Benjamin Netanyahu – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La guerra che viene/1: Le porte dell’Inferno si sono dischiuse a Bagdad https://www.carmillaonline.com/2020/01/04/la-guerra-che-viene-1-le-porte-dellinferno-si-sono-dischiuse-a-bagdad/ Sat, 04 Jan 2020 22:52:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57252 di Sandro Moiso

Il brutale omicidio del generale dei corpi speciali iraniani per le operazioni all’estero (Divisione Quds) Qassem Soleimani, avvenuto a Bagdad ad opera di un drone o, forse, di elicotteri americani alzatisi in volo in quei minuti, è già stato paragonato, da un importante membro per l’Iran del think tank International crisis group, Ali Vaez, all’omicidio di Francesco Ferdinando avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 che, nella sostanza, avrebbe scatenato il primo macello interimperialista .

In effetti la situazione scaturita dall’azione americana può essere ben definita come “momento Francesco [...]]]> di Sandro Moiso

Il brutale omicidio del generale dei corpi speciali iraniani per le operazioni all’estero (Divisione Quds) Qassem Soleimani, avvenuto a Bagdad ad opera di un drone o, forse, di elicotteri americani alzatisi in volo in quei minuti, è già stato paragonato, da un importante membro per l’Iran del think tank International crisis group, Ali Vaez, all’omicidio di Francesco Ferdinando avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 che, nella sostanza, avrebbe scatenato il primo macello interimperialista .

In effetti la situazione scaturita dall’azione americana può essere ben definita come “momento Francesco Ferdinando” proprio perché sia a livello internazionale che nello specifico dell’area mediorientale i fattori destinati a dar luogo ad un nuovo e devastante conflitto globale sono andati accumulandosi in maniera esponenziale nel corso degli ultimi anni. Tanto che sarebbe qui impossibile elencarli tutti in una rapida sintesi.1

L’azione di stampo terroristico, voluta, a quanto pare, direttamente dal presidente americano e capo delle forze armate statunitensi, si inserisce in un quadro che però è ben distante da quello troppo superficialmente disegnato da coloro che nell’unico deus ex-machina imperialista e americano vedono accumularsi tutta la volontà, le responsabilità e la pianificazione dell’attentato e delle sue conseguenze.

Se la scelta scellerata di Donald Trump si inserisce in un clima da campagna elettorale interno piuttosto movimentato dalla richiesta di impeachment formulata dal Congresso nelle scorse settimane, è altrettanto vero che lo “scandalo” urlato e recitato dai membri del Partito Democratico, Nancy Pelosi in testa, è piuttosto ridicolo considerata l’attitudine guerrafondaia dimostrata dagli ultimi quando erano al governo (stesse modalità di eliminazione fisica dei nemici attraverso l’uso dei corpi speciali, come quella di Osama Bin Laden) o si apprestavano a tornarvi (si pensi al curriculum finanziario-bellicista di Hillary Clinton), anche senza tornare ai tempi di Kennedy della Baia dei Porci o di Johnson col Vietnam. E’ chiaro dunque che il primo scontro interno agli Stati Uniti passa tutto attraverso una propaganda elettorale che rischia di scatenare un’autentica tempesta a livello globale.

Il secondo elemento, tutt’altro che secondario, sul fronte statunitense riguarda sicuramente anche il previsto aumento del costo del petrolio che potrebbe scaturire già dall’attentato e in previsione delle sue conseguenze: il petrolio e il gas americani sono ancora cari, ma gli Stati Uniti da tempo dichiarano di avere raggiunto l’autosufficienza energetica. Tale costo si rifletterebbe pertanto principalmente sui competitors europei, obbligandoli a schierarsi per convenienza economica con i padroni di una fetta importante del cosiddetto oro nero: americani e arabo-sauditi.
Vantaggio economico e geopolitico con cui gli interessi nordamericani possono continuare a premere sulla già moribonda comunità europea.

La sicurezza degli interessi statunitensi passa infatti maggiormente attraverso questo tipo di azione ricattatoria più che attraverso l’azione militare che ne costituisce il corollario. Da sempre.
Anche se poter schierare mezzi e uomini e muovere flotte di mare e aeree con rapidità in ogni parte del mondo dovrebbe e potrebbe costituire ancora un valido strumento di pressione su qualsiasi tipo di avversario. Una propaganda nei fatti dell’American Way of Life che trova nell’omicidio e nel terrorismo scatenato a livello di massa il suo principale strumento di convinzione, ancor più che nella produzione di immaginario hollywoodiano.

Ma, come si diceva all’inizio, l’azione dei droni americani si inserisce in un contesto in cui tale propensione americana all’uso della forza non rappresenta solo la forza della Land of the Free, ma anche tutta la sua debolezza. Debolezza politica innanzitutto, ma anche economica (avendo perso da tempo il primato mondiale a vantaggio della Cina).
Debolezza politica che si è manifestata nel corso degli ultimi anni con i due golpe falliti in Turchia e in Venezuela2 ed economica che si manifesta nella perdita di quote importanti di mercato mondiale e il ricorso a sotterfugi finanziari e speculazioni che al loro esplodere faranno impallidire le crisi del 2008 e del 1929.3 Al di là delle muscolari prove di forza sui dazi (imposti, lo ricordo sempre, a cinesi ed europei). Mentre anche il dollaro sembra perdere sempre più il proprio appeal sui grandi investitori a livello mondiale (qui). Un declino che si manifesta anche nel gran numero di poveri e di homeless presenti negli Stati Uniti e che le promesse elettorali di Trump potranno al massimo portare a morire in guerra invece che di fame ai bordi delle sue strade. Una volta che le truppe arrivate dal cielo e dal mare dovranno posare gli stivali sul suolo nemico.

Declino di cui sembrano voler approfittare da tempo avversari e presunti amici dell’Impero a stelle e strisce, per ricavarsi un nuovo spazio di protagonismo politico, militare ed economico sullo scacchiere internazionale. Guarda caso un buon numero di questi (Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran) si trovano proprio a confliggere nell’area in questione, mentre nella stessa sembra veder risorgere le proprie aspirazioni geopolitiche e diplomatiche la Russia dell’abile e spregiudicatissimo Vladimir Putin.

Ci piaccia o meno, infatti, in quell’area sta avvenendo (come d’altra parte all’altro capo del mondo) una trasformazione epocale, che vede protagonisti paesi che una vulgata ritardataria e superata dalla Storia (anche a sinistra) vuole vedere come arretrati, complementari e completamente sottomessi al giogo occidentale. In realtà sono proprio i conflitti sociali sorti negli ultimi mesi in Libano, Iraq, Iran come in Cile e nel resto del Sud America a comunicarci che l’unione tra le forze proletarie e popolari e le classi al governo si è ormai completamente consumata e che nel pieno dispiegarsi della modernità nazionale il conflitto diventa irrinunciabile. Sia sul piano sociale interno che su quello militare internazionale.

Turchia, Iran e Arabia Saudita (soltanto per citare l’area che qui più ci interessa) sono nazioni che giocano già le loro carte in vista di un ruolo politico ed economico internazionale che non potrà più a lungo essere negato loro, se non dai propri popoli in rivolta.
Non comprendere ad esempio che, sicuramente, l’assalto all’ambasciata statunitense di Bagdad nei giorni scorsi, da parte delle milizie irachene filo-iraniane, ha rappresentato un diversivo ad uso interno per cercare di frenare le proteste, legate spesso proprio alla popolazione sciita, contro la corruzione del governo, il malaffare e la mancanza di lavoro per i giovani, e vedere tutto soltanto in un’ottica vetero anti-imperialista può far sì che si giunga travisare parecchio i fatti. Magari giungendo a tirar fuori il solito complottismo giudaico, ancor prima che sionista.

Certo che l’occasione di un conflitto piacerebbe anche ad Israele e soprattutto al sempre più debole premier Benjamin Netanyahu, proprio per uscire dai guai politici interni che hanno condannato lo Stato sionista a tornare più volte al voto nello stesso anno e ancora per quello a venire, probabilmente senza grandi possibilità di risoluzione della crisi interna. Mentre ogni nuova guerra nell’area può sempre fornire ad Israele la possibilità di allargare i suoi confini, ai danni di Gaza, della Cisgiordania, della Siria e, magari, questa volta anche del Libano; nella speranza di regolare una volta per tutte i conti con la resistenza palestinese e gli hezbollah.

