blu – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. Muralizzazione delle periferie e decontestualizzazione dell’arte di strada https://www.carmillaonline.com/2020/12/27/estetiche-del-potere-muralizzazione-delle-periferie-e-decontestualizzazione-dellarte-di-strada/ Sat, 26 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63934 di Gioacchino Toni

«Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

«Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci [...]]]> di Gioacchino Toni

«Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

«Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno» (Laboratorio Crash, Bologna, marzo 2016).

«Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca» (Centro sociale XM24, Bologna, luglio 2019)

Prendendo atto di come le periferie delle città si stiano da qualche riempiendo di murales, Lorenzo Misuraca, in un suo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” nel 20151, si chiede se, al di là degli aspetti positivi, in tale proliferazione non vi sia anche qualcosa di negativo.

Rispetto ai graffiti comparsi sui muri delle città italiane negli anni Ottanta e Novanta, questa più recente ondata di murales, sostiene Misuraca, non pare rappresentare «l’autoaffermazione estetica» di una specifica «comunità underground». Inoltre, rispetto alle precedenti, le ultime produzioni sembrano incontrare un consenso più diffuso.

Che siano nati spontaneamente dal basso o commissionati a livello più o meno istituzionale, i murales delle periferie sembrano svolgere una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale e, continua l’autore, il loro linguaggio di strada e per la strada rappresenta un ottimo strumento per veicolare la rinascita di aree urbane periferiche e per rafforzare l’auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé. Insomma, la «politica di ridisegno delle periferie» attuata dalle istituzioni, che in alcuni casi organizzano persino tour guidati alla scoperta delle “bellezze sui muri” delle periferie, sembra donare ai sui abitanti l’orgoglio di un’unicità positiva.

A partire da tali premesse, Misuraca si interroga sulle possibili ricadute negative di questa “muralizzazione” delle periferie. Se da un lato il quartiere rischia di scambiare i suoi «bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate», dall’altro, con il dilagare di tale fenomeno, la street art rischia di giocarsi la sua stessa anima che è quanto la contraddistingue dai manufatti destinati agli ambiti museali e chiusi che nel corso del tempo si sono talmente “addomesticati”, nel loro adeguarsi al gusto medio, da essere divenuti inoffensivi.

«L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare». Converrà interrogarsi sul fatto che le opere di un artista come Banksy finiscono per piacere anche a quelli a cui non l’artista vorrebbe piacere. Attorno alle sue opere si è infatti creato un cortocircuito perverso per cui alcune delle stesse amministrazioni britanniche che un tempo bollavano tali interventi sui muri come atti vandalici, ora si adoperano per tutelare le sue opere da sconsiderati atti di vandalismo.

Non è una novità che un fenomeno di strada rischi di essere riassorbito da un sistema che non perde occasione per ricavare profitto anche da chi magari lo contesta e se qualche artista di strada si adegua, qualcun altro decide di resistere alle lusinghe. «Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte», scrive Misuraca, «ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica. Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere».

Di tale paradosso sicuramente si è accorto Blu, che non a caso «lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera». A rendere evidente tale consapevolezza è la cancellazione, nel dicembre del 2014, operata dallo stesso artista di suoi lavori nel quartiere berlinese di Kreuzberg. «Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì».

Nel 2016, in occasione della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, che espone alcune opere letteralmente staccate dai muri della città, trasformandole così in pezzi da museo, con il pomposo obiettivo di «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», l’artista Blu, aiutato dagli occupanti di alcuni centri sociali locali, risponde all’essere finito, suo malgrado, nel cartellone della mostra, cancellando le sue opere dipinte in città2.

Se da un alto la muralizzazione delle periferie può diventare una sorta di “trompe l’oleil del cambiamento”, ossia «un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi», dall’altro, il crescente protagonismo istituzionale nel commissionare opere di street art può rappresetare «il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo».

Detto che i murales, per quanto affascinanti, non cancellano il disagio sociale e l’isolamento a cui sono condannate le periferie, ciò che colpisce oggi «è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite», scrive Misuraca, tornando sull’argomento sempre su “Il lavoro culturale” in uno scritto del dicembre 20203 che amplia la riflessione a come il capitalismo dei social incida, anestetizzandola, sull’esperienza creativa. Non appena un fatto tocca “corde comuni”, occorre metterlo a profitto istantaneamente, prima che l’interesse collettivo cali.

L’autodistruzione operata da Blu nei confronti delle sue opere è un atto estetico e politico radicale che ha il merito di riportare al centro della scena una riflessione tanto sulla scena urbana che su quella artistica. Non a Blu direttamente, ma attorno a lui sicuramente, è strutturato il libro di Fabiola Naldi, Tracce di Blu (Postmedia books, 2020) che raccoglie alcuni testi che, scrive l’autrice, «hanno vissuto di un momento empatico molto particolare, e hanno condiviso luoghi e contesti di destinazione speciali per la mia carriera e la mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura aumentata di ciò che avevo già fatto al tempo».

In una scena artistica contraddistinta da una certa refrattarietà all’agire collettivo, in cui molti operano in solitaria senza un preciso codice espressivo, la cancellazione delle opere operata da Blu nel marzo 2016 rappresenta secondo Naldi «l’apice della parte libera e consapevole di un modo preciso di intendere lo spazio urbano. Certamente ci sono ancora autori che proseguono a lavorare in modo risoluto e a volte ancora antagonista, ma la deriva più decorativa, edonistica e restaurativa detiene il primato».

Riprendendo i ragionamenti di Miwon Know4 a proposito dell’arte pubblica, del site specific e del rapporto tra realizzazione e distruzione, Naldi evidenzia come tanto gli studiosi qaunto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento. Pertanto, «la Street Art può esistere ed essere considerata tale solo se fruita come esperienza fenomenologica conseguente e adiacente allo stesso contesto, fatto per soddisfare il luogo in cui è stato realizzato e privo di valore se spostato, trasferito o modificato». È pertanto inevitabile che l’autore metta in conto, quando non la pianifichi direttamente, la distruzione dell’opera. È nelle regole non scritte della Drawing Art, illegale o meno, il suo essere effimera e instabile.

Scrive Blu poche ore dopo aver operato la cancellazione delle proprie opere: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i maganti mangeranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Come a dire che non è nel gesto in sé della cancellazione operata dall’artista che deve essere ricercato l’atto violento; questo deve piuttosto essere individuato nella logica di chi ha davvero distrutto la sua opera murale, «strappandola dalla sua unica e possibile collocazione in nome di una logica di preservazione, fondamentale in altri contesti pittorici ma opposto al lavoro di Blu».

