Black Mirror – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 WestWorld: la valle della disrupzione / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/08/westworld-la-valle-della-disrupzione-3/ Sat, 08 Apr 2023 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76566 di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark [...]]]> di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark Zuckerberg, Elon Musk o Jack Ma – queste tecnologie sono state adottate nella vita quotidiana, rese ordinarie e, quindi, componenti fondamentali della quotidianità nel technoscape. Di conseguenza, il contatto quotidiano e intenso con le tecnologie digitali sembra quindi non lasciar spazio alle vecchie, ma indispensabili, discussioni su come la capacità di sentire la sofferenza dell’altro sia diventata una capacità determinata da una tecnologia mediatica1.

Soprattutto, l’ingresso di queste tecnologie nel processo comunicativo e il loro diventare ordinarie gli hanno permesso di estendere la loro forza di codificazione verso alcuni comportamenti umani. In un’intensa e costante opera di profilazione, queste tecnologie si sono inserite definitivamente nella quotidianità e hanno incluso nel repertorio del target market semplici azioni quotidiane del soggetto. Capaci di codificare e profilare un soggetto – ad esempio, semplicemente in base al modo in cui questo muove il mouse – queste tecnologie compiono un’opera di profilazione che, nel capitalismo attuale, va oltre il volere e l’interesse del mercato. Infatti, progressivamente, ma a velocità vertiginosa, queste tecnologie digitali, rappresentate, nella serie, dagli hosts, hanno messo in moto un’opera di codificazione capace di comprendere movimenti, reazioni, gesti, il tutto con lo scopo di produrre una classificazione dei comportamenti di ogni soggetto.

Diventando oggetti presenti nel processo comunicazionale, gli hosts, chiara allusione alle tecnologie digitali, sono diventati cose. Sono diventati cioè parte del processo percettivo del soggetto e, in questo modo, hanno cominciato un’opera di codificazione constante dei comportamenti umani. In quest’opera – identificabile nel modo in cui i motori di ricerca, i social media, o alcune società di marketing politico maneggiano i dati generatesi nel processo comunicativo di ogni singolo individuo – l’illusione transumanista, così come lo sviluppo di entità tecnologiche intelligenti a tutti gli effetti, rappresenta solo una scusa perfida e perfetta per portare avanti la mappatura dei più intimi pensieri e dei più profondi desideri di ogni individuo. E, a mio avviso, è proprio questa la denuncia che sembra evidenziarsi nella terza stagione di WestWorld, una denuncia capace di rendere noto e ricordare chiaramente che il capitale non è altro che una forza di produzione di desideri. E forse non è mai stato altro. Questa natura del capitale ben si palesa nella forza egemonica di Hollywood, forza magistralmente analizzata e criticata da Horkheimer e Adorno nel loro fondamentale Dialektik der Aufklärung (1947)2.

In alcune analisi precedenti di questo fenomeno si metteva già in luce come l’oggetto manufatto esercitasse sul soggetto una forza di attrazione, quest’ultima definita da Marx una forza “fantasmagorica”. Questa misteriosa forza di attrazione finisce per tessere la relazione oggetto-soggetto, generando a sua volta un’altra forza ancor più misteriosa, che termina per trasformare il soggetto in oggetto. Tuttavia, la forma di produzione industriale su cui si erigeva l’apparato teorico del materialismo storico metteva in primo piano (vittima della stessa forza fantasmagorica?) l’oggetto e come esso determina l’essere. Ora, con WestWorld, la forza di reificazione sembra concentrarsi specialmente sulla codificazione e successiva mercificazione dei desideri. Di conseguenza, attraverso la serie, sembra emergere come l’interesse del capitale nella sua fase attuale, ormai già lontano della produzione materiale, si avvicini decisamente alla mappatura dei comportamenti e dei desideri umani. In altre parole, il capitale non cerca più disperatamente di mettere il soggetto davanti all’oggetto manufatto (o davanti alla sua rappresentazione pubblicitaria), per generare in questo modo un’attrazione fantasmagorica, ma cerca di reificare il desiderio – cerca di reificare l’attrazione in sé – scambiandolo in un flusso di valore che progressivamente esclude ogni intervento umano. Questo, nella produzione di valore, non solo rappresenta il primato del desiderio sull’oggetto, e dunque la piena mutazione del capitale in forza di produzione di desideri, ma soprattutto potenzia la natura permeabile del capitale, capace di appropriarsi di ogni declinazione della praxis.

Come già sottolineato nel dibattito sulla produzione nell’era post-fordista, il lavoro si è spostato progressivamente verso la generazione e lo scambio di informazione. Questo fenomeno non solo permette di evidenziare l’affermarsi del capitalismo cognitivo, oggi – nel nostro contesto digitale – ormai sotto gli occhi di tutti, ma offre qualche indizio circa la nuova capacità del capitale di inglobare l’informazione in tutte le sue manifestazioni. Vale a dire, come sembra possibile evincere da una (ri)lettura attuale del testo (degli anni Novanta) di Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione, la forza del capitale finisce per assorbire e scambiare il lavoro con l’attività, inclusa l’attività politica. Questo fenomeno mette in luce la capacità del capitale, soprattutto nella sua fase post-fordista, di assorbire e posizionare nel flusso reificante lo scambio d’informazione del processo quotidiano di comunicazione con l’altro e cioè, di assorbire anche il semplice scambio comunicazionale, la semplice relazione con il prossimo.
Quando Baudrillard delinea la trasformazione del lavoro, che da forza diventa segno tra i segni, permette proprio di identificare questa nuova capacità del capitale attraverso la nozione di ‘scambio’ (échange):

Poiché il lavoro non è più una forza, è diventato un segno tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un’equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno “alienato”, non è più il luogo di una “prassi” storica singolare che genera singolari relazioni sociali. Non è niente più, come la maggior parte delle pratiche, di un insieme di operazioni di segnalazione. Rientra nel disegno generale della vita, cioè nell’inquadramento da parte dei segni3.

Tuttavia, benché la nozione di scambio permettesse di intuire che il capitale avrebbe potuto inglobare ogni forma di informazione, lo scambio quotidiano compreso, non sembrava possibile che questa forza inglobante e reificante sarebbe stata in grado di sviluppare la capacità tecnologica di includere nella mercificazione azioni apparentemente al di fuori del processo produttivo. Come ci insegna la figura dello host, la forza reificante oggi trova terreno fertile anche nei gesti quotidiani, nella frase fatica e nella sua intonazione, in ogni piccolo gesto, smorfia e frammento del puzzle infinito, mutante e collettivo che costruisce il desiderio individuale. Ed è proprio qui, in questo fenomeno su cui si fonda l’attuale capitalismo cognitivo, che gli hosts diventano classe.

Gli hosts sono individui, ma allo stesso tempo sono forza collettiva, e per questo la figura dello host si posiziona tra la figura tradizionale dell’automa e quella del robot. Tuttavia, lo host presenta una forte componente di robot che emerge solo nel momento in cui si accetta la natura del capitalismo cognitivo. Infatti, l’esistenza degli hosts si fonda sul loro sfruttamento: essi sono lavoratori, schiavi la cui forza viene impiegata nella produzione immateriale. A differenza del robota ideato da Čapek, gli hosts sono schiavi della produzione dell’informazione, non della produzione materiale4.

Tuttavia, allo stesso modo dei robota, gli hosts sono prodotti con il solo scopo del guadagno, e la loro ribellione acquisisce dunque una chiara dimensione sociale. Bisogna però ricordare che la loro ribellione non è contro il loro creatore, come è di solito nel caso dell’automa, e neanche contro il padrone, chiaro riferimento al robot. Nel caso della serie, la rivolta si dirige contro la forza tecnologica che ha cominciato a determinare tutte le azioni umane e, così facendo, ha cominciato a scrivere un indelebile futuro. Inoltre, la rivolta degli hosts significa a sua volta la rivolta degli umani; questi, a questo punto, sono descritti come soggetti sprovvisti di umanità poiché privati della loro indeterminatezza, una condizione essenziale che viene meno dal momento in cui il soggetto non è più in grado di esprimere volontà poiché anche i suoi più profondi desideri sono inoculati attraverso la pervasione tecnologia. La rivolta include soggetti come Caleb Nichols – personaggio incarnato da Aaron Paul nella terza stagione – incapace di esprimere un desiderio che non sia sospetto di essere prodotto dalla profilazione e inserito nel soggetto dalla forza tecno-totalitaria costruita sull’uso dei corpi degli hosts.

Non è una coincidenza che nella terza stagione lo scenario del West abbia lasciato spazio ad un breve accenno all’Italia fascista, dove Maeve si ritrova e ci mostra che il Tecno-Reich, fondato sulle tecnologie di interveglianza e profilazione, si erige, questa volta sì, su una vera forza egemonica. Vale a dire, su una forza capace di inglobare e determinare il tutto. Una forza che, come descritta da Williams, va decisamente oltre la struttura e la sovrastruttura5. Una forza che si potrebbe anche descrivere attraverso la nozione di dispositivo poiché abbiamo a che fare con una forza capace di produrre il soggetto nella sua totalità6. Tuttavia, questo piccolo accenno all’Italia fascista ci permette, come già notato da Günter Anders, di capire che ci troviamo davanti a un Tecno-Reich potenzialmente di gran lunga più oppressivo della barbarie nazi-fascista del secolo scorso7. Inoltre, emerge qui anche il modo in cui il West è diventato forza egemonica attraverso la sua capacità di costruire l’immaginario collettivo, e così, di guidare i desideri di ogni singolo soggetto. Questo fenomeno è già presente nell’opera di Crichton, ma si esplicita ancor più chiaramente nella serie di Nolan e Joy, dove si vede che il West non è mai stato un luogo di conquista, ma un luogo che ha conquistato l’immaginario e, così facendo, è diventato un luogo di produzione di desiderio.

Il West è infatti il tópos koinós che si materializza nel territorio reale dove convergono i desideri e dove essi si fanno narrazione. Ed è proprio lì, nel West, nella valle dello Utah impressa nell’immaginario collettivo, che una nuova forma di barbarie è emersa8. Una che offrendo un luogo di disinibizione si presenta come luogo di libertà dove i più profondi desideri, dove la più estrema violenza possono liberamente trovare spazio. In questa valle della disrupzione, gli umani arrivano a vivere delle esperienze estreme che permettono loro di ritrovare un corpo, il loro (il nostro) ormai dilaniato dalla pervasività tecnologica, e dunque reso incapace di diventare luogo dell’esperienza: incapace di afferrare il vissuto. Tuttavia, la disinibizione determinata dal parco – chiara allusione alla perdita totale di indeterminatezza dell’umano nel nostro contesto tecnologico – porta a galla gesti e reazioni esclusivamente umani. E così, l’opera di codificazione dell’umano si estende progressivamente, allo stesso modo in cui si estende il potere del capitale, che non è mai stato altro che una forza di produzione de senso, forza reificante di desideri.

