Big Pharma – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Orgasmo del profitto, morte e devastazione per la comunità umana https://www.carmillaonline.com/2021/05/25/orgasmo-del-profitto-morte-e-devastazione-per-la-comunita-umana/ Tue, 25 May 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66466 di Sandro Moiso

Domenica scorsa la cabinovia di Stresa forse stava ancora precipitando, oppure si era già schiantata contro gli alberi dopo un breve e rapidissimo percorso di morte, mentre qualche tiggì trasmetteva le immagini di Salvini che eiaculava la sua instancabile giaculatoria sul “correre, fare in fretta, scavare, abolire le regole che intralciano la ripresa”, in un comizio o durante un’intervista poco cambia considerato che può cambiare la locazione ma mai il contenuto dei suoi grossolani discorsi. Ed era già noto che le vittime erano 14 quando, lunedì 24 sera a [...]]]> di Sandro Moiso

Domenica scorsa la cabinovia di Stresa forse stava ancora precipitando, oppure si era già schiantata contro gli alberi dopo un breve e rapidissimo percorso di morte, mentre qualche tiggì trasmetteva le immagini di Salvini che eiaculava la sua instancabile giaculatoria sul “correre, fare in fretta, scavare, abolire le regole che intralciano la ripresa”, in un comizio o durante un’intervista poco cambia considerato che può cambiare la locazione ma mai il contenuto dei suoi grossolani discorsi.
Ed era già noto che le vittime erano 14 quando, lunedì 24 sera a Otto e 1/2, Alessandro Sallusti dichiarava che le leggi che impongono controlli sugli appalti servono soltanto a danneggiare e limitare gli imprenditori onesti1.

Questa è l’Italia della ripresa, l’Italietta del Recovery Plan, la nazione della Next Generation UE, quella che deve salvarsi tutta insieme: a patto che i sacrifici siano tutti a carico di una parte e i guadagni e i profitti a vantaggio dell’altra. E non basta la presenza dei partiti della sinistra di ”Letta e di governo” per poter giustificare un’azione economica e sociale che del sovrapprofitto legato all’abolizione di qualsiasi controllo e misura di sicurezza ha fatto la sua ragion d’essere e di un governo che come unico vero volto ha quello della repressione sempre più intransigente e feroce nei confronti di ogni forma di protesta dei lavoratori e delle comunità.

Un governo caratterizzato da un Ministero della transizione ecologica che come primo provvedimento ha messo in atto quello dell’autorizzazione alla trivellazione dei fondali marini, mentre il super-esperto Cingolani balbettava di averlo ricevuto già così (un po’ come fecero i 5Stelle sia nei confronti del TAP che del TAV). Un governo che porta sul volto dei suoi maggiorenti il ghigno del capitale e della finanza globale, aggravato da atteggiamenti di falsa e gesuitica modestia.

L’orgasmo della ripresa economica accompagna immagini da snuff movie in cui i corpi maciullati delle vittime degli incidenti sul lavoro si mescolano a quelli dei gitanti offerti come vittime sacrificali al Dio del denaro oppure a quello dei corpi esposti ai manganelli e ai lacrimogeni sparati sulla faccia dei manifestanti. L’eccitazione imprenditoriale e politica istituzionale si affianca così a quella più contenuta e grigia delle mafie già al lavoro sui cantieri, le grandi opere, le speculazioni sugli appalti e i rimborsi, in un ballo pornografico di violenza, sadismo sociale, razzismo e opportunismo senza limiti. In cui le vittime designate continueranno ad essere le uniche a non conoscere il sicuro finale dello spettacolo.

Questa è l’Italia della guerra civile strisciante dichiarata dal capitale alle comunità, della devastazione ambientale e dell’assalto a qualsiasi norma che non sia tesa a favorire soltanto un rapido accumulo di capitali e profitti. E’ l’Italia dell’egoismo, dell’ignoranza spacciata per cultura, della disinformazione troppo spesso presentata come informazione, della scienza asservita a Big Pharma presentata come ricerca e della medicina sottomessa agli interessi dell’industria del turismo, con tutto l’osceno corollario prodotto dal can can che accompagna la narcosi non soltanto mediatica.

E’ l’Italia delle infinite lacrime di coccodrillo versate sulle “tragedie che si sarebbero potute evitare”, sugli attentati di mafia, sui servizi “deviati”, sulla violenza sulle e contro le donne.
E’ l’Italia della vergogna, dello schifo, della miseria morale ed economica, dello sfruttamento e della repressione. E’ un’Italia che non possiamo più voler salvare a qualunque costo, dove tutto si lega e ricollega in un’idea di Nazione e una concezione del mondo che vanno ripudiate fin da subito.
In nome della comunità umana e per porre per sempre fine all’odiosa e sanguinaria festa del profitto e del capitale.


  1. Come invece ha sottolineato il direttore de La Stampa Massimo Giannini nel corso del programma “The Breakfast Club” su Radio Capital: “Troppe cose non tornano in questa tragedia. I fatti raccontano di un cavo trainante che si rompe, di un sistema frenante che non funziona e di una cabina che si sgancia. Tutto piuttosto strano perché l’impianto era piuttosto vecchio ma sottoposto a controlli continui, l’ultimo nel 2020. Sembrerebbe che tutto il necessario sia stato fatto, ma evidentemente non è così. Dobbiamo chiederci in che condizioni sono gli impianti nel nostro paese. Morire in funivia è inaccettabile. Questo il primo pensiero dopo la tragedia. Ricordiamoci che nel decreto semplificazioni tornano le gare d’appalto al massimo ribasso, un approccio che ha portato solo guai in Italia. Quando si tagliano i costi i punti su cui si interviene sono sempre gli stessi: lo stipendio dei dipendenti e gli interventi sulla sicurezza”  

]]>
Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 3: disciplinamento dell’immaginario e del lavoro. https://www.carmillaonline.com/2021/03/16/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-3-disciplinamento-dellimmaginario-e-del-lavoro/ Tue, 16 Mar 2021 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65336 di Sandro Moiso

Ho scritto recentemente, a proposito del pensiero di Carl Schmitt, che il concetto di “eccezione” è fondativo della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»1.

Da questa affermazione è possibile far derivare che l’eccezionalità, o stato di eccezione, e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono le condizioni [...]]]> di Sandro Moiso

Ho scritto recentemente, a proposito del pensiero di Carl Schmitt, che il concetto di “eccezione” è fondativo della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»1.

Da questa affermazione è possibile far derivare che l’eccezionalità, o stato di eccezione, e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono le condizioni che devono sostanziare ogni governo poiché, se nelle fasi “normali” la normativa vigente è sufficiente a governare l’esistente e a dirimerne le contraddizioni, è proprio nella gestione di una fase inaspettata, e dunque potenzialmente pericolosa, che si esprime la vera autorità, riconosciuta come tale.

Se questo risulta essere piuttosto significativo dal punto di vista meramente politico, soprattutto in una fase come quella che stiamo attraversando e che abbiamo precedentemente definito come “epidemia delle emergenze”2, assume un’ulteriore importanza una volta che lo si associ alle riflessioni di Michel Foucault sul “potere di disciplina”.

In che consiste un simile potere? L’ipotesi che vorrei avanzare è che esiste, nella nostra società, qualcosa che potremmo definire un potere disciplinare. Con tale espressione mi riferisco, semplicemente, a una certa forma, in qualche modo terminale, capillare, del potere, un ultimo snodo, una determinata modalità attraverso la quale il potere politico – i poteri in generale – arrivano, come ultima soglia della loro azione, a toccare i corpi, a far presa su di essi, a registrare i gesti, i comportamenti, le abitudini, le parole; mi riferisco al modo in cui tutti questi poteri, concentrandosi verso il basso fino ad investire gli stessi corpi individuali, lavorano, plasmano, modificano, dirigono, quel che Servan chiamava “le fibre molli del cervello”3. Detto in altri termini, credo che il potere disciplinare sia una modalità, del tutto specifica della nostra società, di quel che si potrebbe chiamare il contatto sinaptico corpi-potere.
La seconda ipotesi che vi sottopongo è che tale potere disciplinare, in ciò che presenta di specifico, abbia una storia, e dunque non sia sorto all’improvviso, ma neppure sia esistito da sempre. Esso si è piuttosto formato a un certo punto e a seguito una traiettoria, in un certo senso trasversale, lungo le vicende della società occidentale4.

Se la sovranità si fonda sull’eccezione, la sua dichiarazione e direzione, e il potere disciplinare sulla permeazione dei corpi e delle menti da parte del potere “sovrano”, sembra piuttosto evidente che la situazione attuale, determinata dalla pandemia e dalla sua gestione politica, sanitaria ed economica, porti a compimento, in maniera impensabile anche nei regimi totalitari del ‘900, una forma “totale” e generalizzata in quasi tutto l’Occidente (ma non solo) di controllo sociale e dirigismo economico-sanitario.

Una forma di totalitarismo emergenziale che della “sicurezza” ha fatto il centro del suo discorso, facendo addirittura impallidire i precedenti discorsi in tal senso fatti a proposito del terrorismo o dei fenomeni migratori, che, a questo punto, sembrano soltanto aver costituito i presupposti discorsivi della nozione attuale di “sicurezza” e “controllo” (sociale)5.
Lo stesso Foucault, a proposito di un potere che neppure cercava più di salvare le apparenze, aveva affermato in una conversazione del novembre del 1977:

[Il potere] Ha ritenuto che l’opinione pubblica non fosse temibile, o che potesse essere condizionata dai media. Questa volontà di esasperare le cose fa parte d’altro canto del gioco della paura che il potere ha messo in atto ormai da anni. Tutta la campagna sulla sicurezza pubblica deve essere corroborata – perché sia credibile e politicamente redditizia – da misure spettacolari che provino la capacità del governo di agire velocemente e ben al di sopra della legalità. Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi. Il potere ha voluto mostrare che l’arsenale giuridico è incapace di proteggere i cittadini6.

Non si stupisca il lettore per il riferimento ad un testo che in realtà si ricollegava all’estradizione dalla Francia dell’avvocato Klaus Croissant, difensore della Frazione Armata Rossa (RAF) e accusato di complicità con i suoi clienti, verso la Repubblica Federale Tedesca dopo che i membri del gruppo Baader erano stati “ritrovati” morti nelle celle del carcere di Stammhein. La “sproporzione” sta soltanto nell’occhio disattento, una volta considerato come la strategia di demonizzazione dell’avversario politico e sociale e dell’istituzione di un “diritto penale del nemico” sia stata traslata, neppure in tempi troppo lunghi, dall’applicazione ai processi per terrorismo e banda armata a quelli destinati a reprimere e criminalizzare movimenti quali quelli No Tav e No Tap 7 fino ai Dpcm, autoritari e, come vedremo tra poco, incostituzionali, destinati a regolare, ancor più che la salute (intesa dal punto di vista sanitario) pubblica, i comportamenti sociali e individuali.

Intanto è di pochi giorni or sono la notizia che un magistrato di Reggio Emilia ha annullato le multe inflitte, dai carabinieri di Correggio, ad una coppia per un’autocertificazione falsa, in violazione delle norme di divieto di circolazione imposte dal primo dpcm emesso dall’ex-premier Giuseppe Conte l’8 marzo 20208. La decisione del magistrato, Dario De Luca, sottolinea come un dpcm non possa limitare la libertà personale perché è un atto amministrativo, motivo per cui un decreto del premier è illegittimo se viola i diritti costituzionali.