Scrive Naldi che con modalità da attivista politico, «Blu considera buona parte degli interventi che realizza in lotta o in contrapposizione ai vari sistemi locali (diritto alla casa, lotta di autogestione, libero utilizzo delle piattaforme tecnologiche). Solo in quei casi, e solo con l’aiuto di un supporto economico per i materiali pittorici da utilizzare, Blu sceglie di sottoscrivere la battaglia di un singolo gruppo leagato a un singolo territorio, consapevole he la notorietà e il rispetto acquisito nel corso degli anni possano ridisegnare le sorti di una precisa attività anche in nome delle sua presenza. Non si parla mai di riqualificazione urbana, non vi è partecipazione o collaborazione con le istituzioni, ma solo ‘urgenza di “accentuare” una situaizone di emergenza sempre più comune a molte città». Ecco allora che in una data particolare per Bologna, l’anniversario dell’uccisione per mano poliziesca di Francesco Lorusso (11 marzo 1977), con l’aiuto di attivisti dei centri sociali Crash e XM24, Blu decide di ricoprire con il colore grigio le sue opere cittadine.

Dichiara il Centro sociale XM24 di Bologna sotto sgombero nel luglio 2019: «Non dimentichiamo che giornali e politici che oggi elogiano la tutela della Sovrintendenza sono gli stessi che ogni giorno condannano tag, scritte e disegni sui muri, gli stessi che considerano un priorità la “pulizia” della città e che augurano severe condanne a chi fa i graffiti. Gli stessi che apprezzano la “street art” solo se ci intravedono un potenziale profitto. C’è però una realtà evidente: quei pezzi esistono perchè esiste una comunità che li ha fortemente desiderati, voluti, che ne ha scelto i soggetti, il linguaggio, la forma, il contenuto. In un rapporto di scambio continuo fra artiste e artisti chiamati a dipingere e Xm24, stretti in modo inscindibile. Non si può separare un’opera di arte urbana dalla comunità che abita quella porzione di città su cui essa insiste e per cui esiste, senza snaturarla del tutto, e renderla un tristissimo fantoccio vuoto. […] Non consegneremo al Comune un monumento svuotato dal suo contenuto politico e di lotta. Non ci saranno turisti e passanti che si faranno selfie di fronte al fascio spezzato, ai partigiani dipinti, al ritratto del nostro compagno Francesco Lo Russo, e al cane, al topo e al piccione di Xm24, e un Lepore o chi per lui a raccontare in modo addomesticato la storia dello Spazio Autogestito che oggi vogliono sgomberare. Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in unateca. Non vi farete belli della nostra storia, della nostra passione, del nostro presente. Non vi daremo la possibilità di provarci».

Un luogo pubblico dovrebbe essere inteso come spazio «condiviso, comune e spesso di passaggio», dunque, a proposito dell’arte pubblica, nelle sue molteplici manifestazioni, occorre secondo Naldi chiedersi cosa sia ora lo spazio pubblico e come si muovano al suo interno coloro che lo abitano. Visto che gli interventi di arte pubblica incidono inevitabilmente sullo spazio e sulla comunità che lo abita, non è che quelle opere vengano realizzate, lette e interpretate come in altri contesti.

È a partire da tali riflessioni, sulla specificità di tali esperienze, che l’autrice ha strutturato un volume che ruota attorno agli eventi espositivi ai quale ha preso parte Blu. Si tratta di un libro strutturato attorno agli scritti con cui l’autrice hanno accompagnato l’artista per un decennio nelle manifestazioni pubbliche e sulla strada, scritti che ora possono essere riletti a posteriori anche, e soprattutto, alla luce delle auto-cancellazioni operate da Blu, da un gesto capace di rafforzare e significare la sua intera produzione artstica e politica allo stesso tempo.


  1. Lorenzo Misuraca, Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale”, 13 Maggio 2015. 

  2. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico, “Carmilla”, 22 luglio 2016.  

  3. Lorenzo Misuraca, Capitalismo social. Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa, “Il lavoro culturale”, 8 Dicembre 2020. 

  4. Miwon Know, One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, MA, U.S.A 2002. 

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Ritorno al futuro: Stato d’eccezione dei Black Mirrors https://www.carmillaonline.com/2017/02/09/black-mirrors/ Thu, 09 Feb 2017 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36421 di Dziga Cacace

a2222684573_16Ho cominciato a scribacchiare di musica all’inizio degli anni Zero. Nell’industria discografica c’era ancora la baldanza (e la spocchia) di chi si sentiva al sicuro e Napster sembrava un problema lontano, “degli americani”. Poi tutto è crollato e non voglio tirare conclusioni, ma se è venuto meno il mercato discografico, pubblicare un disco oggi o risponde a una logica commerciale per sfruttare un nome, una nostalgia o un fenomeno oppure è la risposta concreta, fisicamente evidente, alla propria esigenza creativa: non importa l’esito delle vendite perché c’è qualcosa da [...]]]> di Dziga Cacace

