Bob Dylan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Forever Young: Garth Hudson (1937-2025) https://www.carmillaonline.com/2025/02/08/forever-young-garth-hudson-1937-2025/ Sat, 08 Feb 2025 04:23:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86776 di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader [...]]]> di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader della Band, sempre che la Band avesse un leader – Garth Hudson è scomparso a 87 anni l’11 gennaio scorso in una casa di riposo di Woodstock, sconfitto dal tempo, il grande nemico.

A Woodstock, località fatale per i musicisti e per i consumatori di songs immortali della sua generazione, The Band aveva inciso molti anni prima, nel 1968, il classico Lp Music From Big Pink, che conteneva le classicissime canzoni The Weight e I Shall Be Released, quest’ultima opera di Bob Dylan, che la Band accompagnava in concerto dal 1964. C’erano anche loro, insieme a Al Kooper, Mike Bloomfield, Barry Goldberg e Sam Clay, sul palco del Festival di Newport, nel 1965, quando Bob Dylan attaccò a cantare Like a Rolling Stone, la canzone simbolo della rock’n’roll renaissance, a un pubblico di fanatici del folk engagé e che, per cantargliela sul muso, Il giorno in cui Bob Dylan prese la chitarra elettrica (questo il titolo del libro di Elijah Wald, Vallardi 2022, dal quale il regista James Mangold ha tratto un magnifico film, A Complete Unknown).

Sul palco di Newport, e poi su un ingrato palco londinese, la «svolta elettrica» (e simbolista, ma in langue de bois «commerciale») di Dylan – che il popolo del folk avrebbe voluto tenere per sempre al guinzaglio, autore d’inni socialisteggianti e di parabole pacifiste forever – fu accolta da urla e improperi: «Giuda! Traditore!» Anche Hudson era sul palco a prendersi gl’insulti che chiudevano un’epoca e ne aprivano un’altra.

Fu sempre a Woodstock – dove viveva, e che per questo fu la località in cui si tenne il grande concerto Peace & Love del 1969, nella vana speranza di stanarlo – che Dylan si ritirò dopo l’incidente in motocicletta del 1967. Aveva rinunciato a esibirsi in pubblico perché pensava che cominciasse a tirare una brutta aria giù nelle platee sempre più stoned e rabbiose dei concerti. A Woodstock, infine, Dylan e la Band registrarono in uno studio improvvisato i leggendari Basement Tapes, o registrazioni del sottoscala. Altro classico della popular music: una raccolta di canzoni tradizionali (e originali) che rimase a lungo inedito, o meglio segreto. Salvo il «bootleg», naturalmente… The Basement Tapes fu anzi il primo disco piratato in assoluto della scena rock. Garth Hudson era anche lì. Non c’è svolta significativa del rock’n’roll alla quale il suo sax o il suo organo Hammond non abbiano preso parte da protagonisti.

A differenza dei suoi compagni, Dylan compreso, lui non era un qualsiasi talentuoso rocker autodidatta, come all’epoca ne circolavano tanti, tutti per lo più straordinariamente bravi. Hudson aveva studiato e praticato musica fin da bambino, su a Windsor, nell’Ontario, una piccola città «situata sulle rive del fiume Detroit», dov’era nato nel 1937. Sempre Robbie Robertson – nella sua autobiografia, Testimony (Jimenez 2019) – scrive di lui: «Suonava diversi sassofoni, e al piano era un vero mostro. Garth poteva suonare qualunque tipo di musica. Sembrava un elegante musicista jazz, oppure uno che non vedeva la luce del giorno da una vita. Suonava meravigliosamente bene, e in maniera assai più complessa di quanto avessimo mai fatto noialtri. Noi avevamo imbracciato gli strumenti da ragazzini ed eravamo partiti in quarta, ma Garth aveva una formazione classica, e sulla tastiera era in grado di tracciare strade musicali di cui noi non immaginavamo nemmeno l’esistenza». Qualche giorno fa, su X, Bob Dylan lo ha ricordato così: «Era un ragazzo meraviglioso e la vera forza trainante dietro The Band. Basta ascoltare la registrazione originale di The Weight per capirlo». Ancora Robertson: «Non avevo dubbi che fosse il musicista rock migliore al mondo. Poteva suonare con noi come poteva suonare con John Coltrane o con la New York Symphony Orchestra».

Negli anni Ottanta – dopo lo scioglimento del 1977, celebrato da un grande film di Martin Scorsese – c’è una mezza reunion di The Band e Hudson ne fa parte fino allo scioglimento definitivo, a fine millennio. Pubblica qualche disco in proprio negli Ottanta e Novanta. Lavora come sessionman con Van Morrison, Leonard Cohen e tutti i grandi nomi del rock e del pop. Gli altri ragazzi della Band originale scompaiono uno dopo l’altro, anche loro sconfitti dal tempo, che non fa prigionieri: Robbie Robertson nel 2023, Levon Helm nel 2012, Fred Carter jr nel 2010, Richard Bell nel 2007, Rick Danko nel 1999, Richard Manuel nel 1986. Hudson, uomo riservato e grande artista, è uscito di scena imperturbabile, in punta di piedi.

«Uno dei suoi grandi momenti» – scrive Rob Sheffield su “Rolling Stone”- «è immortalato in The Last Waltz, il film di Scorsese» (al quale prendono parte Neil Young, Joni Mitchell, Eric Clapton, Muddy Waters, Ringo Starr, Neil Diamond, Emmylou Harris, naturalmente Dylan, e persino Lawrence Ferlinghetti). «Alla fine di It Makes No Difference», continua Sheffield, «la migliore performance di sempre della Band, Robbie suona un tormentato assolo prima di lasciare spazio a Garth e al suo sax soprano, che con la sua serenità chiude il pezzo su una nota di stoica rassegnazione. Solo uno come lui può suonare in modo così potente e allo stesso tempo così poco appariscente. Sono appena 68 secondi, ma dentro c’è tutto il carico d’emozione di The Last Waltz e della storia della Band».

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Tout le garçons e les filles: omaggio a Francoise Hardy https://www.carmillaonline.com/2024/06/12/tout-le-garcons-e-les-filles-omaggio-a-francoise-hardy/ Wed, 12 Jun 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83071 di Diego Gabutti

Nel 1962 Tout le garçons e les filles fu un hit planetario. Non era una canzone sentimentale. Era una canzone intimista, tra Jacques Prévert e Amez-vous Brahms, con un tocco d’existentialisme qua e là. Era anche l’ouverture d’ogni giovanilismo a venire. C’erano già stati Jimmy Dean, Great Balls of Fire, Lassù qualcuno mi ama ed Elvis Presley. Ma Françoise Hardy, elegante, bellissima, zero pose ribellistiche, portò la jeunesse oltre l’avant-garde e molto oltre la volgarità degli «eserciti del surf», tra le opinioni rispettabili, educate, rassicuranti e per così dire dabbene. Introdusse nelle culture dei sixties, che [...]]]> di Diego Gabutti

Nel 1962 Tout le garçons e les filles fu un hit planetario. Non era una canzone sentimentale. Era una canzone intimista, tra Jacques Prévert e Amez-vous Brahms, con un tocco d’existentialisme qua e là. Era anche l’ouverture d’ogni giovanilismo a venire. C’erano già stati Jimmy Dean, Great Balls of Fire, Lassù qualcuno mi ama ed Elvis Presley. Ma Françoise Hardy, elegante, bellissima, zero pose ribellistiche, portò la jeunesse oltre l’avant-garde e molto oltre la volgarità degli «eserciti del surf», tra le opinioni rispettabili, educate, rassicuranti e per così dire dabbene. Introdusse nelle culture dei sixties, che stavano sterzando in direzione utopistica e sovversiva, gli anticorpi dell’amour, dell’amitié, della sobriété. Bob Dylan – sulla cover del suo quarto Lp, The Another Side of Bob Dylan, del 1964, che contiene canzoni come My Back Pages e All I Really Want to Do – le dedicò una poesia, «per françoise hardy»:

sulla riva della senna
un’ombra gigante
di notre dame
tenta d’affermarmi un piede
studenti della sorbona
frullano accanto su bici sottili
roteano turbinanti colori similvita in pelle
la brezza sbadiglia cibo
lontano dalle pance
di erhard che incontra johnson

Di Ludwig Erhard, all’epoca cancelliere tedesco, e persino di Lyndon B. Johnson, il presidente Usa della Great Society e della guerra all’apartheid negli Stati del sud, ci siamo dimenticati. Ma di Françoise Hardy, morta ottantenne l’11 giugno a Parigi, non si è dimenticato nessuno dei giovani d’allora (sembra impossibile che l’autrice di Voilà e di Comment te dire adieu non avesse più vent’anni – forever young come tutti la ricordiamo). «Nel 1966» – leggo su elle.it – «il New York Times scrisse che davanti a Françoise Hardy appariva preistorico chiunque avesse più di 25 anni». In quegli anni s’erano invaghiti di lei Mick Jagger, David Bowie e tutti quanti i Beatles, ma soprattutto (come abbiamo visto) era rimasto folgorato Dylan, che secondo una leggenda le scrisse una lunga serie di lettere d’amore mai spedite e dimenticate in un bar del Village, a New York, dove sarebbero riapparse, si racconta, qualche anno fa. Fossero stati meno timidi, o se il destino avesse favorito un loro incontro, mentre in realtà si videro «solo una volta, quasi per caso, avrebbero potuto diventare una delle coppie storiche della musica anni ’60», scrive Elle in prosa sospirosa.
Sembra La-la-land o un film di Claude Lelouche, e come tutte le storie belle meriterebbe d’essere vera.

È indubitabile, in compenso, che le canzoni di Hardy ancora echeggiano tra le cover più frequentate dai big delle hit parade, nelle colonne sonore, nei canzonieri radiofonici e nei jingle pubblicitari. Sono canzoni senza smancerie, a loro modo brutali, insieme toste e romantiche. Come tutti i poeti che hanno cantato l’adolescenza, da Rimbaud a Lennon-McCartney, da Salinger a Dostoevskij, Françoise Hardy non parlava soltanto ai suoi contemporanei, les garçons e le filles degli anni sessanta. Parlava ai giovani d’ogni tempo.

Basta fare un giro su YouTube – dove ho appena ascoltato la sua versione di Suzanne (Leonard Cohen) e del Ragazzo della Via Gluck, entrambe cover straordinarie – per constatare che la sua poetica e il suo stile non sono invecchiati e che lei è rimasta fino all’ultimo ragazza con la frangetta ben pettinata e l’aria triste (anche allegra, ma sempre con misura) che ha ispirato a Dylan una poesia countercultural, senza maiuscole e senza segni di punteggiatura, à la e.e. cummings. Niente percussioni, giusto una chitarra, la voce misurata, l’espressione sempre un po’ seriosa, rari i sorrisi, Hardy non ha mai avuto a che fare, se non di sghembo o di carambola, con la rock culture o col milieu dell’engagement.

Nel 1966 partecipò a un film di Jean-Luc Godard, Masculin féminin, dove Jean-Pierre Léaud, un goscista, non fa che parlare per tutto il tempo d’alienazione e di révolution, mentre Chantal Goya, la sua ragazza, è interessata esclusivamente alla musica e ai rapporti umani, l’amore, l’amicizia. Hardy compare solo in un cameo, non accreditata, ma è chiaro che le sue simpatie non vanno ai discorsi pomposi di Léaud ma a «le temps des copains et de l’aventure» di Goya. Ancora Bob Dylan, in un’intervista del marzo 1965 (la trovate in Like a Rolling Stone. Interviste, il Saggiatore 2021) ha lasciato detto a futura memoria: «Preferisco ascoltare Jimmy Reed, o i Beatles, o Françoise Hardy, piuttosto che uno di quelli che cantano queste canzoni di protesta, anche se non li ho certo sentiti tutti. Ma quelli che ho sentito… sono tutti caratterizzati da una certa vacuità, come se dicessero: “Teniamoci per mano e andrà tutto bene”. Non ci vedo niente di più. Non mi metterò certo a urlare “Oleeeeeeé” e ad applaudire solo perché qualcuno usa la parola “bomba”».