Il giudice emiliano ha infatti assolto gli imputati «perché il fatto non costituisce reato» visto che il falso è un «falso inutile, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente», aggiungendo inoltre che la norma che impone l’obbligo dell’autocertificazione sia da ritenersi costituzionalmente illegittima e quindi da disapplicare. Poiché, spiega ancora, la limitazione della libertà personale può avvenire solo a seguito di un atto dell’autorità giudiziaria e non di un atto amministrativo qual era il decreto in questione di cui si rileva «l’indiscutibile illegittimità come pure di tutti quelli successivamente emanati dal capo del governo».

Ciò che importa, di tale sentenza, è il fatto che questa riveli come ormai i governi, approfittando dello stato di emergenza o di eccezione, possano operare in totale antitesi alle costituzioni così spesso presentate come “carte dei diritti”, ci sarebbe da aggiungere quasi mai applicati e quasi sempre ignorati. Ma la stessa può anche costituire un precedente giuridico importante per tutte quelle situazioni, come quella dei No Tav valsusini che stanno ricevendo multe individuali di centinaia di euro per essersi allontanati senza valide ragioni dal proprio domicilio, in cui la limitazione della libertà di movimento possa coincidere con la limitazione della libertà di espressione e di manifestazione.

Il caso è circoscritto, ma ciò non vuol dire che sia insignificante dal punto di vista giuridico nel rilevare come i governi si stiano muovendo nella totale illegalità, approfittando dell’occasione fornita loro dall’epidemia da Covid-19. Sulla quale ultima non è certo il caso di fare del complottismo o di adulterarne la gravità, dal punto di vista della salute e dell’economia, sminuendola. Piuttosto si rende necessario smontarne, pezzo dopo pezzo, tutta la narrazione che ne viene fatta a livello politico e mediatico.

Tornando a Foucault, val forse la pena di ricordare che il filosofo francese definì l’immaginario «segno di trascendenza» e il sogno «esperienza di questa trascendenza sotto il segno dell’immaginario»9. Poiché, come riassume Alessandro Fontana: «L’immaginario è dunque non tanto il ridotto della ragione, né il deposito dei suoi archetipi, quanto lo spazio delle direttrici costitutive e primarie dell’esistenza, delle sue virtualità trascendentali, prima del suo oggettivo esplicarsi nelle forme della storicità»10.

L’immaginario pubblico o collettivo, soprattutto a partire dalla fondazione dello Stato moderno tra XVI e XVII secolo, deve essere corretto e contenuto per il tramite di norme che siano corroborate da “verità evidenti” e da saperi che, a partire dalla fine del XVIII secolo:

avranno soprattutto il compito di stabilire ed enunciare come verità di natura la regolarità delle condotte prescritte dal potere disciplinare. Nasce così, sostiene Foucault, un nuovo regime di verità, quello di una verità normalizzatrice, la cui forma è fondamentalmente definita dal modo di funzionamento dell’esame, vero e proprio «rituale di verità della disciplina», grazie al quale potrà venir effettuato l’investimento pubblico dell’individualità normalizzata, e nelle cui tecniche le nascenti scienza umane e le stesse «scienze “cliniche”» cercheranno, secondo lui, l’essenziale dei propri metodi e delle proprie procedure […] la nuova economia del potere disciplinare, con il suo controllo permanente dei corpi, la normalizzazione delle condotte, le tecniche infime e minuziose di estrazione e di costituzione dei saperi (e di «saperi veri», precisa Foucault), rappresenta un tentativo di potenziamento degli effetti di potere in estensione, intensità e continuità. Si tratta, insomma, di una meccanica di potere che mira a penetrare la totalità del «corpo sociale» (che ha cessato di essere una semplice metafora per il pensiero politico, dirà nel 1976 al Collège de France) per produrre quei «corpi utili» funzionali ai nuovi meccanismi di produzione sviluppati dal capitalismo11.

Si torna qui, dunque, alla necessità per il potere di plasmare, a sua immagine e somiglianza, la società e i corpi, normalizzando il prodotto di quelle fibre molli del cervello di cui parlava Servan proprio alla fine del ‘700. E si torna anche alla necessità, per le forze che si vogliono antagoniste, di controbattere colpo su colpo alle vertiginose, o abissali, costruzioni dell’immaginario capitalistico con cui sempre più occorre fare i conti. Non lasciandosi abbindolare né dalla “razionalità” delle scelte dei governi, delle imprese e delle loro scienze, né, tanto meno, dalle disordinate e confuse, ma soprattutto fuorvianti, ricostruzioni dei complottisti di ogni ordine e grado.

La realtà è lì, pronta a dischiudersi davanti ai nostri occhi, in ogni momento.
Basti pensare alla campagna di vaccinazione, trionfalisticamente annunciata e descritta in ogni dove eppur così misera e tardiva. Mentre gli Stati Uniti annunciano che l’Alaska sarà il primo stato ad essere completamente vaccinato, i media si dimenticano di aggiungere che la stessa ha poco più di 700.000 abitanti e una densità di popolazione pari a 0,4 abitanti per chilometro quadrato12, in Italia e in Europa ai guai legati a piattaforme mal funzionanti per le prenotazioni e ai numeri delle fiale di vaccino assolutamente non sufficienti si è aggiunto anche il “grosso guaio” causato, in diversi paesi europei, compresa l’Italia, dai casi di trombosi verificatisi dopo la somministrazione del vaccino Astra-Zeneca13.

Vaccino che fin dall’inizio aveva suscitato dubbi sulla sua effettiva funzionalità e che solo per l’emergenza vaccinale, legata alla scarsità di dosi disponibili come si è già detto poc’anzi, è stato approvato dall’EMA, prima solo per gli under 65 e successivamente anche per gli over. Confermando così come la vera sperimentazione di vaccini (sviluppati forse troppo in fretta per motivi di mercato) si stia svolgendo sui corpi dei vaccinati. Motivo per cui oggi, dopo diverse morti sospette, siamo costretti ad ascoltare ministri e generali, rappresentati dei governi e della “scienza” (oltre che di Big Pharma, dell’OMS e dell’AIFA) che affermarno che quel vaccino è sicuro ed efficace come tutti gli altri, nonostante la sospensione “in via precauzionale” della sua somministrazione sia stata resa operativa in quasi tutti i paesi europei (buona ultima l’Italia, lasciata sola anche da Germania e Francia) fino a giovedì 18 marzo.

Ora, al di là della facile ironia che si potrebbe fare su quell’”essere sicuro ed efficace come gli altri”, che non si sa se sia una constatazione dell’effettiva efficacia di Astra-Zeneca oppure una svalutazione di fatto dell’efficacia degli altri vaccini, ciò che c’è, molto semplicemente, da rilevare non è il solito big complotto, ma piuttosto il fatto che, come il “nostro” Marx aveva già rivelato, non è la domanda a creare l’offerta ma, piuttosto, il contrario. Ovvero questo c’è, 400 milioni di dosi di Astra Zeneca già acquistate dall’Unione Europea (che sicuramente, nei prossimi giorni, contribuiranno a spingere l’EMA nella direzione di una ripresa delle vaccinazioni con lo stesso siero)14, questo vi beccate e questo deve pure piacervi (anima santa di ogni pubblicità, dal detersivo per i piatti ai segretari del PD fino a ciò che dovrebbe difenderci dalla morte e dal Male), altrimenti niente “miracolo”.

Se è però evidente l’uso politico del discorso medico (e scientifico) che oggi viene fatto, è proprio Foucault a spiegarci che:

Se c’è stato effettivamente un legame tra la pratica politica e il discorso medico, non è, mi pare, perché questa pratica abbia mutato prima di tutto la coscienza degli uomini, il loro modo di percepire le cose o di concepire il mondo, poi in fin dei conti la forma della loro conoscenza e il contenuto del loro sapere; non è neppure perché questa pratica si sia riflettuta prima, in modo più o meno chiaro e sistematico, in concetti, nozioni o temi che sono stati, in seguito, importati nella medicina; è perché, più direttamente, la pratica politica ha trasformato non il senso, né la forma del discorso, ma le sue condizioni di emersione, d’inserzione e di funzionamento; essa ha trasformato il modo di esistenza del discorso medico15.

Il filosofo francese situava a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo l’affermazione di una scienza medica di origine positivistica, basata sull’affidamento incondizionato e totale al metodo sperimentale16. Una medicina scientifica e razionale che, però, non si sarebbe mai allontanata del tutto dalla promozione di una fiducia o fede nella Scienza di stampo religioso, assumendo vieppiù le sembianze di un culto destinato a cancellare qualsiasi possibile “altra” eresia, grazie anche al panico oggi esasperato dai media.

Nel tentativo di spazzare via qualsiasi tipo di immaginario che veda nell’attuale modo di produzione la causa e non la salvezza per le attuali pandemie, destinate soltanto a moltiplicarsi in futuro (qui), l’immaginario medico-politico istituzionale trasforma i vaccini in una sorta di panacea universale (sanitaria, economica e sociale) e conferma le ipotesi formulate da Foucault sull’«improvvisa importanza assunta dalla medicina nel corso del XVIII secolo», a partire dagli studi di Baldinger che, nel 1782, aveva definito la medicina “scienza dello Stato”, iscrivendola così nel campo definito vent’anni prima da T. Rau come “polizia sanitaria”, articolazione della più generale “scienza della polizia” o “scienza dell’amministrazione”»17.

La funzione di quella che era stata chiamata la «polizia universale della società» non è più, insomma, di preservare «l’ordine universale dello Stato e il bene pubblico» […] ma, come mostra Foucault rileggendo il Traité de police di Nicolas de La mare e l’«immensa letteratura» sulla Polizeiwissenschaft tedesca, è diventata quella di una tecnica che investe direttamente la vita degli uomini. essa si occuperà progressivamente di tutto ciò che deve assicurare la felicità degli uomini, di tutto ciò che deve ordinare ed organizzare i rapporti sociali. Vigila, infine, su tutto ciò che è vivente […] E’ l’atto di nascita di una politica che è «necessariamente una biopolitica». Ma, aggiunge, poiché «la popolazione non è nient’altro se non ciò di cui lo Stato si fa carico, naturalmente a proprio vantaggio, lo stesso Stato potrà, se necessario, condurla al massacro. La thanatopolitica è così il rovescio della biopolitica»18.

Su questa traccia Foucault arriverà alla selezione razziale operata dagli stati in nome della razionalità scientifica e alle leggi di Norimberga, ma questo esula da questo scritto. Mentre lo stesso tema della thanatopolitica, come rovesciamento della biopolitica, lo possiamo riscontrare, pur rimanendo nell’ambito delle risposte alla pandemia, nel fatto che intorno ai vaccini si sia accesa una vera e propria guerra imperialistica per il controllo del mercato mondiale delle cure per il Covid-19. Guerra autentica che da un lato vede il ricco bottino rappresentato dal raddoppio dei profitti realizzati in un anno dalle grandi case farmaceutiche in gara per la distribuzione del siero19, da un altro lo scontro tra Occidente, Russia e Cina per il controllo geo-strategico dello stesso mercato e da un altro ancora, last but not least, quello che vede i media e i politici fingere sdegno e versare lacrime di coccodrillo su coloro che non possono usufruire di cure mediche adeguate in vaste aree del globo.