a2222684573_16Ho cominciato a scribacchiare di musica all’inizio degli anni Zero. Nell’industria discografica c’era ancora la baldanza (e la spocchia) di chi si sentiva al sicuro e Napster sembrava un problema lontano, “degli americani”. Poi tutto è crollato e non voglio tirare conclusioni, ma se è venuto meno il mercato discografico, pubblicare un disco oggi o risponde a una logica commerciale per sfruttare un nome, una nostalgia o un fenomeno oppure è la risposta concreta, fisicamente evidente, alla propria esigenza creativa: non importa l’esito delle vendite perché c’è qualcosa da dire e si ha piacere di farlo.
I Black Mirrors, band con una storia ultratrentennale già raccontata qui, pubblica oggi il suo secondo disco ed è un meraviglioso atto di resistenza, di coraggio e di rivendicazione, un gesto assolutamente punk nel suo uscire da ogni binario precostituito: Stato d’eccezione è scaricabile gratuitamente ma vi invito a procurarvelo nella versione Cd perché è un disco che fa ragionare e fa venire voglia di una pogata urlante. E poi perché suona bene, ma sul serio, e anche perché ha una splendida copertina con un murale di Blu (Occupy Mordor, cancellato con buoni motivi dai muri del centro sociale XM24 di Bologna, oggi minacciato di sgombero).
I Black Mirrors hanno le idee chiare e quando si definiscono un gruppo rock’n’roll dicono semplicemente la verità: Stato d’eccezione è un disco che del punk ha l’attitudine e l’atteggiamento giusto: quello che ha reso grandi i Clash o, più recentemente, la Mano Negra, cioè innervare quei tre accordi di influenze e di suoni da tutto il mondo e renderli ancora una volta nuovi ed eccitanti.
Qui c’è il mezzo secolo che ci ha preceduto, musicalmente e politicamente, senza etichette precise o limitanti, perché si canta e si suona con ogni mezzo necessario, sempre, e in questo caso lo si fa assecondando testi diretti, taglienti come rasoiate. I Black Mirrors passano agevolmente da botte hard rock alla MC5 al meticciato Clash, con escursioni anche in sonorità ska, rhythm & blues o addirittura con l’occasionale distorsione metal. E perché no? D’altronde l’album si chiude con una magnifica ballata elettrica assieme ai fratelli Severini, i Gang, altra esperienza musicale italiana genuina e irriducibile. Insomma: se le etichette aiutano la catalogazione nei negozi di dischi (ormai pochi), qui sembra di voler voltare pagina a ogni traccia, nonostante l’impronta personale dei Black Mirrors sia inequivocabile: punk, sì, ma quel punk che è rifiuto dell’anticonformismo conformista più corrivo, quello che porta in classifica coi suoni addomesticati e qualche slogan urlacchiato per far scena o ancora quello, doppiamente fasullo, che insegue una produzione LoFi che troppe volte maschera una reale capacità strumentale.
Stato d’eccezione è suonato e prodotto benissimo, senza ruffianate ma con una visione musicale chiara e potente che esalta il lavoro compositivo ed esecutivo. Provate a sentire i dischi di chi insegue la programmazione radiofonica: un “tutto pieno” monolitico dove scompare qualsiasi nuance. Qui invece si sente, all’antica – ma quanto avanti! –, ogni strumento, con nitore cristallino. Chitarre, basso e voce ruggiscono o ti accarezzano accompagnando testi curatissimi che spaziano dalla realtà quotidiana del lavoro alle lezioni della storia (le vicende del partigiano Corbari o della guerrigliera Monika Ertl). E c’è l’abilità – figlia di quei lontani anni Settanta – di saper irridere il potere (W la FCA) unendo significato e sfottò senza cadere mai nel ritornello facile ma un po’ vuoto. C’è la volontà sorridente di rivendicare le radici musicali (Punk is Dad) e quella inquieta che ricorda la pacificazione imposta (Omissis, Memoria con divisa). E c’è anche lo sberleffo nei confronti dei pensosi e afflitti cantautori nostrani e di chi invece pare uscito di testa (quando un tempo cercava rifugio nel Patto di Varsavia…).
Non vorrei far torto a una tracklist che non perde un colpo ma forse il pezzo più toccante di Stato d’eccezione è l’omaggio sincero a Freak Antoni, con la cover di Gli italiani son felici, in cui suona anche lo storico chitarrista degli Skiantos, Dandy Bestia: qui passato e presente si ricongiungono magicamente e il testo di Freak – con una nuova strofa aggiunta – suona più che mai attuale e perfettamente coerente col resto dell’album, un album con la maturità dell’età dei Black Mirrors e l’energia e la voglia di chi ha ancora vent’anni dentro e sa dimostrarlo.

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Spaccare Tutto (Il Racconto) https://www.carmillaonline.com/2016/03/26/spaccare-tutto-il-racconto/ Sat, 26 Mar 2016 01:15:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29421 di Jago Malteni

Blu1Il racconto che segue è stato concepito dall’autore come uno spin-off (com’è che si dice) del romanzo a puntate “L’arca della fattanza”, in tema con la recente e quantomeno discutibile apertura di una mostra di street art a Bologna.

Spaccare tutto.

A metà tra l’imperativo categorico e l’istruzione per l’uso, Giobi vede la scritta campeggiare sul muro di fronte, in una foto che circola da un po’ in rete. Chi l’ha scattata, però, non poggiava le suole sull’asfalto di un marciapiede, accorto [...]]]> di Jago Malteni

Blu1Il racconto che segue è stato concepito dall’autore come uno spin-off (com’è che si dice) del romanzo a puntate “L’arca della fattanza”, in tema con la recente e quantomeno discutibile apertura di una mostra di street art a Bologna.

Spaccare tutto.

A metà tra l’imperativo categorico e l’istruzione per l’uso, Giobi vede la scritta campeggiare sul muro di fronte, in una foto che circola da un po’ in rete. Chi l’ha scattata, però, non poggiava le suole sull’asfalto di un marciapiede, accorto magari a non spiaccicarle su una merda fresca di cane, ma sopra al marmo lucido e disinfettato di una stanza chiusa. Il muro in questione, d’altronde, non è un muro esterno, appartato dietro un gomito della Bologna universitaria o sul ciglio di un viale di periferia, ma la parete di una sala, la sala di un palazzo, il palazzo che da poco è stato adibito a m(a)us(ol)eo di arte urbana.

Murales, scritte e graffiti levati di sana pianta dalla strada, scrostati alla lettera dai muri sui quali abitava la loro sola ragione d’essere e appesi sottovetro sulle pareti di un posto che è più un “obitorio”, come è stato detto, che altro.

Un po’ come allestire una mostra di sostanze psicoattive lungo i corridoi di una clinica per disintossicazione da droghe. Il che sarebbe pure una gran bella idea, a pensarci, se non fosse che la clinica è privata e l’ingresso esclusivo, riservato a pochi, meglio se proibizionisti.

Spaccare tutto.

Facile che l’autore della scritta, per mai che avesse voluto vederla in un posto come quello, fosse proprio a un posto come quello che volesse riferirsi. E il peggio, la cosa che più fa bestemmiare per il senso d’impotenza che arriva veloce appena dopo l’incazzatura, è che chi ha allestito la mostra ne è perfettamente consapevole.

Blu3Quella scritta, messa lì, non è che una provocazione bella e buona. È il potere che piglia per culo l’antagonismo derubricandolo a stupido gioco infantile, ma solo dopo averlo represso con la forza e rinchiuso nella gabbia di quattro mura domestiche, asettiche e sterilizzate.

Ci manca solo che ti mettono pure qualche attrezzo a disposizione per invitarti a “spaccare” tutto sul serio, – pensa Giobi al riguardarsi la foto, – tipo quei martelletti che trovi sui mezzi pubblici per infrangere i vetri, “da usare solo in caso di emergenza”. Cioè, nel caso in questione, subito! Immediatamente!

Pezzi di arte urbana che da un giorno all’altro vengono sottratti al loro contesto originario e incorniciati a uso e consumo di migliaia di visitatori paganti, tutti in fila per ingrossare le tasche di qualche magnate gallerista: se non è emergenza questa?

E non è manco per il costo del biglietto in sé, e cioè tredici fottutissimi euri più uno di cauzione (che pure è una mezza randellata nelle reni per uno studente spiantato e fuorisede). È proprio che certe cose… certe cose no, porcaputtana!

Specie se a farle sono quelli che fino all’altro ieri si riempivano la bocca di “decoro” urbano, gli stessi che mo pretendono di fare soldi con parte di quel “degrado” che a parole hanno sempre osteggiato, condannato, combattuto con ogni mezzo, ma che tutt’a un tratto si rivela fonte di profitto, gallina spennata dalle uova d’oro (a patto però che il messaggio sociale e politico sotteso non oltrepassi i cancelli d’ingresso).