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Portare il peso di una stagione che non tornerà più: Robbie Robertson https://www.carmillaonline.com/2023/08/19/portare-il-peso-di-una-stagione-che-non-tornera-piu-robbie-robertson/ Sat, 19 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78664 di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel [...]]]> di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel cortile sul retro».

Robbie Robertson, scomparso ottantenne a Los Angeles qualche settimana fa, pensava in grande, anche a costo d’irritare Bob Dylan, col quale aveva inciso dischi immortali, e di cui fu complice, insieme al resto della Band, nello scantinato di Big Pink, la leggendaria casa rosa nei boschi intorno a Woodstok, dove furono incisi su registratori di fortuna i Basement Tapes, una miniera di classici song americani, di scherzi musicali mozartiani, di blues semidimenticati, di canzoni nuove di zecca. A lungo segreti, o meglio occulti, i Basement Tapes furono vastamente piratati prima d’essere parzialmente pubblicati, nel 1975, in via ufficiale.

Erano gli anni sessanta e Robertson – come racconta nella sua autobiografia, Testimony, un grande libro sull’America e sulla giovinezza del mondo – era sulla strada dagli ultimi anni cinquanta, quando appena sedicenne era stato reclutato dallo sfrenato «Rompin’» Ronnie Hawkins, leader degli Hawks, «la rock’n’roll band più fica che c’era». Gli Hawks erano una band sudista, puro Arkansas, dove «l’aria sapeva dei pini di Ozark e di cibo fritto», mentre Robertson era canadese, di Toronto, dove alla band capitava spesso di passare, e dove una volta furono tutti arrestati per possesso di marijuana. Madre pellerossa e padre biologico ebreo, un gambler o pokerista di professione morto in un incidente stradale, anche se alcuni pronunciavano la parola «incidente» con aria dubbiosa, Robertson aveva uno «zio Natie» nel traffico dei diamanti rubati e zii, amici e cugini nelle Sei Nazioni: i Mohawk, i Cayuga, gli Onondaga, i Seneca, gli Oneida e i Tuscarora. Ai suoi geni pellerossa avrebbe dedicato parecchi anni dopo Music for the Native Americans. Al sud degli States, dove l’aveva portato la chitarra vibrando come una bacchetta di rabdomante, dedicò The Night They Drove Old Dixie Down, una malinconica ballata del 1969 che Joan Baez portò al primo posto in hit parade e che oggi, con quella sua dichiarata nostalgia per il Generale Lee e per il vecchio sud, finirebbe sul rogo insieme all’Amleto di Shakespeare e ai poster dei film di Harry Potter.

Canadese di nascita e southerner, sudista, per autoproclamazione, Mohawk ed ebreo, Robertson suonava po’ come il verso vivente d’una canzone di Dylan, tipo Mister Tamburino nel «mattino tintinnante» o Mack il Dito e Louis il Re con i loro «quaranta lacci da scarpe rossi bianchi e blu» o come qualunque altro, a piacere, dei tanti Arlecchini e Pierrot etnici e culturali che avrebbero guadagnato, col tempo e le melodie evergreen, un Nobel al loro puparo simbolista.

Robertson scrisse le sue prime canzoni a sedici anni. Hey Boba Lou e Someone Like You, due pezzi indiavolati alla Jerry Lee Lewis, apparvero in un album di Ronnie Hawkins, Dynamo, nel 1960. Solo che al suo nome era affiancato, come coautore e dunque «co-incassatore» delle eventuali royalties, un testa di legno della casa discografica, la Roulette Records, con uffici a Broadway, NYC. Robertson voleva protestare, «ma Ron mi disse: “Figliolo, in questo ambiente ci sono cose che non devi neanche provare a mettere in discussione. Ci sono dei tizi a New York City che non ti conviene far incazzare”». Erano «tempi duri in città», per citare sempre Dylan: «Una frotta di gente ti turbina intorno / che quando ti va bene sono calci e appena ti va male sono pugni». Morris Levy, boss della Roulette Records, quando Robertson entrò nel suo ufficio, lo squadrò per bene e poi, rivolto a Hawkins, ringhiando: «Proprio un bel ragazzino. Se finiamo in carcere non sarebbe male portarlo con noi. Scommetto che sei indeciso se assumerlo o scopartelo». Robertson, «in quel preciso istante», decise «di rinunciare a sollevare una qualunque disputa sulla questione diritti».

C’era una rivoluzione in corso, solo che riguardava quasi esclusivamente la musica, e non ancora la vita quotidiana dei giovani, la loro cultura, i costumi. Elvis Presley era solo in parte un fenomeno culturale. Nessuno si scandalizzò né sacramentò o lanciò lattine di Coca-Cola sul palco quando il Re passò da Nashville a Hollywood, dal rock duro al pop. Non c’era una grande distanza tra lui nel Delinquente del rock’n’roll e Pat Boone in Viaggio al centro della Terra. Ma qualcosa stava cambiando, e stava cambiando in fretta: i Beatles, i movimenti studenteschi in California, la scena radical sempre più estesa. Musica e controculture cominciavano a intrecciarsi strettamente tra loro, e quando a saltare dal folk impegnato e «di protesta» (come si diceva) al rock’n’roll dada-astrattista fu Bob Dylan, zompando da Masters of War e Hard Rain a Like a Rolling Stone e Memphis Blues Again, il pubblico dei concerti insorse. Sul palco, con Bob Dylan, in quei drammatici tour del 1965 e 1966, quando a Dylan davano del «venduto» e del «rinnegato», c’erano anche Robertson e la neonata Band (band e basta, senza nome) che aveva appena divorziato da Ronnie Hawkins.

Quando dal pubblico saliva lo schiamazzo contro la voce raspante di Dylan, contro la chitarra elettrica di Robertson e contro la batteria del grande Levon Helm, l’ex folksinger urlava: «Più forte! Suoniamo più veloci e più forte!» Era il nuovo mondo, un altro pianeta. Scrive Robertson: «Eravamo nel bel mezzo d’una rivoluzione rock’n’roll. O aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi». Avevano ragione (e torto) tutti quanti. Era Il Decennio dell’Io (Castelvecchi 2013), come lo chiamò Tom Wolfe in un fortunato pamphlet di quegli anni, e ciascuno stava dietro alle proprie alienazioni e idiosincrasie. Quanto ai musicisti, più che suonare forte e veloce, vivevano pericolosamente, in molti sensi: «Quando qualcuno cambiava accordatura nel mezzo d’un assolo, io mi sentivo come Doc Holliday che cerca di smaltire la sbornia prima di buttarsi in una sparatoria al fianco di Wyatt Earp».

Ai tempi degli Hawks, solo un paio d’anni prima, «in un sacco di locali, se avevi i capelli lunghi, ti pestavano di brutto o ti sparavano. Frequentavamo un sacco di gangster, e secondo loro se avevi i capelli lunghi eri un finocchio». Adesso «nuove vibrazioni attraversavano il paese: le Pantere Nere, gli Hell’s Angels di Oakland, i poeti Beatnik, e una fiorente scena musicale che combaciava col nostro indirizzo musicale. Un giorno accompagnai Bob alla City Lights, la libreria di Lawrence Ferlinghetti a Frisco. Fummo accolti dai poeti Michael McClure e Allen Ginsberg. Vedere Allen, Michael e Bob chiacchierare con disinvoltura di scrittori e poeti mi fece ripensare agli anni passati con Ronnie, quando anche soltanto parlare di poesia era una buona ragione per essere presi a calci nel culo». Ma ogni Eden ha il suo serpente, come Robertson e la Band, insieme all’intera «scena musicale», avrebbero scoperto presto, quando le droghe cominciarono a dilagare, quando ad Altamont un concerto dei Rolling Stones finì in tragedia e l’«estate dell’amore» generò la Famiglia Manson e la strage di Bel Air.

Nell’ultima formazione degli Hawks, prima che lui e altri membri del gruppo si separassero da Ronnie Hawkins, rocker vecchio stile in un’America alternata, irriconoscibile, c’erano più canadesi che «native dixieland», per chiamarli così. Tranne Helm, un sudista di sangue puro, tutti gli altri (Robertson, Richard Manuel, Garth Hudson, Rick Danko) erano nati oltre frontiera, nella terra delle alci e dei Mounties, le Giubbe Rosse. Quando suonavano a Toronto «amici e parenti accorrevano in massa per vedere i figli della loro terra suonare ai massimi livelli. C’erano gangster e ladri, sarti, truffatori, cuochi e contorsionisti, biscazzieri e giostrai, di tutto». Anche qui, in Canada, i personaggi da vaudeville pulp che s’affaccendavano e spintonavano nei versi di Bob Dylan e della Band avevano preso sostanza, a dimostrazione che non c’era niente d’inventato. Era tutto vero: ogni canzone un fotocolor, il mondo un circo a tre piste.

Poco più che trentenne, ma sulla strada ormai da quattordici anni, Robertson cominciava a sentire la fatica. Idem Helm e gli altri, tutti ormai più o meno persi dietro le droghe, inclusa l’eroina. Pochi concerti, e poco da incidere. Valeva per la Band come per ogni altra band: il decennio dell’Io e del rock era finito, soffocato dalla vanitas e dalla sfiga, che rovesciano invariabilmente ogni utopia nel suo contrario. Di questa breve, brevissima parentesi, dalla stagione cioè di Elvis e di Ronnie Hawkins all’età del Sgt. Pepper e della cultura delle droghe, Robbie Robertson – che la visse da un capo all’altro, scrivendo «along the road» canzoni memorabili: The Weight, Up on Cripple Creek, The Shape I’m In – è stato un grande testimone, e il suo libro forse la migliore (e comunque un’eccezionale) testimonianza umana e letteraria. Presente all’inizio della festa, quando «il rock’n’roll era violento, dinamico, primitivo e creava dipendenza», fu lui a spegnere i riflettori quando la festa gli sembrò finita (ma restavano le dipendenze, e non c’era più, come disse Dylan, «nessuna cazzo di magia»).

Era tempo di sciogliere la Band e di passare ad altro. Fu un evento, celebrato dal primo grande film rock’n’roll, The Last Waltz, diretto da Martin Scorsese, che all’epoca aveva già diretto film memorabili come Taxi Driver, Mean Streets, New York New York. A celebrare il tramonto della «rivoluzione rock’n’roll» e lo scioglimento della Band c’erano tutti: Neil Young, Joni Mitchell, Ronnie Hawkins, Bob Dylan, Eric Clapton, Van Morrison, Muddy Waters, Ron Wood, Neil Diamond, Ringo Starr.

Robertson, dopo di allora, incise qualche disco da solista, nessuno particolarmente notevole. Scrisse numerose colonne sonore per Wim Wenders e Barry Levinson, per Oliver Stone, ma soprattutto per Scorsese, col quale collaborò per Toro Scatenato, Casinò, The Wolf of Wall Street, Gangs of New York e numerosi altri film, compreso l’ultimo, Killers of the Flower Moon, presentato quest’anno a Cannes e in uscita nei prossimi mesi. The Band tornò in pista nei primi ottanta senza di lui, e senza che ne uscisse niente di paragonabile ai trionfi dei vecchi tempi.

Di Robertson circola su Internet, qui, un bellissimo video che celebra il cinquantenario di The Weight, una delle più belle canzoni mai registrate. Artisti di tutto il mondo, dal Tibet al Texas, dal Congo al Bahrein, dall’Italia al Giappone, dall’Argentina alla Giamaica, la cantano in coro, ciascuno dalla propria location. Vecchio e divertito, Robbie impugna la sua chitarra, come in giovinezza, e il suo sorriso illumina il mondo, che lui chiamava «la scena musicale».