Constatare che più di sei miliardi di persone molto probabilmente non potranno usufruire dei vaccini anti-Covid e, allo stesso tempo, strombazzare l’efficacia delle campagne di vaccinazione condotte tra gli anziani dell’Occidente oppure lamentare il taglio delle forniture dei vaccini per i paesi europei, dimenticando i milioni di bambini che, semplicemente, muoiono di fame o per non poter usufruire dei medicinali più comuni, fa parte di questo indegno spettacolo20, che rende evidente come, per l’immaginario occidentale, continuino ad esistere morti dal peso diverso e non comparabile. Una forma ultima e spietata di guerra per mantenere inalterata la “povertà” degli altri e che nella difesa ad oltranza della proprietà dei brevetti vede una delle sue autentiche armi di distruzione di massa.

Oggi, in tempi di pandemia e di democrazie blindate, il ruolo del discorso medico e scientifico sembra aver rafforzato anche un’altra funzione, “interna” agli stessi paesi dell’Occidente: quella regolamentatrice del lavoro. Intendiamoci bene, non quella sempre utile della medicina del lavoro e degli organismi addetti al controllo (sempre meno numerosi e sempre meno ascoltati) degli ambienti in cui questo si svolge. No, qui si tratta delle migliori modalità per poter condurre il lavoro, senza interromperlo, anche durante un’epidemia la cui gravità dichiarata ha costretto la popolazione a rinchiudersi in casa e i giovani e i bambini a rinunciare alla scuola in presenza.

Già in articoli comparsi su «Carmilla» nella primavera scorsa21 si era parlato della radicale trasformazione del lavoro che sarebbe avvenuta a partire dall’emergenza pandemica. In particolare si parlava dello smart working che, oggi, non a caso, è diventato l’elemento centrale del nuovo contratto degli statali e della riforma della pubblica amministrazione.

Sebbene una delle motivazioni che sarà addotta, tra le altre, sarà sicuramente quella di venire incontro alle necessità femminili (famiglia, gestione dei figli e di quella che una volta si sarebbe detta “economia domestica”), che sembrano essere sempre le stesse individuabili nell’immaginario maschile e patriarcale della “famiglia felice”, certamente tale forma di atomizzazione del lavoro, sempre più collegata al raggiungimento degli obiettivi e dei risultati, andrà sicuramente a fracassare il rapporto tra contratto, orario e salario che da molto tempo costituiva una conquista per tutte le categorie di lavoratori dipendenti formalmente “garantiti” da un contratto collettivo.

Se è facile immaginare ciò che tale nuovo tipo di contrattazione, già benedetta dai rappresentanti della triplice sindacale tricolore, comporterà per i lavoratori dello Stato (mentre, nel frattempo, iniziano ad essere messe in discussione anche le ferie degli insegnanti), altrettanto facile è comprendere come essa già porti in seno quella trasformazione dei rapporti di lavoro in fabbrica che, da diversi anni a questa parte, costituisce il vero cuore o core business di ogni richiesta avanzata da Confindustria e dagli imprenditori nei confronti dei lavoratori e delle loro organizzazioni: legare il salario (e magari anche l’orario) alla produttività e al raggiungimento degli obbiettivi.

Il prossimo accordo sindacale dei metalmeccanici e di tutte le altre categorie produttive, una volta scardinata la difesa dei “privilegi” dei lavoratori dello Stato, non potrà vertere che su questo punto. Approfittando, come nel dopoguerra cui si fa così tanto riferimento citando ad ogni piè sospinto la Ricostruzione, dello sfinimento delle categorie sociali meno abbienti, della loro delusione e del loro completo disarmo politico e sindacale. E soltanto allora, dopo la fine del blocco dei licenziamenti, si comprenderanno appieno i sinistri riferimenti a Winston Churchill e alla sua promessa di “sangue, sudore e lacrime”.

Ecco allora che ciò che si diceva all’inizio sul disciplinamento dei corpi e delle menti, passato nella storia dell’Occidente prima attraverso l’istituzione dei conventi e, successivamente, degli eserciti di leva e ferma prolungata (dopo la guerra dei trent’anni, forse l’ultima guerra ad essere combattuta da eserciti quasi esclusivamente formati da mercenari), le caserme, le prigioni, i manicomi, le scuole e le fabbriche, potrebbe giungere una volta per tutte al suo coronamento: il corpo umano sfruttato come produttore/consumatore e la mente ridotta a software funzionale a tale sistema e alla sua “rete”.

Ha scritto un giorno Foucault che la sofferenza e la sventura degli uomini fondano «un diritto assoluto a sollevarsi». Viviamo oggi in un mondo in cui «tutto è pericoloso», come ripeteva spesso. Lo stesso sapere è diventato pericoloso, «e non soltanto per le sue conseguenze immediate a livello dell’individuo o dei gruppi di individui, ma addirittura al livello della stessa storia». In un mondo siffatto quel che ci resta (quel che si impone) è «una scelta etico-politica» sempre rinnovata per «determinare quale sia il pericolo principale»22.

(per Carlo, Arafat, i lavoratori di Piacenza e quelli di Prato in lotta, per Dana e la Valle che resiste, ma anche in memoria di Michel Foucault)


  1. Carl Schmitt, Teologia politica (1934) ora in C. Schmitt, Le categorie del politico, (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), il Mulino, Bologna 1972, p.33  

  2. Jack Orlando, Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Il Galeone editore, Roma 2020  

  3. “Sulle fibre molli del cervello è fondata la base incrollabile dei più saldi imperi” in Joseph Michel Antoine Servan (1737-1807), Discours sur l’administration de la justice criminelle, Genève 1786, p.35 (n.d.A.)  

  4. Michel Foucault, Lezione del 21 novembre 1973 in Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli editore, Milano 2010, pp. 48-49  

  5. Solo per fare un esempio: è di questi giorni la notizia che nel corso di un anno di “misure eccezionali” le forze dell’ordine hanno effettuato 47 milioni di controlli, per un totale di 37 milioni di persone…un bel database, non c’è che dire, sulle abitudini e gli spostamenti degli italiani  

  6. Michel Foucault, Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi, Conversazione con J.-P. Kauffmann, «Le Matin», 225, 18 novembre 1977, p.15 ora in Michel Foucault, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, duepunti edizioni, Palermo 2009, p. 63  

  7. Si veda, ad esempio, Dario Fiorentino, Xenia Chiaramonte, Il caso 7 aprile. Il processo politico dall’Autonomia Operaia ai No Tav, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  8. Patrizia Floder Reitter, «Dire il falso per uscire non è reato» Giudice fa a pezzi i dpcm di Giuseppi, «La Verità», 12 marzo 2021, p. 6  

  9. cit. in Alessandro Fontana, Introduzione a Michel Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, p.XVIII  

  10. A. Fontana, op. cit., p. XVIII  

  11. Mauro Bertani, Postfazione a Michel Foucault, Nascita della clinica, op.cit., pp. 234-235  

  12. Si pensi che la sola Manhattan, una delle cinque divisioni amministrative della città di New York e la più densamente popolata, conta da solo 1.630.000 abitanti  

  13. Astra Zenechaos come ha titolato, martedì 16 marzo, il quotidiano francese «Le Soir»  

  14. Di queste dosi il 10%, 40 milioni, sono state opzionate dal governo italiano, che proprio su Astra Zeneca ha puntato per la vaccinazione di massa entro settembre.  

  15. Michel Foucault, Réponse à une question, «Esprit», 5, 1968 tradotto in A. Fontana op. cit., p. XXIV  

  16. Si veda ancora in proposito: Michel Foucault, Il potere psichiatrico, op. cit.  

  17. Si veda, ancora, Mauro Bertani, op.cit., p. 237  

  18. ibid, pp. 238-239  

  19. Andrea Franceschi, Marigia Mangano, Per colossi e start up dei vaccini 35 miliardi di utili extra nel 2021, «Il Sole 24 Ore», 14 marzo 2021, p. 3  

  20. Raphael Zanotti, Quante persone vivono nei paesi senza vaccini. Sono 6.170.120.899 le persone nel mondo che non hanno a disposizione i vaccini, «Specchio», inserto di «La Stampa», 7 febbraio 2021  

  21. Oggi raccolti in Jack Orlando, Sandro Moiso, op.cit.  

  22. M. Bertani, op.cit., p. 253  

]]>
The revolution will not be televised: immagini di una democrazia blindata https://www.carmillaonline.com/2021/01/24/revolution-cant-be-televised-immagini-della-democrazia-blindata/ Sun, 24 Jan 2021 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64603 di Sandro Moiso

L’Occidente, in posizione di Dio (di onnipotenza divina e di legittimità morale assoluta), diviene suicida e dichiara guerra a se stesso (Jean Baudrillard, 3 novembre 2001)

Più volte negli ultimi tempi, a proposito degli Stai Uniti ma non solo, si è sviluppata sulle pagine di Carmilla una riflessione sulla frantumazione dei rapporti tra Stato e cittadini e tra Stato, classi e mezze classi, destinata probabilmente, e non per conscia volontà dei secondi, a svilupparsi in una guerra civile globale. Lo Stato contro (quasi) tutti, tutti contro tutti, ma anche [...]]]> di Sandro Moiso

L’Occidente, in posizione di Dio (di onnipotenza divina e di legittimità morale assoluta), diviene suicida e dichiara guerra a se stesso (Jean Baudrillard, 3 novembre 2001)

Più volte negli ultimi tempi, a proposito degli Stai Uniti ma non solo, si è sviluppata sulle pagine di Carmilla una riflessione sulla frantumazione dei rapporti tra Stato e cittadini e tra Stato, classi e mezze classi, destinata probabilmente, e non per conscia volontà dei secondi, a svilupparsi in una guerra civile globale. Lo Stato contro (quasi) tutti, tutti contro tutti, ma anche (quasi) tutti contro lo Stato.

Così le immagini di una Washington blindatissima e di quindicimila soldati della Guardia Nazionale schierati nelle vie deserte e accampati come bivacchi di manipoli all’interno del Congresso, a protezione dell’insediamento del neo-eletto presidente Biden, hanno ulteriormente contribuito a rafforzare tale ipotesi. Infatti, se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo già immaginare fin da ora il destino dello scontro sociale all’interno di questo nuovo, e forse ultimo, modello di democrazia blindata, in cui i soldati si accampano nei palazzi del governo come ai tempi della guerra in Iraq e dei marines alloggiati nelle stanze che furono di Saddam Hussein.

Democrazia imperiale, muscolare e allo stesso tempo debole, che gli ultimi avanzi di una sinistra perbenista trasformatasi in nuova maggioranza silenziosa applaudono in nome di una narrazione politically correct soffocante, che sempre più assomiglia ad una nuova forma di conformismo del pensiero e di censura di qualsiasi altra opinione che possa, anche solo lontanamente, assumere aspetti di radicalismo politico o sociale.

Nel 1969, negli Stati Uniti coinvolti in una guerra nel Sud-est asiatico iniziata da due presidenti democratici, John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson, e continuata dal repubblicano Richard Nixon, il “nero” Jimi Hendrix distorceva e straziava con la sua chitarra elettrica l’inno americano trasformandolo in grido di dolore e rivolta contro la guerra in Vietnam e la repressione dei movimenti sociali di opposizione, “bianchi” e “neri”, in casa. Oggi, nell’America di Joe Biden, una stellina “bianca” caduta dal firmamento del pop, ben regolamentato da un giusto equilibrio tra ciò che si può mostrare del proprio corpo e ciò che si può dire per piacere ai potenti, avvolta in un abito che ricordava la bandiera a stelle e strisce, ha interpretato con strumentale passione e finta commozione patriottica lo stesso inno, accompagnata dal coro dei semper fidelis marines.