Queste cose, però, le hanno già dette in tanti, al punto che è pure inutile starsele a ripetere. C’è tra gli altri chi al proposito ha parlato di “decontestualizzazione” dell’opera d’arte, chi è andato a scomodare Benjamin, chi Foucault e chi addirittura Marx, tirando in ballo il concetto di “accumulazione originaria del capitale”.

Tutto giusto e condivisibile, per carità. Ma certe cose Giobi si è scocciato di leggerle, tanto più se le vede spegnersi davanti agli occhi non appena lo schermo del portatile gli va in standby.

Blu2Vorrebbe fare qualcosa, invece, qualcosa di più concreto. Di fronte a uno schifo del genere si sente chiamato a non starsene più con le mani in mano, lui che appresso alla street art si è inceppato fino quasi a perderci la testa. Specie ora che alcuni pezzi di quel puzzle che da tempo cerca invano di ricomporre non sono più per strada, disseminati sotto i portici e per le vie della città, ma nel chiuso di una specie di camera ardente.

Qualcosa deve farla. Ma cosa? Sabotare, boicottare. Certo, ma come?

Blu, per esempio, ha cancellato le sue opere con un’audace, poetica e sacrosanta passata di grigio. Le cose fatte sui muri, del resto, mica sono là per restarci in eterno? Tanto vale, sennò, trasferirle veramente in un cazzo di museo! Per non dire che di recente lo stesso Blu ha cancellato un paio di sue opere a Berlino, senza però che in quel caso ci fosse il rischio di vedersele snaturare in una galleria d’arte.

Quelli che lo hanno aiutato a ripulire le pareti si sono pure beccati una denuncia. La più assurda delle denunce che mai graffitaro si potesse beccare: quella di aver cancellato un murales invece che di averlo fatto!

Giobi, però, non è un graffitaro. Non è Blu, soprattutto, e di sottrarre graffiti ai mercanti d’arte non se lo può permettere (senza poi contare che cancellarli tutti è veramente un’impresa impossibile).

Eppure, se proprio non si può evitare che delle opere d’arte urbana finiscano surgelate in vetrina, tanto vale agire in senso inverso, portando cioè un po’ di strada dentro le mura dove stanno imprigionate, restituire loro un po’ del contesto in cui hanno visto la luce, un po’ di sano lerciume, un po’ di “degrado”.

Questo s’è detto Giobi, e da quando l’idea gli è entrata nella capoccia non se n’è più voluta uscire. Si è messo perciò a studiare una maniera per realizzarla, un piano d’azione, una strategia. Almeno cinque le cose che servono: una bomboletta spray, una vescica gonfia sul punto di implodere, un passamontagna per eludere telecamere e sorveglianza, scaltrezza da faina e tanto, tantissimo culo.

Blu4Di entrare per l’ingresso principale, ovviamente, non se ne parla. Il palazzo è costantemente piantonato dalle guardie e i controlli saranno persino raddoppiati da che la mostra è salita agli onori della cronaca. Giobi però, sviscerando meglio la mappa dei sotterranei bolognesi (quella che si era procurato grazie a Luca), ha scoperto l’esistenza di un passaggio che sbuca giusto nel seminterrato del palazzo in questione. Il primo sopralluogo fatto gliene ha dato conferma; il secondo gli ha addirittura suggerito il modo di raggiungere il piano allestito senza passare per la porta principale. La fregatura è che la sola entrata per dove può passare è in realtà un’uscita, una porta d’emergenza sul retro. Che, come tutte le cazzo di porte d’emergenza sul retro, si apre solo da dentro. Dovrà perciò appostarsi fuori e aspettare che qualcuno, un custode o un addetto, la apra per qualche motivo; al che, senza farsi sgamare, dovrà intrufolarsi dentro in punta di piedi, raggiungere le sale della mostra e una volta là aspettare il momento giusto per…

No, da solo non potrà mai farcela.

Perciò ha provato a sentire Luca, che subito si è detto d’accordo a fargli da palo. Pure domani stesso, che alla mostra aveva comunque già pensato di andarci. Giobi allora, vista la disponibilità dell’amico, gli ha chiesto di andare lui ad aprirgli quella cazzo di porta d’emergenza sul retro. A un orario concordato, certo, e magari dopo essere entrato un po’ di tempo prima nei locali della mostra, non più di quello che basta a farsi un’idea della vigilanza e delle misure di sicurezza. Le due di pomeriggio è l’ora in cui è presumibile che ci siano meno visitatori, e che si abbassi pertanto la guardia. E per quell’ora sono rimasti d’accordo.

Fino a che, il giorno dopo, quell’ora non è arrivata.

Blu5Le due, le due e cinque, le due e dieci… Giobi è là fermo in posizione, con l’aria di un ratto risalito per le fogne e venuto fin là a impestare l’impestabile. Il passamontagna è già infilato in testa, la bomboletta in un tascone e la vescica grossa quanto un pallone da basket. È da stamattina che non piscia, e per poco la tensione non gliela fa fare addosso.

Alle due e un quarto Luca apre finalmente la porta, giustificando il ritardo col fatto che fino a un momento prima ci fosse uno dei vigilanti a sorvegliare l’uscita.

Giobi si fida e lo segue fino al primo giro d’angolo, dove lo vede sporgersi a osservare la situazione mentre con una mano gli fa segno di aspettare. Poi, passato un minuto o forse due, gli dà il via libera. E Giobi si fionda allo scoperto.

I passi rimbombano nel silenzio mostruoso di quelle sale stranamente vuote. Le pareti sono tappezzate per intero da quadri entro cui si trovano costretti pezzi di muro, vecchie porte in legno e saracinesche divelte, persino cartoni per pizze, con sopra stencil e graffiti affiancati da insulse targhette che ne specificano l’autore, l’anno, la provenienza.

A un momento gli sembra pure di vedere quelle scritte cominciare a muoversi, fluttuare in spirali ipnotiche che si allargano fino a sfondare le cornici e sconfinare per sopra alle pareti. Strano: era sicuro di non aver assunto sostanze allucinogene prima di uscire. (Non invece come quella volta che si era risvegliato in piena notte su una panca ai giardini di San Leo, tra gli anatemi e le bottigliate della signora Anna).

Luca intanto gli fa strada, finché, percorse alcune sale fino a quella principale, salite poi alcune scale e svoltato un altro paio d’angoli, l’occhio non gli cade sulla scritta che aveva visto in foto.

Spaccare tutto.

Blu6L’atrio è deserto, il momento propizio. Con le spalle copertegli da Luca, che resta a fare da palo poco distante, Giobi si sbottona la patta dei calzoni e vuota la vescica lungo la base della parete. Un minuto e passa di pisciata fumante, roba che manco Fiabeschi! (Tipo l’ultima volta che aveva pisciato nei cessi al piano seminterrato del 36…)

Poi sfodera la bomboletta e la fa cantare, imbrattando di scarabocchi ogni minimo angolo della stanza. Ne scrive di ogni: La street art senza street non è manco più art, Padroni ladroni, Musealizzatemi ‘sta minchia, La proprietà è un furto… con diverse A cerchiate da per tutto.