L’Arabia Saudita ha problemi sia interni che finanziari (legati ad una enorme riduzione delle sue riserve petrolifere), nonostante il presunto e strombazzato rinnovamento legato al progetto Vision 2030; internazionali (la guerra prolungata e costosa, ma senza risultati, nello Yemen in cui comunque si sta già scontrando con forze appoggiate dallo stesso Iran), il drammatico affaire Khasshoggi (in cui tutto il mondo ha potuto cogliere lo zampino criminale del principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud) e di controllo dei propri impianti petroliferi e delle rotte navali ad essi collegate.4 La guerra potrebbe servire per definire una volta per tutte il primato petrolifero tra gli stati che si affacciano sul Golfo e per il controllo degli stretti e delle vie marittime e degli oleodotti per il trasporto del greggio. Magari incrementando ancora il valore delle azioni della Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita da poco tempo quotata in borsa (qui).

Anche l’Iran, ormai stella di prima grandezza politica e militare nell’area, ha la necessità di risolvere i problemi legati ai propri equilibri interni: sia sociali che politici di apparato. E’ risaputo che Soleimani poteva essere considerato il braccio destro di Ali Khamenei e come possibile futuro presidente. Ma accanto e intorno al regime si muovono forze più giovani e radicali, legate ai pasdaran e all’industria bellica, che nella scomparsa di Soleimani possono vedere allargarsi il proprio peso politico. Iniziando già da subito a suonare le fanfare delle piogge di razzi e colpi di mortaio sulla Green Zone della capitale irachena e sulla base aerea di Balad.

La Turchia del sultano Erdogan, infine, sarà quella che cercherà di trarre più vantaggio dalla fase attuale: sia nei confronti degli Stati Uniti (chiudendo come sembra abbia già fatto nei giorni scorsi lo spazio aereo intorno alla base aeronautica di Inciclirk, impedendone così l’uso da parte dell’aviazione americana già impegnata a trasferire uomini e mezzi nell’area del possibile conflitto), sia nei confronti dell’Europa minacciando una sua riconquista della Libia con conseguente controllo sia delle aree petrolifere che delle rotte delle migrazioni internazionali. Tornando ad occupare un territorio perso a vantaggio dell’Italia nel 1911, la novella potenza ottomana potrebbe spartire con i russi (che virtualmente appoggiano Haftar) il petrolio e il gas libico e allo stesso diventare la padrona incontrastata delle rotte verso l’Europa, sia balcaniche che mediterranee, dei milioni di migranti che fuggiranno dalla guerra. Oltre a poter fare ciò che vorrà nel Nord della Siria e nel Rojava.

Un mondo nuovo sta venendo alla luce. Un mondo che non per forza deve piacerci o con cui dobbiamo schierarci a favore o contro. Un mondo che comunque cambierà radicalmente gli equilibri (e le analisi) a cui da troppi anni ci siamo assuefatti, dando per scontato ciò che già non lo è più. Un mondo in cui nuove potenze capitalistiche, estrattiviste e finanziarie oltre che militari dovranno per forza competere tra di loro e con i vecchi giocatori alla roulette delle errabonde fortune del capitale e dell’imperialismo, regionale o internazionale che sia, per sopravvivere ed affermarsi come tali.
Les jeux sont faits, rien ne va plus!

E’ proprio tutto ciò, e non solo il fatto che diverse delle nazioni interessate (Arabia Saudita e Iran soprattutto, ma anche per altri versi il Venezuela) detengono alcune delle riserve più grandi di petrolio e gas insieme a USA e Russia oppure che siano divise dal credo religioso (sunniti, sciiti, ebrei), a determinare il reale pericolo di una guerra allargata. Molto di più di quando USA e URSS si spartivano allegramente il pianeta fingendo di fronteggiarsi digrignando i denti ad uso di spettatori distratti oppure imbevuti di ideologie e visioni del mondo oggi morte e sepolte.

I veri esclusi in tale gioco, ridotti al ruolo di testimoni imploranti o, al massimo, di attori di secondo piano o di comparse, sono gli europei. La vecchia Europa, presunta cristiana e democratica, ma intimamente fascista, resta alla finestra. Balbetta oppure spara stronzate come quelle di Salvini a favore di Trump. Ma è sostanzialmente imbelle, divisa al suo interno. Con una politica estera che piuttosto che essere comune vede il trionfo degli interessi nazionali e un gioco al massacro in cui la Francia, pur di veder cancellato il precedente vantaggio delle società petrolifere italiane in Libia preferisce perdere tutto a vantaggio di Haftar, dell’Isis o della Turchia.

L’Italietta dei Mattei, di Luigino e dei Giuseppi si troverà in prima linea senza averlo neanche deciso, mentre già da questi giorni le forze aeree e di terra americane hanno iniziato ad usare in maniera massiccia le basi di Aviano e Vicenza e gli impianti radar e di contollo dei droni distribuiti sul territorio nazionale da Sigonella al nord (qui). Il tutto senza nemmeno una telefonata pro-forma del falco Pompeo al titolare del Ministero degli Esteri italiano. Altro che pericolo per le forze mercenarie italiane dislocate all’estero di cui i media vanno blaterando: lo scoppio di una guerra in Medio Oriente vedrà in futuro in prima linea la popolazione civile italiana, esposta alle ritorsioni di qualsiasi avversario dotato di missili a media e lunga gittata.

L’Europa degli Stati è finita. Una nuova epoca potrebbe ricominciare soltanto dal diffondersi delle lotte sociali e ambientali, dal basso e di classe, mentre le sardine trasformate in struzzi dal precipitare degli eventi continueranno a blaterare, con la testa ben coperta di sabbia, di non violenza e di equiparazione della violenza verbale a quella fisica. Autentici morti in piedi in attesa di una morte reale che arriverà attraverso le porte dell’Inferno che potrebbero spalancarsi a partire da Bagdad.

Ancora una volta la violenza sarà levatrice della Storia: una violenza spietata e distruttiva, rapace e implacabile che solo la rivolta dei popoli e di coloro che si opporranno alla guerra, senza parteggiare per nessuna delle nazioni coinvolte ma in nome di una superiore comunità umana, potrà rovesciare nell’atto di nascita di un’altra nuova e più egualitaria società. Libera dal profitto, dal lavoro coatto e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo su una Natura considerata come separata dalla specie e dai suoi interessi fondamentali.


  1. A questo proposito preferisco rinviare al mio testo La guerra che viene, Mimesis 2019; in particolare alla Prima sezione, Sangue sul Medio Oriente ( e non solo), pp. 41-110  

  2. Per la Turchia si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ contenuto anche in La guerra che viene, op.cit.  

  3. Si veda come esempio recente: https://it.businessinsider.com/il-jaccuse-del-re-dei-giornalisti-finanziari-il-capitalismo-e-nelle-mani-dei-capitalisti-senza-capitale/  

  4. Sono proprio dei giorni scorsi le manovre navali congiunte tra Russia, Cina e Iran, tra l’Ocean Indiano e il Golfo di Oman, denominate Cintura di sicurezza marina.  

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Üçüncü Dünya Savaşı https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ Mon, 25 Jul 2016 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32171 di Sandro Moiso

ucuncu 4Terza guerra mondiale”, questa è la traduzione del titolo di un best-seller di fantapolitica uscito poco più di dieci anni fa in Turchia. Recep Tayyip Erdoğan, dopo essere stato escluso per anni dalla vita politica (poiché era stato giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso e incarcerato nel 1998 per aver declamato pubblicamente, come sindaco di Istanbul, i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…“), era stato eletto Primo Ministro del 59° governo turco il 4 marzo [...]]]> di Sandro Moiso

ucuncu 4Terza guerra mondiale”, questa è la traduzione del titolo di un best-seller di fantapolitica uscito poco più di dieci anni fa in Turchia. Recep Tayyip Erdoğan, dopo essere stato escluso per anni dalla vita politica (poiché era stato giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso e incarcerato nel 1998 per aver declamato pubblicamente, come sindaco di Istanbul, i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…“), era stato eletto Primo Ministro del 59° governo turco il 4 marzo 2003, dopo la vittoria del suo partito (AKP, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) nelle elezioni legislative del 2002, e uno giornalista-scrittore trentenne, Burak Turna, raggiungeva, nel 2005, il suo secondo successo editoriale anticipando la storia di una guerra in cui la Turchia si contrappone, dopo anni di acrimoniose trattative, ad una Unione Europea dominata da governi fascisti e xenofobi che respinge definitivamente la domanda del governo di Ankara di diventarne membro. Mentre in Germania, Francia e Austria si scatena una specie di caccia al musulmano, la Turchia si allea con la Russia e, con l’appoggio esterno anche della Cina, invade l’Europa e la riduce in ginocchio, con tanto di commandos turchi che si impadroniscono di Berlino.