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Tra angeli e demoni: musica e vita del reverendo Gary Davis https://www.carmillaonline.com/2023/08/10/tra-angeli-e-demoni-la-musica-e-la-vita-del-reverendo-gary-davis/ Thu, 10 Aug 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78514 di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco Sono qui nel buio e procedo a tentoni E nessuno bada a me (Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco
Sono qui nel buio e procedo a tentoni
E nessuno bada a me
(Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri ancora, si sono dichiarati suoi allievi oppure gli hanno pagato più di un tributo interpretando molte canzoni e numerosi brani del suo repertorio. Eppure il reverendo Gary Davis non è certo in cima alla lista dei bluesmen più conosciuti anche nell’ambito degli appassionati oltre che del grande pubblico.

Ian Zack, giornalista newyorkese che ha scritto per il «Washington Post«», il «New York Times», «Forbes» e «Acoustic Guitar» e che ha lavorato come organizzatore di concerti per uno dei più vecchi locali folk della Grande Mela, il Good Coffeehouse, gli ha dedicato un lavoro che ha richiesto anni di ricerche, interviste e ascolti di registrazioni musicali edite e inedite che ha vinto il premio per l’Historicaal Research in Recorded Blues, Gospel, Soul or R&B.

Say No to the Devil, questo il titolo originale dell’opera ora pubblicata in Italia dalle edizioni ShaKe, ricostruisce il percorso di vita, conclusasi il 5 maggio 1972, e musicale del bluesman originario della contea di Laurens nel South Carolina, dove nacque il 30 aprile del 1896. Un percorso difficile, aspro, segnato dalla cecità fin dall’infanzia nella regione del Piedmont che fu, allo stesso tempo, patria di un ben definito stile di blues e arpeggio della chitarra, il Piedmont Style, e un ambiente dai durissimi caratteri razziali e razzisti. Come ricorda l’autore della biografia:

I neri più anziani della contea di Laurens nel South Carolina ancora ricordano molto bene un vecchio traliccio ferroviario, dal quale penzolava da decenni un tratto di corda marcita. A sentir loro, era stata utilizzata l’ultima volta nel 1913 da una masnada di bianchi che avevano linciato un negro accusato di stupro. Il traliccio e la corda sono ormai solo vaghi frammenti di memoria, ma permangono altri spiacevoli ricordi del durissimo ambiente in cui è cresciuto Gary Davis, in particolare il Museo del Ku Klux Klan con annesso Redneck Shop, ospitati in quello che una volta era un cinema segregato. Tra gli oggettini che si possono acquistare allo “shop” ci sono mantelli con cappuccio, adesivi del Klan e fotocopie dei cartelli segregazionisti “Riservato ai bianchi”1.

Ambiente, però, difficile non solo dal punto di vista razziale, ma anche della sopravvivenza quotidiana, sicuramente determinata dal primo, se è vero che Gary fu uno dei due superstiti degli otto figli partoriti da Evelina Davis, di cui sei morirono prima dell’età adulta. Lei e il marito John erano mezzadri e cercavano di vivere del lavoro su terre possedute da altri mentre Gary, il primogenito, nacque quando la madre aveva diciassette anni.

Se si vuole è un quadro classico quello dipinto da Zack per delineare la prima parte della vita del musicista, che sembra uscito dalle pagine di Caldwell e Faulkner o di altri scrittori, bianche e neri, del Sud degli Stati Uniti. Un quadro in cui la madre, che probabilmente ebbe i figli con uomini diversi, non poteva aver tempo da dedicare alle cure di tutti o anche solo a quello che viene tradizionalmente definito come “amore materno”, in realtà spesso riservato a chi già gode di ben altri “diritti” razziali, economici e sociali. Come se tutto ciò già non bastasse, il padre di Gary, come lo stesso musicista ricordava, era stato ucciso, a colpi di arma da fuoco, quando lui aveva dieci anni, dallo sceriffo di Birmingham in Alabama.

Davis non avrebbe potuto ricevere carte peggiori nella partita della vita e, in seguito, avrebbe attribuito la propria sopravvivenza «alla mano del Signore»: gli era stata tolta la vista, ma aveva ricevuto in cambio qualcosa di molto speciale.

Infatti, già da molto giovane, Davis aveva iniziatoa cantare nella chiesa battista di Gray Court sempre in South Carolina, accompagnato dalla chitarra suonata nello stile fingerpicking che egli contribuì a definire, pizzicando le corde con l’indice e il pollice, canzoni e temi tratti dal blues, gospel, ragtime insieme ad altri provenienti dal repertorio tradizionale oppure di sua invenzione su un tempo in quattro parti.

A metà degli anni 1920, si trasferì a Durham, nella Carolina del Nord, un importante centro della cultura nera dell’epoca. Lì insegnò a Blind Boy Fuller e collaborò con un certo numero di altri artisti della scena blues del Piedmont. In seguito, J. B. Long presentò Davis insieme a Fuller all’American Record Company. Quelle sessioni di registrazione del 1935 segnarono l’inizio della carriera di Davis. Divenuto cristiano e ordinato ministro battista Davis iniziò a preferire la musica gospel al blues, notoriamente ritenuto “la musica del diavolo”.
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Trasferitosi a New York nel 1940, dove si esibiva in qualità di musicista itinerante e di predicatore agli angoli delle strade, avrebbe vissuto anni nella più nera miseria a fianco della moglie Annie, che avrebbe fatto di tutto per tenerlo lontano dal blues, dalle donne e dall’alcol.

Così mentre, nei primi anni Sessanta la scena rinnovata del folk revival avrebbe riportato in auge bluesmen come Missisippi John Hurt, Skip James, Furry Lewis e Son House, che avevano inciso dischi a 78 giri in gommalacca negli anni ’20 e ’30 per poi ripiombare nell’oscurità di lavori quotidiani umili, spesso legati alla terra, colui «che era stato con ogni probabilità il più grande di ttti i chitarristi blues immortalati su disco prima della Seconda guerra mondiale era già fortunato se poteva crogiolarsi alla tenue luce della sua cerchia di ammiratori.»2

Peter, Paul e Mary registrarono la versione di Davis di Samson and Delilah, conosciuta anche come If I Had My Way, una canzone di Blind Willie Johnson, che Davis aveva reso popolare. I diritti d’autore risultanti da quel successo permisero a Davis di comprare una casa, cui Davis si riferiva sempre come alla “casa che Peter, Paul e Mary costruirono”, nella quale visse insieme alla moglie per il resto della sua vita, fino all’infarto che lo stroncò nel maggio del 1972.

Ma nonostante ciò e il fatto che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, molte altre sue canzoni fossero rese celebri da musicisti e cantanti di largo successo tra i giovani e nei festival folk e blues, la relativa oscurità che circonda la sua figura e il suo ruolo seminale nell’uso della chitarra blues

dipende in larga misura dalle sue scelte di vita. Per quanto sia rimasto fino agli ultimi giorni della sua esistenza uno dei più grandi, se non il più grande, di tutti i chitarristi tradizionali blues e ragtime, in quanto uomo di chiesa si rifiutò cocciutamente per gran parte della carriera di eseguire il blues, ossia suonarlo e cantarlo alla propria maniera su un palco o in sala di registrazione […] In un certo senso Davis rovescia la leggenda di Robert Johnson: non ha venduto l’anima al diavolo, come si vocifera abbia fatto Johnson, per acquisire una sovrumana abilità alle prese con la chitarra blues. Invece Davis ha rinunciato alla musica blues nel fiore degli anni per dedicare la vita a Dio in veste di predicatore. Proprio quando le incisioni blues stavano per spalancargli nuove porte professionali o il portafoglio dei discografici, il suo biglietto di sola andata dalla miseria, Davis rifiutò, e anche più di una volta3.

In realtà questa sua scelta fu ampiamente e spesso contraddetta dallo stile di vita e dalle passioni che lo accompagnarono fino alla fine dei suoi giorni: quella per le giovani ammiratrici e l’alcol. Una battaglia che il Reverendo fu costretto a combattere non solo contro il principe dell’oscurità, ma anche contro i suoi personalissimi demoni.

Passioni che l’ambiente giovanile, alternativo e hippie che spesso lo circondò di attenzioni negli ultimi anni, non fece altro che alimentare. Talvolta con esiti deleteri vista la frequenza con cui Gary Davis finì col salire sul palco ubriaco, incapace o quasi di suonare oppure dedito soltanto ad improvvisare lunghissimi e strampalati sermoni sul peccato e il significato della salvezza davanti ad un pubblico che spesso si annoiava e finiva con l’abbandonare le sue esibizioni.

Una sorta di destino triste, solitario e final che è ben narrato nelle pagine del libro di Zack e che accomuna la vita e l’esperienza del Reverendo a quella di molti altri interpreti afro-americani di blues e soul ciechi. Per i quali, quando non è stato l’alcol, spesso è stata l’eroina a svolgere un ruolo devastante nel corso della carriera.

Per l’obbiettività, l’attenzione e il costante amore per il soggetto trattato, nonostante tutto, che lo contraddistinguono, il testo dedicato da Zack al Reverendo Gary Davis può rivelarsi prezioso, a tratti commovente e sicuramente utile, se non imperdibile, per chiunque ami il blues e la cultura afroamericana del ‘900.

Un unico appunto va fatto al traduttore, forse non troppo esperto dell’argomento, visto che confonde gli Staple Singers, uno dei più influenti gruppi vocali soul e gospel, impegnati sulla scena dei diritti civili degli anni ’60, con un gruppo vocale femminile scambiando il suo fondatore e patriarca Roebuck “Pops” Staples, grande cantante e chitarrista nello stile swamp blues, per una donna. Forse confondendolo con l’unica superstite del gruppo a base famigliare ancora viva e presente sulla scena musicale e discografica odierna: Mavis Staples, figlia di Pops e sorella degli altri membri del gruppo.

Errore veniale per un testo comunque indispensabile in ogni biblioteca musicale attenta al blues e alla sua influenza sulla scena del rock alternativo americano


  1. I. Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, p. 25  

  2. I. Zack, op. cit., p. 16  

  3. Ivi, pp. 17-18  

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Bob Dylan e il mistero della condizione umana https://www.carmillaonline.com/2023/03/14/bob-dylan-e-il-mistero-della-condizione-umana/ Tue, 14 Mar 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76159 di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta [...]]]> di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta né incisa una volta per tutte su una frittella di vinile o su un’impalpabile traccia mp3. Un autore, come fa lo stesso Dylan con i suoi vecchi hit, può decidere di rivisitare le sue composizioni più leggendarie, da “Maggie’s Farm” a “Like a Rolling Stone”, fino a renderle irriconoscibili. Versioni ritenute perfette di canzoni classiche possono essere riverniciate dalle cover, come ha fatto sempre Dylan con gli evergreen di Frank Sinatra (da Young at Heart a On a Little Street in Singapore, in uno dei suoi ultimi album, Fallen Angels, del 2016) e come hanno fatto con i suoi hit innumerevoli musicisti e band. E mica soltanto Ricky Nelson, i Byrds, Jimi Hendrix, Johnny Cash, Elvis Presley, Manfred Mann, The Band e Brian Ferry, ma anche De Gregori, i Nomadi, De Andrè, i Dik Dik, gli Articolo 31 e persino Adriano Pappalardo, Bobby Solo, Don Backy, Ricky Gianco. Dylan riconfigura, con le sue canzoni, l’intera scena musicale, da un punto cardinale all’altro, come poi dirà Robbie Robertson, il leader della Band, il gruppo con il quale Dylan incide nel 1967 i Basement Tapes, 100 incisioni senza eguali, l’equivalente rock’n’roll della Recherche proustiana.

Brada – senza mordacchia né fissa dimora, «no direction home» – la canzonetta è stata la colonna sonora del Novecento, da un capo all’altro. Prima, nella storia universale, non era mai successo niente di paragonabile. Salvo forse Omero, quando cantò la guerra dei dieci anni sotto le mura d’Ilio accompagnandosi con la lira e il tamburello, mai nessuno aveva messo la storia in musica, giorno per giorno, come nel secolo breve.