Luca, nel frattempo, è ancora là con le mani in tasca, tranquillo, forse pure troppo. Fatto sta che non dà segni di allarme, per cui Giobi riprende fiato e si ferma a contemplare il lavoro fatto: proprio un bel servizio, non c’è che dire. In culo a chi vorrebbe l’arte di strada senza più la strada per torno.

Spaccare tutto.

Ancora quella scritta, là immobile a caratteri cubitali, sotto la luce fredda di due lampade al neon. Pare avercela con lui ora, come fosse un invito, un promemoria a concludere il lavoro cominciato e lasciato a metà. Martelli non ce ne stanno in dotazione, ma in un angolo Giobi scorge un estintore e non può mantenersi d’esaudire il desiderio che appena gli sfiora le cervella: abbrancarlo di colpo e schiantarlo contro la parete dove la scritta si staglia.

Il fracasso è tale da far scattare l’allarme, e l’allarme tale da far risvegliare Giobi nel suo letto, di colpo, con una sirena d’ambulanza spiegata nelle orecchie e un impellente bisogno di pisciare.

Cazzo!

Nemmeno dopo il caffè si leverà di dosso la netta sensazione che fosse tutto successo per davvero. Incapace a capacitarsene, acchiapperà il telefono e cercherà il numero di Luca tra le ultime chiamate:

«Pronto Lù! Senti qua, avrei una cosetta da proporti…»

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Street Art in museo: “E’ la contraddizione dell’essere umano, signore” https://www.carmillaonline.com/2016/03/19/street-art-museo-la-contraddizione-dellessere-umano-signore/ Fri, 18 Mar 2016 23:03:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29236 di Mauro Baldrati

BanksyStreetGuy, 16 anni, e i suoi due pard camminavano furtivi lungo Via Fioravanti, l’asse periferico del quartiere bolognese Navile. Per la verità non c’era motivo di procedere furtivi. Non ancora almeno. Svoltando a destra e a sinistra per strade che i tre non conoscevano, essendo residenti in San Donato, sbagliando, tornando più volte sui loro passi, lo trovarono: un muro di recinzione perfetto, alto tre metri, posto sul retro di un palazzo adibito a centro sanitario polivalente, raggiungibile dalla strada ma al contempo sufficientemente appartato per poter lavorare [...]]]> di Mauro Baldrati

BanksyStreetGuy, 16 anni, e i suoi due pard camminavano furtivi lungo Via Fioravanti, l’asse periferico del quartiere bolognese Navile. Per la verità non c’era motivo di procedere furtivi. Non ancora almeno.
Svoltando a destra e a sinistra per strade che i tre non conoscevano, essendo residenti in San Donato, sbagliando, tornando più volte sui loro passi, lo trovarono: un muro di recinzione perfetto, alto tre metri, posto sul retro di un palazzo adibito a centro sanitario polivalente, raggiungibile dalla strada ma al contempo sufficientemente appartato per poter lavorare indisturbati.
Scaricarono gli zainetti stracolmi e li aprirono. Allinearono le bombolette sul marciapiede e inforcarono le maschere. StreetGuy era particolarmente orgoglioso, perché dopo molte insistenze era riuscito a ottenere una dotazione di acrilici dal centro sociale San Donato 3, che aveva un laboratorio artistico.

Lavorarono fin dopo dopo l’alba, fermandosi solo per controllare l’opera, allontanandosi di qualche metro per valutare le proporzioni. Si abbracciarono e si dichiararono soddisfatti. L’avevano progettata con decine di bozzetti, e il risultato era all’altezza del lavoro preparatorio: bambini che giocavano ai piedi di enormi grattacieli invasi da rampicanti neri, con elicotteri che volavano minacciosi. Avevano visto qualcosa di simile in alcune foto scattate in Brasile, avevano copiato, ma solo in parte. C’era molto intervento personale, molte variazioni. Non era ancora pienamente terminata, la parte coloristica era parziale, anche perché i rossi e gli azzurri erano terminati. Il centro sociale doveva fornire altre bombolette. StreetGuy era pronto a combattere per averle.

Sarebbero tornati più avanti, per finire il lavoro. Ma avrebbe potuto restare anche così, era una prerogativa dei graffiti l’incompiutezza. Specialmente quelli figurativi, complessi ed estesi. Talvolta era troppo rischioso tornare. E la parzialità stava proprio a significare il concetto di blitz, colpisci e poi ritirati.

Street_art2Cinque giorni dopo a casa di StreetGuy si presentò una pattuglia di vigili urbani, un uomo e una donna dai modi compassati, quasi imbarazzati. Però l’uomo ogni tanto ghignava sotto i baffi. StreetGuy e un altro “writer” erano stati riconosciuti dalle riprese delle telecamere circostanti il poliambulatorio, il terzo non ancora. Secondo le nuove normative varate dal Comune (che i media chiamavano enfaticamente zero tolerance), i tre erano tenuti a rimborsare la collettività per il danno arrecato imbrattando un muro pubblico, per una cifra di 900 euro. Oltre a una segnalazione, una sorta di schedatura che sarebbe stata considerata in caso di reiterazione del reato. Facevano 300 a famiglia, 450 se il terzo ragazzo non fosse stato identificato. StreetGuy avvertì un senso di gelo all’altezza del cuore. Stava già vivendo la scenata di suo padre, al ritorno dal lavoro in cantiere. Stavano pagando il mutuo per la casa, dovevano risparmiare anche sulle pizze. E già immaginava le terribili pressioni per ottenere la delazione sul terzo amico.

4 anni dopo StreetGuy, ormai ventenne, si chiamava Paolo Fontana. Non faceva più graffiti, ma studiava giurisprudenza all’Università. Frequentava ancora il centro sociale, ma solo per fumare un po’ di canne, partecipare a qualche riunione e soprattutto collaborare al laboratorio artistico. Fu strabiliato, al di là di ogni immaginazione, quando lesse la notizia: uno dei principali musei della città ospitava una mostra intitolata Street Art – Bansky & Co. L’arte allo stato urbano. Lesse e rilesse, incredulo. Ma… erano proprio le loro cose, c’erano le foto di opere che conosceva benissimo, in un museo! In una istituzione! E la zero tolerance? E la sua multa? (di 450 euro, non avevano “cantato”).
Ma cosa diavolo stava succedendo?

