathclyde di Glasgow (Scozia), ha utilizzato altri brani provenienti da un’intervista rilasciatagli nel 2000 mentre stava scrivendo una biografia di Dari Fo e Franca Rame poi pubblicata in inglese nel [...]]]> di Sandro Moiso

Franca Rame Franca Rame con Joseph Farrell, Non è tempo di nostalgia, Della Porta Editori, Pisa Cagliari 2013, pp. 128, € 11,00

L’agile e, allo stesso tempo, interessante testo proposto da Della Porta Editori è frutto di un’intervista rilasciata a Joseph Farrell da Franca Rame, a pochi mesi dalla morte, nel febbraio del 2013 . Insieme alla trascrizione di questa Farrell, Professore Emerito di Italianistica presso l’Università di Strathclyde di Glasgow (Scozia), ha utilizzato altri brani provenienti da un’intervista rilasciatagli nel 2000 mentre stava scrivendo una biografia di Dari Fo e Franca Rame poi pubblicata in inglese nel 2002.

Scomparsa nel maggio del 2013, Franca molto spesso “ha dovuto sopportare un’indubbia sottovalutazione: gli stessi critici impegnati in commenti agiografici su Dario, per molti anni si sono limitati a uno scarso: «Bellissima la Rame!»”, come sottolinea lo stesso Farrell nell’introduzione al testo.
Eppure Franca non è stata soltanto la moglie di quello che può essere, forse, considerato il più grande autore teatrale italiano del secondo novecento né è stata soltanto la sua migliore interprete femminile.

E’ stata qualcosa di più. Anche più di una musa. Tutta l’opera di Fo è stata infatti in gran parte trascritta, rivista, riletta e, molto spesso, ispirata da una donna che nel teatro era nata per tradizione famigliare e che nelle commedie e negli atti unici del premio nobel ha saputo infondere la passione e lo sguardo ironico che non le derivava dalla frequentazione delle Accademie, ma della vita stessa come lei sembra rivendicare in ogni passo dell’intervista.

Un’attività, quella teatrale, che non aveva neppure potuto scegliere poiché ad otto giorni dalla nascita si era già ritrovata tra le braccia della madre sul palco di una di quelle rappresentazioni, ancora così vicine allo spirito della Commedia dell’Arte, che la sua famiglia era solita recitare a braccio e ad improvvisare sul palco davanti al pubblico popolare delle campagne e delle città di provincia della pianura padana.

Un’abitudine che l’aveva plasmata come donna e come attrice, nella sua ricerca di un’arte e di una recitazione il più possibile vicina alla naturalezza e alla semplicità della gente comune e che l’avrebbe portata, dagli anni cinquanta agli anni settanta passando per il ’68 e la stagione delle grandi lotte operaie e studentesche, a sposare sempre più la causa degli sfruttati e dei proletari. Contro qualsiasi forma di oppressione e repressione.

Una scelta che l’avrebbe vista, da una parte, avvicinarsi per un lungo periodo, insieme a Dario, al Partito Comunista per poi allontanarsene quando a seguito delle critiche ai comportamenti dei dirigenti dello stesso partito il duo, in particolare per gli interventi di Franca, si vedrà sostanzialmente sabotato nelle iniziative teatrali portate in giro nelle stesse Case del Popolo per essere più vicini ai lavoratori e ai militanti di base.

Arrivavamo lì e non c’era neanche un manifesto, la gente chiedeva:«Come mai da queste parti?»
«Come ‘come mai’? Abbiamo lo spettacolo stasera»
«Stasera? Ma no, vi sbagliate».
Trovavamo le nostre locandine buttate nei bagni. Fu allora che lasciai il PCI e resi la mia tessera stracciata
” (pag. 118)

Ad ulteriore riprova, se mai l’attuale e definitiva deriva renziana ne avesse ancora bisogno, della tradizione di un partito che è riuscito costantemente ad allontanare da sé, quando non a criminalizzare letteralmente, proprio coloro i cui interessi e le cui aspirazioni avrebbe dovuto, almeno formalmente, saper rappresentare. Proprio come nel caso dei due artisti che fin dai tempi della Canzonissima televisiva, del 1962, interrotta dalla censura democristiana alla ottava puntata nonostante l’eccezionale seguito di pubblico, erano stati accusati di essere comunisti. Forse “troppo rossi”, come l’anguria di cui avevano parlato in uno dei loro sketch, anche per il PCI.