Oltre che uno di questi menestrelli, autore e interprete di canzoni immortali, Dylan è anche l’archivista di questo immane repertorio musicale, come dimostrano questo libro, il primo dopo Chronicles, del 2005, e la sua passione per le cover (che nel 1970, quando fece uscire Self Portrait, il suo primo album di canzonette per lo più altrui, destò scandalo tra i fan). Filosofia della canzone moderna è il catalogo ragionato degli Zip-A-Dee-Doo-Dah del Novecento. Ogni scheda è un’orecchia nelle pagine delle guerre mondiali, della guerra fredda, dei rari periodi di pace. Mancano le canzoni fuori gara, che non hanno bisogno d’essere richiamate alla memoria, o d’essere spiegate: le canzoni di Dylan, di Lennon-McCartney. Ma per il resto c’è dentro l’essenziale: il pop, il country, il folk, il rock’n’roll. Ogni scheda è un pezzo di bravura: una cover per l’occhio e non per l’orecchio.

C’è Volare di Domenico Modugno, per esempio, «una canzone che s’avvicina, sfreccia, continua per la sua strada procedendo a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e resta sospesa a mezz’aria». Modugno: «Già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. […] È una seduzione in lingua italiana che comincia con una piccola, sognante introduzione pianistica seguita dalla voce di Domenico avvolta dall’organo prima che il ben noto inciso del titolo faccia irruzione». Cantare oh oh. / Volare oh oh oh. Se la canti, «passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille».

C’è Blue Moon nella straordinaria versione di Dean Martin (ma al confronto, la versione di Dylan in Self Portrait non sfigura). Blue Moon: «Il suo fascino sta nel suo mistero. È una melodia che sembra uscita da Debussy. Dal nulla, una forma ti appare davanti. Ti volti, la luna ha cambiato colore, e adesso è d’oro. Quand’è stata l’ultima volta che hai visto una luna dorata? È una canzone che non ha senso, la bellezza sta nella melodia». Cantate da Dino, «le canzoni – anche Blue Moon – iniziano e dopo il ritornello vanno alla deriva, interrotte da barzellette e battute. “A Frank non piacciono quelli che parlano durante gli spettacoli. A me non importa se parlate durante il mio spettacolo. Per quello che mi riguarda potete anche giocare a bowling”. Dino è divertente, tenero, e sbronzo». «Frank», naturalmente, è Frank Sinatra. Di lui «è stato detto», scrive Dylan, «che era un teppista che quando cantava si trasformava in poeta».

Strangers in the Night: «Vagabondi e anticonformisti, oggetti di affetto reciproco, rapiti l’uno dall’altro e stretti in un’alleanza da loro stessi creata, ignari di tutte le età dell’uomo, l’età dell’oro, l’età elettronica, l’età dell’angoscia, l’età del jazz». E «Frank», che la cantò, era «qui per raccontare una storia diversa, il suo piumaggio diverso da quello degli altri uccelli». Un fatto incredibile: «La classifica delle prime cento canzoni, pubblicata il 2 luglio 1966 su “Billboard”, era dominata da quella piccola pop song. Pazzesco: nel bel mezzo dell’invasione britannica, Strangers in the Night dell’uomo venuto da Hoboken batteva Paperback Writer dei Beatles e Paint It Black degli Stones. Frank doveva far vedere a tutti chi era il padrone, anche se Strangers era una canzone che odiava e regolarmente liquidava come “un pezzo di merda”. Del resto, non dimentichiamo che Howlin’ Wolf una volta disse la stessa cosa della sua prima chitarra elettrica e che i fratelli Chess misero quelle parole a caratteri cubitali su una delle copertine dei loro album».

Ci sono le canzoni western, come El Paso e Jesse James, quest’ultima un classico pezzo folk americano inciso cent’anni fa da Harry McClintock (attore e poeta, nonché vicesceriffo a San Francisco e attivista sindacale nei ranghi degli IWW, gl’Industrial Workers of the World). Jesse James è stata rilanciata in tempi recenti da Bruce Springsteen: Jesse James era un ragazzo / che uccise molti uomini. / Rapinò il treno di Glendale./Rubava ai ricchi e dava ai poveri. «Ai tempi in cui Jesse s’aggirava per le campagne», scrive Dylan, «essere un fuorilegge era pericoloso. Voleva dire che qualunque cittadino poteva spararti legalmente, ucciderti a bruciapelo e riscuotere la taglia. Un fuorilegge doveva rendersi irriconoscibile, imparare a nascondersi in pieno giorno perché chiunque poteva sparargli, per strada. In effetti, è quello che accadde a Jesse James». Una storia, quella dei fuorilegge prodighi, che «si è estesa fino agli anni trenta con Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde, la banda di Ma Barker. In quei giorni, se la tua faccia era esposta in un manifesto che diceva Wanted o in un ufficio postale, chiunque poteva spararti. Bisognava stare molto attenti». Fuorilegge e galeotti popolano anche le canzoni di Dylan: l’album John Wesley Harding, e poi (citandone solo alcune) Hurricane, Romance in Durango, George Jackson e la colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid, il western di Sam Peckinpah, del 1973, dove Dylan figura anche come attore nella parte di Alias, uno dei bandidos di Fort Sumner.

C’è qualcosa del fuorilegge, qualcosa di borderline in ogni icona rock. Prendete Elvis Presley, che «quando ha inciso Blue Moon of Kentucky ha fatto quello che aveva già fatto con Mystery Train. L’ha truccata come un motore. Ha preso canzoni dal ritmo moderato come Blue Moon of Kentucky, Mystery Train e perfino Good Rockin’ Tonight e le ha ridotte all’osso per poi accelerarle. Che è la ragione per cui è stato chiamato “il cantante a propulsione nucleare”. L’energia nucleare stava venendo di moda ed Elvis navigava sulla cresta dell’onda». C’è qualcosa del fuorilegge, nei rockers e negli eroi americani. E qualcosa, anche, che c’entra con l’ingordigia, l’avidità, con la brama di ricchezze: «Vorrei avere cinque centesimi per ogni canzone che conosco e che parla di denaro, da Sarah Vaughan che canta di penny che cadono dal cielo a Buddy Guy che grida il suo blues per un biglietto da cento dollari. Se ti piace il verde delle banconote, Ray Charles ha una canzone e i New Lost City Ramblers ne hanno un’altra. Berry Gordy ha costruito la Motown sul denaro, i Louvin Brothers volevano contanti sull’unghia e Diddy sapeva che era tutta una questione di centoni. Charlie Rich cantava Easy Money, Eddy Money cantava Million Dollar Girl e Johnny Cash poteva cantare qualunque cosa».

C’è una speciale, impassibile filosofia pratica nelle canzonette, spiega Dylan quando canta e quando scrive o parla di musica pop: «Dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all’università. La cosiddetta “scuola della strada” è una cosa che esiste davvero e non serve soltanto a imparare a stare alla larga da arraffoni e ciarlatani». Qualcosa s’impara sempre da quel che s’ascolta con lo smartphone o che si canticchia, pensierosi, sotto la doccia: «Mentre i laureati della Ivy League parlano d’amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalpabili, la gente – che abiti a Trinidad o ad Atlanta – canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita».

Schede, appunti, note a margine, riletture (e rifischiettature) tra accademia e poesia, da Perry Como a Jerry Garcia, dai Clash a Ricky Nelson, dai Who ai Platters, da Bobby Darin a Vic Damone, da Bing Crosby a Roy Orbison… ma in Filosofia della canzone moderna (che è il libro d’un Nobel, e si vede) non c’è in ballo una sola Musa, quella della musica. C’è dentro tutto il pop: cinema, fumetti, serie tv, mode, droghe, beat generation, buoni e cattivi maestri. Dylan spazia da Mezzogiorno di fuoco a Mack The Knife dell’Opera da tre soldi, da Nick Mano Fredda a Leigh Brackett, sceneggiatrice del Grande sonno e di Rio Bravo, oltre che grande scrittrice di fantascienza (La danzatrice di Ganimede, La spada di Rhiannon). Tutto si tiene, tutto s’intreccia, e il mistero è che, da quest’amalgama riccamente illustrato di pulp, film e canzonette, non salta fuori una pagina chic della cultura ma una mappa fedele – zero bellurie, nessuna caramellosità – della condizione umana.

N. B.
Qui una recensione di opposto parere sul testo di Dylan, apparsa su Carmillaonline il 1°gennaio 2023, a cura di Walter Catalano,

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Il giorno in cui Bob Dylan impugnò la chitarra elettrica https://www.carmillaonline.com/2023/03/04/il-giorno-in-cui-bob-dylan-impugno-la-chitarra-elettrica/ Sat, 04 Mar 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76153 di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, [...]]]> di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, Milano 2022, pp. 370, 18,90 euro, eBook 11,99 euro.

Dylan a Newport con un nuovo look e una chitarra elettrica: incoronato re del folk, Dylan mette in chiaro che il suo sogno è diventare re del rock’n’roll. Nasce un tumulto.
È un evento originario, tramandato attraverso i decenni dai «boomers» che furono adolescenti negli anni sessanta, l’età dei diritti civili e del flower power. E come tutti gli eventi originari è falso, o parecchio esagerato, come illustra e racconta Elijah Wald nel suo Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, una splendida e appassionante visita guidata all’ouverture dei sixties.

È il 25 luglio del 1965. Newport, Rhode Island. È qui che dal 1959, ogni estate, si tiene il Newport Folk Festival, dedicato a canti etnici, antiche ballate importate dall’Europa in tempi remoti, blues tradizionale, gospel, canzoni socialiste e proletarie, qualche timido excursus nel «folk pop», come lo chiamano, cioè nel folk commerciale, che ha cominciato a scalare l’hit parade: Tom Dooley del Kingston Trio, If I Had a Hammer e Where Have All the Flowers Gone di Peter, Paul and Mary.

Sono canzoni impegnate, legate al movimento antisegregazionista e alla sinistra americana. Pete Seeger, il creatore del festival, ha scritto gli hit di Peter, Paul and Mary e nei primi cinquanta ha importato dall’Africa The Lion Sleeps Tonight, o Wimoweh, una canzone che lo ha reso ricco (mentre Solomon Linda, l’autore della canzone, un musicista zulu, muore nel 1962 in miseria, e ci vuole una sentenza di tribunale per risarcire gli eredi). Seeger è stato anche membro del partito comunista ed è finito in lista nera. Veste dimesso, e se la tira da santa canaglia, ma ha «studiato a Harvard» e, come gli ricorda sua moglie: «Non sei un operaio, fai solo finta, e lo vedono tutti». Lui non se ne dà per inteso: pugno chiuso, camicia a scacchi e canzonette engagé. Due anni prima, nel 1963, a nome del Newport Folk Festival ha incoronato fenomeno del folk il giovanissimo Bob Dylan. Questi è salito sul palco in look (anche lui) da classe operaia imbracciando una chitarra acustica, l’armonica fissata al collo da un supporto subito entrato nella leggenda, e ha intonato canzoni che non saranno più dimenticate: Blowin’ in the Wind, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Don’t Think Twice, It’s All Right, Masters of War.

Ma ecco che due anni dopo Dylan si presenta a Newport in costume rockettaro stretto: «giacca di pelle lucida sotto i fari del palco, una camicia color salmone abbottonata fino al collo, jeans neri e stretti che gli fasciano le gambe sopra gli stivali a punta da cowboy, neri anch’essi». Imbraccia una chitarra «Stratocaster sunburst a due colori». Una chitarra elettrica. Sul palco, con lui, una band improvvisata di bluesmen di Chicago: chitarristi sparsi, qualche amico, Paul Butterfield e alcuni musicisti della sua Blues Band (che ha esordito, qualche mese prima, con Born in Chicago, una canzone che comincia così: «Sono nato a Chicago nel 1941 / Mio padre mi ha detto: “Figliolo, ti conviene prendere una pistola”»). Intorno, amplificatori, cavi elettrici, riflettori. Diranno poi che, venuto per ascoltare Bob Dylan cantare che «una dura, dura pioggia cadrà», e quel giorno è effettivamente piovuto per ore, il pubblico del Newport Folk Festival, bagnato fradicio, i piedi nel fango, s’è ritrovato davanti uno sconosciuto. Sguardo cattivo, modi strafottenti, chiaramente «stoned» di chissà che, una mise da damerino di Carnaby Street.