Gli Stati Uniti stanno a guardare e sulle rovine della vecchia Ue, che voleva restare un «club cristiano», se ne affaccia una nuova, spostata a Est, e basata sulla riconciliazione tra l’Islam e il mondo ortodosso. In due mesi il libro vendeva in Turchia 130.000 copie, in un paese dove una tiratura di 3 mila copie è già un successo, e si avvicinava ai vertici delle classifiche dei libri più venduti. Tra i quali, va qui subito detto, si trovava proprio il precedente libro scritto dallo stesso autore in collaborazione con Orkun Ucar.

Questo altro testo, anch’esso riconducibile alla fantapolitica, si intitolava “Metal Firtina”, traducibile con Tempesta di metallo (in inglese, appunto Metal Storm) e aveva raggiunto, e forse superato, in pochi mesi le 500.000 copie.
Narra, guardo caso, di un’altra guerra “mondiale” in cui, gli Stati Uniti aggrediscono militarmente la Turchia, dichiarata “Stato canaglia”, per potersi impossessare delle ricchezze minerarie e petrolifere dell’Irak del Nord a discapito degli interessi turchi. Per ottenere ciò, oltre al bombardamento a tappeto di Ankara, Istanbul e Smirne, gli americani promuovono e appoggiano diversi movimenti separatisti destinati ad indebolire e a frantumare lo stato turco.

Metal-storm Ma l’attesa rivolta separatista non si produce, e la guerra si prolunga. I bombardamenti Usa sono spietati e decimano la popolazione, ma risparmiano le centrali elettriche e le stazioni tv, in modo che i turchi continuino a guardare la tv e così ad esporsi alle “armi di illusione di massa”.
Sarà un agente dei servizi segreti turchi ad immolarsi riuscendo a far esplodere, come un kamikaze, due bombe atomiche a Washington.

A quel punto, Putin ammassa truppe russe ai confini della Turchia invasa, pronto a scatenare l’intervento; Francia, Germania, Russia e Cina convocano d’urgenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’America è bollata come stato canaglia e riceve un ultimatum: o si ritira senza condizioni dallla Turchia, o sarà distrutta dalla coalizione mondiale che s’è formata.1

Fin qui le narrazioni di un autore decisamente nazionalista e con un largo seguito in Turchia. Poiché, però, vado da tempo sostenendo che il politico è soltanto uno dei territori dell’immaginario, vale forse la pena di cogliere i parallelismi e le possibili anticipazioni tra quelle trame e i fatti a cui stiamo assistendo, soprattutto nella Turchia del golpe e dopo golpe. Anche perché, all’epoca della sua uscita e del suo successo, il libro fu letto col massimo interesse negli ambienti militari, di sicurezza e della potente polizia turca e l’ambasciata Usa ne fu molto allarmata, visto che i sondaggi dell’epoca rivelavano che, dopo l’attacco all’Irak, i sentimenti anti-americani in Turchia erano condivisi dall’87% della popolazione.

Così è giunto il momento di riassumere, anche qui brevemente, la trama dei fatti. Quelli reali.
Il 15 luglio scorso si profila, per qualche ora, l’eventualità che il leader islamico e nazionalista Tayyip Erdoğan2 possa essere dimesso dal suo ruolo di governo e di “alleato”.
Le prime reazioni ufficiali di USA ed Europa al golpe si sono avute all’alba, 5 ore dopo l’inizio degli scontri. Dopo che, a detta dei media, le richieste provenienti dall’aereo di Erdogan per un eventuale accoglienza erano state respinte da diversi “alleati” europei.

Prima che questo avvenisse va rilevato un certo imbarazzo occidentale nei confronti non solo di un dittatore abbastanza spudorato nella sua conduzione della “moderna democrazia” turca, ma anche abbastanza avventuriero dal giocare col piede in più scarpe: l’appoggio, più volte provato, dato all’ISIS; l’altalenante posizione nei confronti di Siria, Iran e Russia; il rigurgito di nazionalismo ottomano e contrario ad ogni discorso riguardante i diritti degli Armeni e dei Curdi (questi ultimi autentici miliziani combattenti della causa anti-ISIS in Siria e nel Nord dell’Irak); il ricatto costante, con cui ha taglieggiato l’Europa e la Germania negli ultimi mesi, sulla questione dei profughi dal Vicino Oriente e centro-asiatici e, infine, lo smaccato rifiuto di rispettare qualsiasi forma di diritto umano, alla faccia delle richieste delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea (“We’ll go our way, you go yours”).

Non solo. Un leader che a maggio, in occasione del Congresso straordinario del suo partito (AKP), ha di fatto costretto il primo ministro Ahmet Davutoglu, troppo vicino agli alleati occidentali e da questi ultimi molto stimato, a dimettersi per sostituirlo con Binali Yildirim, curdo e fedelissimo del Presidente.3 Una situazione quanto meno delicata in cui il colpo di Stato, più che preparato dallo stesso Erdogan, come i sostenitori del complottismo ad oltranza sembrano voler riproporre come un vecchio film già visto più volte dall’11 settembre 2001 in poi, sembrava essere una possibile soluzione del problema. Tanto per dimostrare ancora una volta che il super-imperialismo che tutto controlla e determina non è altro che una bufala creata da coloro che rimuovono i rapporti di forza reali e le contraddizioni economico-sociali e geopolitiche che li determinano.

D’altra parte, checché se ne voglia pensare, il golpe non è stato solo e sempre uno strumento di cui gli americani si sono serviti per eliminare governi “avversi”, ma spesso anche un mezzo per rimuovere “alleati” divenuti scomodi. Basti pensare alle rimozioni violente di governi nel Pakistan della fine del secolo scorso.4 Mentre occorre sottolineare come la rapidità decisionale con cui Erdogan ha agito, dal punto di vista repressivo nei giorni seguenti, ancora una volta sbandierato come prova della premeditazione dello stesso, è riconducibile sostanzialmente a due fattori: dimostrare in casa e all’estero la propria forza e sicurezza e al fatto che qualsiasi Stato, compresa sicuramente l’Italia, ha già pronte da sempre le liste dei possibili nemici da rinchiudere o eliminare in caso di precipitare della o di una crisi politica, sociale o militare.5

D’altronde, sarebbe impensabile immaginare che un colpo di Stato militare, indipendentemente dalla presenza o meno di Fethullah Gülen nelle file del complotto, possa essersi sviluppato all’interno degli ambienti militari della NATO, soprattutto quelli dell’aeronautica militare, senza che l’intelligence statunitense non ne avesse alcun sentore .

Anche al di là delle accuse mosse da Erdogan agli Stati Uniti per aver rifornito i caccia golpisti con aerei cisterna decollati proprio dalla base di Incirlik. La stessa da cui decollano gli aerei americani che vanno a bombardare le posizioni dell’Isis, lasciata senza energia elettrica per alcune ore dopo il golpe sventato, e di cui è stato arrestato il generale turco che la comandava come uno degli artefici del golpe.6 Accuse rafforzate proprio oggi da quelle ulteriori alla CIA.7

Quindi nulla di nuovo sotto il sole…tranne che questa volta l’azione di forza è andata a gambe all’aria.8 E qui, infatti, si giunge alla parte più interessante della questione.
Il golpe non ha funzionato perché ha dovuto essere anticipato ovvero scattare prima che tutte le operazioni che dovevano essere portate a termine per farlo trionfare si realizzassero. Invece che alle tre del mattino, come alcune fonti sostengono, ha dovuto essere anticipato di diverse ore.