Street_art1Già, è proprio quello che sta succedendo. L’organizzazione Genus Bononiae, “un percorso culturale, artistico e museale, nato per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna”, leggiamo alla voce “chi siamo” del suo sito web, ha inaugurato giovedì a Palazzo Pepoli una grande mostra internazionale di graffiti metropolitani. L’iniziativa ha scatenato molte polemiche, oltre allo sbalordimento e all’incredulità di tanti “writers” (termine abusato in modo improprio: i writers sono gli specialisti del lettering, chi realizza opere figurative è piuttosto un “muralista”, o più prosaicamente “street-artist”), a loro tempo indicati come imbrattatori, multati, denunciati, cavie viventi di politiche populiste di “tolleranza zero” di sindaci in cerca di consensi facili. Le loro opere, spesso realizzate dentro fabbriche abbandonate, lungo tratti ferroviari, sono state cancellate da gruppi di volontari vestiti di bianco, in nome di un “pubblico decoro” che ora è mutato in attenzione verso “nuove” forme di arte urbana. Così, improvvisamente. Senza preavviso. Basta fare un giretto nella stampa di neanche tre anni fa: “Ora, per la prima volta, il Comune ci mette la faccia (e il portafoglio), e lo stesso fa Hera: e l’intervento pubblico, l’intervento finanziario pubblico, è l’unico che può aiutare i bolognesi a non sentirsi soli nella lotta agli imbrattatori, e conseguentemente, educare anche i cittadini alla ‘riscossa civica’, per dirla col sindaco. I bolognesi non sono quelli che dichiarano ‘guerra’, ma che fanno, magari in silenzio. Verso gli altri, tolleranza zero” (neretti nell’originale). Il Resto del Carlino, 21/11/2013. E sei mesi dopo: “Per ripulire i muri dai graffiti, ora gli amministratori di condominio possono fare un “abbonamento”, da 100 euro, all’anno con il Comune di Bologna ed Hera. E intanto, dopo le pulizie dei muri degli edifici pubblici, da questa mattina si parte anche su quelli privati, a cominciare da via Indipendenza. Poi si passerà a via Ugo Bassi, via Rizzoli, Marconi, San Felice e le radiali del centro, spiega l’assessore ai lavori pubblici, Riccardo Malagoli, che stamane ha fatto una ‘ricognizione’ assieme al sindaco Virginio Merola e ad alcuni rappresentanti della multiutility.” La Repubblica, 27/5/2014.

Street_art3Educare.
Il museo ha anche una sezione chiamata “Servizi Educativi”, che accompagnerà i ragazzi delle scuole lungo un percorso formativo verso l’arte del graffito. Insomma, imparare il mestiere, con l’ausilio di alcuni writers che si sono prestati, felici di essere finalmente riconosciuti come artisti. Però! Spicchiamo un altro salto nel 2013, cosa facevano i bambini delle scuole? “Sono gli scolari della scuola primaria Giordani, guidati dalle mani esperte dell’Associazione Cirenaica, di alcuni residenti e del Centro Antartide di Bologna: la causa dei lavori sono gli ormai noti graffiti che pennellata dopo pennellata sono spariti per restituire al palazzo il bel tono rosso, tipico della città.” (neretti nell’originale). Il Resto del Carlino, 26/11/2013.
Prima li facevano cancellare “graffito selvaggio”, ora il contrario.
C’è da sperare che uno stesso bambino cancellatore non si ritrovi, due anni e quattro mesi dopo, allievo graffitista. Potrebbe riportarne un black out psicologico!

Su questa vicenda, che per certi aspetti ha dell’incredibile, ma neanche tanto, come vedremo tra poco, ha preso una posizione decisa Wu Ming, con un articolo su Giap: “Non importa se le opere staccate a Bologna sono due o cinquanta; se i muri che le ospitavano erano nascosti dentro fabbriche in demolizione oppure in bella vista nella periferia Nord. Non importa nemmeno indagare il grottesco paradosso rappresentato dall’arte di strada dentro un museo. La mostra Street Art. Banksy & Co. è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi.
Dopo aver denunciato e stigmatizzato graffiti e disegni come vandalismo, dopo avere oppresso le culture giovanili che li hanno prodotti, dopo avere sgomberato i luoghi che sono stati laboratorio per quegli artisti, ora i poteri forti della città vogliono diventare i salvatori della street art.”

Street_art4Posizione che è la stessa di uno degli artisti esposti, il muralista bolognese Blu, che ha diverse opere all’interno della mostra (i curatori hanno staccato le opere dai muri, per trasportarle nel museo, spesso contro la stessa volontà degli autori). Per protestare contro questo concetto di privatizzazione e di speculazione, ha cancellato due magnifici graffiti bolognesi, con l’aiuto dei ragazzi di due centri sociali.

E’ stata anche organizzata una mostra alternativa, graffiti realizzati in una fabbrica abbandonata in Via Stalingrado 63/65, purtroppo non accessibile al pubblico per problemi statici, ma visibili in spazio virtuale, qui.

I difensori dell’iniziativa sostengono che questo è l’unico modo per preservare opere che si sarebbero corrotte in breve tempo, per gli agenti atmosferici, gli inserimenti di altri graffiti, sfregi, intonaci che crollano ecc. E poi non tutto è arte, spesso si tratta di semplici sgorbi. Occorre individuare e valorizzare le opere migliori.

Eppure c’è qualcosa che non quadra in queste osservazioni. La Street Art è per sua natura transitoria, trasversale, ugualitaria, è un’espressione collettiva, dove i criteri di “bello”, “brutto”, sono aleatori, e forse privi di significato. E’ la città che si trasforma, per l’intervento dei suoi abitanti. Museificarla, sottoporla alla verticalità di un merito che è soprattutto commerciale significa renderla “prodotto”, farle violenza.

In realtà l’evento non è così sbalorditivo. Non l’ha sempre fatto il Mercato? Prendiamo un Archetipo, Van Gogh. Per tutta la vita critici e galleristi di grido gli hanno ripetuto che era negato per la pittura, che doveva cambiare mestiere. Questa continua, devastante emarginazione l’ha condotto alla pazzia e alla morte. Poi, anche questa sua discesa agli inferi della solitudine e del dileggio è diventata merce, per la costruzione del personaggio dell’artista “maledetto” molto redditizio.

Street_art6Sì, ma che c’entra Van Gogh?
Un po’ c’entra. Il suo progetto era creare un laboratorio collettivo di pittori-operai, in Provenza: artisti che avrebbero lavorato in condizioni di assoluto egualitarismo, facendo ricerca, documentando la vita, i luoghi, la natura, con l’unico scopo di vivere del proprio lavoro. Il suo amico dell’epoca, Gauguin, che non credeva in questa visione socialista dell’arte, ma cercava il successo, fuggì a gambe levate.

A modo suo anche la Street Art è un immenso laboratorio globalizzato di attività collettiva. Il Mercato non poteva restare indifferente ancora a lungo. Troppe potenzialità, troppa energia per lasciarla a se stessa. La zero tolerance, i comitati anti degrado sono ostacoli molto rarefatti, quando ci sono di mezzo gli investimenti.