Ma accanto a questa scelta c’era sempre stata quella di stare vicina a coloro che non potevano pagarsi il biglietto per un teatro “borghese”. Da qui la svolta che li avrebbe portati a non calcare per un lungo periodo i palchi dei teatri istituzionali. Proprio a partire dal 1968. Con la creazione, prima, della cooperativa Nuova Scena e le sue recite nelle piazze d’Italia e nelle Case del popolo, poi, con la formazione del collettivo teatrale “La Comune” con sede al Capannone di via Colletta a Milano e, infine, con l’occupazione della Palazzina Liberty.

Scelta che ben presto l’avrebbe costretta a travalicare i limiti della rappresentazione teatrale e del “terzo atto” (il dibattito politico con il pubblico che seguiva ogni rappresentazione) per proiettarsi nella fondazione del Soccorso Rosso per sostenere gli arrestati e, spesso, le loro famiglie durante le lotte operaie ed antifasciste. Azione di soccorso che per Franca continuerà anche quando i detenuti non saranno più solo quelli “«gloriosi», vale a dire ragazzi delle manifestazioni antifasciste, oppure operai arrestati per l’occupazione di una fabbrica” (pag.63), ma anche quando si inizierà a parlare di terrorismo.

Perché anche se “Non condivido le tue scelte, non sono d’accordo politicamente, difenderò fino alla morte il tuo diritto a una carcerazione civile. La tortura non mi va bene, se sei cieco che ti tolgano gli occhiali non mi va bene, se ti picchiano non mi va bene” (pag.63). Questo la porterà a doversi confrontare con le critiche provenienti dall’interno della lotta armata e delle BR, ma anche a subire un rapimento il 9 marzo del 1973, durato poco meno di un’ora, in cui sarà vittima di torture e di uno stupro ad opera di fascisti milanesi in accordo con alcuni vertici dell’arma dei carabinieri.

Sono, probabilmente, vicende risapute, ma è sicuramente utile rileggerle nei ricordi di Franca. Nel suo continuo ricollegare la propria recitazione e le proprie opere, oppure quelle quasi “riscritte” di Dario Fo, alle esperienze vissute, anche attraverso la vita e le testimonianza degli altri. Dal proprio dramma rivissuto attraverso l’atto unico Lo stupro a quello raccontato in Una Madre che ricostruisce le vicende della madre del brigatista Umberto Farioli: “Una madre che viene perquisita in vagina e analmente prima di vedere il figlio attraverso il vetro, era una scena che parlava da sola” (pag.66).

E poi c’è l’opera costante di battitura, revisione e di editing delle opere del marito, in cui l’attrice/donna/moglie rifiuta nei fatti la condizione di moglie come “entità, fantasma o uovo sodo” (pag.91). Una sorta di femminismo, ma lei avrebbe quasi sicuramente cassato questo termine, vissuto contemporaneamente dall’alto (la donna “libera” artista e creatrice) e dal basso (la compagna di una figura maschile che sembra destinata ad offuscare sempre la sua immagine, anche senza volerlo).

Il testo è tutto pervaso di spunti, riflessioni e richiami, come lo è stata la vita della donna al centro della scena, il cui unico vero cruccio, forse, è stato quello portato in scena dal Ruzzante “uno dei più grandi drammaturghi del Rinascimento europeo, nato cinquant’anni prima di Shakespeare” (pag. 92): “Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza” (pag. 93).

Dove, in questo caso, la leggera imbecillità sta per l’entusiasmo con cui Franca Rame sembra aver vissuto ogni istante ed ogni passione, anche tra innumerevoli contraddizioni, fino al termine dei suoi giorni. Senza quella nostalgia, come sembra suggerire il titolo, che appartiene più a chi guarda al passato piuttosto che a coloro che si ostinano a guardare al futuro e alle sue infinite possibilità di ricambio culturale, sociale e politico.

]]>