Secondo un’informazione diffusa dai media la sera del 20 luglio, i servizi segreti russi avrebbero avvertito il Presidente della Turchia del golpe militare che stava maturando, cosa che gli avrebbe consentito di salvarsi e di conservare il potere. Tuttavia, è difficile stabilire quanto le notizie sul presunto aiuto fornito dalla Russia a Erdogan possano essere attendibili. […]Secondo la versione diffusa dai media, il servizio di intelligence militare russo in Siria nella base di Hmeimym sarebbe riuscito a intercettare e a decodificare i radiocomunicati militari. Gli autori del complotto avevano progettato di inviare degli elicotteri all’hotel in cui alloggiava Erdogan a Marmaris per catturare e uccidere il Presidente. Il Ministero della Difesa russo avrebbe trasmesso questa informativa sui loro piani al Mit, l’intelligence nazionale turca, consentendo a Erdogan di fuggire in tempo e di intervenire.9

Non solo. Secondo altre fonti, in base a ricostruzioni provenienti da ambienti vicini al Svr, i servizi di intelligence russi per l’estero: “ci sarebbe stato un intervento degli Specnaz, le forze speciali russe che avrebbero scortato e difeso il presidente Erdogan dal golpe militare, accompagnandolo dal luogo in cui era fallito l’attentato, che doveva eliminarlo, all’aereo che lo ha riportato ad Ankara.10

Anche se lo stesso Presidente turco, in un’intervista rilasciata all’emittente televisiva del Qatar Al Jazeera, ha fornito una versione diversa, attribuendo il merito dell’anticipazione del golpe al M.I.T.l’Organizzazione di Intelligence nazionale Turca, “i media hanno diffuso la versione della corresponsabilità della Russia nella vittoria di Erdogan sulla base di notizie diramate da Fars, la principale agenzia d’informazione iraniana, a loro volta provenienti da fonti arabe (in particolare, dall’agenzia sudanese Al Sudan Al Youm). Come fonte i media arabi hanno citato dei diplomatici turchi che hanno preferito rimanere anonimi.11

Qualche lettore a questo punto si chiederà: “Ma Russia e Turchia, soprattutto dopo l’abbattimento dell’aereo russo sui cieli della Siria, non erano ai ferri corti?
Certo, almeno nelle apparenze, ma un accordo diplomatico e politico è sempre possibile e, in questo caso, conviene ad entrambi nell’attuale caos geo-politico che si va delineando in cui, come è stato scritto appena quattro giorni prima del fallito colpo di Stato, “appare evidente come Erdogan si sia ritrovato schiacciato dall’isolamento diplomatico internazionale, e abbia dovuto in qualche modo mettere da parte la retorica e fare un bagno di realismo: troppe le minacce che stavano accerchiando la Turchia, che pur avendo potenti alleati, benché sempre più riluttanti, ha l’imperativa necessità di non fomentare vecchie inimicizie.12

Infatti Erdogan nei giorni precedenti non solo aveva ripreso i rapporti con la Russia (non dimentichiamo che egli si incontrerà con Putin entro le prime due settimane di agosto), ma anche raggiunto un accordo con uno degli altri protagonisti dei giochi mediorientali: Israele.
Tale accordo, annunciato da Benjamin Netanyahu, Primo ministro israeliano, e Binali Yildrim, Primo ministro turco, è frutto di diversi compromessi, come è del resto il destino di ogni accordo diplomatico che voglia essere credibile e duraturo. Entrambi gli attori sono riusciti ad ottenere l’accettazione di alcune delle proprie richieste più pressanti e a non fare concessioni sulle questioni più delicate.13 E probabilmente per ora tanto basta.

E anche se per ora nessuno ne parla, non è escluso che anche il Mossad abbia voluto fare un regalo e allo stesso tempo lanciare un avvertimento alla Volpe degli stretti. Da un lato indicargli il pericolo da cui mettersi in salvo14 e dall’altro segnalargli come, nell’attuale situazione di possibile isolamento, la sua sopravvivenza e successo siano indubbiamente legati alla costruzione di una rete mediorientale (di cui un altro attore è rappresentato senza ombra di dubbio dall’Arabia Saudita e dagli Emirati del Golfo) che, se da un lato mira a scalzare progressivamente l’importanza degli USA e delle nazioni europee nell’area, dall’altra dovrà funzionare in chiave anti-iraniana, per ridimensionare le pretese dell’unica nazione che fino ad ora ha potuto positivamente intascare un grande rientro sulla scena diplomatica, economica e militare internazionale proprio in seguito agli errori commessi dal Dipartimento di Stato americano in Irak.

ucuncu 5 D’altra parte anche la collaborazione tra Russia e Iran in Siria è sempre più messa alla prova dalle autonome iniziative che la Russia sta prendendo sul fronte militare sia nei confronti di una rinnovata collaborazione con Israele. Dopo lo scontro a Khan Tuman,15 infatti, molti strateghi del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) “hanno cominciato a esprimere dubbi sugli obiettivi di Mosca nella lotta al fianco delle forze iraniane, libanesi e siriane. Questi strateghi, e altri funzionari che in Iran si oppongono alla presenza militare della Russia in Siria, mettono in guardia circa le divergenze di interessi tra Russia e Iran che nel lungo termine potrebbero portare a conseguenze impreviste.16

Tutto questo però è reso possibile da ciò che ho già segnalato in altri articoli proprio su Carmilla, ovvero dal progressivo indebolimento politico di quello che è ancora necessario definire “imperialismo occidentale”, ovvero USA e nazioni dell’UE. Se da un lato la crisi economica ha favorito la concentrazione del comando finanziario sulle economie, soprattutto, sulla forza lavoro di quelle nazioni che ci ostiniamo a definire “a capitalismo avanzato”, dall’altro la stessa ha rivelato le profonde crepe che dividono quegli stessi attori sul piano dell’azione diplomatica e militare edelle strategie economiche di fondo.

La recente uscita di Donald Trump, per esempio, su una possibile perdita di importanza della NATO per gli interessi americani rimarca, indirettamente, due cose.17 La prima riguarda il fatto che gli USA hanno due fronti mondiali a cui prestare attenzione: uno orientale sul Pacifico e il Mar della Cina, dove la concorrenza economica e finanziaria sembra volgere sempre più anche ad una concorrenza di carattere militare, e uno occidentale che sembra correre ormai dal Baltico all’Africa del Nord, in funzione anti-russa e di controllo delle maggiori aree petrolifere del globo.

E’ chiaro che un tale dispiegamento di forze ha dei costi non risibili per la declinante economia americana e senza uno sforzo economico da parte dei partner europei gli USA non potranno sostenere a lungo un tale impegno. D’altra parte gli alleati europei sono terrorizzati da un disimpegno americano che metterebbe in evidenza la debolezza “militare” dell’Unione che è, sì, monetaria, ma poco politica e militare.

La stessa Alta Rappresentante per le politiche europee, Federica Mogherini, nella sua problematica insignificanza,18 rappresenta simbolicamente una moneta priva di una efficace forza di difesa/offesa. Un po’ come immaginarsi il dollaro, padrone del ventesimo secolo, senza portaerei.
Debolezza dovuta soprattutto ai contrastanti interessi diplomatici ed economici tra le principali nazioni del continente (Gran Bretagna, Germania, Francia ed Italia). Come d’altra parte dimostra bene l’incidente occorso nei giorni scorsi in Libia: in cui tre membri delle Forze Speciali francesi sono rimasti uccisi nell’abbattimento di un elicottero, da parte dei miliziani filo-Isis, mentre combattevano a fianco del generale Khalif Haftar, l’uomo forte di Tobruk, invece che di quello del “legittimo” governo libico cui i militari europei già stanziati in Libia dovrebbero ufficialmente fare riferimento.19

E’ chiaro che un tale disordine finisce col favorire alleanze locali, e magari momentanee, proprio perché in un’era di decadenza del potere occidentale (e di declino del petrolio) gli ex-alleati locali potrebbero ritenere più utile coordinarsi tra di loro autonomamente sia per salvaguardare la propria sicurezza che per gestire in proprio ciò che rimane delle scorte dell’oro nero. Problemi cui la Russia, nel suo ruolo ritrovato di Grande Potenza, non può rimanere insensibile. Avendo per ora come obiettivi locali quelli di salvaguardare le proprie basi in Siria, ampliare il proprio ruolo sul mercato della produzione e delle transazioni legate al petrolio e al gas e, naturalmente, allontanare la minaccia jihadista sia dalla Cecenia che dalle aree confinanti. Senza rinunciare a rendere allo storico avversario statunitense pan per focaccia per quanto è avvenuto e sta avvenendo in Ucraina e nei paesi dell’ex-blocco sovietico.

Il percorso fin qui tracciato non è certo né lineare né definitivo, anche perché l’Occidente, pur manifestando qualche critica nei confronti della repressione di Erdogan nei confronti dei suoi avversari, veri o presunti tali, dovrà fare buon viso a cattivo gioco per un periodo, a questo punto, ancora piuttosto lungo.20 USA ed Europa non possono permettersi di perdere Ankara che, occorre qui sottolinearlo con forza, rappresenta il secondo contingente militare della NATO, dopo quello statunitense, sia per importanza che dal punto di vista numerico.21 E qualsiasi siano stati i motivi e gli attori ultimi del tentativo di colpo di Stato del 15 luglio, fino a quando Erdogan non potrà essere sostituito con un personaggio “più affidabile”, questa è ancora la cosa che conta di più. Cercando di evitare nel prossimo futuro coinvolgimenti imbarazzanti e fallimentari nei confronti di operazioni destinate poi ad essere abbandonate a se stesse come quella di cui stiamo stati testimoni.