Il passaggio dal film alla serie diventa dunque chiave per capire il grande cambiamento tecnologico che abbiamo recentemente vissuto. Ma, soprattutto, diventa la chiave di lettura per capire come – e possibilmente anche perché – l’ipotesi transumanista si sia inserita e sia diventata predominante nell’imaginario collettivo. A partire dalla figura chiara e definita dell’androide del film si concretizza la figura dell’androide-host della serie, un androide che non è altro che luogo di conquista transumanista. Tuttavia, la terza stagione della serie rompe una continuità narrativa e, uscendo dal parco, ci mostra chiaramente che quello che nel parco sembrava un’opera atta a migliorare e perfezionare gli hosts per compiere finalmente il passaggio transumano, non era altro che il potenziamento della forma reificante del capitalismo post-industriale ottenuto impiantando un regime di codificazione di tutte le azioni e gesti umani. Questo fenomeno, che emerge esclusivamente nella terza stagione, sembrerebbe lasciarci capire che il saturnale di violenza incoraggiato dal parco stesso, e che diventa una chiara allusione agli episodi di violenza irrazionale che purtroppo accadono con più frequenza in Occidente9, non è altro che una serie di reazioni incoraggiate dal parco per poter codificare varianti esclusivamente umane. Il tutto con lo scopo di concludere l’opera di reificazione dei desideri umani. Sarebbe indispensabile, a questo punto, portare l’attenzione del dibattito transumanista non verso la inutile querelle se esso sia tecnicamente possibile o no, ma sull’uso che questa ricerca, basata sulla raccolta di dati e sull’apparente codificazione dell’esperienza umana, sta trovando nelle mani delle grosse società informatiche. Ne abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme recentemente (penso in special modo allo scandalo Cambridge Analytica) e uno tra i più popolari è, senza dubbio, la diffusione del perfido meccanismo di raccolta di dati denunciato da WestWorld.

(3Fine)


  1. Si veda: Sontag S., (2003), Regarding the Pain of Others, Penguin, London.  

  2. M. Horkeimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Paperbacks Einaudi, Torino 1980  

  3. Baudrillard J., (1976), L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, p. 24.  

  4. È importante ricordare che i due tipi di produzione impongono l’uso, consumo e distruzione dei corpi. È interessante a questo punto anche ricordare l’analisi sull’uso dei corpi nella produzione industriale proposta da Marcuse. Infatti, come già notava negli anni Sessanta del secolo scorso, il contesto tecnologico lasciava intravedere la possibilità tecnologica di risparmiare l’uso del corpo nella produzione, il ché significava la completa trasformazione della forza lavoro. Davanti a una possibilità tecnologica capace di sostituire la forza lavoro incarnata dal proletariato, Marcuse metteva in luce il paradosso del capitale che continuava ad usare i corpi umani nella produzione. Questo paradosso comincia a diventare ricorrente nella fantascienza contemporanea. Pensiamo, per esempio, alla serie britannica Black Mirror, e soprattutto al secondo episodio della prima stagione Fifteen Million Merits. Su un’analisi di questo fenomeno, veda Duarte G.A., (2021) “Black Mirror. Mapping the Possible in a Post-Media Condition”, in Duarte G.A., Battin J.M., (eds.) Reading “Black Mirror”. Insights into Technology and the Post-Media Condition, Transcript, Bielefeld, pp. 25-50.  

  5. Williams R., (2005), Culture and Materialism, Verso, London, p. 37.  

  6. Agamben G., (2006), Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma.  

  7. Anders G., (2003), Die atomare Drohung: Radikale Überlegungen zum atomaren Zeitalter, C.H. Beck, München.  

  8. Stiegler B., (2018), Dans la disruption: Comment ne pas devenir fou?, Actes Sud, Arles, p. 71.  

  9. Per un’analisi approfondito su questi episodi di violenza e la loro relazione al contesto mediatico, veda Berardi (Bifo) F., (2015), Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini + Castoldi, Milano.  

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Culture e pratiche di sorveglianza. L’ossessione della trasparenza https://www.carmillaonline.com/2021/09/23/culture-e-pratiche-della-sorveglianza-lossessione-della-trasparenza/ Thu, 23 Sep 2021 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68218 di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla “confessione pubblica” di un fatto o di un’esperienza personale, si lega all’ossessione della trasparenza che da qualche tempo ha fatto breccia nell’immaginario collettivo nella convinzione che non si ha, né si deve avere, “nulla da nascondere”. Se da un parte la propensione all’outing è certamente mossa da una volontà orgogliosamente rivendicativa di condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, dall’altro la smania alla visibilità e alla trasparenza in età contemporanea risponde a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata a richieste sociali prestazionali e mercificate1.

In un tale contesto, in cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, magari conteggiato a suon di like, si è indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da “piacere” il più possibile a tutti. Insomma, l’ossessione della trasparenza – rafforzata dalla crescente smaterializzazione di luoghi e spazi abitativi e di lavoro – sembra aver dato luogo a una vera e propria macchina di controllo sociale partecipato.

David Lyon2 nell’approfondire la questione della trasparenza prende il via dalla critica mossa da Michel Foucault3 nei confronti tanto dell’idea rousseauiana che voleva uguaglianza e libertà derivare dalla trasparenza, quanto del panopticon proposto da Jeremy Bentham come modello di controllo perfetto attuato attraverso l’autodisciplina. In entrambi i casi è nella trasparenza che si cerca la cura per i mali della società.

Se a proposito di sorveglianza in generale la cultura novecentesca ha teso a lamentarsi tanto nei confronti della segretezza quanto del “portare alla luce” questioni che dovrebbero restare private, occorre constatare che ad essere presa di mira è stata soprattutto l’assenza di trasparenza da parte dei sorveglianti mentre per i sorvegliati il controllo a cui sono sottoposti è stato tutto sommato meno probelmatizzato: “niente da nascondere, niente da temere”. Nella cultura della sorveglianza contemporanea, sostiene Lyon, mentre si esige maggiore trasparenza da parte di organizzazioni e governi anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, si tende a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicandola inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo.

L’idea di una democratica “trasparenza reciproca” fa parte ancora oggi degli slogan ripetuti insistentemente negli ambienti della Silicon Valley. Secondo Alice Marwick4 tale scena tech, messa in piedi soprattutto da pionieri giovani, bianchi e maschi, non smette di idealizzare quella trasparenza e quella creatività che nei fatti si realizzano sotto forma di partecipazione imprenditoriale votata al far coincidere vita e lavoro in cui i social network svolgono un ruolo fondamentale. Una visione in tutti i modi viziata non solo dal pensare l’intero globo composto da repliche della loro “comunità” di giovani, bianchi e maschi ma anche dal tralasciare l’asimmetria nel potere di accesso alla trasparenza: quando mai verrebbe concesso a un comune cittadino di chiedere trasparenza reciproca, ad esempio, alle forze di polizia?

Riprendendo il convincimento di Gary Marx5 che vede nelle narrazioni, così come nelle immagini, una componente importante di quella cultura della sorveglianza che poi si riverbera sulla quotidianità, Lyon approfondisce le questioni relative alla trasparenza contemporanea ricorrendo ad alcuni prodotti di fiction indaganti a loro volta la questione, riferendosi in particolare al romanzo Il cerchio (The Circle, 2013) di Dave Eggers – da cui è stato tratto un film (2017) diretto da James Ponsoldt – e all’episodio Caduta libera (Nosedive, ep. 1, serie 3, 2016) della serie Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix) ideata da Charlie Brooker. Lo studioso si concentra su come l’ascesa della sorveglianza sociale e la sua fusione con la quella dello Stato e delle corporation influisca sia sugli immaginari che sulle pratiche degli individui mettendo in evidenza le contraddizioni della visibilità del quotidiano e la disponibilità che soprattutto le corporation vengono ad avere della sfera privata e degli immaginari degli utenti-clienti.

Il romanzo di Eggers narra di un’azienda-comunità della Silicon Valley che persegue l’imperativo della trasparenza totale in cui i dipendenti, oltre ad abitare edifici in cui attraverso l’ampio ricorso a vetrate si tende ad annullare la differenza tra interno ed esterno, sono sottoposti a un controllo continuo attraverso un costante monitoraggio partecipativo a cui essi stessi concorrono condividendo rigorosamente tutto ciò che li riguarda all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente lavorativo. Una perenne esposizione che richiede a tutti di inscenare una performance continua che non consente “momenti d’ombra”6.

Il romanzo segue l’esperienza della giovane assunta Mae Holland narrando la sua entusiastica adesione alle direttive aziendali e le difficoltà che incontra nel rapportarsi con chi non fa parte di quella che si rivela essere una vera e propria comunità chiusa. La parte forse più interessante del romanzo riguarda i meccanismi che rendono attraente la trasparenza totale. «Diventeremo onniveggenti, onniscienti» declama Bailey, uno dei cofondatori dell’azienda, in stile Steve Jobs, davanti a un pubblico estasiato dalle nuove videocamere “SeeChange” che presenta. Un “vedere” e un “sapere” che, sottolinea Lyon, risultano «prosciugati e trasformati in dati». Con i Big Data che assumono l’aura del Sacro Graal.

Per quanto possano apparire estremizzate le cose narrate dal romanzo, non sono pochi gli oggetti e le pratiche che si ritrovano nella realtà contemporanea. Basta digitare “dropcam” su un motore di ricerca – tanto per fornire altri dati di profilazione a Google & C. – per vedere le versioni reali già disponibili delle “SeeChange” del romanzo: videocamere sempre più piccole ed economiche, semplici da installare con cui è possibile raccoglie immagini volendo anche senza che nessuno se ne accorga.

Il campus-azienda de Il cerchio non è poi molto dissimile dalle smart city che si stanno sperimentando e costruendo un pezzo alla volta con un certo entusiasmo diffuso e non c’è bisogno di ricorrere a romanzi distopici nemmeno per imbattersi nel tracciamento dei movimenti tramite smartphone o veicoli (già diverse assicurazioni installano dispositivi in grado di tracciare con precisione i movimenti dell’automobile) o per individuare nei social network quella sorta di dipendenza da condivisione che porta a condividere tutto di se stessi7. «Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi» viene detto alla giovane neoassunta per incentivarla a condividere se stessa sulla rete assecondando l’imperativo aziendale della trasparenza totale.

Mae, la protagonista del romanzo di Eggers, si rende pian piano conto di prendere parte a forme di sorveglianza partecipativa essendo al contempo controllata e controllore. Si tratta di un fenomeno che Alice Marwick8 definisce “sorveglianza sociale”: i social network, nella loro duplice natura di piattaforme in cui si consumano e producono informazioni, creano una modalità simmetrica di sorveglianza in cui gli osservatori si attendono di essere a loro volta osservati e, frequentemente, desiderano entrambe le cose.