E ora?
Sapranno resistere i muralisti più rappresentativi alle sirene del Mercato? Sapranno dissociarsi dall’Archetipo dell’artista contro, coccolato dai musei, dalle gallerie e dagli editori, che fingeranno di farlo sentire libero, amato solo per la qualità della sua arte?

Street_art9Intanto, al di là delle ideologie, lo spettatore naviga nella mostra contemplando le opere sradicate dal loro contesto naturale e deportate in saloni ipermoderni, di metallo e cristallo, opere molto varie, tanto che la mostra può definirsi ibrida: ci sono i murali, pezzi di seracinesche, di porte, pannelli di legno, ma anche opere su tela, disegni, quadri incorniciati di quegli stessi artisti che hanno lavorato con la bomboletta spray nelle città del mondo. Ma non ci sono solo opere “alte”, alcune sale sono dedicate proprio al “graffito selvaggio”, il writing, gli “sgorbi” che i teorici della zero tolerance facevano cancellare dai bravi giovani volonterosi in tuta bianca. Ci sono persino video che riprendono gli “imbrattatori” mentre “sporcano” il decoro urbano. In definitiva è una mostra di pop art, coloratissima, con incursioni negli anni Ottanta e Novanta. L’impressione è di una esperienza visiva interessante, però serpeggia un senso di straniamento, perché la maggioranza delle opere in effetti non si presta a questa museificazione. Anche senza ragionare per ideologie sono fuori posto, come animali nello zoo. Per cui lo spettatore, mentra passeggia nei saloni, non può non evocare quella scena di Full Metal Jacket, quando il generale chiede al Soldato Joker perché sull’elmetto ha il simbolo pacifista accanto alla scritta born to kill, e Joker risponde, lasciandolo senza parole: “E’ la contraddizione, la contraddizione dell’essere umano, signore.”

(Le immagini: in apertura, Banksy, Girl and Soldier; nell’interno: foto della mostra – cliccare sui riquadri per vederle nelle dimensioni originali)

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Estetiche del potere. Blu contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/06/08/estetiche-del-potere-blu-contemporaneo/ Mon, 08 Jun 2015 21:00:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22922 di Gioacchino Toni

red_pill_blue_pillcopy1“You take the blue pill, the story ends. You wake up in your bed and believe whatever you want to believe” (Morpheus, Matrix, 1999)

Digitando su di un motore di ricerca immagini il nome di personaggi come Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Christine Lagarde, Angela Merkel, Barack Obama, David Cameron, Mariano Rajoy Brey, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Nicolas Sarkozy, Francois Hollande, Marine Le Pen ecc., si nota che, indipendentemente dal “colore politico”, il blu predomina ampiamente sia nell’abbigliamento che nei fondali dei convegni e degli studi televisivi. Il medesimo risultato [...]]]> di Gioacchino Toni

red_pill_blue_pillcopy1“You take the blue pill, the story ends. You wake up in your bed and believe whatever you want to believe” (Morpheus, Matrix, 1999)

Digitando su di un motore di ricerca immagini il nome di personaggi come Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Christine Lagarde, Angela Merkel, Barack Obama, David Cameron, Mariano Rajoy Brey, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Nicolas Sarkozy, Francois Hollande, Marine Le Pen ecc., si nota che, indipendentemente dal “colore politico”, il blu predomina ampiamente sia nell’abbigliamento che nei fondali dei convegni e degli studi televisivi. Il medesimo risultato si ottiene anche inserendo i nominativi di vecchie glorie vicine, come Tony Blair e George Bush (junior o senior), e lontane, come Margaret Thatcher e François Mitterrand. Anche digitando i nomi dei più influenti organismi economici o politici, ammesso siano distinguibili, come International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc., nuovamente trionfa il blu, in tutte le sue tonalità.

Il blu è rassicurante e viene percepito come colore poco connotato politicamente, è il colore del “buon senso”, che non spaventa, che lascia andare a letto tranquilli sapendo che per adeguarsi a quel colore non ci si deve esporre troppo. Nel mondo occidentale il blu, nelle sue varianti, pare essere di gran lunga il colore preferito da buona parte della popolazione, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. L’abbigliamento, che è forse l’indicatore più efficace, se indagato sul lungo periodo, testimonia tale preferenza, indipendentemente dalle mode effimere che durano una stagione. Anche quando nei sondaggi il blu non viene indicato come colore preferito, facilmente risulta citato tra quelli “meno sgraditi”, ciò risulta importante perché la mancata ostilità è una carta decisiva in mano a chi intende esercitare il potere.
Matteo Renzi ospite a ''Porta a Porta''Il blu predomina anche negli studi televisivi di trasmissioni come Porta a porta e Domenica in, oppure risulta una presenza importante in Che tempo che fa e Servizio Pubblico. Domina in notiziari come Tg1, Tg3, Tg5, Studio Aperto, CNN Breaking News, Fox News, o coabita con il rosso od il verde in telegiornali come SkyTg24 o Tg La7. Se è pur vero che, in alcuni casi, come negli studi di BBC News e del Tg2, tende a lasciare la scena ad una gamma cromatica orientata al rosso, in generale si può comunque dire che il blu è il colore dominante dell’infotainment televisivo.

Michel Pastoureau, tra i massimi studiosi di storia dei colori, sostiene che, ai nostri giorni, “questo gusto pronunciato per il blu non è l’espressione di pulsioni o di motivazioni simboliche particolarmente forti. Si ha persino l’impressione che sia perché è simbolicamente meno ‘connotato’ di tanti altri colori (…) che il blu ottiene il consenso generale”. Che il successo del blu sembri derivare anche dalla sua scarsa connotazione simbolica è emblematico di come la società contemporanea risulti apatica, sempre più omologata, e di come anche quel residuo di volontà dell’individuo che mira ad essere riconosciuto come tale necessiti di una diffusa rassicurazione. Servono tante, rassicuranti, amicizie nei social network e quando si usufruisce dei dieci minuti di celebrità, le regole del gioco impongono la ricerca del consenso diffuso. Si tratta di un gioco perverso in cui l’individualità si cerca nell’omologazione. I creatori/venditori di moda conoscono bene i propri clienti, sanno perfettamente quanto questi siano sostanzialmente timorosi ed equilibristi, dunque ricorrono spesso a “veltronismi”: i “ma anche”. Per la donna elegante ma anche, al tempo stesso, sportiva… o viceversa, come preferite. Il frasario d’ordinanza è composto, probabilmente, da non più di dieci termini shakerati come nemmeno al vecchio Cabaret Voltaire zurighese…

m1Il blu, non è sempre stato fruito allo stesso modo, Pastoureau, nel suo Blu. Storia di un colore*, uscito in Francia nel 2002, ripercorre la sua storia in occidente dall’antichità fino ai giorni nostri, indicando come questo ha mutato più volte significato e modalità di percezione. “Considerato un fatto sociale, il blu e le sue alterne fortune rappresentano pertanto il ritratto in continuo divenire di una società, quella umana, costantemente impegnata a fissare e ridefinire la propria scala di valori”.