Una pseudo-poetessa rap ventiduenne ha declamato versi sul valore della democrazia “riconquistata” mentre i poteri bianchi e creoli si commuovevano, con il rally positivo della borsa che nel frattempo faceva aumentare la soddisfazione per il risultato elettorale e per lo “scampato pericolo”, mentre la memoria della poesia rabbiosa del ghetto dei Last Poets e di Gil Scott-Heron, il messaggio infuocato di Grand Master Flash & the Furious Five, la violenza e l’ironia dei testi dei Public Enemy, autentici profeti della rabbia di strada, e il body count di Ice T venivano definitivamente banditi e cancellati dalla storia della cultura afro-americana. All’epoca della rivolta di Los Angeles del 1991 la polizia di vari stati americani ottenne che il disco di Ice T contenente il brano Cop Killer fosse ritirato dal mercato, ma oggi sembra sufficiente la sceneggiata democratica per contribuire alla pacificazione sociale e alla negazione del conflitto. Sbiancando il contenuto dei testi, strappati alla tradizione dei griot africani e costretti nell’ambito del bon ton della borghesia progressista bianca e afroamericana. I’m black and proud! aveva ruggito James Brown, molto prima che Michael Jackson iniziasse a sbiancare la propria pelle, mentre anche la musica nera, che fin dalle origini era stata definita come “musica del diavolo” per la sua esplicita sensualità e visceralità espressiva, aveva già da tempo visto ingrigire il suo colore originario.

La componente di Black Lives Matter che sembra essersi maggiormente affidata al sogno della democrazia americana, che a guardar bene non assomiglia neppure al sogno di Martin Luther King, rischia di finire in una trappola da cui non c’è uscita poiché con questa scelta, parafrasando un vecchio rivoluzionario, rischia di far fare ai movimenti di protesta afroamericani due passi indietro e nessuno avanti. Il primo, più importante, nei confronti delle rivendicazioni del vecchio, ma per ora ancora mai superato, Black Panther Party che fondeva la questione della liberazione degli afroamericani con quella più generale della liberazione dal dominio imperialista e di classe. L’altro in direzione di un soffocante identitarismo esclusivamente razziale destinato a rilanciare soltanto le esigenze di riconoscimento sociale della upper-middle class afroamericana, la cui principale (e fallimentare) espressione si è avuta, per ora, con la presidenza Obama.
Cosicché una donna ricca e potente come Kamala Harris può fingere di essere la rappresentante autentica di tutti gli afroamericani, anche di quelli poveri, emarginati e reclusi, nelle vesti di Vice-presidente, mentre nelle strade deserte della capitale fotoreporter e giornalisti embedded mostrano i giubbotti antiproiettile per sottolineare i gravi pericoli corsi dalla democrazia americana.

Una democrazia golpista all’estero e assassina di leader politici in ogni angolo del mondo, oltre che all’interno, basata sullo sfruttamento della forza lavoro in casa e ovunque le aziende americane esportino i loro capitali per incrementarli al minor costo e col maggior profitto possibile. Una democrazia autoritaria nata dalla distruzione dei nativi e dalla schiavitù degli schiavi africani e dei loro discendenti1 e articolata intorno ad una ripartizione della ricchezza vertiginosamente ineguale che ha sempre richiesto un enorme tributo di sangue. Una democrazia basata sulla forza del dollaro e fondata sul potere delle armi come in quasi nessun altro paese al mondo e che ora, con le truppe schierate intorno a Capitol Hill e alla Casa Bianca, in misura ben maggiore di quelle schierate nell’estate del 2020 da Trump a causa del rifiuto opposto allora dal Pentagono all’intervento dell’esercito nelle strade d’America, mostra il suo vero, unico ed ultimo volto.

Come al solito i “sinistri” embedded, di qua e di là dell’Atlantico, continueranno ad urlare al mancato colpo di stato dei sostenitori di Trump, fingendo di non vedere che, forse, il vero golpe lo porta avanti una fazione politica ed economica che dell’aria sorniona del più anziano presidente degli Stati Uniti ha fatto la sua immagine e della parziale farsa del 6 gennaio la sua stampella d’appoggio. Un anziano presidente che, però, ha immediatamente rivendicato i pieni poteri per il “contrasto al Covid” e che nel suo discorso inaugurale ha ricordato che in “democrazia” è possibile manifestare opinioni divergenti purché nel farlo non si creino o alimentino divisioni. Come se le divisioni sociali, le differenze di classe e razziali fossero semplici incidenti di percorso, create soltanto da discorsi dissennati e, sottinteso, “fascisti”.

I telegiornali del 21 gennaio, però, hanno anche trasmesso le immagini dei manifestanti, vestiti di nero, che in diverse città americane bruciavano la bandiera nazionale davanti agli edifici del governo. Infatti, in concomitanza con l’insediamento del neopresidente, hanno avuto luogo mobilitazioni per dare voce a una chiara opposizione anticapitalista all’arrivo dell’amministrazione neoliberista di Biden. D’altra parte le battaglie di strada dell’estate scorsa, dopo gli omicidi polizieschi, hanno lasciato il segno. Nella coscienza e nella volontà di procedere con la lotta di molti giovani, sia neri che bianchi e latini, ma anche in quella della borghesia sia bianca che nera. Concordi, queste ultime due, nel voler impedire qualsiasi ulteriore sviluppo organizzativo, associativo e di lotta della componente più radicale di quei movimenti2.

Mentre le forze che sono attualmente l’espressione della nuova rivoluzione americana della Gig Economy (piattaforme social e di E-commerce, Big Data, Big Tech, Big Pharma) già si approntano a distribuire patenti di correttezza nell’uso del linguaggio politico, censurando ogni forma diversa di comunicazione (non ci si illuda: prima Trump e i suoi followers, poi chiunque altro intralci per davvero il cammino “progressivo” della democrazia blindata) e certificazioni vaccinali che dei cittadini, più che lo stato di salute, notificheranno l’adeguamento immediato a qualsiasi nuova norma istituita dallo Stato e dalla società dell’autoritarismo “democratico”.

Welcome to the terrordome quindi, anche se travestito da innocente luna park dell’eguaglianza dei diritti formali e proprietari, destinati a negare quelli economici, sanitari e politici reali, destinati ad essere soffocati e nascosti come polvere sotto il tappeto della democrazia parlamentare autoritaria.
Superare i pregiudizi significa allora, e prima di tutto, cercare di riunificare tutto ciò che è stato diviso ingiustamente e a favore di pochi. Ripartire dalle lotte dal basso sarà l’unico vero passaggio obbligato nell’immediato futuro e la resistenza contro la società del capitale inevitabile. Mentre tutte le banalità riconducibili ad una visione politically correct espurgata da qualsiasi riferimento allo scontro di classe e il piagnisteo democratico-parlamentare non potranno che rivelarsi inutili e dannosi; da combattere come il capitale, il fascismo (vero) e tutti gli strumenti materiali ed immaginari che ne sostengono ancora la permanenza in vita.


  1. Sull’importanza del dominio e della separazione razziale per lo sviluppo del capitalismo statunitense, anche dopo l’emancipazione successiva alla Guerra Civile, si veda il recentissimo: Robin Blackburn, Il crogiolo americano. Schiavitù, emancipazione e diritti umani, Giulio Einaudi editore, Torino 2020  

  2. “A Portland, dopo che centinaia di persone sono scese in strada, il DHS e le truppe federali hanno attaccato violentemente e gassato una folla riunita in protesta davanti a un edificio ICE. A Seattle i manifestanti hanno attaccato le vetrine delle grandi multinazionali ed hanno gridato a gran voce che “Biden non è la soluzione”. A Denver una contromanifestazione, organizzata contro un ritrovo di estrema destra nei pressi del Campidoglio (poi annullato), ha marciato per le strade della città con determinazione. Da Los Angeles a Pittsburgh, da Minneapolis a Philadelphia, hanno avuto luogo presidi, contromanifestazioni, esposizioni di striscioni e murales.” Vedi: Insediamento di Biden: manifestazioni e scontri in varie città degli USA, INFOaut, 22 gennaio 2021  

]]>
Linee di faglia delle guerre civili americane (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/11/18/linee-di-faglia-delle-guerre-civili-americane/ Wed, 18 Nov 2020 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63480 di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali [...]]]> di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali risultati.

Molto si è discusso, prima, durante e dopo la campagna elettorale, della possibilità che una nuova guerra civile potesse sconvolgere gli assetti politici e sociali del paese nordamericano a seguito dei risultati elettorali e, certamente, l’ostinazione con cui il presidente uscente si rifiuta di accettare la sconfitta (ormai ampiamente certificata) potrebbe far pensare che tale ipotesi sia tutt’altro che decaduta.

In fin dei conti, quello della Guerra Civile è un fantasma che si agita nell’anima americana proprio in virtù del fatto che tale evento storico, svoltosi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865 e che causò dai 620.000 ai 750.000 morti tra i soldati, con un numero imprecisato di civili1, ha costituito l’atto fondante dei moderni Stati Uniti, forse molto di più della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della guerra che ne seguì con le armate della corona britannica.

Fu un momento di grande trasformazione economica e sociale, di cui, come si è già detto più volte su queste pagine, la liberazione degli schiavi neri fu solo l’ultimo dei motivi, mentre sicuramente il primo fu la trasformazione degli Stati Uniti da paese esportatore di materie prime verso l’impero britannico e l’industria inglese a paese industriale destinato, nel volger di pochi decenni, a superare la produttività di molti paesi europei industrializzatisi in precedenza.
Solo questa industrializzazione poté garantire negli anni successivi quello sviluppo delle ferrovia che avrebbe finito col velocizzare il trasporto di merci e persone, unificando definitivamente un paese che si affacciava sui due principali oceani, distanti tra di loro quasi 5.000 chilometri.
E’ importante ricordare al lettore tutto ciò perché anche lo scontro in atto attualmente ha a che fare con trasformazioni che ancor prima che politiche e culturali, come vorrebbero i raffinati intellettuali alla Saviano (qui), sono economiche e tecnologiche.
Ma procediamo, come sempre, un passo alla volta.

Il Nord all’epoca della rottura era governato, insieme al resto del paese, da un presidente repubblicano, Abramo Lincoln, che fu anche il primo presidente di un partito nato da poco, mentre gli stati confederati erano rappresentati da un partito democratico che all’epoca, e da diverso tempo, rappresentava gli interessi dei grandi proprietari terrieri proprietari di schiavi e dei piccoli proprietari terrieri che, anche con l’utilizzo di una manodopera schiava di numero assai ridotto rispetto a quello delle grandi piantagioni, campavano comunque sull’esportazione di cotone e tabacco verso le industrie al di là dell’Atlantico. Infatti, come aveva avuto modo di affermare Marx già nel 1847 in Miseria della filosofia, la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo.

Ma se, da un lato, furono i piccoli proprietari a fornire alle armate confederate il grosso dell’esercito, dall’altro furono spesso gli operai a fornire i contingenti principali dell’esercito unionista. Anche su invito di Marx e d Engels che all’epoca si erano schierati apertamente a favore di Lincoln e della causa dell’Unione, proprio in nome della battaglia contro l’imperialismo inglese e dell’emancipazione della classe operaia, in un contesto in cui il sistema schiavista rappresentava ancora un impedimento al suo allargamento. Non a caso Joseph Weydemeyer, tedesco della Westfalia e aderente alla Lega dei Comunisti fin dal 1846 e che dopo essersi trasferito nel 1851 negli Stati Uniti avrebbe continuato a collaborare a stretto contato con Marx ed Engels, si arruolò in qualità di ufficiale nell’esercito dell’Unione dove combatté per quattro anni nel Missouri.