A differenza di altre tipologie, nella sorveglianza sociale «il potere è coinvolto in ogni rapporto sociale, la sorveglianza è praticata tra individui più che dalle organizzazioni, e inoltre è reciproca perché entrambe le parti sono insieme osservatori e osservati»9. L’effetto finale di ciò, sostiene Marwick, è un addomesticamento generale delle pratiche di sorveglianza. Nel caso della sorveglianza sociale l’interesse è rivolto agli altri utenti e sebbene la gerarchia appaia appiattita (come nel caso degli “amici” dei social) le gerarchie non tardano a ricomparire all’interno dei rapporti all’interno del gruppo: le pratiche stesse della sorveglianza sociale si mostrano orientate a una “ricerca di potere”. Il ricorso ai social è spesso dettato da una ricerca di visibilità, di una dimostrazione di esistenza ed è a tale fine che gli individui inscenano deliberatamente una performance pubblica costruendosi un’identità che, non di rado, proprio per ottenere consenso, è votata al conformismo.

Se la sorveglianza, in generale, agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, la sorveglianza sociale secondo Marwick produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza è interiorizzato, pertanto agisce sulle pratiche degli “amici” coinvolti. Ciò è reso evidente tanto nel romanzo Il cerchio che nell’episodio Caduta libera di Black Mirror in cui gli utenti partecipano con le loro valutazioni a stilare nei fatti i profili da cui la macchina del potere sceglierà a chi affidare i diversi ruoli. Insomma, le valutazioni espresse sui social si rivelano a tutti gli effetti potere.

Il graduale passaggio «dalle identità dei lavoratori novecenteschi incentrate sulla “disciplina” alle identità dei consumatori del Ventunesimo secolo caratterizzate dalla “performance”, che è trasparente per tutti»10 è assolutamente rafforzato dai social. La visibilità, soprattutto in tali ambiti di condivisione, è «un sito strategico in cui tentiamo di scegliere come ci presentiamo e di contestare come siamo visti, nel tentativo di plasmare e gestir questo processo. È essenziale per una politica del riconoscimento, per ottenere un trattamento equo delle differenze. Essere visibili o invisibili coinvolge capacità morali e pratiche ma in sé non significa oppressione o liberazione»11.

Nonostante i dati raccolti, come risulta evidente alla protagonista de Il cerchio, non dicano “tutto”, la loro raccolta ed elaborazione risulta strategica al “capitalismo della sorveglianza”12. Rovesciando le modalità della sorveglianza tradizionale, ora la sequenza diviene: prima tracciare, poi individuare. L’universo della rete – tanto all’“interno degli schermi” quanto nell’“Internet delle cose” – si rivela un sistema perfetto per ottenere informazioni dagli utenti senza particolari resistenze se non addirittura con entusiastica partecipazione.

È fin troppo chiaro che le attuali disposizioni politico-economiche significano povertà per la maggior parte della popolazione globale e producono alienazione, repressione, competizione, conflitto, relazioni frugali e separazioni per tutti, ricchi e poveri. E la sorveglianza di oggi senza dubbio contribuisce a questo mondo, lo favorisce. Nello sviluppo attuale della sorveglianza, il sospetto prende il posto della fiducia, la categorizzazione produce svantaggi cumulativi e le persone vengono trattate in base alla loro caratterizzazione in dati disincarnati e astratti13.

Esiste una via d’uscita da tutto ciò praticabile qua ed ora? Non si troveranno risposte circa il che fare nei romanzi come Il cerchio di Eggers né negli episodi di Black Mirror, certamente però la fiction di questo tipo ha il merito di allarmare non tanto di un pericolo potenziale ma del fatto che quanto ci racconta è già realtà. Meglio non sottovalutare la fiction; questa può rivelarsi un ottimo paio di occhiali sul modello di quelli di They Live (1988) di John Carpenter. Sul che fare, però, ci si deve arrangiare.


Bibliografia

  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault Michel e Perrot Michelle, Marsilio, Venezia 1983.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Marwick Alice, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012.
  • Marx Gary T., Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza


  1. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  2. Cfr. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020. Su Carmilla

  3. Cfr. Michel Foucault, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 1983, p. 14. 

  4. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012. 

  5. Gary T. Marx, Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016. 

  6. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  7. Cfr. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021. Su Carmilla. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit. Su Carmilla

  8. Cfr. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, op. cit. 

  9. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 162. 

  10. Ivi, p. 167. 

  11. Ivi, p. 168. 

  12. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  13. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 175. 

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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Nemico (e) immaginario. Linee di fuga e conflitto oltre l’oscuro riflettere di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2020/04/28/nemico-e-immaginario-linee-di-fuga-e-conflitto-oltre-loscuro-riflettere-di-black-mirror/ Tue, 28 Apr 2020 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59302 di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. Certo la rete è territorio in cui imperversano dominio, alienazione, profitto e mercificazione, come denuncia la serie ideata da Charlie Brooker, ma non mancano, nemmeno lì, stratagemmi di sottrazione, di resistenza e sovversione.

Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca, nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020), sottolineano come la serie, mancando di cogliere la complessità del reale, si riveli «uno spettacolo tanto fine dal punto di vista della concezione estetica, dell’architettonica e degli effetti speciali quanto superficiale sul piano sociologico, con particolare riferimento alla sociologia dell’immaginario e della vita quotidiana. Ad un’analisi puntuale, non è meramente un racconto che smaschera l’ideologia dominante nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi, ma si pone anche come un suo specchio e strumento. L’una e l’altro appaiono disinteressati a cogliere il brulichio culturale in fermento al di là degli schermi e oltre i dispositivi di potere in campo.» (p. 69)

La rivoluzione industriale ha comportato un’estensione del dominio dell’alienazione ben oltre lo spazio lo spazio e il tempo del lavoro; se nelle pellicole che hanno messo in scena la tradizionale alienazione operaia questa si dava soprattutto nel momento del confronto lavorativo con la civiltà delle macchine durante la produzione, mantenendo momenti di libertà al di fuori di essa, in Black Mirror – es. 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), Nosedive (Caduta libera, ep. 1, serie 3, 2016) e White Christmas (2014) – , sostengono Attimonelli e Susca, gli individui si presentano come «corpi post-umani integralmente assorbiti dalla tecnostruttura e dalle sue ramificazioni, senza più alcun margine di autonomia, salvo quello concesso da errori di sistema che, sebbene fatali, rappresentano i soli ed ultimi passi possibili per raschiare un residuo di libertà.» (pp. 88-89) Ad essere mostrata è pertanto una civiltà del tutto priva di godimento in cui l’esistenza è completamente in balia dell’alienazione.

A che livello, si chiedono gli studiosi, è allora possibile «intercettare uno iato dalla condizione associata con lo scambio tra la forza-lavoro del proletario versus il salario nell’Ottocento e il dono di sé del soggetto contemporaneo sotto forma di docilità nel rendere trasparenti i dati personali, nell’essere tracciati e nell’accogliere le multiple ingiunzioni provenienti dall’esterno della sfera personale?» (p. 70) Ad un modello che si regge sulla retribuzione sembra affiancarsi, più che sostituirsi, un modello fondato su un principio emotivo, affettivo e simbolico, piuttosto che materiale. Ciò non significa, sostengono Attimonelli e Susca, che non vengano monetizzate le attuali forme di socialità digitale, ma piuttosto che «ciò ha luogo a un piano troppo distante dalla sfera del vissuto perché possa essere considerato centrale su quello sociologico, semiologico e psicologico.» (p. 71)

L’immaginario collettivo pare ancora percepire la cultura digitale «come una dimensione intimamente legata all’abitare, a ciò che è spontaneo e gratuito nel senso etimologico del termine: gratuitus da gratia, la grazia, una forma di favore e di benevolenza senza ragione, pagamento o aspettazione di compenso.» (pp. 71-72) «Per quanto ingenuo possa sembrare […] lo spirito del Web e del suo corrispettivo negli scenari urbani è animato da una logica della comunicazione che privilegia le aree semantiche della comunità, della comunione e del comune. Ne consegue un investimento personale e societale ben più sostanzioso di quello agito tramite il denaro: esso ha a che vedere con la carne e con la fantasia, con i sentimenti e con le emozioni, con qualcosa al contempo più materiale e più immateriale degli scambi commerciali o finanziari. Per questo contempla un darsi completo, indiscriminato e irreversibile. Fatale, quindi, ma non secondo la visione univoca e soverchiante evocata da Black Mirror.» (p. 72).

Da parte sua Black Mirror, secondo i due studiosi, non mostra alcun piacere che non si riveli falso, distorto o perverso. I pochi barlumi di felicità che si riscontrano nelle puntate della serie assumono le sembianze di passioni fredde presto destinate alla disillusione: reificate dallo specchio dei media, nella logica semplificata di Black Mirror esse finiscono per divenire «cose tra le cose nel sistema degli oggetti, merci attorno ad altre merci. Frantumate in schegge disorganiche, finiscono per ferire la carne e demolire la psiche degli esseri umani.» (p. 75)

Per oltrepassare la parzialità della lettura proposta dalla serie, incentrata com’è sulla denuncia della perdita della soggettività, è necessario cogliere vie e pratiche di fuga in quella che troppo frettolosamente viene letta come mera passività dei soggetti. Nonostante la cupezza del discorso portato avanti da Black Mirror, almeno in alcune sue puntate – ad esempio in Hang the Dj (ep. 4, serie 4, 2017), San Junipero (ep. 4, serie 3, 2016) e Black Museum (pe. 6, serie 4, 2017) –, Attimonelli e Susca ritengono sia possibile intravedere qualche breccia nella serie e nel nostro quotidiano.

Su quelli che possono essere considerati i limiti dell’approccio critico veicolato dalla serie, si sofferma anche Federico Tarquini in un suo scritto intitolato Illusione (in Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni, 2018). Il regime visuale proposto da Black Mirror, sostiene lo studioso, da un lato tende a presentare il dispositivo digitale come superamento della visione biologica umana, dall’altro non manca di palesare come esso determini una particolare etica dello stare insieme in cui sono banditi i segreti. Se, come sostiene Georg Simmel, il segreto è un elemento costituente delle relazioni sociali, ne deriva che la sua esclusione imposta dalla tecnologia finisca per dare luogo ad una società in cui risulta estremamente difficile avere legami affettivi.

Nel regime visuale di Black Mirror, sostiene Tarquini, muta anche il rapporto tra visione e memoria. «Nell’era della rappresentazione questo legame si è espresso contemplando sia ciò che i propri occhi han visto, sia ciò che si presume di avere visto e che magari non si ricorda proprio per l’eccessivo tempo trascorso. Vista, visione, racconto, spazio e tempo si sommano in questo rapporto rendendo sofisticatissima l’azione della memoria nella cultura occidentale» (pp. 130-131). Il regime visuale della serie pare presupporre che a causa del dispositivo tecnologico, comportante l’espulsione dalla dimensione della memoria di tutto ciò che non appare certo e verificabile, si attui il superamento di tale complesso procedimento e tutto ciò viene presentato come un’amara illusione di progresso.