Con buona pace, comunque, di tutti quei “democratici” che strillano e si stracciano strumentalmente le vesti per una repressione che, pur essendo diventata più violenta e pericolosa, è presente e attiva in Turchia, soprattutto nel Kurdistan e nei confronti del PKK, da anni. E con buona pace ancora di coloro che vedono in Putin un agente dell’anti-imperialismo oppure di coloro che ancora non vedono la differenza tra i Kurdi del Rojava e della Turchia e di quelli del Nord Irak che fin dalla Guerra del Golfo agiscono col beneplacito americano e a fianco degli interessi statunitensi nella speranza di spartirsi, tra i clan Barzani e Talabani, un possibile feudo ricco di petrolio e, forse, di altri minerali preziosi. Area in cui gli Stati Uniti, dopo che le forze irakene hanno strappato all’ ISIS “il controllo della della base militare di Qayara, avamposto strategicamente ben posizionato per sferrare attacchi a Mosul, “capitale” irakena del Daesh, stanno valutando la possibilità di trasformare questa base in un avamposto permanente da cui far partire le missioni anti-ISIS, anche quelle che fino ad oggi partivano dalla base NATO di Incirlik, in Turchia, e dalle altre basi USA nell’area.22

erdogan Certo è che questa situazione generale vede un ritorno trionfante del nazionalismo. Occorre qui affermarlo senza timore: non solo dall’alto ma anche dal basso, poiché in una situazione di malessere generale e di progressivo peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, in America come in Medio Oriente e ancora qui in Europa, e in assenza di una qualsiasi altra seria proposta di opposizione anti-imperialista e di riorganizzazione socio-economica e territoriale che neghi l’attuale modo di produzione capitalistico, larghi settori di quella che è ancora definibile come “classe degli oppressi” si rifugeranno sempre più nell’esaltazione delle proprie radici e nel fasullo conforto di una peregrina identità nazionale e/o religiosa. Ulteriore fattore e motore delle guerre a venire. Come il nazionalismo turco di Piazza Taksim, sostituendo le precedenti proteste anti-Erdogan, già ci ricorda in maniera abbastanza eloquente.


  1. https://forum.termometropolitico.it/339961-anche-la-turchia-sogna-guerra-agli-usa.html  

  2. Dopo la sua elezione a Primo Ministro nel 2003, il leader turco ha mantenuto tale incarico fino al 2014 quando è stato eletto Presidente con le prime elezioni presidenziali dirette della storia del paese  

  3. Eliza Ungaro, Perché Erdogan ha “licenziato” Davutoglu, spiegato, 20/05/2016 http://www.thezeppelin.org/erdogan-davutoglu/  

  4. Solo a titolo di esempio: http://www.repubblica.it/online/fatti/paki/paki/paki.html  

  5. Su questo si confronti: https://www.carmillaonline.com/2016/07/21/istanbul-torino-la-parola-dordine-sola-repressione/  

  6. http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/19/news/il_retroscena_una_cisterna_americana_ha_rifornito_gli_f-16_e_ora_erdogan_va_in_pressing_sull_alleato-144402675/?ref=HREC1-1  

  7. http://www.huffingtonpost.it/2016/07/25/turchia-arresta-giornalisti_n_11175734.html?1469435801&utm_hp_ref=italy  

  8. Non posso fare a meno di tracciare, in tal senso un parallelo con la fallita invasione della Baia dei Porci. Avvenuta a Cuba nell’aprile 1961. Un fallimento totale che , di fatto, inaugurava il mandato di John Fitzgerald Kennedy e smontava fin dall’inizio le sue promesse. Così come il mancato golpe turco chiude il secondo mandato di Barak Obama, dimostrando tutta la debolezza della sua azione politica di “rinnovamento” ( cfr. https://www.carmillaonline.com/2016/07/24/sono-fotogenico/). In entrambi i casi gli Stati Uniti hanno puntato su oppositori espatriati: gli esuli anti-castristi a Miami per il primo e Fethullah Gulen, probabilmente, per il secondo. cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Invasione_della_baia_dei_Porci e per una emozionante descrizione letteraria James Ellroy, American Tabloid, Mondadori 1995, pp.434-470  

  9. https://it.rbth.com/mondo/2016/07/21/e-stata-la-russia-a-salvare-erdogan_613821  

  10. http://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/11931054/becchi-golpe-turchia-ruolo-putin-salvataggio-erdogan-.html  

  11. ancora https://it.rbth.com/mondo/2016/07/21/e-stata-la-russia-a-salvare-erdogan_613821  

  12. Marta Furlan e Lorenzo Carota, Turchia, Israele e Russia: il ritorno della diplomazia, 11/07/2016 http://www.thezeppelin.org/la-turchia-la-normalizzazione-diplomatica-israele-russia/  

  13. come da nota precedente  

  14. Poiché è difficile che un golpe organizzato all’interno degli apparati Nato e dell’esercito turco sfugga all’occhio vigile di Israele  

  15. Il riferimento è all’attacco di maggio effettuato dalla coalizione ribelle Jaish al-Fatah nel villaggio di Khan Tuman (sud di Aleppo), che ha ucciso decine di combattenti iraniani del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), della brigata afghana Fatemiyoun (mercenari che combattono per l’Iran) e delle milizie sciite di Hezbollah. Secondo alcune fonti le vittime sarebbero un’ottantina, tra cui due generali di spicco; si è trattato della più grave perdita per le forze iraniane dall’inizio del conflitto” Samantha Falciatori, L’iranizzazione della Siria e l’intervento russo, 08/12/2015 http://www.thezeppelin.org/iran-russia-siria/  

  16. idem  

  17. Anche la più recente dichiarazione di Trump su una possibile uscita degli USA dal WTO (http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/07/24/news/trump_controlli_piu_severi_su_chi_arriva_dalla_francia-144740332/?ref=HREC1-8 ) sembra rientrare nella tradizione isolazionista e protezionista del Partito repubblicano. Tradizione interrotta sostanzialmente dai Bush, padre e figlio, che guarda caso non si sono presentati alla Convention repubblicana, avendo già dichiarato il proprio favore per l’interventismo della Clinton. Rappresentante perfetta, come ho già detto altrove, degli interessi petroliferi, finanziari e del complesso militare-industriale statunitense  

  18. Che sembra pareggiata soltanto dalla progressiva perdita di credibilità di Barak Obama. Figura destinata sicuramente ad entrare nella leggenda mediatica essendo stato “il primo presidente afro-americano” degli Stati Uniti, ma i cui insuccessi e promesse mancate si sono accumulati implacabilmente nel corso dei suoi otto anni di mandato. Rendendolo molto simile, in questo senso, a John Fitzgerald Kennedy, di cui si è già parlato in una nota precedente  

  19. http://www.analisidifesa.it/2016/07/libia-abbattuto-elicottero-di-haftar-morti-due-incursori-francesi/  

  20. Ingoiando la rimozione di alcuni ambasciatori ritenuti coinvolti nel complotto e la difesa della pena di morte da parte del Ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu: “L’Unione europea non ha il diritto di dare alla Turchia un ultimatum su questo tema, l’Europa non è la proprietaria della Turchia e non accetterà di essere guardata dall’alto al basso.” http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/25/news/turchia_arrestati_42_giornalisti_accusati_di_sostenere_gulen-144768272/?ref=HREC1-4  

  21. cfr. Francesco Valacchi, Turchia, le forze armate oggi, 5 dicembre 2013 http://www.ilcaffegeopolitico.org/13589/turchia-le-forze-armate-di-ankara-oggi  

  22. Zeppelin Newsletter, International Weekly Brief 18 – 24 luglio 2016  

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La bomba iraniana https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ Mon, 06 Apr 2015 19:57:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21799 di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità. La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da [...]]]> di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.

Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.