E’ importante, però, citare anche la voce di un altro collaboratore dei due comunisti tedeschi, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1852: Friedrich Adolph Sorge. Nel 1890-91, ripercorrendo le vicende del movimento operaio americano, scriveva infatti sulla Neue Zeit2:

L’agitazione per la questione della schiavitù aveva portato nel 1854 alla fondazione del Partito repubblicano che, nonostante la sconfitta subita alle elezioni presidenziali del 1856, avrà molta influenza negli anni successivi. Senza un chiaro programma, senza un attacco diretto all’istituto della schiavitù, questo partito voleva solo impedire al Sud schiavista di espandersi in nuovi territori e ostacolare l’ingresso di nuovi Stati schiavisti nell’Unione […] nel 1860, dopo una combattiva campagna elettorale, i repubblicani ottennero la maggioranza in tutto il Nord e il loro candidato, Abramo Lincoln, fu eletto presidente degli Stati Uniti[…]
L’influsso di queste lotte sul movimento operaio degli Stati Uniti è indiscutibile, tanto per gli svantaggi che per i vantaggi arrecati. Sia queste lotte che la guerra influirono negativamente sul movimento operaio perché allontanarono l’interesse del popolo, nel senso stretto del termine, dalle questioni economiche e, inoltre, diedero ai politici, sempre pronti a pescare nel torbido, l’atteso pretesto di opporsi alle richieste degli operai richiamandoli a “più alti interessi”. Un altro effetto negativo fu costituito dal forte mutamento della composizione della popolazione operaia, in quanto i lavoratori americani, che si erano arruolati come volontari o che erano stati chiamati alle armi3, furono rimpiazzati dagli immigrati, i quali avevano naturalmente bisogno di più tempo per conoscere la situazione ed iniziare ad avanzare le prime rivendicazioni. Altro svantaggio fu costituito dal peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia a causa della forte svalutazione della cartamoneta, che non fu affatto bilanciata dagli aumenti salariali ottenuti dagli operai. Per contro, non ci fu disoccupazione durante gli anni della guerra.
Vediamo i vantaggi. L’enorme e crescente domanda di materiale e di equipaggiamenti bellici, di generi alimentari e di stivali e uniformi rese la forza lavoro una merce molto richiesta. Gli operai poterono così imporre con una certa facilità al padronato migliori condizioni di lavoro. Contemporaneamente furono adottate tariffe protezionistiche. Un grande vantaggio fu dato infine dal fatto che la guerra, risolvendo la questione della schiavitù, spianò la strada alla questione operaia4.

La lunga citazione è importante perché contiene al suo interno sia la visione del movimento operaio tipica della Seconda Internazionale che gli elementi tipici che hanno governato le scelte di buona parte degli operai americani e dei gestori politici della Nazione fino ad oggi. Guai a dimenticarsene!

Gli Stati federati nell’unione furono all’epoca 20, compresi quelli che vi entrarono nel corso del conflitto: Distretto di Columbia-Washington, California, Connecticut, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas5, Maine, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New York-Stato di New York, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont, Wisconsin e Nevada (solo dal 1864).

All’epoca gli stati del Nord vedevano impiegati nei propri opifici 801.000 operai contro i 79.000 del Sud, con un capitale investito di 858 milioni di dollari (di cui 445 nell’industria con un valore prodotto di 861 milioni di dollari) contro i 237 (di cui 55 nell’industria con un valore prodotto di 79 milioni) investiti negli 11 stati del Sud: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia oltre al Territorio Indiano e il Territorio confederato dell’Arizona.

A tutti questi andavano ancora aggiunti cinque stati cuscinetto formalmente sospesi tra l’una e l’altra fazione: Delaware, Kentucky (il maggior Stato schiavista dell’Unione), Maryland (schiavista), Missouri (schiavista), Virginia Occidentale (separatosi dalla Virginia in quanto filo-unionista seppur schiavista, ammesso ufficialmente a far parte dell’Unione nel 1863). A conferma della presenza della schiavitù anche in diversi stati dell’Unione o simpatizzanti occorre precisare che in quegli stati e in quelli cuscinetto erano presenti circa 443.000 schiavi contro i 3milioni e 522mila detenuti dagli stati confederati. Fine della cavalcata storica e ritorno al presente (più o meno).

Sembra abbastanza chiaro che il conflitto ottocentesco fu sostanzialmente non solo di carattere economico, ma anche di modo di produrre. Altrettanto, occorre dirlo qui ed ora, lo è ancora quello attuale. La vulgata del fascismo e del razzismo contro la democrazia e la libertà possiamo lasciarla ai vuoti chiacchiericci televisivi e giornalistici, se vogliamo davvero comprendere la profondità della faglia che attraversa, come quella californiana, e forse più, di Sant’Andrea, la società americana. Pronta a mettere in moto un terremoto di cui da tempo si possono avvertire le scosse di preavviso.

Nonostante la sconfitta Trump ha visto aumentare di 6 milioni i suoi voti rispetto alle elezioni del 2016 in cui era risultato vincitore, conservando di fatto il predominio in 25 Stati su 50. Joe Biden in compenso non ha ottenuto la valanga di voti afro-americani che tutti si attendevano, ma anzi ha conseguito una perdita importante di appeal presso quella fascia di popolazione. Ottenendo il 75% del voto afro-americano contro l’81% della Clinton e l’87% di Barak Obama. E’ il motivo per cui molti commentatori hanno parlato di rivolo blu piuttosto che di ondata. Mentre Donald Trump ha migliorato la sua posizione tra gli elettori non bianchi. E non solo tra i Latinos anti-castristi di origine cubana della Florida (dove non a caso è tornato a vincere).
Possiamo pensare che il Covid-19 abbia comunque portato una ventata di follia in buona parte dell’elettorato americano ledendone irreparabilmente il cervello (come vorrebbero forse i soliti intellettuali da salotto e da strapazzo di casa nostra) oppure cercare di capire. Materialisticamente e per antica abitudine si sceglie qui di seguire la seconda strada.

Se la mappa degli Stati Uniti durante la guerra civile indicava con il blu gli stati dell’Unione e con il rosso quelli confederati (lasciando in azzurro o grigio gli stati cuscinetto), oggi gli stati rossi e blu, come abbiamo imparato, indicano la maggiore influenza di Trump e del Partito repubblicano (rossi) oppure di Biden e del Partito democratico (blu). Se per la guerra ottocentesca la faglia del colore separava distintamente due tipi di economia (ad esempio i 96.000 stabilimenti industriali del Nord contro i 17.000 del Sud), oggi i due colori separano altrettanto due prospettive economiche diverse.
Una, quella blu, al momento attuale vincente e l’altra, probabilmente e non soltanto elettoralmente, destinata ad essere sconfitta.

Questo non vuol affatto dire che le aree blu siano quelle in cui si sta meglio, considerato che il “New York Times” in un articolo del 30 ottobre scorso sottolineava come fossero state le aree blu ad essere state più gravemente colpite dal punto di vista economico che non quelle rosse6. Secondo il giornale infatti, la recessione seguita alla pandemia è stata più severa in stati come la California o il Massachusetts, che hanno avuto una maggior perdita di posti di lavoro e di conseguenza una più vasta disoccupazione, che non altri come lo Utah o il Missouri. E questo viene fatto discendere da un diverso mix di lavori tra gli stati “democratici” e quelli “repubblicani”. Nei primi l’occupazione è scesa maggiormente nei primi due mesi della pandemia, per poi mantenere un significativo calo dei posti di lavoro fin da giugno (2020).

Non vi sarebbe nemmeno un legame diretto tra diffusione del virus e perdita dei posti di lavoro, poiché se inizialmente il numero di contagi e decessi è stato maggiore in aree blu come, ad esempio, quella di New York, a partire da giugno nelle aree rosse sono aumentati i contagi e da luglio anche i decessi. Così, sostanzialmente, la perdita di posti di lavoro sarebbe correlata a fondamentali differenze tra i tipi di lavoro svolti. Con il record di perdita di posti nei settori del divertimento, dell’ospitalità alberghiere e in quello dei viaggi e della ricreazione. Soprattutto in luoghi come Honolulu, Las Vegas e New Orleans (l’ultima , però, appartenente ad uno stato in cui hanno vinto ancora i repubblicani).

E sono state soprattutto le aree metropolitane a subire il maggior calo occupazionale, mediamente del 10% o più, come Springfield (Mass.) con il -12,9%, Las Vegas -12,4%, New York -11,4%, San Francisco -11,2%, New Orleans -11%, Los Angeles – 10,5%, Detroit -10,5% e Boston -10,1% (anche se la lista potrebbe allungarsi ancora). Tra i settori più colpiti dalla crisi pandemica il 59% dei lavoratori impiegati nell’accoglienza e nella ristorazione, il 63% di quelli dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento, il 66% di quelli impiegati nell’informazione come la pubblicità, il cinema e telecomunicazioni vivono in aree in cui i democratici si sono già affermati nelle elezioni del 2016. Mentre la maggior parte dei settori economici meno colpiti dalla pandemia “economica”, come ad esempio quello manifatturiero e delle costruzioni, cui vorrei aggiungere quello agricolo, si trovano dislocati nelle aree in cui Trump già vinse nel 2016 ( e nei quali si è affermato ancora oggi).

Sostanzialmente la maggior perdita di posti si è avuta in aree metropolitane oppure hub tecnologici dove un certo e non indifferente numero di persone può lavorare da casa. In questo settore, e in particolare per quello finanziario oppure dei servizi professionali, il calo dell’occupazione è stato maggiormente rallentato, ma proprio il fatto dovuto all’elevato numero di lavoratori impiegati in tali settori ha fatto sì che altri settori, nelle stesse aree, come New York o San Francisco, fossero i più colpiti. Ad esempio quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, in cui il numero degli occupati è drammaticamente precipitato.

Soltanto un anno prima, però, lo stesso autore citato in precedenza, sullo stesso giornale, scriveva che nelle aree metropolitane blu, più residenti hanno titoli di studio universitari: le 10 grandi metropolitane con il livello di istruzione più elevato hanno votato ciascuna per Hillary Clinton con un margine di almeno 10 punti. I redditi familiari medi sono più alti nelle aree metropolitane blu anche se il costo della vita è più alto in quelle aree. Le aree metropolitane “democratiche” avrebbero avuto infatti un mix di posti di lavoro più favorevole per il futuro, con meno posti di lavoro nel settore manifatturiero, una quota maggiore di lavori “non di routine” più difficili da automatizzare e una quota maggiore di posti di lavoro in settori che si prevedeva sarebbero cresciuti più rapidamente.
Queste misure – istruzione, reddito familiare, costo della vita, lavori straordinari e crescita dell’occupazione prevista – sono fortemente correlate tra loro e con il voto democratico.
Inoltre le medesime aree metropolitane avrebbero avuto una minore volatilità della crescita dell’occupazione. In parte perché i settori legati ai beni come la produzione e l’estrazione mineraria sarebbero più volatili e raggruppati in aree di tendenza repubblicana. Ma, mentre i redditi familiari comparati al costo della vita sarebbero più alti nelle aree metropolitane più blu, i salari confrontati con il costo della vita per una data occupazione sarebbero stati più alti nelle aree metropolitane più rosse7.