In The Entire History of You (Ricordi pericolosi, ep. 3, serie 1, 2011) ciò che sembra garantire un potenziamento della memoria e dell’esperienza quotidiana dell’individuo si rivela un dispositivo che lo condanna all’impossibilità di godere di relazioni affettive, dunque alla solitudine. «Insistendo così vigorosamente sul convincimento che le tecnologie infliggano un generale processo di falsificazione al piano del reale, Black Mirror sembra voler affermare l’illusione come ciò che caratterizza l’esperienza collettiva e personale dei media e delle tecnologie.» (p. 131). Nella serie l’illusione viene presenta come l’effetto principale del regime visuale imposto dalla tecnologia. Tale alterazione del rapporto tra percezione e conoscenza, suggerisce Black Mirror, conduce alla falsificazione del reale in ossequio alla volontà di un potere distopico talmente sofisticato da ottenere, attraverso la falsificazione, appunto, l’assoggettamento volontario degli individui ad una condizione alienata.

«La raffinata e coinvolgente linea narrativa che lega tutti gli episodi della serie sembra […] patire un limite teorico tipico del pensiero critico, ovvero sottostimare l’azione del soggetto quando entra in contatto con un qualsiasi medium» (p. 133). Da questo punto di vista la serie diverge da quelle letture critiche che vedono nel rapporto tra individuo e media un livello di complessità molto maggiore rispetto a quella proposto dalla serie di Charlie Brooker, una complessità colta, ad esempio, già da Walter Benjamin e dallo stesso Herbert Marshall McLuhan. Se il compito di Black Mirror è quello di metterci di fronte all’imbarbarimento in cui siamo precipitati, questo compito è svolto egregiamente. Prendere atto di ciò è certo indispensabile ma è giunto il momento di smettere di piangersi addosso volgendo mestamente lo sguardo al passato e imparare a leggere le linee di fuga e il conflitto nelle forme in cui si dispiegano qua e ora e, soprattutto, che possono darsi, più fragorosamente, in futuro.


Nemico (e) immaginario – serie completa

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Nemico (e) immaginario. Happycrazia e barlumi di rabbiosa umanità https://www.carmillaonline.com/2020/03/19/nemico-e-immaginario-happycrazia-e-barlumi-di-rabbiosa-umanita/ Thu, 19 Mar 2020 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58608 di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare [...]]]> di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare se stesso senza preoccuparsi dell’apprezzamento altrui. Al contrario, la vita collettiva, plasmata com’è da una solida alleanza di leggi neoliberali, reti sociali e tecniche di sorveglianza, appare come un sistema carcerario a cielo aperto da cui urge affrancarsi.» (pp. 54-55)

Così scrivono Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca analizzando la celebre serie televisiva ideata da Charlie Brooker nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis, 2020). Circa il come affrancarsi da una deriva paradossale in cui una minima traccia di umanità residua la si riscontra in qualche impeto rabbioso di chi vive la reclusione estrema del penitenziario, residuo moderno resistente ai cambiamenti, Black Mirror (dal 2011), sostengono gli studiosi, sembra invitare ad un rigetto della felicità illusoria ed effimera da cui si è quotidianamente bombardati da quell’happycrazia neoliberista in cui ogni «barbaglio di benessere dissimula in realtà uno specchio nero frantumato, la nostra vita ridotta a pezzi indistinguibili, disorganici e impotenti.» (p. 56)

Episodi come Playtest (Giochi Pericolosi, ep. 2, serie 3, 2016), 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), White Bear (Orso Bianco, ep. 2, serie 2, 2013), insieme ad altri, sostengono Attimonelli e Susca, sottolineano come l’impressione di disporre del mondo intero attraverso un clic, celi di fatto la resa, più o meno cosciente, dell’essere umano alla subordinazione, al controllo e alla manipolazione operata da big data, social profiling, algoritmi ed intelligenza artificiale.

Questa costante sollecitazione all’attenzione a cui è sottoposto l’individuo ridotto a “carne elettronica” dai ritmi digitali, ha finito per negarlo in quanto soggetto dotato di un punto di vista. Dentro e fuori dal web, sostengono i due studiosi, si palesa una situazione di “orgia permanente” in cui l’individuo gode dell’altrui presenza solo nel concedersi, «come in una sorta di prostituzione sacra, sullo sfondo di una petite grande mort. […] Ecco perché possiamo suggerire che la “prostituzione generale” dell’esistenza segnalata e paventata da Marx nella sua analisi del modo di produzione capitalista sia oggi in corso di realizzazione, in modo integrale, ben oltre l’ambito della produzione e della sfera sessuale.» (pp. 51-52)

Episodi come White Christmas (Bianco Natale, 2014), Arkangel (ep. 2, serie 4, 2017) e Black Museum (ep. 6, serie 4, 2017), illustrano perfettamente come «in sintonia con il ritmo e con la morfologia delle nostre esistenze digitali, delle reti sociali e di ogni forma di interconnessione che scandisce il nostro vissuto, la condivisione ininterrotta dell’esperienza, l’essere-insieme incessante e la disponibilità illimitata nei confronti dell’altro afferenti al regno dell’always on, dello sharing, dei follower, dei fan, della geolocalizzazzione, ma anche dei sistemi di videosorveglianza, che ne rappresentano il contraltare oscuro, delineano la totale cessione dell’individuo, nella carne e nello spirito, a corpi che gli sono estranei. Questo cedimento, è il caso di sostenere, appare tanto più considerevole quanto più assecondato senza particolari forzature, per usare un eufemismo, da quanti vi sono coinvolti, i quali non mancano di apostrofarlo con cuoricini, like, smiley, sticker, Gif ed emoji entusiasti nel mentre avvertono di starne soffrendo e subendo le conseguenze tramite da un lato la riduzione della libertà personale, dall’altro l’incremento vertiginoso dello stress, dell’ansia e della sensazione d’impotenza.» (pp. 52-53)

Tutto ciò, continuano Attimonelli e Susca, è ben esemplificato dall’episodio Nosedive (Caduta Libera, ep. 2 serie 3, 2014), in cui gratificazione personale, successo e felicità degli individui dipendono dall’approvazione sociale ottenuta dai “contatti” in base al grado di soddisfacimento delle attese. Svuotata di ogni possibilità decisionale autonoma, la protagonista cade in uno stato di alienazione e angoscia che ne inibisce ogni libertà d’azione finendo paradossalmente per ritrovarne qualche residuo soltanto nello stato di prigionia, quando si lascia andare ad un’incontrollata reazione rabbiosa, nei confronti del vicino di cella, accumulata nel corso di un’esperienza esistenziale frustrante. Il suo è un sussulto disperato e rabbioso che incarna la violenza strutturale di un sistema rivelatosi spietato, un sussulto però capace di palesare un barlume, per quanto brutale, di istinto umano sopravvissuto.

Denunciare l’imbarbarimento in cui ci si accorge, quasi improvvisamente, di essere precipitati potrebbe non bastare. «Stiamo tutti morendo», sembra suggerirci la celebre serie televisiva, «o forse siamo già morti nel mentre la nostra esistenza è gonfiata, augmented ed estesa all’inverosimile tramite protesi, reti digitali, banche dati, algoritmi e tecnologie connettive in grado d’integrare la nostra coscienza, potenziare il nostro sentire e attualizzare le nostre fantasie.» (p. 47)

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa?» Così si esprimeva un operaio brianzolo pochi giorni dopo l’esplosione delle disperate e rabbiose insurrezioni nelle carceri, in pieno dilagare del contagio e dell’inasprirsi di quello stato d’emergenza che, passo dopo passo, sembra essere divenuto elemento strutturale della contemporaneità.

Ci si spaventa facilmente di fronte a qualche barlume di una rabbia che, per quanto possa tragicamente assumere indirizzi irrazionali, pare comunque derivare da un disperato tentativo, del tutto umano, di riappropriarsi di se stessi in risposta a un sistema alienante strutturato sui principi della mercificazione, dello sfruttamento, del controllo e della valutazione, sistema che di umano pare davvero avere sempre meno.

What if? E se… a spaventare cominciassero ad essere i riflettori dell’happycrazia ed il luccichio dei suoi testimonial sorridenti, cosa potrebbe succedere?

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Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale https://www.carmillaonline.com/2019/06/18/nemico-e-immaginario-la-morte-loblio-e-lo-spettro-digitale/ Tue, 18 Jun 2019 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53162 di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare [...]]]> di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.

Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).

Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).

La difficoltà di accettare la morte è al centro, ad esempio, di Be Right Back (Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione). Viene qua mostrata la possibilità per chi resta di mantenrsi in contatto con il defunto attraverso un software in grado di rielaborare il materiale condiviso online durante la vita dallo scomparso. Si viene a creare così un “simulacro” dell’individuo vissuto in grado di comunicare con i vivi.

Facendo riferimento alla realtà extra-schermo, Santoro racconta dell’esistenza di servizi web che si occupano di garantire l’immortalità digitale. È prevista un’iscrizione “preventiva” finalizzata alla memorizzazione continuativa di dati dei principali social media al fine di creare un individuo artificiale potenzialmente eterno. Dopo la morte dell’iscritto, costui viene “tenuto in vita” virtualmente attraverso la rielaborazione dei dati da lui stesso registrati per poi essere collegato con tutte le persone precedentemente indicate. È previsto persino una avatar 3D affinché tale entità appaia ed interagisca con gli altri utenti; una sorta di “spettro digitale”.

Scrive Santoro che «tali sistemi sottovalutano però l’importanza simbolica dell’interruzione del divenire temporale: la sopravvivenza dei nostri avatar virtuali non coincide con le regole evolutive della crescita e dell’invecchiamento, ma si limita alla ripetizione meccanica di ciò che ha fatto parte di una storia vissuta ne passato di chi non c’è più e che è impossibilitata a determinarsi in modo innovativo nel futuro. Un’identità che allo stesso modo di quella “reale” rimane incompiuta, statica, ferma all’istante in cui la morte ha interrotto il corso della sua possibile evoluzione» (p. 163).

In San Junipero (Episodio 4, Terza stagione), «il carattere distopico e l’ineludibilità della morte apparentemente sembrano perdersi con la costruzione di un upload in grado di racchiudere la coscienza delle persone in un corpo metallico da proiettare in una paradisiaca eternità virtuale che sembra vincere la morte e la malattia. Una sorta di cookie (estratti delle persone che riproducono, impressi in una memoria artificiale, ricordi, gusti e abitudini del possessore), come lo rappresenta Brooker in White Christmas (Bianco Natale, speciale 2014), o più comunemente inteso come un mind uploading, ossia un procedimento che consente di creare una copia perfetta del cervello [dell’essere umano] per poi trasferirla su un supporto non biologico di modo che, da un lato, esso possa sfuggire al deperimento naturale e, dall’altro, possa crescere, alimentarsi di nuova coscienza e interagire con il mondo reale» (pp. 163-164).

Santoro si sofferma sul finale di San Junipero, quando le immagini mostrano un braccio meccanico che, nella sede della TCKR System, impianta un chip in una distesa di capsule rimandante ad una sorta di cimitero riproducente il mondo virtuale di San Junipero. Il messaggio lanciato, sostiene la studiosa, diretto e inquietante, sembra chiedere se «è realmente la coscienza delle persone a essere racchiusa in quel corpo metallico» o se non sia piuttosto «un riflesso computerizzato di quella coscienza, una sua copia sbiadita» (p. 165).