E via con l’evento originario: «Le luci sono puntate su di lui, solo al centro del palco, mentre i musicisti alle sue spalle iniziano a suonare avvolti dal buio. Ascolta per un momento, sente la forza della band, quindi s’avvicina al microfono e canta un singolo verso: “Alla fattoria di Maggie non ci lavoro più!” Fa un passo indietro, lascia che il grande chitarrista Mike Bloomfield risponda con un fraseggio di chitarra, si lascia trasportare dal ritmo ancora per un momento, poi torna al microfono e ripete la frase. Bloomfield risponde di nuovo, e ancora una volta lui ascolta per un istante prima d’irrompere con la prima strofa: «Mi sveglio la mattina, giungo le mani e prego perché piova / Le idee che mi frullano per la testa mi fanno impazzire». Yarrow sta accovacciato dietro ai musicisti, sistema i cavi apportando piccole regolazioni agli amplificatori. Bloomfield è alla destra di Dylan, avvolto dal buio e illuminato solo momentaneamente dal flash dei fotografi. La voce di Dylan si alterna ai fill secchi e ruvidi del chitarrista. Tra una strofa e l’altra, Bloomfield suona liberamente, senza attenersi a parti scritte in precedenza. Dalla sua chitarra escono urla stridenti, bassi tonanti e grappoli di note dissonanti, che si chetano ogni volta nel riff ripetitivo che annuncia il successivo ingresso di Dylan. Il suo non è un semplice accompagnamento: duella con Dylan, sfidandolo e incoraggiandolo a proseguire. Il cantante ulula l’ultimo verso: “Faccio del mio meglio per essere me stesso / ma tutti vogliono che sia come loro”».

È una metamorfosi, pensano i dylaniani della prima ora: il profeta beatnik di The Times They Are A-Changin’ ha saltato il fosso. Si è venduto, è passato al pop. Esultano invece i nuovi dylaniani: basta con le lagne sdolcinate del folk, basta con le canzoni sociali, finalmente l’introspezione, evviva Rimbaud, sex revolution, marijuana!

Non è vero, come racconta Elijah Wald nel suo libro, ma si racconta (e si racconterà ancora a lungo) che Pete Seeger, urlando «basta con questo rumore», si sia avventato sui cavi degli amplificatori mulinando un’ascia, come uno di quei boscaioli del Vermont che invita al festival insieme ai suonatori di banjo, di ukulele, di kazoo e a tutti quegli artisti che suonano «la vera musica del proletariato». Anche lui, nelle sue memorie, lascerà credere d’aver trasceso: nessuno rinuncia al suo cammeo, per quanto sgradevole, nella storia del mondo. Ma anche se non ci sono state scene madri, e Seeger si è limitato a soffrire in silenzio, qualcosa è successo davvero. Aveva ragione il vecchio Dylan: i tempi stanno davvero cambiando.

Dai diritti civili si sta passando ai diritti umani; dalle cause sociali a quelle del singolo, dell’individuo. È il grande ritorno del rock’n’roll, la cui stella era tramontata con l’eclisse di Elvis Presley, trasformato in star hollywoodiana e crooner di Las Vegas (ma anche nel saltafosso da Be-Bop-A- Lula e Mistery Train a Love Me Tender e Viva Las Vegas Presley rimane Presley, un principe). John Lennon e Paul McCartney stanno cambiando la vita della gioventù europea e americana con le loro melodie perfette e l’eleganza dada del loro look. Altrettanto innovativi, ma decisamente meno iconici, sono i CCR, per esteso Creedence Clearwater Revival, una band californiana che fonde il country con il blues e il rock’n’roll. Comincia l’età del rock duro e adrenalinico, poi psichedelico, presto anche del punk, dei Velvet Underground, del rock en travesti di David Bowie. Dylan è uno di loro, e il più bravo di tutti. Come canta in un altro dei suoi nuovi hit, Subterranean Homesick Blues, lui non «ha bisogno d’un meteorologo per sapere da che parte tira il vento».

Perché è di questo, ribadiamolo, che si tratta: dei tempi che cambiano. Non sono i Beatles o gli Stones né Dylan a cambiare il mondo, come qualcuno dirà in seguito, ma le loro canzoni sono l’inconfondibile colonna sonora del cambiamento, un’apocalisse dei costumi che coglie tutti di sorpresa, Dylan compreso. Ma il ragazzo è sveglio e si lascia portare dall’onda. A Newport, nel 1965, si volta pagina, nel bene e nel male. Non solo Dylan, ma almeno metà dei musicisti presenti sono passati, da un pezzo, alle chitarre elettriche.

«Non fu piacevole», racconta Wald, «ma fu di gran lunga meglio delle scontate declamazioni dei progressisti da manuale». A Newport, tutti erano abituati a essere accolti e coccolati, a sentirsi circondati da menti affini. «L’unico a mettere in dubbio la nostra posizione è stato Dylan. Forse non l’ha fatto nel migliore dei modi. Forse è stato maleducato. Ma ci ha dato una scossa. Questo è il ruolo dei poeti e degli artisti».

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Dylaniati da Zimmerman, filosofo canzonettaro https://www.carmillaonline.com/2023/01/01/dylaniati-da-zimmerman-filosofo-canzonettaro/ Sat, 31 Dec 2022 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75112 di Walter Catalano

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, pp. 340, euro 39,00 stampa.

Diciamocelo francamente, se non portasse la firma di Bob Dylan un libro, piuttosto brutto e piuttosto inutile, come questo chi se lo leggerebbe ? Quasi nessuno, credo, e magari solo perchè illuso da un titolo, Filosofia della canzone moderna, che ben poco ha a che vedere con il contenuto effettivo. Niente filosofia infatti – se con questo termine intendiamo una teoria coerente e sistematica – ma piuttosto un flusso incontrollato di elucubrazioni [...]]]> di Walter Catalano

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, pp. 340, euro 39,00 stampa.

Diciamocelo francamente, se non portasse la firma di Bob Dylan un libro, piuttosto brutto e piuttosto inutile, come questo chi se lo leggerebbe ? Quasi nessuno, credo, e magari solo perchè illuso da un titolo, Filosofia della canzone moderna, che ben poco ha a che vedere con il contenuto effettivo. Niente filosofia infatti – se con questo termine intendiamo una teoria coerente e sistematica – ma piuttosto un flusso incontrollato di elucubrazioni a ruota libera, spesso di una banalità sconcertante, e neanche troppa canzone moderna, visto che il pezzo più recente di cui si parla è London Calling dei Clash (1979) e che la grande maggioranza dei brani selezionati risale a un periodo compreso fra gli anni ’20 e i ’60: canzone moderna sì, ma per un ottantenne !

Dylan ha semplicemente elencato a casaccio, senza il minimo ordine o criterio – cronologico, tematico, musicologico – che sia, una serie di canzoni gradite affiancandole ad immagini e fotografie anche queste, a parte una comune estetica retrò, generalmente appiccicate con assoluta arbitrarietà. Ad ognuna è accoppiata (ma non proprio sempre, dipende evidentemente dagli scartafacci che nonno Bob aveva per le mani…) una prima parte che, chissà, vorrebbe essere “lirica“ e una seconda che, di nuovo chissà, vorrebbe essere “critica”. Se la seconda potrebbe avere talvolta – raramente in verità – qualche vago spunto di interesse, la prima è solo un conato simil-stream of consciousness di immagini e storielline stereotipate in stile beatnik e, come quasi tutto quanto abbia mai prodotto il bluff letterario della Beat Generation, praticamente illeggibili. Forse se affrontate in originale inglese queste pagine potrebbero – ci auguriamo – anche avere almeno il fascino dello slang bizzarro, del calembour linguistico, dell’idiom inaspettato, ma tradotte in un italiano discutibile fanno un effetto davvero ridicolo e deprimente. Qualche esempio: “E perché quella capretta non se ne va una buona volta ? La vuoi straziare e mutilare, la vuoi vedere in agonia, anzi vuoi pompare l’intera faccenda finchè sarà così gonfia che ci potrai passare le mani dappertutto e strizzarla finchè non collassa” (su Pump It Up di Elvis Costello); “Non si muovono e non parlano, ma sono vibranti di vita e contengono il potere infinito del sole. E mi vanno bene come il giorno che le ho trovate. Forse ne avete sentito parlare, delle scarpe di camoscio blu. Sono blu, blu reale. Non blu deprimente; sono blu assassino, come quando la luna è blu, sono un tesoro. Non cercate di soffocare il loro spirito, comportatevi come un santo, cercate di starne più lontani che potete” (su Blue Suede Shoes  di Carl Perkins); “Giochi a campana a ritmo di boogie, il boogie della rumba, il boogie tacco e punta, all’assalto del mistero del sole, tutti a fare il boogie. Mamme e papà, anzianotti e vecchie glorie, Schulberg, Gaugin, Picasso e Little Miss Muffet, tutti fanno il boogie, ma nessuno lo fa come voi due” (su Feel so Good di Sonny Burgess); “Questa canzone scioglie tutto, lo brunisce e lo frigge ben bene; mungerà la mucca fino a farle dare sangue. E’ uno spirito guida e sarà la tua interprete in terre straniere”. (su Keep My Skillet Good and Greasy di Uncle Dave Macon); “E’ lei l’antica rana che vede col naso e annusa con la lingua; sa benissimo cosa ti fa infuriare e ti chiama testa di cazzo, segaiolo o tappetto. Quella vecchiaccia maledetta ha uno spirito volubile, ha bandito dalla tua vita tutto ciò che è sacro e puro, ti fa regredire a uno stadio infantile. E’una peperina sexy dal gusto sgradevole, una pazza furiosa, e ti ha fatto prigioniero dei tuoi demoni interiori” (su Witchy Woman degli Eagles); e via di questo passo. Per quanto può tirare avanti senza annoiarsi, con tutta la buona volontà, il povero lettore ? E cos’avrà in cambio alla fine ? Ha imparato qualcosa, si è emozionato, si è divertito ? La risposta è assai dubbia.

Destano almeno curiosità anche i gusti musicali dylaniani che hanno determinato le inclusioni: si va da Volare di Domenico Modugno, a Strangers in the Night di Frank Sinatra; da Black Magic Woman dei Santana (in realtà del grande Peter Green), a My Generation degli Who; da Mack the Knife di Bobby Darin (versione americana di Mecky Messer dall’Opera da tre soldi di Brecht/Weill), a Tutti Frutti di Little Richard. Prevalgono comunque pezzi di Country e Bluegrass o di mainstream melodico in genere del tutto sconosciuti al pubblico italiano e per questo non particolarmente coinvolgenti.

Famose o ignote che siano le canzoni, comunque, il premio Nobel per la letteratura ha ben poco da raccontare su di loro. Poco di interessante almeno. Massimo rispetto per il Dylan compositore, per il Dylan paroliere (poeta se vogliamo, ma sempre con la musica sotto…), bisogna però con altrettanta sincerità avere il coraggio di dichiarare che il Dylan scrittore vale poco e che un libro come questa pretesa “Filosofia della canzone moderna” non era affatto necessario.

 

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E’ per questo che sono pulp le religioni? https://www.carmillaonline.com/2021/12/08/e-per-questo-che-sono-pulp-le-religioni/ Wed, 08 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69517 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Storie del mare, Gog Edizioni 2021, pp. 240, 17 euro

È inappropriato chiamare questo pianeta Terra, quando chiaramente è Mare. (Arthur C. Clark)

Questa è la domanda che si pone l’autore al termine del secondo capitolo del libro appena uscito per le edizioni Gog. Raccolta di saggi e riflessioni collegati tra di loro dalla presenza del mare, dei suoi dei e dei suoi eroi. Un testo che rivela ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, come Diego Gabutti possa essere definito una versione in chiave “pop” di Roberto Calasso, recentemente scomparso.