E’ chiaro, intanto, che intorno al tavolo delle trattative non erano presenti soltanto i rappresentanti degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale, ma anche i fantasmi del mai sopito antagonismo di Israele e dei Paesi del Golfo, e dell’Arabia Saudita in particolare, nei confronti della Repubblica islamica Iraniana.1 Tutti motivati da interessi parzialmente diversi e solo in superficie pienamente convergenti i primi, ma anche profondamente collegati tra di loro quelli dei secondi, almeno in questa fase. Ma proviamo a capire perché.

L’Iran è stato per secoli un fattore determinante per le politiche imperiali, statuali ed economiche di quell’area strategica che va dal Medio Oriente all’area transcaucasica fino all’Asia Centrale e dal Golfo Persico all’Oceano Indiano. Uno dei quadranti più importanti dal punto di vista geopolitico dello scacchiere mondiale. L’impero persiano aveva infatti costruito su quell’area, che arrivò per un certo periodo fino al Mediterraneo, la più grande realtà statuale dell’antichità prima dell’impero romano.

Ora se per l’italietta post-risorgimentale, mussoliniana e democristiana il Mare Nostrum ha sempre rappresentato un illusorio e pericoloso richiamo alla potenza del passato, proviamo ad immaginare quanto quell’antica funzione unificatrice di popoli possa essere rimasta impressa nel genoma della nazione persiana. Unita al fatto che alcuni di quei popoli che la fondarono nel mondo antico, in particolare i Parti, risultarono a lungo invincibili anche per grandi potenze successive come quella romana ad Occidente e quella dell’impero cinese ad Oriente.

Ruolo millenario, interrotto e ripreso più volte tra invasioni e guerre che sottomisero momentaneamente o percorsero il territorio iraniano, che lo Scià Mohammad Reza Pahlavi non dimenticò di sottolineare con le celebrazioni organizzate a ridosso di quella rivoluzione detta khomeynista che l’avrebbe rovesciato nell’inverno tra il 1978 e il 1979, dopo decenni di repressione sanguinosa di qualsiasi opposizione seguita al colpo di stato che nel 1953 aveva allontanato dal potere e condannato Mohammad Mossadeq, colpevole del primo tentativo di nazionalizzazione del petrolio iraniano e di democratizzazione della monarchia Pahlavi, istituita nel 1925 da Reza Khan padre di Mohammad Reza.

Monarchia che avrebbe costituito per decenni il vero architrave della strategia anglo-americana in quella parte del mondo: a cavallo tra il petrolio mediorientale e l’odiata Unione Sovietica. Architrave che la rivoluzione khomeynista fece saltare, contribuendo a spingere sempre di più Stati Uniti e Israele gli uni nelle braccia dell’altro e viceversa. E qui sta proprio uno dei motivi più profondi dell’attrito tra le due potenze locali: due architravi nello steso spazio non possono esserci. O l’uno, Israele, oppure l’altro, l’Iran.

Anche se occorre dire che nella strategia americana è intuibile il solito divide et impera su cui l’egemonia statunitense cerca ancora di basare il proprio potere, in diverse aree del globo, nell’epoca del suo tramonto. Controbilanciando le sempre più esose richieste di fedeltà alla causa sionista provenienti dal governo di Israele con la riapertura del dialogo con il “demonio” iraniano.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.

Difficilmente però i governanti iraniani e la borghesia “liberale”, che abbiamo visto festosamente manifestare in questi giorni nelle strade del paese, si lascerebbero coinvolgere in un conflitto ai propri confini senza esser sicuri di portare a casa un risultato. Magari non solo militare, ma anche diplomatico ed economico, come sembra essere l’attuale accordo raggiunto tra i 5 + 1 di Losanna. Anche se, tra il 1980 e il 1988, la fedeltà delle Forze Armate e il rinnovato spirito nazionale2 permisero all’Iran di tener testa all’aggressione di un Iraq armato e finanziato dagli Stati Uniti (dopo il disastroso tentativo di liberazione degli ostaggi americani dell’ambasciata di Teheran messo in atto dal presidente Jimmy Carter), dall’Egitto, dai Paesi del Golfo Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica Popolare Cinese (che vendeva però armi anche all’Iran).

Unica e autentica rivoluzione nazionale democratica avvenuta in tutta l’area,3 la rivoluzione khomeynista sembrò condividere, almeno in parte, il destino e l’involuzione della rivoluzione russa (anch’essa nazionale e democratica ancor prima che proletaria) del 1917. Vittoria rapida degli insorti, caduta del regime autoritario precedente, scatenamento di una guerra internazionale contro la neonata repubblica, morte del leader (Lenin nel 1924, nel caso della Russia, e Khomeyni nel 1989, nel caso dell’Iran), restrizione delle libertà democratiche per far fronte alle difficoltà economiche e all’inevitabile risistemazione politico-economica del paese.

Questo parallelo, per quanto possa apparire ad alcuni blasfemo, può servire a comprendere sia le chiusure di spazi democratici all’interno dell’Iran nel corso degli anni successivi, dettate spesso da motivi più politici che religiosi, sia l’uso estenuante di parole d’ordine come quella della “distruzione dello Stato di Israele” sbandierata ai fini del consenso interno, così come già Stalin negli anni trenta aveva costantemente sventolato la bandiera della lotta al capitalismo, sia, last but not least, l’orrore delle petrolmonarchie del Golfo nei confronti di una rivoluzione che per prima aveva aperto la strada alle libere elezioni e ad una maggiore età di 16 anni (solo recentemente portata a 18) in un paese che custodiva e continua a custodire nelle sue viscere le seconda riserva mondiale di petrolio e di gas.

Sì, perché l’altro implacabile avversario dell’Iran è costituito dall’Arabia Saudita e dall’insieme di regimi sunniti del Golfo, unici stati dell’area ad applicare interamente una presunta legge coranica ricca di fustigazioni in pubblico, taglio di teste in piazza e sottomissione totale della donna (al contrario dell’Iran dove negli anni accademici 2005-2006 e 2009- 2010, solo per fare un esempio, il numero di donne iscritte all’Università è stato più alto di quello degli uomini). Terrorizzati anche solo dall’ipotesi di un cambiamento democratico al loro interno e che fingono tuttora di sostenere le sempre presunte primavere arabe affinché gattopardescamente tutto cambi senza cambiare nulla.

Petrolio e rivoluzione nazionale, più che la tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti, dividono Iran e Arabia Saudita in tutto il quadrante mediorientale: dalla Palestina, al Libano, alla Siria e fino a ciò che resta dell’Iraq. E per capirlo basta guardare ai differenti attori che le due forze contrapposte appoggiano sul campo: i movimenti nazionali di Hamas in Palestina (anche se, guarda caso, sunnita) e Hizbullah in Libano e Siria da parte dell’Iran e la fu al-Qaeda e l’esercito del califfato islamico da parte dei paesi del Golfo in tutti i settori dell’attuale scacchiere di guerre e guerriglie africane e mediorientali.

L’altra grande differenza è che con i suoi 29 milioni di abitanti (di cui alcuni milioni di proletari immigrati dall’estremo oriente) l’Arabia Saudita ha da vendere all’Occidente quasi soltanto il suo petrolio e la promessa dei suoi investimenti nelle economie europee e americane, mentre l’Iran con i suoi 78 milioni di abitanti (che supereranno i 100 nei prossimi decenni) oltre che per le materie prime può costituire un mercato interessante per le merci e i capitali occidentali, a caccia di paesi già industrializzati in cui investire.

E questo è l’altro, e non secondario aspetto, degli accordi di Losanna; quello per cui abbiamo visto sostanzialmente le folle festanti nelle strade di Teheran: la fine dell’embargo e la ripresa dei commerci e dei finanziamenti tra aziende iraniane ed aziende e banche occidentali. La parte dell’accordo, cioè, che forse interessa di più anche agli europei. Non ultima la nostra italietta che dai 7,2 miliardi di euro che aveva di interscambio con quel paese nel 2011 è passata a 1,6 miliardi nel 2014 grazie anche alla politica delle sanzioni.

Da sempre privilegiato, fin dai tempi di Enrico Mattei, nei rapporti commerciali con l’Iran, sia sul piano energetico che militare ed industriale, il nostro paese spera oggi di tornare ad un interscambio valutabile intorno agli 8 miliardi di euro annui. E questo spiega anche bene l’entusiasmo dimostrata dall’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, nei confronti del trattato firmato a Losanna.