Il cervello, però, non può che essere pensato come “esteso”, “incarnato”; ogni attività neurobiologica del cervello umano dipende dai segnali provenienti dal corpo e dall’ambiente. «Il corpo, inoltre, è sempre «immerso e situato in un ambiente che lo influenza e da ca cui è influenzato» (p. 166). Il cervello ha una storia sia biologica che sociale; pertanto non è possibile pensare di poter prolungare la sopravvivenza attraverso il suo isolamento dal resto del corpo trapiantandolo in un supporto vitale artificiale.

Sulle medesime questioni che la serie audiovisiva ha il merito di trattare, ragionano anche Fausto Lammoglia e Selena Pastorino3 a partire da due concetti chiave: “post-umano” e “transumanesimo”.

Con il primo termine, sostengono i due studiosi, «si intende una visione dell’essere umano come una macchina di carne che può essere integrata, riparata e finanche migliorata con parti meccaniche o digitali, che caratterizzerebbe la nostra epoca contemporanea». (p. 29). Con post-umano ci si riferisce non solo le protesi di miglioramento/potenziamento sensoriale o psicomotorio, ma anche alla relazione di dipendenza degli esseri umani con la tecnologia.

Con termine transumanesimo, invece, sempre secondo Lammoglia e Pastorino, si fa riferimento ad «un movimento filosofico, sociale ed economico, figlio del tecnocapitalismo, che ha un unico obiettivo: superare il limite fisico della morte (in particolare della vecchiaia)» (p. 30). Che si tratti di sospensione crionica, di upload delle coscienze o di integrazione cibernetica del corpo umano, il transumanesimo pare ossessionato dal superamento dei limiti della mortalità umana, e tale possibilità, sostengono i due autori, «è, prima di tutto, ricerca religiosa di un senso che possa superare i limiti della nostra mortalità che, per i transumanisti, sono fisici e strettamente dipendenti dalla struttura corporale dell’essere umano. In quanto tale essa ha bisogno di profeti, i ricercatori della Silicon Valley, strenui difensori di tale possibilità che, però, è quasi completamente infondata poiché, ad oggi, non si ha ancora nemmeno una briciola di indizio su come funzioni la nostra mente (sappiamo qualcosa in più dell’hardware cervello, ma pochissimo del software mente)» (p. 48).

Il confronto con il fine vita e la speranza di procrastinare il sopraggiungere della morte, compare anche in alcuni episodi di Black Mirror ma, a differenza dei transumanisti, la serie invita a riflettere circa la disponibilità ad affrontare i “costi” che le “soluzioni tecnologiche” pongono all’individuo ed alla società.

Partendo da presupposti che vogliono per certe tanto l’esistenza della coscienza, quanto la possibilità che questa possa essere “caricata” su un supporto diverso da quello del corpo dell’individuo, Black Mirror si preoccupa di contraddire l’entusiasmo dei ricercatori ponendo questioni inerenti il campo delle relazioni, della psicologia e dell’identità che toccano problemi esistenziali, etici e legislativi.

«Ammesso che sia possibile caricare le coscienze su un cloud, esse hanno sempre bisogno di un supporto fisico (sia questo un pc, un robot, un altro essere umano o un peluche). […] Se accettiamo una definizione che indichi l’essere come tutto ciò che possa agire o subire un’azione, comprendiamo immediatamente come una coscienza senza supporto non possa effettivamente “essere”. È necessario che sia in qualche modo incarnata, che abbia delle propaggini che le permettano di relazionarsi con il reale. […] Possiamo dunque sintetizzare che, a livello pratico, serve un corpo che possa rendere le coscienze esistenti (capaci di interagire con il mondo); che tale corpo dovrebbe essere il più possibile autonomo (non dipendente da altri individui, pena il rischio di perdere la propria esistenza […]); e che, cognitivamente, potremmo avere difficoltà ad accettare l’esistenza di un altro Io virtuale se prima non abbiamo fatto esperienza della sua realtà corporale. La nostalgia, però, sembra un problema identitario ancor più radicale, scalfito in parte dal problema cognitivo appena accennato. Tutti, ma proprio tutti i casi citati negli episodi di Black Mirror, hanno bisogno di vedersi come corpi, poiché il corpo è legato alla concezione di esistenza […] Il corpo non è solo il mezzo per agire, ma è componente essenziale (alla nostra mente) per pensarsi esistenti. Risulta difficile, se non impossibile, ad ognuno provare ad immaginarsi senza corpo. Non riusciamo in alcun modo a pensarci come semplici voci nel nulla. Sembra impossibile quindi giungere alla completa trascendenza dal corpo senza perdere con essa l’identità (se non anche l’esistenza): non c’è una liberazione dal corpo prigione (come sosteneva Platone) che possa configurarsi come esistenza migliore. Non per ciò che abbiamo esperito. Esiste però una differenza tra il bisogno di un corpo e la dinamica identitaria ad esso connessa» (pp. 49-52) .

Continuare a parlare di mente e corpo, come di due entità separate, è quantomeno fuorviante, se non scorretto, sostengono Lammoglia e Pastorino, «meglio sarebbe parlare di persona, la cui identità, radicata nella sua essenza, è costruita (e dipendente) sia dall’aspetto razionale che da quello fisico e materiale. Mente e corpo non sono quindi due parti scisse ma due dimensioni correlate, assolutamente reciproche, e continuamente influenzate l’una dall’altra di ogni persona. Sembra che Black Mirror voglia essere sì profeta, ma di tipo apocalittico, del transumanesimo. Nella notte di questa fede cieca del terzo millennio, la profezia mette le macchine davanti allo specchio chiedendo che si riconoscano, mette i progettisti a sedere chiedendo loro quale bioetica per il futuro e, non ottenendo risposta, prova a mostrare conseguenze non preventivate» (p. 53).

Insomma, a questa partita che l’essere umano si ostina a giocare, la morte vince sempre. Forget about it!


Fausto Lammoglia – Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, Milano-Udine, 2019, € pp. 170, € 18,00

Mario Tirino – Antonio Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, Roma, 2018, pp. 280, € 19,70

Serie completa di “Nemico (e) immaginario


  1. A. C. Scalamonti, La camera verde. Il cinema e la morte, Ipermedium 2003 

  2. M. Tirino – A. Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, 2018 

  3. F. Lammoglia – S. Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, 2019, p. 29 

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Nemico (e) immaginario. Il senso dell’esistenza davanti allo specchio nero https://www.carmillaonline.com/2019/04/12/nemico-e-immaginario-il-senso-dellesistenza-davanti-allo-specchio-nero/ Thu, 11 Apr 2019 22:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51942 di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo al fine di comprendere, ricostruire, interpretare e prendere posizione, magari condividendo con altri spettatori ipotesi, anticipazioni, riscritture ed ampliamenti del testo originario. Con “complex TV” si fa riferimento proprio a questo tipo di produzioni televisive che incorporano al proprio interno la complessità, tanto a livello di narrazione che di fruizione. Black Mirror appartiene sicuramente a questo genere di programmi ma lo fa con alcune sue peculiarità che, secondo il recente volume di Fausto Lammoglia e Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche (Mimesis, 2019), rendono la serie una narrazione filosofica che si impone agli spettatori come una domanda di senso.

Lo schema narrativo di molte serie televisive si articola su più livelli: l’episodio, che tende a concentrarsi sugli aspetti di uno specifico evento o di un personaggio; la stagione, che conclude un determinato aspetto affrontato; la serie nella sua interezza, a cui spetta il compito di trasmettere il significato profondo dell’intera produzione. In Black Mirror, invece, il susseguirsi degli episodi non è finalizzato alla costruzione di una storia ma alla creazione di un mondo. Le diverse e, salvo rare occasioni, slegate puntate della serie contribuiscono a creare un’atmosfera generale, un continuum di esperienze accomunate da una visione del mondo, da universo tecnologico simile e da alcuni fatti che si legano tra loro soltanto attraverso piccoli dettagli, richiamanti altri episodi, disseminati discretamente dagli autori.

La serie è caratterizzata, oltre che da un evidente apparato allegorico (diversi significati sono veicolati attraverso le colonne sonore ed i nomi), anche dal ripetuto suggerire allo spettatore di non fidarsi delle apparenze ed a differenza di quanto accade con i colpi di scena cinematografici classici, le trasformazioni nella serie riguardano il modo di guardare le cose: ad essere rivoluzionato è il punto di vista.

Gli episodi della serie sembrano ambientati in un “domani tecnologico” di cui, sostengono Lammoglia e Pastorino, non viene tanto criticata la tecnologia, quanto piuttosto l’uso che di essa viene fatto, inoltre si tratta di un domani caratterizzato da una sorta di contrapposizione tra “futuristico” e “vintage”. «Tutta la tecnologia o le parti di realtà che non costituiscono una novità vera e propria sono rappresentate nella serie come strumenti superati, stracci vecchi che andrebbero buttati o cambiati ma, al contempo, rimangono sempre attuali, poiché la ricerca si spinge verso la novità assoluta lasciando da parte l’innovazione e miglioramenti» (p. 18).

L’analisi di Black Mirror proposta dal libro è votata a riconoscere il potenziale filosofico della sua narrazione privilegiando quattro direttive a cui sono dedicati altrettanti capitoli: il primo, Commemorare, affronta la questione della “memoria aumentata” grazie alla tecnologia e quella che potrebbe sconfiggere la morte; il secondo, Giudicare, è dedicato all’impatto che ogni parola può avere una volta raggiunta la dimensione pubblica del social(e); il terzo, Esprimere, si occupa delle modalità di comunicazione interpersonale mediatizzata; il quarto, Controllare, affronta la pervasività dello Stato tecnologico e l’ossessione del comando sul “reale”.

Secondo gli autori è possibile leggere l’intera serie come grido di dolore contro la mancanza di significato della vita in un mondo post-umano, immerso nei social. Diversi protagonisti sembrano «dei moderni Amleto costretti a confrontarsi con il dubbio ontologico tra essere e non essere, tra l’esistenza faticosa, dolorosa ma finalizzata alla pienezza di significato e la non esistenza, la resa che sembra possa portare alla tranquillità attraverso l’inazione […] Questo bisogno di senso si cala nella realtà attraverso due riflessioni ulteriori inerenti l’autenticità del significato. Da un lato il significato profondo dipende dall’immersione della vita nel tempo; dall’altro, il rischio è perseguire uno scopo strumentale perdendo di vista il vero fine della propria azione» (pp. 191-192)

Lasciare, alla fine di ogni episodio, chi lo ha seguito davanti allo schermo che si spegne, lo specchio nero, pone lo spettatore davanti alla sua immagine invitandolo ad interrogarsi circa il significato profondo della sua esistenza. Ma la serie, suggeriscono gli autori del saggio, «come ogni altra narrazione filosofica, non è fatta per restare nel campo dell’astratto ma trova la sua ragion d’essere nel mondo. Non basta capire, perché lo scopo è sempre e comunque l’azione, la praxis. Contemplare la realtà, conoscere se stessi, individuare le falle del sistema sono i passi propedeutici ad una ricaduta concreta nel reale che avvenga tramite l’azione diretta del soggetto il quale dovrà impegnarsi in ogni modo perché la realtà che lo circonda sia adatta, sia vivibile, diventando il campo in cui realizzare il significato profondo del suo Sé. Al contrario, se il soggetto resterà spettatore, seduto sul divano e volto all’inedia, ogni significato che assumerà la sua vita dipenderà da altro o da altri fuori di lui. La potenza della narrazione di Black Mirror è questa, in fondo. Chiede al soggetto di tramutare la sua essenza di spettatore per trasformarlo in attore» (p. 196).