La stessa vasta erudizione, [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Storie del mare, Gog Edizioni 2021, pp. 240, 17 euro

È inappropriato chiamare questo pianeta Terra,
quando chiaramente è Mare.
(Arthur C. Clark)

Questa è la domanda che si pone l’autore al termine del secondo capitolo del libro appena uscito per le edizioni Gog. Raccolta di saggi e riflessioni collegati tra di loro dalla presenza del mare, dei suoi dei e dei suoi eroi. Un testo che rivela ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, come Diego Gabutti possa essere definito una versione in chiave “pop” di Roberto Calasso, recentemente scomparso.

La stessa vasta erudizione, lo stesso spirito di osservazione, la stessa curiosità intellettuale, soltanto applicate, oltre che a temi cari anche allo scomparso direttore editoriale di Adelphi (in questo caso, per esempio, le figure di Gilgameš, Simbad e Utnapishtim), anche alla fantascienza, al fumetto, al cinema (alto e basso, Steven Seagal compreso) e, passando anche per Bob Dylan, allo sterminato e diversificato immaginario pop e pulp.

L’autentico “frullato” di cultura alta e bassa, vorticosamente mescolate in ogni pagina, serve a delineare una storia dell’immaginario riconducibile al mare, dalle origini ai nostri giorni, che disvela al lettore come il “mare” non abbia soltanto costituito il primo elemento di quel “brodo primordiale” biologico da cui è sorta ogni forma di vita del pianeta che abitiamo, ma anche l’ambiente mitopoietico da cui, direttamente o indirettamente, hanno preso forma gran parte delle narrazioni elaborate dagli uomini fin dal delinearsi nell’antichità delle prime società complesse. Un autentico Oceano dei fiumi dei racconti, come Somadeva scrittore indiano originario del Kashmir, definì la sua vastissima antologia, Kathasaritsagara, composta fra il 1063 e il 1081, vera e propria collezione dell’intera novellistica indiana a lui precedente e coeva.

Dal diluvio universale che caratterizza le narrazioni sulla rinascita del mondo dopo una immane punizione divina, sia nelle tradizioni sumeriche che in quella biblica o in quella greco-antica, fino a Odisseo e al vecchio marinaio della ballata di Samuel Coleridge; dalle avventure filosofiche di Gulliver ai calcoli di “fattibilità” del naufrago-imprenditore Robinson Crusoe e dai mostri di Lovecraft fino a Moby Dick, il mare costituisce non solo lo sfondo narrativo o un espediente narratologico, ma rappresenta anche il caos che circonda, minaccia e, talvolta, distrugge le civiltà.

Spesso costituisce lo strumento con cui dei beffardi, crudeli, iracondi e vendicativi, sostanzialmente così simili ai villain della tradizione pulp, puniscono gli uomini, non soltanto per i loro peccati presunti o reali ma anche, come nel caso di Ulisse-Odisseo, per aver osato sfidare la loro volontà, anche solo per riuscire a salvarsi dalle mani violente e dalle fauci di un antropofago come Polifemo, figlio, appunto, del dio del mare, Poseidone.

Che si tratti di divinità antiche, come quelle che da sempre abitano il pianeta in incognito secondo quanto narrato nel romanzo di SF The Time Masters di Wilson Tucker1, oppure più vicine a noi, come il dio della Bibbia o gli dei dell’Olimpo; che si tratti quindi di Yahweh, «dio malmostoso», o degli dei detti Anunnaki che ha cacciato dai deserti compresi tra il Mediterraneo e la Mesopotamia, come Nergal e Ishtar, Ea e Ereshkidal, Enki e Marduk oppure, ancora, delle divinità litigiosissime dell’Olimpo, pare che ad ogni piè sospinto il maggior divertimento possibile, per le stesse, sia quello di ricordare all’uomo e alla sua stirpe che egli non è altro che un grumo di sangue e carne, dominato dalla e con la paura, il cui unico destino è quello di soccombere, possibilmente nel più atroce dei modi possibili. Tranne poi salvarne uno, il marinaio Noè che ha sostituito il superstite Utnapishtim della tradizione mesopotamica, per ridare inizio al gioco, in un continuo e mai interrotto lancio di dadi sul tavolo verde divino. In tal modo è sempre un oscuro navigante a dare inizio a un nuovo capitolo della storia universale.

Un capitolo destinato a popolarsi di sempre nuovi marinai, tutti destinati a misurarsi, come il primo tra loro, con l’ineffabile e il divino in qualche sua forma, per lo più spaventosa. Ne cito qualcuno, apparentemente a caso: Aladino, Lord Jim, Odisseo, Popeye, Fletcher Christian del Bounty, Corto Maltese, Barbanera, il Capitano Nemo, Emilio di Roccabruna signore di Ventimiglia, Achab di Nantucket, Francis Drake, Gordon Pym, Cristoforo Colombo, Marlow, Kurtz, Capitan Blood, Charles Darwin, Jenny dei pirati, Samuel Gulliver, Vasco da Gama, James Cook. Senza dimenticare gl’innumerevoli marinai senza nome o lignaggio che nei millenni trascorsi tra l’Età del bronzo e oggi hanno preso il mare sfidando gli dèi del vento e delle maree, a cominciare dai marinai ittiti, i quali praticavano il culto del dio delle tempeste, che era contemporaneamente il dio dell’ordine (come Two-Face, il nemico di Batman, e come Giano, dio delle porte e dei passaggi: ogni storia ha due facce). C’erano marinai ammutinati sulle navi inglesi e sulla Corazzata Potëmkin. Furono i marinai di Kronštadt i primi a ribellarsi contro i tiranni bolscevichi. Un marinaio americano, George Mendonsa, decretò la fine della Seconda guerra mondiale, il 14 agosto 1945, scoccando un bacio a una ragazza incontrata a Times Square. Anche Martin Eden, l’eroe di Jack London, era un marinaio; e così Sandokan, Sean Connery in Caccia a Ottobre rosso, le piratesse Anne Bonny e Mary Read, Long John Silver, Humphrey Bogart nell’Ammutinamento del Caine e in Acque del sud, film tratto da Avere e non avere di Ernest Hemingway (autore anche di Il vecchio e il mare: un Moby Dick dei poveri). Ci sono oceani privi d’acqua, come quelli che Peter O’Toole, nella parte di Lawrence d’Arabia nell’omonimo kolossal del 1962, illustra all’Emiro Feysal (Alec Guinnes) citando un po’ a spanne il Corano: «Il deserto è un oceano in cui non affonda il remo. E in questo oceano i bedù vanno dove vogliono e colpiscono dove vogliono». Fate caso infine a Donald Duck, da noi Paolino Paperino: è vestito da marinaio2.

L’avventura, sembra suggerire il testo, è sempre costituito dall’attraversamento di un mare, spesso burrascoso, caratterizzato da onde gigantesche e abitato da terrori informi e innominabili che sorgono, prima di tutto, dalle profondità della psiche. E non sono soltanto i testi compresi in Storie del mare a suggerirlo, se è vero che lo stesso Dante costruì l’intero XXVI canto dell’Inferno, quello di Ulisse e Diomede, senza aver mai letto o consultato l’Odissea, ma solo sulla scorta della memoria mitica che ne era stata tramandata fino ai suoi tempi.

L’avventura, dunque, consiste nell’iniziare o, perlomeno, nel tentare di tornar a dare vita a qualcosa: che sia una speranza o un mondo intero poco importa. Così come, tutto sommato, dal punto di vista delle narrazioni antiche o moderne poco importa che le religioni non siano altro che un sottogenere della narrativa fantastica, «esattamente come l’horror cosmico di H.P. Lovecraft o l’hard boiled californiano sono un sottogenere della narrativa d’evasione».

Il fatto che, nelle infinite possibilità offerte dalle narrazioni scritte o orali, la fine del mondo non sia stata possibile solo attraverso l’affogamento dello stesso, ma possa essere avvenuta o avvenire in altri modi, non cambia poi molto. Se gli scritti biblici: «Attribuiscono, infine, la grande inondazione a uno scatto d’ira del loro Iddio ombroso e diffidente, Yahweh delle piaghe, signore delle Leggi, delle punizioni e delle colpe (più spesso presunte che comprovate, come lamenteranno in futuro gli eretici)»3, questo non potrà impedire che

non sempre si riparta dal Diluvio. Forse, come dicevamo all’inizio, qualche volta è un incendio smisurato, o una scossa spaccatutto di terremoto, oppure è un meteorite fine del mondo, come quello che cancellò in un istante i dinosauri dalla faccia del pianeta ottantacinque milioni d’anni fa. Vedi mai che il prossimo begin again non venga affidato ai tirannosauri ermafroditi di Jurassic Park, o allo scienziato che per caso o per colpa genererà un buco nero giocando con l’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra. E chissà, nel caso, a chi sarà affidato il compito di rigenerare il mondo dopo la catastrofe cosmica provocata dall’espansione a sorpresa d’un buco nero. E di chiunque si tratti, chissà come assolverà un simile compito, per quanto assistito dagli onnipotenti. Come Elvis Presley, nella parte del marinaio che nell’Idolo di Acapulco (1963) si tuffava dalla scogliera prima che l’acqua rifluisse lasciando scoperte le rocce trentacinque metri più sotto, il prossimo Deucalione si tufferà, famiglia e tutto, nell’orizzonte degli eventi del buco nero alla ricerca di mondi paralleli da popolare?4.

Se, come il sottoscritto, passerete in riva al mare qualche giorno delle prossime festività, questo è sicuramente il libro da portarsi appresso, ma, anche se sarete in pianura o in montagna, preparatevi almeno con una buona lettura come questa, visto che, con il riscaldamento globale in atto, prima o poi il mare arriverà a raggiungervi o a sommergerci. Forse, per una volta tanto, non soltanto per volontà degli dei.


  1. In italiano Signori del tempo, Urania n. 45 del 30 marzo 1954  

  2. Diego Gabutti, Solo superstite, un marinaio, Prologo a D. Gabutti, Storie del Mare, Edizioni Gog 2021, pp. 9-10  

  3. D. Gabutti, op. cit., p. 12  

  4. ibidem, p. 11  

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Wagner, la rivoluzione e l’irresistibile sound delle chitarre elettriche https://www.carmillaonline.com/2021/08/09/rocknroll-gods-wagner-e-lirresistibile-sound-delle-chitarre-elettriche/ Mon, 09 Aug 2021 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67339 di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger. I am invulnerable, I see no foe. I’m related to the earliest time, and to the latest. (Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione. Il dio Pan è la Rivoluzione (da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal [...]]]> di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger.
I am invulnerable, I see no foe.
I’m related to the earliest time, and to the latest.

(Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione.
Il dio Pan è la Rivoluzione

(da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal libretto rosso di Mao o dai sacri testi di Marx, Engels e Lenin. Anche se quest’ultimo, predicendo che il comunismo sarebbe derivato dall’applicazione dell’uso della corrente elettrica al socialismo, un po’ ci aveva azzeccato.

Ad anticipare l’importanza del sound (che non è soltanto dato dagli strumenti suonati seguendo uno spartito oppure dal suono “naturale” degli stessi o, ancora, dalla voce che canta intonata seguendo una melodia definita) come mezzo o media per far breccia nella corazza, anche inconsapevole, dell’Io, fu, nel XIX secolo, soltanto Richard Wagner (1813-1883), sia attraverso la costruzione delle sue opere musicali che in un suo scritto della metà dell’Ottocento, L’opera d’arte dell’avvenire. Il musicista tedesco è stato infatti il primo a cogliere l’importanza comunicativa del respiro, del sospiro e del fiato, della furia e del brusio delle voci e dell’uso e del ronzio di suoni e strumenti non convenzionali (ad esempio gli incudini destinati a sostituire i timpani in alcune parti orchestrali dell’Anello dei Nibelunghi) oppure difficilmente ammessi dai canoni estetici e musicali che avevano governato la musica e il dramma lirico fino ad allora1, in un contesto musicale considerato “colto”.