In ambito greco-romano il blu viene considerato un colore negativo, associato ai “barbari”. Il blu conosce una sorta di oblio per diversi secoli e, secondo lo studioso, diviene un colore di primo piano in Europa soltanto attorno al XII-XIII secolo associato, in ambito religioso, al mantello della Madonna, sino ad allora di colore scuro, grigio o nero. Da questo momento, per diversi secoli, blu e rosso rappresentano una vera e propria coppia di contrari (femminile/maschile; morale/festante ecc.). A partire dal Settecento le cose cambiano drasticamente, il regresso del colore rosso lascia spazio al definitivo trionfo del blu che si impone come colore preferito a livello europeo. In parte, il successo è determinato da questioni “pratiche” che hanno a che fare, a livello materiale, con i coloranti utilizzati nella tintura delle stoffe (dal naturale indaco all’artificiale blu di Prussia) ed, a livello simbolico, con l’associare il blu al progresso, all’illuminismo. Se un ruolo prioritario per il successo del blu si deve alle rivoluzioni americana e francese, non di meno vale il contributo dato sia dalla letteratura illuminista che da quella del primo romanticismo. In ambito romantico, ad esempio, il colore blu viene celebrato tanto dall’abito del protagonista del romanzo di Goethe, I dolori del giovane Werther, quanto dal fiorellino blu al centro dell’opera incompiuta di Novalis, Enrico di Ofterdingen. Il blu, già colore di moda nell’abbigliamento tedesco nella seconda metà del Settecento, viene ulteriormente rafforzato proprio dall’abito del protagonista del romanzo di Goethe, tanto che determina il diffondersi della moda dell’abito blu “alla Werther”. Il “blu romantico e malinconico” viene così “aureolato di tutte le virtù poetiche”.

Flag of european unionÈ in ambito francese, sottolinea Pastoureau, che il blu diviene il “blu nazionale, militare e politico”. Il blu, in Francia, appare negli stemmi reali già tra il XII-XIII sec. ma, alla vigilia della Rivoluzione, il colore della monarchia è il bianco. È con la Rivoluzione che il blu diviene il colore della Nazione. Il blu si trasforma, via via, da colore dei difensori della Repubblica, a colore dei repubblicani moderati fino a divenire emblema dei liberali o dei conservatori. Nella storia militare francese il blu viene già utilizzato dalle Guardie francesi, corpo di élite nato verso la metà del XVI sec., che fraternizza con gli insorti nel luglio del 1789, tanto che molti suoi uomini passano poi tra le fila della Guardia nazionale parigina mantenendo le vecchie uniformi ed aprendo la strada alla proclamazione del blu come colore nazionale in contrapposizione al bianco monarchico ed al nero clericale e della casa d’Austria. Con le guerre in Vandea il blu dei soldati della Repubblica assume una “dimensione ideologica”: blu repubblicano vs. bianco cattolico e reale. Successivamente al blu repubblicano si affianca il rosso dei socialisti. Dalla rivolta del ’48 il blu perde ogni connotazione rivoluzionaria fino a divenire il colore dei repubblicani moderati, poi dei centristi e, con la Terza Repubblica, della destra repubblicana.
In generale, buona parte dell’Europa, tra Otto e Novecento, finisce con l’adottare una simbologia cromatica analoga: il blu diviene prima emblema dei partiti repubblicani progressisti, poi moderati, infine conservatori. Alla sua sinistra spetta il rosso, alla sua destra il nero, il bruno o il bianco, colori di clericali, fascisti o monarchici. Balzato prepotentemente al centro della scena con la stagione della Rivoluzione francese, nell’abbigliamento, il blu, per qualche decennio, nel corso dell’Ottocento, viene soppiantato dal nero. Già ad inizio Novecento, però, il nero inizia ad essere affiancato da altri colori e, dopo la Prima guerra mondiale, il nero degli abiti maschili inizia a cedere il posto al blu marin a partire dalle colorazioni delle uniformi di vari corpi. Negli abiti civili il blazer rappresenta l’esempio più evidente del passaggio dal nero al blu.

Se il significato del colore blu è mutevole nel tempo, non di meno, allo stesso colore possono essere dati significati differenti, se non antitetici. In epoca recente, si pensi, ad esempio, a quel che hanno significato nell’immaginario novecentesco le “tute blu”; simbolo di un possibile riscatto proletario da una parte, e simbolo di un’irrazionale, quanto ingeneroso, tentativo di annullare l’ordine costituito dall’altro. In ambito diacronico, è curioso come sia mutato il portato simbolico nel corso di qualche decennio dell’indumento blu per eccellenza: i blue jeans. Passati di volta in volta da indumento da lavoro a pantalone contestatario, a prodotto di consumo, a capo recuperato e trasformato dal marketing della moda.

Matteo Renzi a Leopolda 13In epoca contemporanea, il blu sembrerebbe proporsi come risposta tranquillizzante ad uno stato d’animo emergenziale indotto quotidianamente dal mondo dell’economia e dai suoi portavoce (politici e mass media). Si crea il malessere nell’individuo per poi presentarsi come risposta sensata ed equilibrata, come a dire che si creano i presupposti per le guerre, poi si mandano i caschi blu.
Grazie al blu si ha un’umanità serena, liberata dai travagli emotivi e dalle incertezze materiali. Il blu è il colore più efficace per chi si presenta come fautore del buon governo, per chi dichiara l’intenzione di governare avendo a cuore la serenità diffusa e che richiede allo spettatore/elettore un sostegno che non lo costringe ad esporsi troppo: è un sostegno dato a distanza di sicurezza. Il blu è rassicurante, gli si possono dare in gestione i risparmi di una vita. Il blu è competente, sotto al pullover blu, il nuovo vate del progresso industriale indossa pur sempre la camicia d’ordinanza. Blu è pur anche il colore della pillolina miracolosa quanto una Duracel alcalina ma, dopotutto, rappresenta pur sempre un tranquillante per ansie da prestazione. Il blu è un colore rasserenante, è il colore di chi, con sobrietà, magari attraverso il telecomando, ti prende per mano e ti fa addormentare e “domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai”. Dalle nostre parti, più prosaicamente e con la sintesi comunicativa di cui Jerry Levis de noantri è maestro, si potrebbe semplicemente dire che il blu è il colore dello “staiserenismo”.

 

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blu*
Edizione economica: M. Pastoureau, Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2008, 237 pagine, € 13,00

Edizione con apparato iconografico: M. Pastoureau, Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2002, 216 pagine, €25,00

 

 

 

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