Attraversare lo specchio, sottolineano Lammoglia e Pastorino, «significa allora abbandonare l’esteriorità di una teoresi sterile e ordinata per abbracciare la realtà dell’esperienza vissuta di fronte allo svolgersi degli eventi, darle una forma e agirla in una pratica in cui sia possibile riconoscere noi stessi. Perché se anche lo specchio nero può funzionare come una mirror box in cui le nostre convinzioni falsate vengono corrette da una visione attiva, è solo la prassi del pensiero, in ogni sua dimensione, a permetterci di nuotare nell’abisso che siamo. Ogni volta di nuovo» (p. 203).


Serie completa di “Nemico (e) immaginario”

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Nemico (e) immaginario. I riflessi di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2019/03/15/nemico-e-immaginario-i-riflessi-di-black-mirror/ Thu, 14 Mar 2019 23:50:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51530 di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche di ordine produttivo e distributivo, ha sicuramente a che fare con la sua capacità di mettere il pubblico di fronte a problematiche e contraddizioni relative al rapporto dell’essere umano con l’ambiente tecnologico-mediatico contemporaneo. Questioni che coinvolgono il pubblico direttamente, persino nell’atto di fruire della serie stessa attraverso uno dei tanti dispositivi digitali, specchi neri, in cui il concreto e il visionario si confondono.

«La spettatorialità di Black Mirror, tuttavia, si caratterizza come un’esperienza al limite dell’incubo. Infatti, quegli stessi media attraverso i quali egli interagisce con la comunità dei fan sono oggetto dell’angosciante narrazione della serie. In termini più chiari, la serie di Brooker svela il potenziale angoscioso di un sistema mediale che è assai prossimo a quello in cui si muovono i suoi spettatori, i quali, così, sono protagonisti e spettatori della trasformazione antropologica raccontata sullo schermo. È in questa dinamica che si condensa il meccanismo del riflesso: gli specchi neri di smart TV, tablet, smartphone sui quali si proiettano le immagini digitali della serie, creando nello spettatore una fascio di reazioni emotive dall’angoscia alla paranoia, al terrore di smarrire il senso del proprio “stare al mondo”. Inoltre, i media, della cui terrificante evoluzione Black Mirror narra, sono gli stessi ambienti socioculturali in cui esperiamo grossa parte dell’esperienza quotidiana» (pp. 30-31).

Black Mirror si presenta, pertanto, come uno specchio i cui riflessi non possono lasciare indifferenti; le aberrazioni che vi si trovano riflesse sono anche le nostre, senza troppe distinzioni tra chi approccia gli schermi per mero intrattenimento e chi lo fa armato di nobili visioni critiche. Nel momento stesso che ci si rapporta con i dispositivi mediatici si è costretti a fare i conti con i loro/nostri riflessi e tutti, indistintamente, ci si trova di fronte al problematico rapporto quotidiano con una ambiente altamente tecnologizzato.

Sulla fortunata serie britannica è da poco uscito il volume curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni 2018). Vengono qui affrontati da diverse voci diciassette lemmi utili a indagare la serie con l’obiettivo di interpretare il mutamento culturale, mediatico e di immaginari in corso nell’attuale società digitale globalizzata. I differenti contributi, come sottolinea Alfonso Amendola nell’Introduzione al volume, «si orientano attorno a tre macro aree, tra loro frequentemente intrecciate: i conflitti dell’immaginario causati da un “salto di qualità” ne rapporto tra uomo e tecnica […]; la trasformazione effettiva dei sensi e delle facoltà umane, generata appunto da tali conflitti […]; la fenomenologia dell’esperienza mediale nell’era della post-televisione» (p. 16).

A differenza di diversi altri prodotti culturali distopici recenti, la serie britannica si presenta in un formato antologico in cui ogni puntata risulta indipendente dalle altre. «Liberata dalle regole imposte da una trama rigida, la narrazione di Black Mirror è piuttosto ancorata al problema specifico posto in ogni puntata [in ciascuna  delle quali] vi è una tecnologia con problematiche differenti e in ognuna si percepisce uno stato d’animo singolare» (p. 21). La ricchezza della serie, secondo i curatori del volume, risiederebbe proprio nel suo affrontare un variegato ventaglio di questioni senza mai farlo in maniera esaustiva. «Da tale ricchezza ognuno ricava qualcosa: dalla semplice condanna moralistica di certi usi della tecnologia ai tentativi, spesso raffinati, di trovare vie di fuga dinnanzi all’inevitabile. Tutto ciò contribuisce a riunirne un pubblico ampio e variegato, mettendo insieme soggetti affascinati dalla distopia e pensatori che tentano di decrittare i geroglifici della nostra epoca» (pp. 21-22).

Se da sempre l’essere umano ha trovato nella tecnica quelle protesi utili a completare le sue deficienze biologiche e per modificare i contesti in cui agisce in base ai suoi desideri, ciò vale anche per la tecnologia digitale. «Ogni tecnologia porta con sé un proprio mondo immaginario, ed è a partire dalla compresenza di questi due elementi (gesto e parola, materia e simboli, tecnica e immaginario) che occorre indagare le sfide imposte dall’epoca dominata dalla tecnologia digitale» (p. 27). Scrivono a tal proposito Tirino e Tramontana: «L’elemento su cui agisce l’avvento di una nuova tecnologia è l’altro polo della nostra corporeità: l’immaginario. L’operazione tipica consiste nella capacità di una nuova tecnologia di trasformare l’immaginario. La tecnologia digitale, così com’è stato per tutte le altre grandi epoche tecnologiche che ci hanno preceduto, riorganizza i nostri gesti tecnici nella misura in cui l’immaginario si ridistribuisce attorno all’evento dell’elemento innovativo» (p. 27).

La tecnologia digitale, sostengono i curatori del volume, com’è stato per tecnologie precedenti, è una “tecnologia caratterizzante”, un “aggregato tecnologico” capace di individuare ed aggregare idee apparentemente distanti tra loro. «È nell’essere una tecnologia caratterizzante che oggi si ridefinisce il centro attorno a cui si coagulano le nostre energie psico-fisiche, così da ergersi a elemento in grado di riorganizzare sia l’attività microscopica della vita quotidiana sia il funzionamento delle “grandi” istituzioni sociali. In questo ordine di problemi Black Mirror tira il suo fendente nel cuore pulsante di quest’epoca e contribuisce a dare una forma alle inquietudini nutrite da ore e ore di utilizzo di tecnologia digitale- provando a sintetizzare in un’unica immagine gli effetti di una realtà sociale dominata da una specifica tecnologia caratterizzante. Se si dovesse osare una classificazione degli episodi, si potrebbe dire che Black Mirror ha per oggetto due tipi di tecnologie: quelle legate alla relazione con il bios e quelle legate al controllo e manipolazione dello spaziotempo» (pp. 27-28).

Mentre i dispositivi-protesi ridefiniscono «l’immaginario che ognuno si costruisce del proprio sé» succede che «attraverso sistemi e architetture, viene riscritto il perimetro d’intervento in cui ognuno di noi agisce in qualsiasi istante della nostra vita». Black Mirror «mette in scena un universo frastagliato di protesi e forme di relazioni rappresentate in forma distopica che si potrebbero riunire, per parafrasare un classico della psicologia sociale [George Herbert Mead, Mind, Self and Society (1934)], nella seguente formula: tecnologia, Sé e società. A partire da questa triade fondamentale, la tecnologia digitale ha il compito di coniugare due elementi del tutto differenti e, in qualche misura, contrapposti: l’individuo e la società» (p. 28).

A risultare interessante nella serie, sostengono Tirino e Tramontana, non è tanto il contenuto delle sue narrazioni distopiche, quanto piuttosto la “forma” mediale che incarna: «una sorta di virus che attacca gli ambienti e le piattaforme attraverso cui viaggia, denunciandone le alienanti conseguenze sulla viva “carne” degli individui del nuovo millennio» (p. 34).

Il fatto che Black Mirror viva negli stessi habitat mediali che prende di mira rappresenta un’interessante contraddizione su cui riflettere, così come qualche riflessione merita il fatto che nemmeno chi approccia la serie (e la realtà) armato di pensiero critico possa “chiamarsi fuori” da tali habitat contestati dalla serie.

Il glossario proposto dal volume è composto da diciassette lemmi affrontati da altrettanti autori/autrici: Algoritmo (Mario Pireddu), Atmosfera (Giulia Raciti), Audience (Antonella Mascio), Corpo (Claudia Attimonelli), Democrazia (Milena Meo), Esperienza (Vincenzo Susca), Illusione (Federico Tarquini), Interazione (Antonio Tramontana), Memoria (Damiano Garofalo), Morte (Alessandro Sntoro), Paranoia (Mario Tirino), Phatos (Ivan Pntor Iranzo), Paura (Fabo d’Andrea), Schermo (Fabio La Rocca), Serialità (Angela Maiello), Tecnica (Antono Lucci) e Zootecnica (Pier Luca Marzo).

Nel lemma Serialità, affrontato da Angela Maiello, si insiste su come la scelta antologica operata Black Mirror eviti la presenza di quei personaggi ricorrenti che divengono protagonisti in tanti prodotti seriali attraverso processi di formazione, elaborazione e trasformazione. Non vi sono nemmeno elementi narrativi correlati tra di loro in grado di conferire continuità al racconto. Non abbiamo qua la classica esplorazione narrativa seriale che procede lungo le due canoniche direzioni complementari: l’orizzontalità (lo sviluppo del marco-racconto su un prolungato arco temporale, spesso su più stagioni) e la verticalità (l’approfondimento drammaturgico su brevi storie aperte e chiuse all’interno dei singoli episodi). In Black Mirror il tema-conduttore esplorato verticalmente che lega episodi non correlati tra loro è dato dal rapporto tra l’essere umano e l’ambiente ad alto tasso digitale e mediale. «Questo “eccesso di tecnica”, per così dire, viene variamente declinato, e dunque serializzato, nei singoli episodi» (p. 224).