Fermiamoci per ora qui, anche se è evidente che qualcosa nella narrazione democratica è andato storto. Sembra pertanto che la differenza di colori sulla mappa delle presidenziali, al di là del radicato repubblicanesimo di diversi stati del Midwest e del West, segua sostanzialmente una linea di faglia tra Nuova e Vecchia economia.
La prima coinvolge la finanza globalizzata e globalizzante, l’high tech, l’information technology, la digitalizzazione di ogni ambito lavorativo e della distribuzione dei servizi e delle merci, dello smart working e dell’atomizzazione di ogni ambito lavorativo con conseguente perdita di qualsiasi dimensione comunitaria o identitaria di classe. Oltre che quella delle produzioni cinematografiche, ma sempre più rivolte alle produzioni seriali destinate ai canali digitali oppure ai videogiochi. Un’economia virtuale in cui anche la maggior parte dei lavori diventa virtuale e precaria. All’interno della quale, però, lo sviluppo della ricerca più di profitti finanziari che scientifica di Big Pharma8 e delle tecnologie rivolte alla diffusione del Green Capitalism svolgeranno una funzione sempre più importante.

L’altra è quella delle industrie manifatturiere, dell’estrattivismo, delle costruzioni tradizionali e dell’agricoltura (anche se una parte significativa del settore dei piccoli farmer degli Stati del West è destinata ad entrare sempre più in conflitto con quello estrattivo a causa dei danni causati dalla pratica del fracking). Settori tradizionali in cui il posto di lavoro è (o era) maggiormente garantito e il reddito medio anche. Un’economia dagli alti costi e scarsi profitti per il capitale finanziario, perché ormai scarsamente competitiva con quella di altre nazioni, più giovani ed aggressive, ma dai salari molto più bassi, che operano negli stessi settori.

Se gli Stati Uniti, secondo questa ipotesi, vogliono mantenere o almeno sfidare la Cina per mantenere il predominio mondiale, non soltanto militare, dovranno sicuramente spostare il loro centro economico sempre più verso la new economy. Trump è stato fautore di dazi, muri e ritiri militari (che nei prossimi giorni saranno portati a termine in Afghanista e in Iraq) per salvare il prodotto nazionale e abbattere i costi e scaricare sugli alleati/competitors i costi di tali operazioni di salvataggio di un’economia in crisi. Ma se questo piace ai suoi sostenitori, non basta alla fame di nuovi profitti del capitale, inteso come macchina implacabile, anche nei confronti dei suoi servitori di più alto grado. Così come agli industriali del Nord del 1860 non bastavano gli 87 milioni di dollari di esportazioni dei loro prodotti contro i 229 milioni delle esportazioni del Sud e della sua economia schiavista.

Ecco allora che sembrano diventare più chiare le linee di faglia e dei colori: e sono tutt’altro che ideali o prodotte dall’ignoranza. Una gran parte dell’elettorato americano, anche in quegli Stati dove i centri urbani hanno contribuito alla vittoria di Biden mentre le aree periferiche hanno continuato a rimanere rosse, non ha nessuna intenzione di entrare nel ciclo del lavoro precarizzato e sottopagato.
Mi vengono in mente, in proposito, le parole spese da Chicco Galmozzi per spiegare le motivazioni degli operai che scelsero l’organizzazione armata negli anni ’70.

La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua9 avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. […] Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia. ( da Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, p.136)

Per alcuni lettori questo paragone potrà sembrare scandaloso, eppure, eppure…
La resistenza del mondo del lavoro “tradizionale” all’avanzare delle nuove tecnologie, delle nuove tecniche produttive e delle ristrutturazioni socio-economiche che ne conseguono è una costante della storia fin dall’avvento del capitalismo. Dal tumulto dei Ciompi all’azione disperata di Captain Swing e dei Luddisti contro la meccanizzazione dell’agricoltura, fino al gran numero di piccoli proprietari terrieri del Sud accorsi a difendere gli interessi dei proprietari delle grandi piantagioni di tabacco e cotone, versando il proprio sangue. Oppure quella delle maggiori tribù di nativi americani che nel Territorio indiano si schierarono con la causa confederata. Battaglie quasi tutte perse già in partenza.

Per questo dovremmo forse, da buoni progressisti, felicitarci con il nuovo che avanza ed appoggiarlo?
Quel che è certo è che se non avevamo nulla a che spartire con la vecchia fabbrica-mondo, altrettanto non lo possiamo avere con la trasformazione antropologica, oltre che economica e sociale in atto. Piuttosto, dovremo sempre più essere capaci di osservare, comprendere, denunciare e, dove si potrà, organizzare le contraddizioni che tale potente trasformazione ha già da tempo iniziato a sviluppare. E’ un terreno scivoloso in cui il melting pot tra classi, mezze classi e diverse identità razziali, tutte in via di crescente proletarizzazione, è ancora tutto da realizzare, soprattutto sul piano della visione politica oltre che economica e sociale.

Un territorio in cui, a livello propagandistico e di immaginario soprattutto, gioca molto la questione dei diritti.
La vecchia economia americana privilegia sicuramente i bianchi, anche se rimane ancora il problema di chiedersi perché un gran numero di latinos e il 25% dell’elettorato afro-americano abbiano potuto votare per Trump (ma la risposta è implicita nella domanda stessa).
D’altra parte il trionfo della borghesia e del capitalismo industriale si affermò grazie alla promessa dei diritti per tutti: Libertè, Egalitè, Fraternitè ovvero libertà per la maggioranza di farsi sfruttare una volta sciolti i vincoli della comunità, eguaglianza tra i poveri di accettare le leggi del comando capitalistico e di farsi concorrenza tra di loro e fratellanza degli oppressi nella miseria oppure dei padroni nel processo di accumulazione.
Benvenuti ancora una volta nel mondo libero!

Liberi oggi i lavoratori di cercare un lavoro on line come fattorini e spedizionieri, di accontentarsi della comunicazione digitale sui social e di consumare ciò che le grandi catene di distribuzione, come Amazon (il cui valore azionario è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno così come quello dei canali televisivi come Netflix), ci procurano da ogni parte del mondo globalizzato.
Paradossalmente un nuovo mondo in cui il modello cinese ha già vinto e che l’Occidente, Stati Uniti in testa, è costretto a rincorrere10.

[…] perché a Dongguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le loro braccia sono le più ambite nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Dongguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo libero reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. Ma le ragazze di Dongguan […] sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre di meglio, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, anche solo per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Dongguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica)11.

Come afferma ancora Giovanni Iozzoli, in un suo saggio di prossima pubblicazione:

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.
L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga12

Eccola lì la trappola della modernità, dei diritti e della new economy che avanza: tutti uguali davanti al capitale, tutti ugualmente sfruttati e sottopagati e tutti (per ora) divisi davanti alla sua presenza sempre più invisibile e alla sua forza sempre più organizzata, ma con la promessa per tutti, parafrasando Andy Warhol, di aver la possibilità di realizzarsi in una carriera di quindici minuti.
Le linee di faglia e di colore americane sono dunque anche le nostre e lo sforzo comune per superare l’orrore quotidiano di un’esistenza che non è più altro che nuda vita, pur sapendo già fin da ora che il nostro posto è altrove, non potrà essere altro che quello di riunire ciò che oggi è ancora diviso e confuso. Ed enormemente incazzato


  1. Secondo una stima la guerra causò la morte del 10% di tutti i maschi degli Stati del nord tra i venti e i quarantacinque anni e il 30% di tutti i maschi del sud tra i diciotto e i quarant’anni, su una popolazione complessiva di circa trenta milioni di abitanti; mentre i due eserciti contarono 2.100.000 soldati per gli stati dell’Unione e 1.064.000 per quelli della Confederazione. Da questo punto di vista, infine, occorre ricordare che nel 1860, un anno prima dell’inizio del conflitto gli Stati del Nord contavano 22.100.000 abitanti contro i 9.100.000 degli stati del Sud  

  2. Die Neue Zeit (Il nuovo tempo) fu una rivista politica tedesca di orientamento socialista e marxista pubblicata in Germania dal 1883 al 1923, fondata e diretta da Karl Kautsky, che accolse nel tempo i contributi di Rosa Luxemburg, Trockij e Wilhelm Liebknecht, solo per citare alcuni dei collaboratori  

  3. Occorre qui ricordare i New York riot del 1863, magnificamente ricostruiti nel film Gang of New York di Martin Scorsese nel 2002, durante i quali la parte proletaria e sottoproletaria della grande città si ribellò all’arruolamento forzato cui, invece, i figli delle classi agiate potevano sfuggire pagando una tassa di circa 300 dollari. Cosa evidentemente impossibile per gli strati più poveri della popolazione  

  4. F. A. Sorge, La guerra di secessione ora in F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1793-1882. Corrispondenze dal Nord America, PantaRei, Milano 2002, pp. 99-100  

  5. Che fu per lungo tempo, insieme al Missouri, teatro di una crudele guerriglia tra schiavisti e anti-schiavisti. Famoso il massacro della città di Lawrence, avvenuto il 21 agosto 1863 ad opera delle bande filo-schiaviste di William Clarke Quantrill. Si veda in proposito: T.J.Stiles, Jesse James. Storia del bandito ribelle, il Saggiatore, Milano 2006  

  6. Jed Kolko, Why Blue Places Have Been Hit Harder Economically Than Red Ones, The New York Times, 30/10/2020  

  7. J. Kolko, Red and Blue Economies Are Heading In Sharply Different Directions, The New York Times, 13 /11 /2019  

  8. Come ben dimostra ormai la paradossale ricerca/affermazione del mezzo punto di efficacia in più tra Pfizer e Moderna per i propri vaccini, a cui stiamo assistendo con le vertiginose salite e altrettanto rapide cadute dei rispettivi titoli azionari  

  9. Per la storia di Senza tregua. Giornale degli operai comunisti si veda qui  

  10. Ipotesi tutt’altro che peregrina se si considera che la guerra vera con la Cina, per ora, riguarda la tecnologia 5G di Huawei oppure le piattaforme social come TikTok  

  11. Dalla presentazione dell’editore a Leslie T. Chang, Operaie, Adelphi, Milano 2010  

  12. Tratto da G. Iozzoli, Islam, modernità e guerra alla guerra, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale, Il Galeone, Roma  

]]>
Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

]]>
Chiamate telefoniche – 3 https://www.carmillaonline.com/2020/04/11/chiamate-telefoniche-3/ Sat, 11 Apr 2020 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59355 di Piero Cipriano

[Chiamate telefoniche precedenti] Questo scritto ha per oggetto… ok l’incipit s’è capito, il riferimento a Bolaño pure, ieri mi rileggevo le sue Chiamate telefoniche, che avrebbe scritto, il cileno, della pandemia? La pandemia aveva ormai raggiunto il picco, o almeno il primo dei picchi, che nessuno lo sapeva quanti picchi ci sarebbero stati, si iniziava a respirare, ma non fuori casa, sempre dentro casa, perché la libera uscita era posticipata a maggio, forse a giugno, o a settembre. Ritorno graduale alla normalità. Prima apriamo le fabbriche, dopo, molto dopo, apriamo i parchi. Prima la catena [...]]]> di Piero Cipriano

[Chiamate telefoniche precedenti] Questo scritto ha per oggetto… ok l’incipit s’è capito, il riferimento a Bolaño pure, ieri mi rileggevo le sue Chiamate telefoniche, che avrebbe scritto, il cileno, della pandemia? La pandemia aveva ormai raggiunto il picco, o almeno il primo dei picchi, che nessuno lo sapeva quanti picchi ci sarebbero stati, si iniziava a respirare, ma non fuori casa, sempre dentro casa, perché la libera uscita era posticipata a maggio, forse a giugno, o a settembre. Ritorno graduale alla normalità. Prima apriamo le fabbriche, dopo, molto dopo, apriamo i parchi. Prima la catena di montaggio, poi la passeggiatina.