Follow the money! E prima o poi troverete anche la guerra perché, se la prima e fin troppo essenziale sintesi finora qui esposta dovesse rivelarsi vera, è chiaro che tutto ciò non potrà far altro che aumentare, invece che contribuire a far diminuire, la conflittualità nell’area mediorientale e nord africana. Rafforzando da un lato i tentativi arabo-sauditi ed israeliani di limitare, se non distruggere, la rinnovata potenza iraniana e dall’altro fornendo ottimi motivi per il rinnovato orgoglio nazionale e per il programma di trasformazione socio-economica e politica dello stesso scacchiere necessario al rafforzamento della società, dell’economia e dell’industria iraniane.

iran 2 La rinnovata spinta iraniana potrebbe essere il motore di una modernizzazione dell’area che avrebbe nella Palestina rifondata, in Libano, nella vicina Siria e in Iraq una base per una diversa distribuzione di poteri e compiti economici. Soltanto per fare un esempio: l’Iran ha ancora oggi un 23% della popolazione impegnata nell’agricoltura, la quale soffre, come del resto gran parte della società iraniana, a causa della scarsità di risorse idriche; in un paese in cui il 65% del territorio è considerato arido, il 20% semi-arido e solamente il 25 % è considerato arabile, mentre per il resto è composto da zone desertiche o da aree montuose. Proviamo quindi ad immaginare cosa possono rappresentare per l’Iran le acque della Mesopotamia e delle alture del Golan. Ma qui si torna, obbligatoriamente, al conflitto con Israele e alla costante caccia a nuove risorse idriche messa in atto dallo stato sionista. Fin dai tempi della Nabka, ovvero della cacciata dei palestinesi dalle loro terre.

In tutta l’area le ferite dei trattati successivi alla fine del primo conflitto mondiale sono ancora aperte: territoriali, etniche, economiche e sociali. Le frasi fatte e i facili slogan non basteranno certo a dirimere tanti e tali problemi e contrasti, tanto meno le dichiarazioni di principio, le dichiarazioni di intenti oppure le fin troppo facili contrapposizioni religiose e culturali. Mentre i cannoni faranno sentire ancora a lungo e sempre di più la loro voce in tutta l’area. Come già anche nello Yemen sta avvenendo, vedendo contrapposti da un lato i ribelli houthi, filo-iraniani, e dall’altro Egitto ed Arabia Saudita, affiancati da Stati Uniti e formazioni qaediste, a sostegno del governo fantoccio in carica.

Senza poi contare che al quadro fin qui delineato andrebbe ancora aggiunto il ruolo ambiguo della Turchia di Erdogan: giovane potenza industriale che con un numero di abitanti simile a quello dell’Iran mira anch’essa a far rivivere l’antico sogno imperiale ottomano tra regioni caucasiche, Mar Nero, Mediterraneo e gran parte del Vicino Oriente. Potenziale avversario “storico” dell’Iran, il paese dei turcomanni vive però oggi una forte contraddizione politica tra una borghesia dinamica, nazionalista e laica e un governo che fonda la sua forza sugli strati sociali più arretrati della campagna, dei bazar e delle città, sventolando un integralismo che lo spinge poi a sbilanciarsi pericolosamente a favore dello Stato Islamico, senza dichiararlo ma cogliendo in esso un ottimo alleato per liquidare le frange più avanzate della resistenza curda.

Far finta di non vedere o ignorare tutto ciò oppure, peggio ancora, schierarsi con gli imperialismi coinvolti o con i loro rappresentanti costituirebbe un autentico suicidio, non soltanto politico. Per tutti.


  1. Per tranquillizzare i quali il Pentagono ha affermato di aver “potenziato e testato la più grande bomba “bunker buster” del proprio arsenale, capace di colpire barsagli sotterranei o pesantemente difesi, quindi di distruggere o disattivare anche i siti nucleari iraniani più protetti qualora l’accordo sul nucleare con Teheran non venisse rispettato e la Casa Bianca decidesse di intraprendere un’azione militare” (USA, pronta una superbomba se l’accordo con l’Iran fallisse, Repubblica.it, 4 aprile 2015)  

  2. Basato anche su una solida coesione tra le varie etnie, tra le quali la principale è proprio quella persiana con il 65% della popolazione e caratterizzata anche da una quasi totale assenza della divisione in clan e tribù che invece costituisce ancora oggi un aspetto importante di gran parte delle società arabe, se non di tutte  

  3. Occorre tener conto del fatto che i cambiamenti di regime istituzionale avvenuti in Egitto, Libia e Iraq erano stati tutti frutto di colpi di stato militari più che di vere e proprie rivolte di popolo, come invece fu in Iran dove milioni di iraniani lottarono scesero in piazza per anni fino alla definitiva caduta dello Scià nel gennaio del 1979. Paragonabile forse soltanto alla nascita della nazione algerina, ma caratterizzata, quest’ultima da una componente anti-coloniale assente quasi del tutto nel caso dell’Iran.  

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Il Golem https://www.carmillaonline.com/2015/03/14/il-golem-israele-e-netanyahu/ Fri, 13 Mar 2015 23:01:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21270 di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito [...]]]> di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito dell’interpretazione del Talmud, anche, e forse soprattutto, per essere stato, almeno secondo le leggende che ne circondano l’immagine, colui che, insieme al genero Jizchak ben Simson e al discepolo Jakob ben Chajim Sasson, plasmò dal fango uno o più Golem, riuscendo ad insufflargli lo spirito della vita.

Il Golem costituisce, nella sua interpretazione più semplice, una sorta di automa di argilla, una statua animata destinata ad obbedire agli ordini ed alle necessità del suo creatore fino a quando questi non cancelli dalla sua fronte l’alef di ‘emet, modificandone il significato da verità in met, morte.1 Oppure, più semplicemente, togliendogli dalla fronte la benda contenente le parole magiche che lo animavano e lo tenevano in vita.

Ciò che importa, in questa sede, della suddetta leggenda è legato al fatto che tale o tali Golem, a seconda della versione, spesso si ingrandivano troppo durante la loro azione e finivano col dover essere distrutti dal loro creatore. Anche quando essi erano creati per difendere le stesse comunità ebraiche da nemici più numerosi o più potenti. Bastava infatti un attimo di disattenzione da parte di chi ne deteneva il controllo perché questo o questi finissero col distruggere le proprietà, se non addirittura le vite degli ebrei stessi.

Al di là delle sue interpretazioni kabbalistiche e trascendentali,2 il mito del Golem, anticipando di secoli sia Mary Shelley che Philip K. Dick, tratta della facoltà umana di creare una vita artificiale e nel fare questo ammonisce l’uomo dal non volersi rendere simile a Dio, poiché da un essere imperfetto non può nascere nulla di perfetto. Infatti già nel Talmud si parla di un essere artificiale creato da un uomo pio. Ma il Golem in questione, creato da Rava, è incapace di parlare poiché “i pii, gli uomini giusti, sono dotati di poteri straordinari che sono però limitati dalle iniquità da cui nessun essere umano può essere esente”.3

Prestiamo ben attenzione all’avvertimento: iniquità da cui nessun essere umano può essere esente. Perché, a questo punto, è ben facile poter intravedere nella creazione e susseguente distruzione del Golem una lezione sul limite e la pericolosità che le macchine create dall’uomo, anche nella loro forma istituzionale (Stato, esercito), possono comportare per coloro che credono di poterle usare per la propria difesa o al proprio servizio.

Molto ci sarebbe ancora da dire sui limiti che una parte del pensiero ebraico pone alla vanagloria dell’uomo e dei suoi apparati, ma per ora basti qui citare la contrarietà che molte comunità ebraiche da sempre manifestano nei confronti dello Stato sionista di Israele e delle sue aggressive politiche, sia nel mondo che all’interno dello stesso.4

Contrarietà che ha assunto ultimamente i toni di una grande manifestazione di massa tenutasi a Tel Aviv, sabato 7 marzo scorso, quando decine di migliaia di persone (gli organizzatori hanno parlato di 85.000 manifestanti) si sono raccolte, in vista delle elezioni parlamentari del 17 marzo, per opporsi alle suicide politiche militariste di Netanyahu e del suo governo di destra. Sono stati scanditi slogan come “Fermiamo la guerra”, “Portate i soldati a casa” e “Gli ebrei e gli arabi rifiutano di essere nemici”, mentre sugli striscioni era scritto “Israele vuole un cambiamento” oppure “Bibi, hai fallito, tornatene a casa” (quest’ultimo con riferimento al soprannome del premier).

netanyahu La manifestazione era stata organizzata dal movimento “Un milione di mani”. Lo scopo, a dieci giorni dalle elezioni, era quella di chiedere un cambiamento delle priorità di Israele, con maggiore attenzione a temi come la sanità, la scuola, i salari, la casa, il costo della vita e l’assistenza agli anziani, mentre un bambino su tre versa in condizioni di povertà.