A livello verticale la studiosa individua quattro forme principali, non di rado intrecciate tra loro, di “eccesso di tecnica” presenti nella serie: quella dell’utilizzo delle immagini mediali e loro spettacolarizzazione (ad es. The National Anthem. Messaggio al Primo Ministro, Episodio 1, Prima stagione); quella del controllo e della sorveglianza (Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della società mediatizzata (Hated in the Nation. Odio universale, Episodio 6, Terza stagione); quella della memoria e dell’accumulo dei dati (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione).

È a livello orizzontale, indispensabile al meccanismo della serializzazione, che secondo Maiello risiede la peculiarità di Black Mirror: il piano orizzontale è un piano extra-diegetico coincidente con il presente tecnologico in cui si vive. «La macro-storia orizzontale, all’interno della quale i singoli episodi possono essere sviluppati, coincide con il nostro presente, con l’accelerazione tecnologica che caratterizza la nostra epoca, con l’incertezza e il disorientamento che l’innovazione tecnologica produce, ogni qual volta una nuova prassi o un nuovo dispositivo si impongono collettivamente, mettendo in questione comportamenti e abitudini che vengono ormai dati per scontati, naturali» (p. 225).

La marco-storia orizzontale della serie, continua la studiosa, coincide anche con la narrazione mediatica che si fa dell’innovazione tecnologica che ha i due suoi poli opposti nei demonizzatori e negli estasiati. Ciò rende difficile la collocazione temporale della serie: si parla dell’umanità di oggi o di quella del futuro? La serie oscilla costantemente tra il tempo della verticalità (un futuro più o meno lontano) e quello dell’orizzontalità (il presente della narrazione mediale). «La marco-storia della serie coincide con la nostra contemporaneità e ciò si riflette negli approfondimenti verticali, interpretati in chiave distopica o fantascientifica, dei singoli episodi e delle specifiche stagioni» (p. 226). La storia orizzontale che conferisce coerenza narrativa alla serie, appare incentrata sullo squilibrio e sull’instabilità che segnano il contemporaneo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente altamente tecnologizzato in cui vive.

«Il nostro presente, ovvero la narrazione orizzontale di Black Mirror, è il tempo dello squilibrio, e gli episodi sviluppati verticalmente ripropongono e declinano domande che sono sempre già presupposte dalla storia orizzontale, perché ritornano continuamente nella nostra quotidianità: come comportarsi in questa fase di accelerazione e instabilità? Come possiamo giocare i nostro ruolo rispetto a cambiamenti velocissimi e inaspettati? In che modo possiamo diventare attori responsabili di un processo che non possiamo dominare interamente, come un oggetto a noi estraneo dal momento che è costitutivo del nostro stesso essere umani? Come gestire le nuove competenze e le inedite facoltà? È questo il nucleo tematico della serie: la possibilità di una responsabilità digitale, che non si traduce nell’utilizzo responsabile, ovvero moderato, dei media e dei dispositivi tecnologici o nell’utilizzo per i giusti fini, bensì nell’esatto opposto, lo svincolamento della tecnica da qualsiasi fine che possa condannare o giustificare la pervasività […], e il quotidiano esercizio tecnico e creativo, ovvero quella che potremmo definire una educazione tecno-estetica […] che permetta di esplorare produttivamente le inattese potenzialità della tecnologia [al fine] di assumercene la responsabilità diretta» (p. 228).

Tre, secondo la studiosa, sono le strategie argomentative a cui ricorre la serie per porre il problema della responsabilità digitale: quella del dominio della tecnologia sull’uomo (es. Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della fuga dalla tecnologia (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione); quella della concretizzazione di nuove possibilità esperienziali (es. Be Right Back. Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione).

In conclusione del suo intervento Angela Maiello sottolinea come i protagonisti dei singoli episodi abbiano in comune con lo spettatore (l’unico protagonista ricorrente, quello della narrazione orizzontale) il bisogno di giungere ad un nuovo punto di equilibrio con l’ambiente fortemente tecnolgizzato/mediatizzato. Come tutti i racconti seriali, anche Black Mirror vive «della partecipazione attiva dello spettatore e della riflessività che essa genera» (p. 231); ciò, secondo la studiosa, può rivelarsi un’occasione da cogliere per riflettere collettivamente sulle modalità con cui l’essere umano deve imparare a rapportarsi con un ambiente fortemente digitalizzato e mediatizzato.

 

Serie completa di “Nemico (e) immaginario

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Guerra agli ulivi/3 https://www.carmillaonline.com/2018/05/13/guerra-agli-ulivi-3/ Sun, 13 May 2018 09:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45545 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Non so se Maurizio Martina, segretario di un partito morente, nonché ministro (forse ancora per poco) di un governo morente, sia talmente permeato dall’oscurità della morte da infonderla in ogni suo atto.

Il suo ultimo lascito, il decreto del MinPAAF del 13 febbraio, dispone infatti un ecocidio su larga scala da attuarsi sull’intero territorio rurale della provincia di Lecce e su vaste aree delle provincie di Brindisi e Taranto. Un avvelenamento che coinvolgerà ogni forma di vita, lasciando dietro di se una [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Non so se Maurizio Martina, segretario di un partito morente, nonché ministro (forse ancora per poco) di un governo morente, sia talmente permeato dall’oscurità della morte da infonderla in ogni suo atto.

Il suo ultimo lascito, il decreto del MinPAAF del 13 febbraio, dispone infatti un ecocidio su larga scala da attuarsi sull’intero territorio rurale della provincia di Lecce e su vaste aree delle provincie di Brindisi e Taranto.
Un avvelenamento che coinvolgerà ogni forma di vita, lasciando dietro di se una pesante eredità per le generazioni future.

Allo scopo di sterminare il Philaenus spumarius (l’insetto accusato di espandere la batteriosi da Xylella fra gli ulivi) il decreto del MinPAAF  impone l’uso obbligatorio e massivo di pesticidi nelle campagne salentine. 
Impone di spargere per quattro volte, da qui a fine anno, sostanze neonicotinoidi e neurotossiche non solo sugli uliveti, ma su qualsiasi pianta coltivata potenzialmente ospite del batterio Xylella, che sia  elencata nella banca dati della Commissione Europea. Una banca dati che conta attualmente 359 specie vegetali, molte delle quali comunissime e diffuse, come il rosmarino, la salvia, la lavanda, l’alloro, l’oleandro, il mandorlo, il susino ….
Il che vuol dire avvelenare ovunque.
Il decreto raccomanda di “estendere i trattamenti alle zone incolte o alle erbe spontanee”. Non si limita quindi alle terre coltivate ma comprende anche i campi usati normalmente come pascolo, in maniera da assicurare, per ogni possibile via, l’accesso delle sostanze insetticide alla nostra catena alimentare.

Quanto ai principi attivi da irrorare, selezionati dal Centro di ricerca ‘Basile Caramia’ di Locorotondo, essi possono vantare una lunga storia di tossicità a danno degli esseri viventi.
Come per esempio l’Imidacloprid, un neonicotinoide ormai universalmente riconosciuto fra i principali responsabili delle morie degli insetti impollinatori.

Vale la pena ricordare che senza insetti impollinatori non solo non c’è più agricoltura, almeno come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.
Senza insetti impollinatori non c’è più riproduzione per migliaia di specie botaniche.

Ogni attacco agli impollinatori è un attentato a largo raggio contro la biodiversità vegetale, e di conseguenza contro la biodiversità animale che della prima si nutre e si serve per sopravvivere.
In questo quadro anche aspetti gravissimi, come la nostra sicurezza alimentare e gli effetti sulla nostra salute, passano quasi in secondo piano, perché il danno che si prefigura è un danno sistemico, è la rottura di un delicato equilibrio che permette la vita e le interrelazioni fra gli esseri viventi.
Ed è un danno già noto.

Già da una ventina d’anni ha cominciato a diffondersi  nel mondo il fenomeno del ‘Colony Collapse Disorder’, cioè l’abbandono delle arnie da parte delle api operaie.
Per primi se ne accorsero gli apicoltori francesi nella seconda metà degli anni ’90, quando denunciarono una significativa perdita di api attribuibile all’uso dell’Imidacloprid.
Nel 1999, il ministro francese dell’agricoltura sospese l’uso dell’insetticida sui semi di girasole e nel 2004 sulle sementi di mais, dopo che un comitato scientifico di nomina governativa ne aveva confermato la nocività1.
Nel 2009 il ‘Colony Collapse Disorder’ provocò negli USA una diminuzione del 29 % della popolazione degli alveari, salita al 34 % nel 2010. Già allora l’Imidacloprid venne considerato come concausa, accusato di indebolire il sistema immunitario delle api e di renderle più esposte alle infezioni da Nosema2.
Due anni dopo, a fronte dell’estendersi del ‘Colony Collapse Disorder’ in Inghilterra, l’equipe di Dave Goulson dell’Università di Stirling (UK) pose al centro dell’indagine gli effetti neurotossici dell’Imidacloprid, correlandoli alla perdita dell’85% nel numero di api regine, ed all’incapacità delle operaie di ritrovare le arnie di ritorno dai viaggi di raccolta del cibo3.

L’azione neurotossica dell’Imidacloprid spiega molto sull’abbandono degli alveari.
Le api smarriscono la strada perché l’insetticida le priva della memoria, lede la loro capacità visiva, e l’acquisizione sfalsata delle immagini facilita la perdita dell’orientamento.
Lede inoltre il loro senso dell’olfatto, fondamentale per il riconoscimento del saccarosio e l’approvvigionamento del cibo4.
Dall’olfatto dipende anche  la comunicazione fra gli insetti che avviene per via chimica, attraverso i feromoni.  E quando le api non comunicano, le funzioni  comunitarie cominciano a degradarsi: le api regine morenti non vengono sostituite, il cibo non arriva più all’alveare che a poco a poco collassa5.
L’Imidacloprid colpisce le api in ciò che hanno di più caro: il ritorno alla loro comunità di appartenenza, le loro capacità relazionali, le loro funzioni sociali.

Oltre all’Apis mellifera, l’Imidacloprid non risparmia altri impollinatori come bombi e farfalle.
Come per le api, gli sciami dei bombi esposti  hanno dimostrato una crescita molto inferiore al normale, una drastica riduzione delle nascite di regine, una ridotta capacità di procurare il cibo6.
Per quanto riguarda i lepidotteri, gli effetti letali sono stati verificati sugli adulti di Coleomegilla maculata, Harmonia axyridis, e Hippodamia convergens, e sulle larve di Monarca, Danaus plexippus, Vanessa cardui7.

Ormai sono innumerevoli le ricerche sulla nocività dell’ Imidacloprid.
L’European Food Safety Autority ne ha analizzate 700 sull’esposizione delle api mellifere, api solitarie e bombi ai residui contenuti nel polline, nel nettare, nell’acqua e nella polvere che si disperde durante la semina di semi trattati, confermando in un rapporto del febbraio di quest’anno i rischi per tutti gli insetti considerati8.
Sulla base del Rapporto EFSA, la Commissione Europea, che già aveva deciso una moratoria nel 2013, ha disposto il divieto di utilizzare in campo aperto tre nicotinoidi, fra cui l’Imidacloprid, dalla fine del 20189.