Nella concezione wagneriana il sound costituiva un’integrazione della parola cantata, superandola nell’intento di “significare” e coinvolgere gli spettatori/ascoltatori:

Come quando Sigfrido ascolta Brünnhilde o come quando Kundy parla «roca» e «a tratti, come nel tentativo di ritrovare la parola»2, il discorso si riduce alle modalità fisiologiche della voce: rumori appena udibili, svincolati dalla bocca che li emette e dalla volontà di colei che li pronuncia, aumentano fino a «risuonare possenti» o assoluti e viaggiare poi per lo spazio e il tempo sotto forma di sound che «riecheggia lontano».
E’, questo, un effetto acustico che né il Medioevo dei protagonisti dell’opera né il XIX secolo di Wagner avrebbe potuto realizzare, ma che le nostre orecchie conoscono a memoria: notte dopo notte gli impianti di amplificazione della musica rock (amplificatori e delay, equalizzatori e mixer) producono questi suoni stereofonici, tracce di voce e rimbombi. In altre parole, quelle di Jimi Hendrix: la Elsa di Wagner è la prima abitante di Electric Ladyland e ciò che lei descrive con incredibile precisione tramite i termini «risuonare», «aumentare» e «rimbombare» ha poco a che fare con le preghiere e il credo cristiano, ma anticipa semplicemente la teoria del feedback positivo e degli oscillatori.
Non potendo, con i requisiti tecnici dell’epoca, realizzare questo feedback sonoro, Wagner lo compose3.

L’effetto suscitato dal sound wagneriano è quello del superamento della parola (che ricordiamolo sempre era, nei libretti d’opera, “parola scritta” così come “scritta” era anche sempre la partitura), ma anche della norma stabilita dal canto gregoriano che aveva disciplinato l’espressione musicale vocale per i secoli passati. E’ un ritorno alla Natura e ai suoi suoni che i nastri magnetici nel XX secolo permetteranno di inserire direttamente insieme agli strumenti e alle voci nella musica registrata ed incisa. Valga per tutti l’esempio di un brano dei Pink Floyd, Grantchester Meadows, compreso nel doppio album Ummagumma.

Sempre secondo Kittler: «poiché in Wagner testo e partitura si motivano sempre a vicenda, l’oscillare del libretto tra rumore naturale e strumento dell’orchestra, tra random noise (rumore casuale) e segnale di caccia» gli permette di dare vita ad effetti proibiti «fin tanto che la musica è stata dominata dalle partiture e le partiture dalla scrittura. Ma il nuovo medium di Wagner, il sound, fa saltare in aria seicento anni di dominio della lettera, ovvero di letteratura»4. E di dominio del cristianesimo in ambito artistico e morale, andrebbe aggiunto, poiché

ciò che è qui in gioco è la libertà della musica: per la prima volta nella storia della composizione occidentale, il Ring congeda il dio cristiano la cui celebrazione, a partire dal canto gregoriano, ha limitato tutti gli eventi sonori. Il poeta Wagner cessa di […] compiere solenni pellegrinaggi a Roma per invocare invece nuovamente gli antichi dei e dee, mentre il musicista compone il Padre Reno come inizio pre-razionale in cui armonia dei sovratoni e brusio, arte e natura sono indissolubilmente legati5.

Se salta però il dominio della lettera/partitura e della concezione cristiana dell’armonia del mondo diventa evidente che a saltare ben presto sarà, più in generale, l’ordine del mondo, non soltanto artistico e religioso. E non è certo un caso che due delle opere teoriche più importanti di Richard Wagner, Arte e rivoluzione e L’opera d’arte dell’avvenire, siano state scritte nel 1849, quando l’eco della primavera dei popoli che tra il 1848 e il 1849 aveva scosso l’ultima Europa aristocratica e imperiale non si era ancora spento dopo l’apparizione sulla scena del teatro del mondo di un nuovo, titanico protagonista: il proletariato, di fabbrica e non.

Portatore, oltre tutto, di un nuovo immaginario legato alla fabbrica, alle sue lotte, al suo “rumore” che soltanto poco più di sessant’anni dopo il futurista italiano Luigi Russolo avrebbe contribuito a far penetrare nell’estetica musicale e artistica moderna. “Rumore innaturale” (macchine, tram, caos metropolitano e della guerra) che avrebbe affiancato nel nuovo paesaggio urbano e artistico il “rumore naturale” inseguito da Wagner. Rumore di una tragedia annunciata (guerre, inquinamento, sfruttamento delle macchine e del capitale sull’uomo, la specie e la natura) che l’arte degli inizi del XX secolo non avrebbe più potuto ignorare, costretta com’era a copiarne ormai anche gli aspetti più devastanti.

Con buona pace dei “delicati”, su cui avrebbe poi ironizzato Louis Ferdinand Céline, il nuovo paesaggio dello scempio entrava a far parte del mondo letterario, figurativo e sonoro. Paesaggio cui l’avvento dell’elettricità avrebbe dato un contributo devastante e determinante dal punto di vista del suono (registrato o prodotto che fosse). Ecco dove, forse, l’utopia leniniana del socialismo più l’elettricità si sarebbe maggiormente avvicinata all’avverarsi, escludendone la sempre indeterminata e confusa nozione di “comunismo”.

I Greci avevano un dio che abitava nel regno dell’acustica. Quando i pastori sognavano e si rompeva la calma del meriggio, Pan rimbombava improvvisamente nelle orecchie di tutti. [Ora] si dice che il grande Pan sia defunto, ma gli dei delle orecchie non possono morire: ritornano sotto la maschera dei moderni impianti di amplificazione. Ricompaiono in forma di canzone rock6.

Lacan ha affermato che: «Le orecchie sono, nel campo dell’inconscio, il solo orifizio che non possa chiudersi»7, da qui deriverebbe il fatto che gli argini stabiliti dall’ordine, qualunque esso sia, si rompono prima di tutto nella testa ad opera di un suono, di una parola, di un rumore o di un urlo. Come afferma ancora Kittler: «Nessuna parola, nessun muro e nessun argine tra dentro e fuori possono resistere al sound, perché questo costituisce ciò che in musica non si può mettere per iscritto»8.

Il sound è la manifestazione immediata di ciò che si può ottenere dalla tecnologia che la musica ha a disposizione per esprimersi, a seconda delle epoche.

The Dark Side of the Moon, ha venduto otto milioni di dischi dal 1973, anno di uscita, al 1979 e, secondo le ultime stime (2011), ha ormai sfiorato le 45 milioni di copie […] E pensare che tutto era iniziato in modo così semplice. Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright, tre studenti di architettura nell’Inghilterra degli anni Sessanta, si esibivano con le loro chitarre nei teatri di periferia suonando vecchi classici di Chuck Berry. Si chiamavano The Architectural Abdabs, un gruppo che oggi nessuno ricorda più. Un bel giorno di primavera del 1965, si unì a loro un chitarrista e cantante che inventò il marchio Pink Floyd, cioè il nome della band e il sound che la caratterizza: amplificatori sovramodulati, mixer come quinto strumento, suoni vorticanti nello spazio e tecnologia delle basse frequenze combinata con l’optoelettronica fino ai limiti del possibile. Con buchi neri al posto degli occhi, Syd Barrett apre al rock’n’roll il dominio dell’astronomia, Astronomy Domine […] Poi, l’uomo che ha inventato i Pink Floyd sparisce da tutti i palchi e sprofonda in una terra di nessuno medica tra psicosi da LSD e schizofrenia, mentre il suo gruppo trova un altro chitarrista e insieme a lui la formula del successo9.

Anche se è vero che i dati di vendita e i flussi di denaro della macchina discografica capitalistica vengono nutriti dal flusso decodificato dell’alienazione sociale, è pur sempre vero che essa si affida ad una legge non scritta che territorializza la normalità e prescrive ai folli di rimanere su terreni ben definiti e soprattutto extra moenia: è la legge dei grandi architetti della giurisdizione sociale, della salute mentale, delle istituzioni politiche e delle regole del lavoro salariato.
Tutto dovrebbe fondersi in una sorta di circolo virtuoso in cui l’ascolto musicale costituisce soltanto un aspetto importante di un ben congegnato panem et circenses, attraverso cui controllare i flussi dell’immaginario di massa.
Ma, come afferma ancora Kittler (1943-2011) nel suo testo:

I cosiddetti Sessantottini che oggi svolazzano per i media soltanto perché hanno influenzato la mia generazione sono infatti delle chimere ipocrite: non era necessario intonare ruggiti da Vietcong o ricorrere alle armi per battere il ritmo del nostro tempo: c’era […] la musica pop. Ma quest’ultima, una volta tanto, non giunse dai maledetti Usa. Non sarebbe stato possibile altrimenti, nel 1964, quella che gli americani ammirarono e allo stesso tempo temettero: la British Invasion. Di fronte ai Beatles Elvis Presley abdicò alla sua corona. Potenti come lo era stato un tempo il dio Dioniso, giovani voci e chitarre sfondarono il muro del rigido sistema di regole della Federal Communication Commission. A differenza del piccolo sassone Wagner, queste star potevano ergersi in tuttala loro bellezza su un palco illuminato da lampi. Cantavano di amore e di guerra, dai prati intorno a Cambridge, ma soprattutto di musica, perché sapevano bene quel che facevano: per un breve ma storico momento i musicisti pop inglesi spazzarono via tutte le barriere e tutti i muri che l’industria musicale capitalistica (per non dire statunitense) aveva eretto anche solo per vietare l’amore. Non esistevano più l’autore dei testi e il compositore, l’arrangiatore e l’orchestra, la partitura e l’evento sul palcoscenico come sfere separate l’una dall’altra: c’erano solo quattro musicisti che suonavano, cantavano e regolavano da soli i propri microfoni, gli echi e le tracce sul nastro, fino a ripetere l’opera d’arte totale. Così divennero eroi […] persino dei. Il prezzo da pagare per la nuova Grecia l’ha chiamato inequivocabilmente per nome Jim Morrison, la più selvaggia e geniale di quelle stelle:
«Cancel my subscription to the resurrection! / Send my credentials to the house of detention, / I’ve got some friends inside.10»11.

«Speech has become, as it were, immortal.» Queste furono le parole di Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues e i neri che lo cantavano; anche i rumori delle macchine della nave a vapore e il fiume stesso erano udibili.
[…] Cos’, il disco ha prodotto il jazz. Non poter scrivere o leggere le note non era più una ragione di morte per la musica, anche se per il miracolo di nome Swinging London ci voleva qualcosa di più. Prima il Rhythm & Blues nero doveva attraversare l’Atlantico insieme a centinaia di migliaia di soldati yankee e preparare nell’Inghilterra meridionale lo sbarco in Normandia; e dozzine di registratori a nastro della Wermacht dovevano finire, come bottino di guerra, negli studios di Abbey Road a Londra prima che la Seconda guerra mondiale potesse ritornare sotto forma di musica pop.
Invenzione e innovazione avvengono sempre nei punti nevralgici di connessione, sia tecnica che culturale: né il jazz né il rock’n’roll avrebbero mai potuto da soli dare il la alla Swinging London e alla British Invasion degli Stati Uniti. A esplodere tra amplificatori Marshall, chitarre soliste e mormorii di microfoni fu il feedback continuo tra tecnologia europea, armonia musicale romantica e analfabetismo musicale americano. Per scrivere canzoni pop non è necessario imparare da giovani il pentagramma, anche se male non fa; è però fondamentale che l’ingegnere del suono e i registratori siano all’altezza del compito12.

La rivoluzione tecnologica delle pedaliere, dei distorsori, dei wah wah, delle Fender Telecaster e Stratocaster stava avvenendo però, all’insaputa di tutti, nei laboratori in cui tecnici del suono come Dick Dale e altri cercavano nuovi strumenti per ridurre il numero di membri di ogni singolo gruppo (il distorsore e il fuzz uccisero la presenza dei saxofonisti nei gruppi strumentali e surf dei primi anni Sessanta), aumentare il fascino del sound ispirato agli echi e ai flussi delle onde dell’Oceano ed evitare l’uso costoso di studi di registrazione in cui aggiungere artificialmente suoni che non era prima possibile realizzare con gli strumenti normali anche se elettrificati.