Il fenomeno delle chiamate iniziò a preoccuparmi quando pure nei sogni il telefono squillava senza tregua, però nei sogni lo squillo non era una suoneria di smart phone o di cercapersone ospedaliero, era il trillo di un telefono a gettoni. Si assottigliava il mio meritato riposo. Ma perché devo rispondere a tutti io? Ma perché non chiamate Andreoli o al limite Recalcati? D’accordo è un filosofo non uno psichiatra non vi saprà dare (come me) quei bei farmaci contro la claustrofobia, ma vi parlerà del ritorno a casa, di come si sta bene a Itaca. Vuoi mettere? Sarà perché facevo la notte nel dedalo, e mi sono addormentato tardi. Una donna venuta in pronto soccorso ho dovuto convincerla a tornare a casa ma lei non voleva tornare a casa, dice almeno così ho la scusa per uscire. Non avevo sonno erano le tre e ho non dico riletto perché l’avevo già letto due volte e un po’ volevo dormire, ma ho sbirciato qua e là il libretto di Céline, che poi era la sua tesi di laurea in medicina, perché uno se lo dimentica che Céline, il vituperato Céline, prima di essere l’autore della Trilogia del Nord o di Bagatelle per un massacro (che, detto tra noi, non ho mai letto) era stato il dottor Destoushes, cioè un medico coi contro coglioni. Cosa avrebbe scritto, Céline, della pandemia? Cosa avrebbe detto di questo virus o di questi virologi? Insomma, Céline scrive la storia di Ignazio Filippo Semmelweis, medico che nasce a Budapest con un grave difetto, così mi dice per telefono, nel sogno, e sì, Semmelweiss mi parla lui proprio direttamente nel sogno ma ha la voce majakowskijana di Pierpaolo Capovilla, per cui subito me lo sento molto amico, mi dice ascolta, Piero, dice Piero con quel tono con cui inizia le telefonate Pierpaolo Capovilla, dice sai, sono sempre stato brutale in tutto ma soprattutto con me stesso, non so se pure per te sia stato così, ma io mi diressi verso la medicina con assoluta naturalezza, finché, arrivò un giorno, che seguii un’autopsia in un sotterraneo, là, in quei luoghi dove la scienza interroga i cadaveri con un coltello. Come è come non è, divento allievo del grande medico dell’epoca, Skoda, un dottore di fama clamorosa! Ma un altro medico, meno famoso, fu cruciale per arricchire il mio pensiero: si chiamava Rokitansky, era l’anatomopatologo dell’università di Vienna. Due padiglioni per il parto, nel 1846, s’innalzavano nell’ospizio generale di Vienna. Uno era diretto dal professor Klin, l’altro dal professor Bartch. Presto mi fu chiaro che se i rischi di febbre puerperale erano considerevoli nel padiglione di Bartch, in quello di Klin il rischio di morte equivaleva a certezza.

Il fatto è che da Klin partorivano, perlopiù, ragazze madri, senza soldi. E più del novanta per cento morivano.
Insomma: si moriva più da Klin che da Bartch. Mi segui? Ok, vado avanti.
Altro dato: da Klin l’esplorazione (le mani nel fondo della vagina, per capirci) la facevano gli studenti, da Bartch le levatrici.
Un giorno decisi di provare a invertire gli esploratori. Le levatrici, che facevano il tirocinio da Bartch, passarono da Klin, gli studenti li spostai da Klin a Bartch.
La morte li seguì.
Capisci che significava? Erano gli studenti! Ma Klin sosteneva che erano sì gli studenti, ma erano quelli stranieri che portavano la morte, e ne fece espellere una ventina, ne rimasero la metà. Eppure, la mortalità non cambiò.
Ma sai cosa notai, che ancora di più mi fece fare due più due? Che se una gravida, colta di sorpresa, partoriva per strada, e arriva da Klin solo dopo il parto, veniva risparmiata, non moriva di febbre puerperale.
A quel punto decisi di far semplicemente lavare le mani agli studenti (ancora non lo sapevo il perché, era solo un’intuizione, non avevo microscopi per vedere quegli esseri microscopici) prima di visitare le donne incinte. Feci disporre dei lavabi. Klin si oppose. Non solo: mi fece revocare l’incarico di assistente.
Un giorno Kolletchka, il professore di anatomia, in seguito a una puntura che si era procurato mentre dissezionava un cadavere, si ammalò e morì. Era chiaro, c’era una relazione tra la malattia che aveva ucciso Kolletchka, con l’infezione puerperale di cui morivano le ricoverate.
Un giorno ebbi l’intuizione, ma quando ormai nessuno più, forse nemmeno io, pensava all’impurità cadaverica: era “l’oblio dell’impurità cadaverica” l’origine delle epidemie di sepsi puerperale nelle cliniche. Quale selvaggio, mi domandavo, quale ostetrico selvaggio avrebbe mai osato toccare una puerpera con le mani fresche del contatto con un morto? Solo l’ostetricia europea del secolo più illuminato e raffinato era stata capace di elevarsi a tanto.
Siccome Kolletchka era morto per una puntura cadaverica, era chiaro come il sole: gli essudati prelevati sui cadaveri erano i responsabili del contagio. Le dita degli studenti trasportavano le particelle cadaveriche nel collo dell’utero delle donne incinte.
Feci un’ultima prova. Gli studenti di Klin passarono da Bartch, al posto delle levatrici. L’aumento della mortalità, li seguì.
A quel punto introdussi una soluzione di cloruro di calce con cui ogni studente, dopo aver sezionato i cadaveri, prima di visitare le donne incinte, si doveva detergere. La mortalità, si annullò.
Caro Piero, ora ti domando, e lo so che la mia storia tu già la conosci, è già sedimentata nei tuoi ricordi, ma te lo ripeto: la ragione più elementare non vorrebbe che l’umanità, guidata da dotti chiaroveggenti, si fosse per sempre sbarazzata di tutte le infezioni che la tormentano, o perlomeno della febbre puerperale, sin da quel mese di giugno del 1848?
Invece no! All’umanità ottusa occorreranno quarant’anni, e Pasteur, perché la mia scoperta fosse accettata.
Tutte le Cliniche delle migliori università europee disprezzarono la mia scoperta, dichiararono che i miei risultati non erano conformi coi loro. I medici si dichiararono stufi e umiliati dei malsani lavaggi a base di cloruro di calce.
Per la seconda volta, mi fu revocato l’incarico presso l’ospedale di Vienna.
Tornai in Ungheria, mentre era in corso la rivoluzione, vi presi parte. Mi dimenticai, quasi, della medicina. Mi dimenticai, in certi momenti, di essere stato un medico. Gli incidenti fecero il resto. Sette anni, restai chiuso in una stanza, isolato.
Poi, pian piano, ricominciai. Impiegai quattro anni, per scrivere dettagliatamente L’eziologia della febbre puerperale. Inviai questa tesi all’Accademia di medicina di Parigi. La inviai alla Scienza quella con la S maiuscola. Nemmeno mi risposero. Scrissi una Lettera aperta a tutti i professori di ostetricia, in cui li chiamavo assassini. “Non sono le sale da parto che bisogna chiudere per far cessare i disastri, ma sono gli ostetrici che conviene far uscire, perché sono loro a comportarsi come vere e proprie epidemie”.
Ma nemmeno nel mio stesso ospedale, ormai, si osservano le mie prescrizioni, anzi, alcune puerpere venivano deliberatamente infettate per la soddisfazione di darmi torto.
Un giorno di aprile del 1865 entrai, urlando, nella facoltà di medicina, mi impossessai di un cadavere che attendeva d’essere dissezionato, lo ridussi in brandelli, mi tagliai, e, com’era capitato a Kolletchka, m’infettai a morte. Fu un suicidio il mio? Fu il gesto estremo di protesta di un martire?
Mi portarono in manicomio, il 16 agosto del 1865, a soli quarantasette anni, dopo un’agonia di tre settimane, lasciai la vita agli altri.
Solo cinquant’anni dopo Pasteur ridiede luce alla verità, alla mia buona fede di medico, e al mio cuore di uomo.
Rimase in silenzio. Un rantolo. Poi riprese. Ma tu continui a chiederti perché ti ho raggiunto nel tuo sogno?
Per dirti che la storia si ripete sempre due volte, la prima è tragedia, la seconda è un film dell’orrore. Furono loro, fu il Patto trasversale per la scienza che mi mandò al manicomio e a morte. Ora ritornano, ma adesso, all’ottocentesco Patto per la scienza, mi piace credere, non gli crederà più nessuno.

*

Mi sveglia una telefonata sul telefonino. Guardo l’orologio sono le sette. Chi diavolo è che mi sveglia alle sette del mattino mentre faccio la notte in ospedale, d’accordo non lo può sapere che sto lavorando, o meglio che sto dormendo sul posto di lavoro, o meglio che sognavo e forse mi stava per dire il meglio, ma le sette sono sempre le sette.
Dottore chiamo da Senigallia, ho appena letto sul giornale di Senigallia che il professor Guido Silvestri, senigalliese e docente alla Emory University di Atlanta e tra i fondatori del Patto per la Scienza, ha fatto il punto sullo stato di conoscenza del tremendo virus.
Scrive un post, breve perché è un venerdì notte e lui è stanco di lavoro. Era in trincea? Era in corsia? E’ uno di quelli che lavora? No, perché a quanto pare questi si dividono in due: i vati che pontificano e quelli che vanno in trincea e muoiono.
Ma le dicevo di Guido Silvestri, a proposito, ma lo sa che costui ha lo stesso cognome di un’attrice porno del libro di Bolaño, proprio Chiamate telefoniche che ispira la sua rubrica? Non le pare una inesorabile coincidenza? Quella si chiama Joanna Silvestri, però, ha trentasette anni ed è prostrata nella clinica Les Trapèzes. Perché è prostrata? Forse perché ha conosciuto cose abominevoli nella sua vita e chissà che non le abbia conosciute ancor più abominevoli il suo quasi omonimo Guido Silvestri, chissà che tutti i virologi ma perfino tutti i medici (incluso lei) non siano venuti a conoscenza di cose abominevoli di cui non ci diranno mai. Ma torno alla dichiarazione del professor Silvestri.
Dice questo virus, non ha NESSUNA SPERANZA, lo scrive proprio così come glielo grido io, a caratteri cubitali, nessuna speranza contro la nostra scienza. Contro il Patto per la scienza, sottintende.
Perché non ha speranza? Ma perché lui non è niente, tra i virus, che lo sappia, non è un campione, non è niente confronto all’Hiv, egli sì, è stato un nemico enormemente più insidioso che in trent’anni ha fatto 35 dico 35 milioni di morti, altro che qualche migliaio che nemmeno l’influenza, e mò che faranno bene i conti lo sgameranno. Questo virus è incapace di nascondersi, non sa integrarsi nel genoma dell’ospite cioè di noialtri gli umani, è pure scarsetto a mutare, quindi rimane molto più vulnerabile alla risposta immune dell’ospite e al nostro vaccino, quando, IL VACCINO, impietoso e inesorabile arriverà (perché arriverà) (e lo farete tutti, haha, ora il TSO è #stare-a-casa, dopo il TSO sarà #fate-il-vaccino). Per cui, prosegue il Silvestri, se è purtroppo inevitabile che questo virus da quattro soldi farà ancora molti morti nei prossimi mesi, è ancora più chiaro che presto sarà SCONFITTO dalla nostra capacità di studiarlo e neutralizzarlo. Sono le sue reali parole, dottore, per farle capire il tono bellico del virologo numero due del Patto per la scienza.
Lo ripete come un disco rotto: la presenza della SCIENZA è la vera, grande differenza tra oggi ed il 1348 della morte nera, o il 1630 della peste manzoniana, o il 1918 della influenza spagnola. La presenza della SCIENZA è il motivo fondamentale per cui questo è un virus senza speranza.
Capito dottor Cipriano? Se lo ricordi. La SCIENZA. Non la scienza. Lei e tutti i dubbiosi gli scettici i dialettici i relativisti siete la scienza, loro e quelli del Patto per la scienza sono LA SCIENZA!
Tengo spento il telefono per il resto del giorno. Dico all’assistente sociale di non passarmi più chiamate. Mi sa che chiudo con questa rubrica. Ricovero un altro che pensava di avere, anzi, di essere il virus. Torno a casa. Ci dormo sopra.