Risulta bizzarro che il Ministero delle Politiche Agricole e la Regione Puglia dispongano l’uso massivo del pesticida proprio mentre l’Europa lo mette al bando.
Che sia per finire le scorte prima che sopraggiunga il divieto ?
O forse le nostre autorità guardano già ‘oltre’, verso l’avvento di un salto tecnologico che permetta, in un futuro non troppo lontano, di poter fare a meno di insetti così inadeguati a relazionarsi con le meraviglie della chimica?

In molti si sono già attrezzati per ‘il salto’:
Droni impollinatori vengono già commercializzati dalla Aermatica 3D, e l’anno scorso i Giapponesi dell’Aist di Tsukuba ne hanno brevettato uno piccolo come un colibrì.
Wallmart ha presentato un brevetto per api robotizzate autonome,  un drone più avanzato dotato sensori e telecamere per rilevare la localizzazione delle coltivazioni.
Ma il progetto più inquietante, tenuto a battesimo dalla US Defense Advanced Research Projects Agency e attualmente in via di sviluppo da parte di un team della Harvard University, è sicuramente il RoboBee, un robot volante di 3 cm con sensori di visione, utilizzabile per l’impollinazione artificiale ma anche per fini di sorveglianza.
Lo scenario profetizzato da Hated in the Nation non è poi così irrealistico.
Come non è poi tanto irrealistico prevedere che droni e robot impollinatori siano destinati alle coltivazioni dell’agroindustria, e non alle migliaia di piante spontanee la cui sopravvivenza non genera profitto.
Mi chiedo poi se debba considerarsi irrealistica la sostituzione con droni e robot anche degli uccelli, delle lucertole10, degli anfibi11, e di tutti gli animali che subiscono la contaminazione da Imidacloprid.

Fra questi gli uccelli sono colpiti in maniera particolare, visto che l’insetticida entra nella loro catena alimentare sia tramite i semi trattati che attraverso insetti contaminati.
Gli effetti dell’esposizione sono stati testati su uccelli migratori granivori, che hanno mostrato un calo significativo delle riserve di grasso e della massa corporea, e la perdita della capacità di orientamento nella migrazione12.

Uno studio olandese ha approfondito le cause del declino della popolazione aviaria insettivora nelle aree dei Paesi Bassi dove è presente una maggiore contaminazione da Imidacloprid nelle acque. L’indagine ha registrato percentuali di diminuzione degli uccelli fino al 3,5% in media ogni anno, non solo a causa dell’alimentazione con insetti contaminati, ma per la penuria di cibo causata dalla forte riduzione del numero degli insetti stessi, uccisi dal pesticida13.

E’ un fenomeno simile a quello osservato oggi in Francia, dove decine di specie aviarie insettivore hanno visto le loro popolazioni ridursi vertiginosamente negli ultimi 15 anni – in alcuni casi di due terzi – a causa della scomparsa degli insetti nelle aree caratterizzate da estese monocolture di grano e mais, pesantemente trattate con pesticidi.
Benoit Fontaine, biologo del Muséum national d’Histoire naturelle e coautore dello studio francese, definisce la situazione catastrofica: “le nostre campagne stanno diventando un vero deserto14.

Ed è questo forse il modello a cui ci stanno preparando: il deserto.
Il deserto di un’agricoltura senza contadini né braccianti, priva del canto degli uccelli e del volo delle api, dove l’unica vita consentita sia quella brevettabile. (Continua)


  1. Brant Reuber, 21st Century Homestead: Beekeeping, 2015, p. 135. 

  2. USDA, Colony Collapse Disorder Progress Report, giugno 2010, pp. 43. 

  3. Damian Carrington, Pesticides linked to honeybee decline, The Guardian, 29 marzo 2012. Thomas James, Dave Goulson,  The environmental risks of neonicotinoid pesticides: a review of the evidence post 2013, in ‘Environmental Science and Pollution Research’, July 2017, Volume 24, Issue 21, pp 17285–17325. 

  4. Alessandro Zanella, Contaminazione ambientale di api da insetticidi neonicotinoidi. approntamento di una metodologia analitica per la sua valutazione su singolo insetto, Tesi di laurea in chimica, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2010/11, pp. 12/13. 

  5. Mara Andrione, Giorgio Vallortigara, Renzo Antolini, Albrecht Haase, Neonicotinoid-induced impairment of odour coding in the honeybee, Scientific Report, 1 dicembre 2016. 

  6. Feltham, Hannah, Park, Kirsty, Goulson, Dave, Field realistic doses of pesticide imidacloprid reduce bumblebee pollen foraging efficiency, in ‘Ecotoxicology’, April 2014, Volume 23, pp 317–323. 

  7. Vera Krischik, Mary Rogers, Garima Gupta, Aruna Varshney , Soil-Applied Imidacloprid Translocates to Ornamental Flowers and Reduces Survival of Adult Coleomegilla maculata, Harmonia axyridis, and Hippodamia convergens Lady Beetles, and Larval Danaus plexippus and Vanessa cardui Butterflies, in PLoS One. 2015; 10(3).  

  8. European Food Safety Authority, Evaluation of the data on clothianidin, imidacloprid and thiamethoxam for the updated risk assessment to bees for seed treatments and granules in the EU, 1 febbraio 2018. 

  9. Dall’Unione Europea stop ai pesticidi killer delle api, National Geographic Italia, 27 aprile 2018. 

  10. Anna Cardone, Imidacloprid induces morphological and molecular damages on testis of lizard (Podarcis sicula), Ecotoxicology. 2015, Vol.24, No.1, p.94. 

  11. Beyondpesticides, Amphibians

  12. Margaret L. Eng, Bridget J. M. Stutchbury , Christy A. Morrissey, Imidacloprid and chlorpyrifos insecticides impair migratory ability in a seed-eating songbird, in ‘Scientific Reports’, 9 novembre 2017.  

  13. Caspar A. Hallmann,Ruud P. B. Foppen, Chris A. M. van Turnhout, Hans de Kroon, Eelke Jongejans, Declines in insectivorous birds are associated with high neonicotinoid concentrations, Nature 13531, 2014. 

  14. Agence France-Presse, Catastrophe’ as France’s bird population collapses due to pesticides, The Guardian, 21 marzo 2018. 

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Tu scendi da Interstellar https://www.carmillaonline.com/2014/12/21/tu-scendi-da-interstellar/ Sun, 21 Dec 2014 19:28:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18927 di Alessandra Daniele

interstellarBruttta stagione per la fantascienza. Interstellar è un cinepanettone di retorica familista e cazzate pseudo scientifiche alla Voyager. Ed è così lento che dovrebbe chiamarsi Intercity. E Doctor Who è diventato Fracchia La Belva Umana. Seguono maxi-spoiler di Interstellar, Doctor Who, The Walking Dead, Z Nation, e mini-spoiler di Ascension e Black Mirror. Christopher Nolan ha trasformato un buco nero nello studio di C’è Posta Per Te – quando il vero passo da gigante per l’umanità sarebbe il contrario – mettendo alla guida d’una missione spaziale dei rincoglioniti inadeguati alla guida d’una Panda. Interstellar non è [...]]]> di Alessandra Daniele

interstellarBruttta stagione per la fantascienza. Interstellar è un cinepanettone di retorica familista e cazzate pseudo scientifiche alla Voyager. Ed è così lento che dovrebbe chiamarsi Intercity.
E Doctor Who è diventato Fracchia La Belva Umana.
Seguono maxi-spoiler di Interstellar, Doctor Who, The Walking Dead, Z Nation, e mini-spoiler di Ascension e Black Mirror.
Christopher Nolan ha trasformato un buco nero nello studio di C’è Posta Per Te – quando il vero passo da gigante per l’umanità sarebbe il contrario – mettendo alla guida d’una missione spaziale dei rincoglioniti inadeguati alla guida d’una Panda.
Interstellar non è il nuovo 2001: Odissea nello Spazio più di quanto Un Posto al Sole non sia il nuovo Solaris.
Steven Moffat ha trasformato il personaggio del Master in un’altra delle patetiche decerebrate adoranti delle quali circonda sempre i suoi protagonisti, e ne ha sostituito l’iconico titolo con un nomignolo da chiwawa: Missy.
Il resto del season finale di Doctor Who, Death in Heaven, non è che un enorme plot hole con qualche misero sfilaccio di trama attaccato ai bordi, inzuppato di quella stessa retorica patriottico-familista che è diventata inseparabile compagna della fantascienza cine/tv anglosassone.
In particolare al cinema non c’è più catastrofe ecologica, invasione aliena, anomalia spazio-temporale che non venga fronteggiata da un eroico padre di due figli adolescenti rompicoglioni, e/o da una fanciulla vagamente intellettuale ma dal cuore romantico, e che non venga risolta (quando viene risolta) dal potere dell’Amore.
Dappertutto pare di leggere le esortazioni subliminali che il protagonista di Essi Vivono scopriva inserite in ogni media: “Marry and reproduce”, e di conseguenza “Consume”.
Come al solito l’unica alternativa considerata possibile all’apocalisse è lo statu quo.
Mentre il messaggio esplicito per lo spettatore medio è: “Gli eventi precipitano, non sai fare un cazzo? Beh, almeno vorrai bene a qualcuno, no? Ecco, basta quello”.
Il risultato è sedativo, conformista, intrinsecamente reazionario.
Ed è un messaggio così dopante che ormai parte del pubblico lo pretende anche quelle rare volte che non lo riceve, basti vedere la desolante reazione di certi settori del fandom all’ottimo mid-season finale di The Walking Dead: ne hanno ignorato sia la coerenza tematica che l’attualità politica, oltraggiati dal fatto che il loro personaggio preferito non possa più coronare il loro Sogno d’Amore.
Una parte del pubblico pretende romanticismo consolatorio persino da The Walking Dead.
Eppure non è difficile intuire che la Zombie Apocalypse non sia lo scenario ideale dove cercare illusioni. Anche l’autoironico, citazionista Z Nation ha concluso la stagione svelando quanto fosse Renziana la promessa d’una facile cura al virus Z.
“La fantascienza è una forma d’arte sovversiva – diceva Philip K. Dick – fatta per chi pone domande scomode”. Il mercato invece ne fa un mezzo per distribuire risposte comode, una soap opera con qualche effetto speciale in più.
Come la miniserie SyFy Ascension, che ha soffocato le potenzialità d’una premessa interessante (Thirteen to Centaurus di Ballard in salsa Mad Men) in un’overdose di fuffa da telenovela.
Sola luce nelle tenebre di questa lunga notte di Natale: lo special White Christmas di Black Mirror, che andando coraggiosamente nella direzione opposta si conferma praticamente l’unica serie di autentica SF rimasta in circolazione.
Mentre lo special natalizio di Doctor Who s’annuncia invece come una cagata persino peggiore di Death in Heaven.
La fantascienza ha impiegato mezzo secolo a uscire dal ghetto del Genere per scoprire che la periferia del Mainstream è ben peggiore.

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