Furono i ragazzi delle periferie americane ed europee, a scoprire in quelle nuove apparecchiature gli strumenti di un suono che avrebbe danneggiato cervelli e norme sociali ben più al di là delle parole, delle strofe o degli slogan, pubblicitari e politici. Mentre Barrett inventava il suono cosmico a Londra, dall’altra parte dell’Atlantico e ancora sulla costa del Pacifico un giovane afro-americano di Seattle, Jimi Hendrix, assolutamente privo di educazione musicale, si preparava ed iniziava a stravolgere il suono delle chitarre e il sound del secolo (e di quelli a venire). E così pure iniziavano a fare chitarristi come Pete Townshend, Jeff Beck, Jimmy Page, Jerry Garcia, John Cipollina, Jorma Kaukonen ed infiniti altri, poi ripresi da centinaia di migliaia di ragazzi che suonavano, improvvisavano, distorcevano e storpiavano suoni e parole di canzoni che avrebbero dovuto rimanere innocui inni all’amore, alla gioventù o, al massimo, ai suoi problemi di solitudine affettiva. Il Brain Damage collettivo era stato ormai fatto e il medium era diventato l’autentico messaggio. Come aveva già affermato il sociologo e filosofo canadese Marshall Mc Luhan.

Lo testimoniano cronache come quella dei primi anni Settanta che qui riportiamo, che dimostrano come nelle città industriali l’elettricità avesse portato un nuovo modo di intendere l’arte, la musica, la cultura e, soprattutto, il ruolo sociale dei giovani.

E’ sabato pomeriggio alla Difiore’s House of Music, situata nel West Side di Cleveland, Ohio. Quindici ragazzi delle scuole superiori stanno provando varie chitarre Les Paul, suonando, attraverso gli amplificatori Marshall, Peavey e Fender, ognuno fuori tempo rispetto agli altri, cercando di riprodurre al meglio i riff preferiti rubati a Jimi Hendrix, Jeff Beck e Leslie West. Nel rumore prodotto nulla sembra avere senso. Uno dei ragazzi, che indossa una giacca dell’esercito, sta cercando di suonare uno standard blues, un altro ha appena capito che, se riuscirà a far tirar fuori i soldi al padre per una Les Paul Deluxe, forse riuscirà a suonare correttamente tutti i break di Black Dog dei Led Zeppelin, mentre un altro ancora ha appena fatto conoscenza con un pedale WAH WAH e sta cercando furiosamente un accordo, con il piede destro che pesta sul pedale cercando di ottenere l’effetto più potente possibile come se si trattasse di un martello pneumatico munito di turbo compressore.

Nulla sembra avere più qualsiasi senso. Persone sensibili che hanno portato lì i loro figlioletti di sei anni dopo averli accompagnati alla lezione di tromba stanno artigliando le porte cercando di uscire fuori il più in fretta possibile per trovare sollievo da quel baccano infernale! I tecnici e i commessi stanno buttando giù aspirine come se fossero caramelle e guardano disperati gli orologi. Niente ha più senso. Il suono prodotto dalla brigata di Les Paul continua a crescere sempre più forte e i ragazzi sembrano scoprire ulteriori e ancor più potenti dispositivi da testare per il tramite di banchi di amplificatori dal costo complessivo molto superiore alle loro possibilità economiche, mentre i trasformatori modificano le fasi e i wah wah stanno urlando come bambini affamati e le distorsioni fanno rizzare i peli nell’atmosfera carica di elettricità. Qualcun altro ha scollegato una chitarra e l’ha lasciata sul pavimento a ronzare sulle corde a tutto volume mentre altri ragazzi accorrono sempre più numerosi e iniziano a suonare anche se i commessi cercano di strappare loro di mano le chitarre, urlando “Fuori i soldi prima!”, ma ormai ci sono troppi ragazzi, forse più di cinquanta, e adesso non solo hanno impugnato tutte le Gibson e le Fender disponibili ma anche le loro copie giapponesi di costo molto inferiore. Un tizio ha collegato in serie due amplificatori Peavey e le vetrine iniziano a tremare come per un terremoto, mentre nel locale di servizio assistenza due lavori di riparazione sono stati rovinati poiché le mani dei tecnici tremano troppo forte per poter fare delle saldature accurate e nel negozio vicino il barbiere ha rischiato di tagliare la gola di un cliente per lo stesso motivo e il volume continua a crescere sempre di più, sempre più forte e ancora di più e ancor più ragazzi arrivano fino al momento in cui ogni amplificatore ed ogni chitarra del negozio risulta in uso da parte di qualcuno e anche se LA POLIZIA E’ STATA CHIAMATA, MA NON PUO’ ARRESTARE TUTTO CIO’ CHE STA AVVENENDO, QUALUNQUE COSA SIA!13

Complici la guerra in Vietnam, le proteste studentesche e per i diritti degli afro-americani e di tutte le altre minoranze, la tecnologia del suono si vide stravolta nell’uso e nel senso del suo prodotto. Come le trombe suonate dai sacerdoti davanti alle mura di Gerico avrebbero contribuito a farle crollare, così il sound delle chitarre elettriche contribuì a far crollare ben altri muri, dentro e fuori la psiche dei ragazzi, ricreando quella specie di mente bicamerale, in cui era possibile percepire uditivamente e collettivamente oltre le parole la voce degli dei, di cui avrebbe parlato Julian Jaynes in un suo celebre studio del 197614.

Lo comprese Bob Dylan, in anticipo su tutti, quando abbandonò già a metà degli anni Sessanta il suono acustico per abbracciare, con grande scandalo e disagio dei custodi della tradizione folk di sinistra, quello elettrico, impugnando egli stesso sul palco, come avrebbe fatto per tutti gli anni a venire, una grintosa chitarra elettrica.

Tutto ciò però, sul medio periodo, creò anche alcuni imprevisti e paradossi. Ad esempio, qui nell’italietta di San Remo, un’intera generazione di giovani potenziali rivoluzionari (scazzati da famiglia, lavoro, scuola e festival televisivi) iniziò a scambiare ogni rocker elettrico straniero per un ”compagno”.
Ricordo ancora perfettamente come ad un concerto dei Family, a Milano, il pubblico esplodesse in una salva di slogan e pugni chiusi sollevati quando il cantante, Roger Chapman, si asciugò il viso dal sudore con un asciugamano rosso. Lui stava facendo solo quello, ma il pubblico lo scambiò per ben altro segnale.

E così pure gli scontri del Vigorelli per i Led Zeppelin o a Torino per i Santana o, ancora, quelli per contrastare i concerto organizzati dal “sionista” David Zard, impresario musicale che voleva impossessarsi della “nostra” musica “commercializzandola”. Bufale ideologiche megagalattiche che tendevano a nascondere che quella musica che ci parlava così tanto profondamente era nata dal e per il mercato discografico, anche se gli scontri nascevano spontaneamente dalla furia di migliaia di giovani che non avevano affatto bisogno della provocazione ”fascista” per scatenare la loro rabbia, così come i perbenisti e gli sbirri dell’Unità o del Manifesto invece amavano e amano ancora raccontare (come nel caso dei fatti del G8 di Genova del 2001), per cercare di unire fattivamente sound e vita quotidiana.

Eravamo giovani, potenziali delinquenti e le schitarrate e le distorsioni davano voce a qualcosa che non sapevamo ancora esprimere a parole e che, forse, soltanto i situazionisti avevano saputo già esprimere politicamente, anche se in forme meno spontanee e già pronte per essere ricodificate dalla pubblicità futura. Poiché, alla faccia anche di Guy Debord, solo la vera rivoluzione e la sua forma più spontanea ed immediata, l’insurrezione e l’insorgenza di massa anche priva di parole, will not be televised (come aveva già affermato il grande poeta e musicista afroamericano Gil Scott-Heron nel 1971). Esprimevamo negli atti una sorta di general intellect spontaneo di cui una miriade di maestri, filosofi e professori universitari tentò di impadronirsi, soffocandolo e rinchiudendolo sotto l’ala di improbabili cappelli ideologici.

Per quella generazione, per la mia generazione si può parlare, a proposito di quegli anni, più che di coscienza di classe di una pre-coscienza che superava il limite formale della coscienza di classe per ricollegarci, inconsapevolmente, a richiami più antichi e liberatori provenienti dall’intera storia della specie e dalle sue esigenze primarie più profonde e rimosse dall’ordine giudaico-cristiano e borghese in cui eravamo cresciuti e di cui costituivamo il prodotto “degenerato”. In questo forse si andava delineando un comunismo più concreto e più riconducibile alle esigenze dell’intera specie umana e alle sue esperienze. Come affermò Amadeo Bordiga in quegli stessi anni, ben lontano dall’accettare i capelloni e gli urlatori (come li avrebbe definiti ancora in un pessimo articolo del 1968):

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale15.

Le spoglie mortali di Jim Morrison giacciono oggi sepolte a Parigi, nel cimitero di Père Lachaise. L’ultimo autentico sacerdote del dio Pan, che nel 1969, durante il cosiddetto Miami Incident, invitò gli ascoltatori, mischiandosi poi tra di loro, a spogliarsi e ad amarsi per liberarsi da ogni giogo mentale, sociale, politico e culturale16, ha chiuso idealmente il cerchio ricongiungendosi al ricordo degli ultimi caduti della Comune presso il cosiddetto “muro dei federati” e ai più coraggiosi e visionari insorti dell’Ottocento che avevano brindato allo stesso dio durante i loro banchetti rivoluzionari.


  1. Si legga in proposito: Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei. Wagner e i media senza dimenticare i Pink Floyd, L’orma editore, Roma 2013  

  2. Richard Wagner, Tutti i libretti, UTET, Torino 1996, p. 732  

  3. Friedrich Kittler, Respiro del mondo. Tecnologia dei media in Wagner, ora in F. Kittler, op. cit., pp. 27-28  

  4. F. Kittler, op. cit., pp. 30-31  

  5. F. Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., p. 88  

  6. Friedrich Kittler, Il dio delle orecchie in F. Kittler, op.cit., pp. 47-48  

  7. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003 (prima edizione 1973), p. 190  

  8. Ivi, p. 51  

  9. Ibid., pp. 49-50  

  10. The Doors, When the Music’s Over, 1967  

  11. Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., pp. 97-98  

  12. Ivi, pp. 94-95  

  13. Peter Laughner (poi chitarrista dei seminali Pere Ubu di Akron, Ohio), recensione del long playing, di Lou Reed, Rock’n’Roll Animal in “Zeppelin Magazine”, 7 febbraio 1974.  

  14. Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano 1984  

  15. Amadeo Bordiga, Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965  

  16. «Siete solo una massa di fottuti idioti! Vi fate dire quello che dovete fare. Per quanto tempo volete andare avanti così? Per quanto ancora vi farete calpestare? Forse vi piace, forse vi fate calpestare volentieri. Vi piace, forse, che qualcuno vi ficchi la testa nella merda. Siete tutti una massa dis chiavi che si fa calpestare […] Cosa volete fare per opporvi a questo? Che cosa intendete fare? […] Ah, vorrei vedere un po’ più di nudità qui! Spogliatevi e amatevi!» cit. in R. Kittler, op. cit. p. 110, che continua poi ancora ricordando che il batterista dei Doors, John Densmore, vide subito dopo il cantante balzare giù dal palco tra il pubblico della sala da ballo. «Le danze si fecero sempre più frenetiche, l’abbigliamento sempre meno appropriato. Il giorno dopo quando l’esercito dell’impresa di pulizie entrò nel Dinner Key Auditorium trovò abiti da teenager sparsi dappertutto per la sala concerti e li ammucchiò in un angolo fino a che la pila non raggiunse il metro e mezzo di altezza e i tre metri di diametro, come se l’usanza, per nulla greca, di celebrare vestiti gli dei avesse finalmente trovato la sua giusta fine […] Jim Morrison, il colpevole, dovette comparire di fronte a una giuria di Miami (per l’accusa di atti osceni) che lo condannò a sei mesi di reclusione; il giudice fu più benevolo e commutò la sentenza in un’ammenda di 500 dollari». (Kittler, op. cit., pp. 110-111)  

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