*

Sveglio. Sono di nuovo in tangenziale est deserta che vado su e giù casa ospedale. Mi ferma una pattuglia. Dove va? A salvare le persone dal terrorismo psichico dell’attuale stato di polizia. Ah, buon lavoro, mi fa. Grazie. Sia più clemente, gli dico, con le persone. Poco prima di arrivare al nosocomio, che un tempo era un sanatorio per tubercolotici sopra Monte Mario dove c’è l’aria buona e a un tiro di schioppo aveva il gigantesco Santa Maria della Pietà che pure a loro, agli internati, l’aria buona faceva bene, alle infezioni psichiche e alle infezioni dei polmoni ha sempre giovato l’aria buona, poco prima di entrare nel parcheggio semideserto mi viene in mente Paul Feyerabend. L’allievo dissenziente di Popper, l’amico scapestrato di Kuhn e Lakatos. Lo scienziato, nel suo lavoro reale, è un opportunista, così amava ripetere, usa quello che gli serve e se ne libera quando non gli serve più. La ricerca scientifica non deve aspirare a creare teorie vere, ma teorie efficaci. Lo slogan del suo anarchismo metodologico è anything goes, qualsiasi cosa va bene, tutto fa brodo. Ma se qualsiasi cosa può andar bene, allora lo scienziato è autorizzato a utilizzare tutto ciò che gli conviene: idee scientifiche del passato abbandonate, scartate dalla scienza ufficiale, miti, dogmi della teologia, elementi metafisici. Perché, anche all’interno della scienza la ragione non può, non dovrebbe, dominare tutto. Il peso della scienza, nella nostra società, dovrebbe essere ridimensionato, se per secoli si è combattuto per separare stato e chiesa, oggi bisogna separare stato e scienza. Alcune tribù primitive hanno classificazioni di piante e animali più particolareggiate di quelle della botanica e della zoologia scientifiche, e adottano sistemi di medicina non scientifica che risultano più efficaci di quelli scientifici, chi lo dice? Lo dice Feyerabend. E a chi ti fa venire in mente, oggi? A Burioni forse? O a uno sciamano amazzonico? Ecco, vorrei proprio sapere uno sciamano amazzonico che ne pensa del virus. Ma chi c’è, nel mondo della scienza, oggi, che più somiglia a uno sciamano? Chi è l’incarnazione dello scienziato epistemologicamente anarchico di cui vagheggia Feyerabend, il cui pensiero divergente ci può salvare, sia dal virus che dalla scienza di Burioni?

Timbro, mi faccio misurare la febbre come da nuovo protocollo (se è più di 37.5 non si lavora, è solo 36.2). Mi convinco a chiamare il professor Didier Raoult. Trovo il numero dell’istituto Mediterraneo marsigliese e me lo faccio passare. Chi lo vuole mi scusi? Ovviamente comunichiamo in francese e siccome ho fatto ben tre anni di francese alle medie e ero fortissimo, soprattutto nell’uso di beaucoup, riesco a farmi capire alla grande, sono Piero Cipriano, sono uno psichiatra italiano e sono uno dei pochi psichiatri epistemologicamente anarchici, ha presente Feyerabend? Ecco, ora come ora non ho la possibilità (che ha Raoult adesso) di incidere sull’epidemia, ma vedrà, che pure in questo scorcio di pandemia, il mio anarchismo alla lunga tornerà buono, insomma, vengo al dunque, siccome mi ha chiamato Semmelweis in sogno per dirmi come stanno le cose, mi ha messo il tarlo, e così ho iniziato a chiedermi chi è, oggi, il nuovo Semmelweis, e mi sono ricordato di Didier Raoult, che ormai tutti conoscono come il guru della clorochina, o meglio dell’idrossiclorochina che è più potente, ma lo chiamano guru per denigrarlo, che non lo so forse? Un microbiologo e infettivologo con le palle altro che, uno che ha le palle, sì, le palle di sbilanciarsi, ben sapendo che puntare tutto sulla idroclorochina potrebbe sputtanarlo per sempre e altro che Nobel, ammesso che uno come lui se ne freghi qualcosa del Nobel, il Nobel mi pare fatto per uomini grigi, lui di grigio c’ha solo la capigliatura, insomma con tutto quanto Big Pharma ha in canna per uccidere il virus del secolo lui che fa?, punta su un medicinale tra i più noti al mondo, in giro da settant’anni almeno, un farmaco straconosciuto per curare la malaria, malaria di cui, diciamolo, non se n’è mai fottuto nessuno visto che è una malattia da morti di fame, embè lui che dice? Dice che il farmaco antimalarico che non costa niente (infatti nemmeno si trova in giro e Trump pare già che voglia ordinare tutto quello che è disponibile al mondo, e ha fatto infuriare i suoi consiglieri scientifici amici di Big Pharma) lui è stato il primo a dire che è capace di stecchire il coronavirus, il fantomatico virus che ci tiene in casa e che fa la gioia degli autocrati alla Orban o alla De Luca che non gli pare vero di fare gli sceriffi adesso, visto che tutti hanno la fifa blu di morire. Insomma, signora, capisce che dopo il sogno di Semmelweis io non ho potuto fare altro che pensare al genio di Raoult, chi altri somiglia a Semmelweis di questi tempi? me ne dica uno, avanti, ci pensi. Non le viene in mente? Se Semmelweis disse lavatevi le mani, Raoult dice prendetevi questo farmaco che esiste già, non impazzitevi a fare vaccini (che cazzata!, dice Raoult) o a fare il super-farmaco, e però ecco che come a Semmelweis, gli scienziati ottocenteschi alla Burioni in un primo momento (salvo poco dopo ricredersi, ma pure con Semmelweis all’inizio si ricredettero, salvo poi affossarlo) gli dicono che è come minimo un ciarlatano, perché i suoi metodi sono poco rigorosi e non scientifici. A parte il fatto che dovremmo metterci d’accordo su cosa vogliamo intendere per scienza, e pure chiarire che la medicina seppure si giova della scienza è un’arte. E come tutti gli artisti i medici veri, non i parolai la cui più grande impresa curricolare è essere ospite fisso da Fabio Fazio, i medici veri sono intuitivi, sono più artisti che scienziati, anzi, diciamola tutta, i medici veri sono sciamani, perché sono in contatto con il mondo dei morti, prova ne sia l’anello con la testa di morto che Raoult ha incastonato nel dito mignolo, e sono i morti a suggerire ai medici veri come fare, per salvare, ancora per qualche decennio, la vita degli umani. Tutto qui è il trucco: il vero medico è uno sciamano che è andato a parlare con la morte. E Burioni e Silvestri e simili nell’Ottocento sarebbero stati dalla parte del Patto della scienza, dalla parte di tutti gli eminenti medici convinti che le mani di un gentiluomo non hanno bisogno di essere lavate, perché sono sempre pulite.

Raoult, lo si capisce dall’inizio della sua storia, non era nato per fare il conformista. Quanti anni ha adesso? 68? Pensavo di meno. Nasce a Dakar, giusto? In Senegal, dove suo padre era medico militare e sua madre infermiera. Cresce a Marsiglia, o sbaglio? Dove, pensi un po’ che scavezzacollo, oggi direbbero iperattivo, o borderline, lascia gli studi, ma poi ci ripensa, e va a fare la maturità classica da privatista, pensi signora che insofferenza alle regole, pensi quanto se ne può fottere uno come Raoult del Patto per la scienza, ci scatarra sopra al Patto per la scienza, direbbe Manuel Agnelli. Insomma, prende rocambolescamente il diploma e si iscrive a medicina. E come medico se la cava bene, le sue scoperte le fa, mica no, aspettiamo ancora che Burioni in Italia scopra qualche cosa, Raoult scopre cose significative, mi scusi signora ma ora non mi ricordo cosa, ah sì, individua il genoma del batterio che causa la malattia di Whipple, conosce le rickettsie come nessun altro, queste me le ricordo, ricordo che mi fece la domanda a microbiologia sulle rickettsie, e presi 28 pensi un po’, e volevo fare il virologo, pensi che folle, poi scelsi psichiatria, se no adesso mi ritrovavo a essere uno dei dieci venti trenta virologi italiani che non ci capiscono una ceppa sul virus con la corona, e ci confondono le idee, e ci chiudono dentro. Appena inizia l’epidemia, a Marsiglia, all’Istituto ospedaliero universitario Mediterraneo, Raoult testa con successo soli ventiquattro pazienti affetti da Covid-19. Dico bene? A fine febbraio su YouTube pubblica un video, dove appare con quella faccia da druido e dice “Coronavirus: game over!”, proprio così dice, assicurando al mondo che la cura c’è e non vale la pena di fare ‘sta cagnara, non c’è bisogno di tenere la gente in casa fino a ottobre che esce il vaccino, la cura c’è e si chiama idro-clorochina. Giustamente tutti erano già belli pronti per andare in guerra, ora se ne arriva fresco questo e ti dice che la guerra è rinviata a un altro virus, i vari manovratori si stizziscono, il ministro della salute francese subito, come un automa (mettiamo Speranza, o una Lorenzin, o quella di prima, la grillina medica che non aveva mai esercitato miracolata e messa a dirigere la sanità italiana, come si chiamava quella? cavolo, non me la ricordo proprio, non ha lasciato traccia, la Lorenzin almeno qualche sciocchezza la diceva, quella niente, il vuoto pneumatico) ha detto che la terapia di Raoult puzzava di fake news, ma cazzo, ministro, ma pensa prima di parlare, fai due più due, non è che uno debba per forza aprir bocca tanto per darle fiato. Ma non è stato solo lo Speranza di Francia a bollare il farmaco antimalarico del druido, no, hanno tuonato quasi tutti i medici di Francia, “La medicina non si fa con un solo test su 24 pazienti”, ha detto uno. Dopo, però, il ministro della Salute, Olivier Véran, s’è ricreduto. E ha accettato l’appello del druido riguardo l’efficacia del suo cocktail farmacologico, che nel frattempo si è evoluto, perché ora abbina l’idroclorochina a un antibiotico che io, signora, più volte ho preso, quando ho avuto la bronchite e pure una volta cinque anni fa che presi la polmonite: l’azitromicina, commercialmente meglio conosciuto come Zitromax, è una bomba, le assicuro. E così, quel paraculo di Raoult, ha pure ringraziato il ministro Olivier Véran per avergli creduto, dopo l’iniziale titubanza. Insomma, signora, non è che possa tenermi qui al telefono a sentirmi raccontare tutta la storia di Raoult, me lo passa un attimo, il druido con l’anello testa di morto al dito mignolo? Me lo passa o non me lo passa?

[Chiamate telefoniche – qua le chiamate precedenti]

]]>