Gli organizzatori del raduno avevano scritto sulla loro pagina Facebook: “Di fronte alla guerra che sta pretendendo un pesante tributo di sangue, di morti e di feriti da entrambe le parti, di distruzione e terrore, di attentati e razzi, noi resteremo con l’affermazione: «Terminare la guerra ora!» Invece di essere trascinati ancora e ancora in più guerre e più operazioni militari, ora è il momento di condurre un percorso di dibattito e di un accordo diplomatico. C’è una soluzione diplomatica. Quale prezzo pagheremo – noi, i residenti del sud e il resto di Israele, e gli abitanti di Gaza e Cisgiordania – per arrivare a questo? […] Insieme, ebrei e arabi, sostituiremo il cammino fatto di occupazione e di guerre, di odio, istigazione e razzismo, con un percorso di vita e di speranza”.

Abbiamo un leader che combatte una sola campagna – la campagna per la propria sopravvivenza politica”, ha detto uno dei principali oratori: Meir Dagan, ex capo del Mossad, che era in piazza con l’ex comandante militare della regione nord ed ex vice capo del Mossad, Amiram Levin.
Per sei anni, il signor Benjamin Netanyahu ha servito come primo ministro”- ha aggiunto- ”In sei anni non ha fatto una sola mossa per cambiare la regione e per creare un futuro migliore

La vedova del colonnello israeliano Dolev Keidar, ucciso durante l’offensiva della scorsa estate contro la Striscia di Gaza, dal podio ha severamente criticato l’approccio del premier verso la questione palestinese. “Sì, signor Primo Ministro, ciò che è importante è la vita stessa, ma è impossibile parlare tutto il tempo di Iran e chiudere un occhio sul sanguinoso conflitto con i palestinesi, che ci costa tanto sangue”, ha detto Michal Kestan-Keidar.

Mentre la crisi mondiale precipita sempre più verso una guerra allargata, è chiaro ormai per molti israeliani che, qualsiasi possano essere gli sviluppi futuri dell’attuale situazione politica, economica e militare internazionale, la politica aggressiva di Benjamin Netanyahu ha portato ormai lo Stato di Israele ad un punto di non ritorno. Soprattutto con la spinta verso la guerra all’Iran, altrettanto voluta dagli Stati del Golfo e dal regime saudita, ma attualmente osteggiata dagli Stati Uniti che, invece, dell’Iran come alleato potrebbero avere sempre più bisogno per dirimere le questioni mediorientali.

La politica dell’incremento della spesa militare di tutte le maggiori potenze e di autentico riarmo da parte della Cina, del Giappone e della stessa Germania confermano il lento scivolare del globo verso un conflitto mondiale,5 di cui le guerre finanziarie e monetarie non sono che un’anticipazione gravida di imprevedibili conseguenze6. Ed Israele potrebbe trovarsi a breve al centro di ogni tipo di conflitto, senza alleati sicuri con cui concordare la propria azione.

D’altra parte Hannah Arendt l’aveva già previsto nel lontano 1948, ai tempi della prima guerra arabo-israeliana: “[…] anche se gli ebrei dovessero vincere la guerra […] La nuova terra sarebbe qualcosa di molto diverso dal sogno degli ebrei di tutto il mondo, sionisti e non-sionisti. Gli ebrei “vittoriosi” vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difenderli fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività […] il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio […] continuerebbe a essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini”.7

Da settant’anni ormai lo Stato di Israele affida la sua sicurezza a Tsahal, uno degli eserciti più armati, addestrati e potenti del mondo ipocritamente definito come Forza di difesa, senza però mai essere venuto definitivamente a capo dei suoi problemi di sicurezza ed economici. Anzi entrambi sembrano essersi aggravati nel corso dei decenni, dimostrando così che il progressivo rafforzamento del Golem tecnologico-militare non ha contribuito a difendere meglio il suo territorio né, tanto meno, a migliorare le condizioni di vita della maggioranza dei suoi abitanti.

merkavaDa questo punto di vista la storia del carro armato Merkava, il gioiello corazzato dell’esercito israeliano, nato nel 1979 e interamente prodotto in Israele, può costituire un buon esempio.
Il carro Merkava prende pomposamente il nome dalla parola ebraica Merkavah, (carro, biga) usata in Ezechiele (Ez1,4-26) con riferimento al carro-trono di Dio con angeli detti Chayyot.

Il profeta Ezechiele così descrive la struttura del Carro Celeste: “Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Quando essi si muovevano, esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote”. (Ez. 1,16-21)

Il richiamo biblico serve dunque a definire un mezzo corazzato in grado di raggiungere ogni luogo e in qualsiasi condizione. Tant’è però che, anche se oggi è considerato dagli esperti il carro armato più sicuro al mondo, nel corso degli anni i modelli succedutisi sono stati almeno sette: tutti modificati, o quasi, a seguito delle esperienze belliche sui vari fronti (a partire da quella in Libano degli anni ottanta). E senza che esso sia mai riuscito a trionfare nello sconto urbano o su territori difficili come quello del confine libanese, per cui è stato continuamente modificato.

L’aumento della potenza da sola non basta contro un nemico abile e determinato anche se armato in maniera più povera. Questa è una lezione che le strategie militari occidentali ed israeliane continuano a non comprendere. Anzi, si potrebbe dire che la guerra da sola, come strumento di controllo e di dominio non sarà mai sufficiente a risolvere i problemi tra le società e le nazioni.

Forse era anche questa la lezione che gli uomini pii delle antiche leggende volevano trasmettere: la forza non basta, anzi spesso è dannosa anche, e forse proprio, per chi pensa di averne di più. Poiché nel momento in cui quella forza gli si rivolterà contro, l’apprendista stregone non saprà e non potrà affrontarla perché tutto il suo sapere, tutte le sue abilità e tutte le sue esperienze si saranno già preventivamente concentrate in essa e soltanto in essa. Privandolo di qualsiasi altra possibilità dialettica o strumentale.

Oggi Bibi, l’omino di latta dal sorriso feroce, sbruffoneggia, ricordando qualche nostro premier, mentre scherza col fuoco di una guerra allargata. Eppure già diversi anni fa, un vecchio israeliano, comunista di origini polacche, aveva intravisto la trappola in cui il sionismo si sarebbe racchiuso da sé. Senza via di scampo. “Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni militari e civili dell’Autorità palestinese, nessun segno di prossima capitolazione è in vista. La deteminazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza, si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti a ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore8

E concludeva affermando: “La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono, in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha, fra l’altro, come rovina il popolo di Israele”.9

Schiacciato tra i giochi planetari della potenza declinante di Washington e quelli locali delle monarchi sunnite del Golfo e delle potenze rampanti come Cina, Turchia e Iran, Israele rischia veramente di fare la fine del topo. Nonostante la prosopopea da protettore degli “ebrei di tutto il mondo” con cui Bibi ha voluto presentarsi alle imbambolate piazze parigine del post-Charlie.

merkava 2 A meno che i suoi cittadini non si arrischino, per ridurlo in polvere, a togliere l’alef dalle parole, false, scritte sulla fronte del loro Golem.10 Così come dovremo fare noi anche qui, nel resto dell’Occidente, strappando dalla fronte dei nostri Golem imperialisti e militaristi le magiche parole “Progresso, Democrazia e Libertà” con cui continuano a tenersi in vita. A spese nostre e del mondo intero.


  1. Così come avviene nelle narrazioni medievali riguardanti la creazione del Golem riportate in Moshe Idel, Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismo, Einaudi 2006, pag. 90 e seguenti  

  2. Vedasi, oltre al già citato Moshe Idel, anche Gersom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993 e, ancora, G.Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi 1980  

  3. M. Idel, op. cit., pag.50  

  4. Si confrontino, a tal proposito, Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, Verona 2005 e Furio Biagini, Giudaismo contro sionismo. Storia dei Neuteri Karta e dell’opposizione ebraica al sionismo e allo Stato di Israele, l’Ornitorinco edizioni, Milano 2010  

  5. Si vedano: Guido Santevecchi, Il riarmo cinese. Spese su del 10%, Corriere della sera 5 marzo 2015; Giovanni Zagni, La Germania pensa al riarmo e rivede il suo pacifismo, Corriere della sera 9 marzo 2015; Guido Santevecchi, La spesa record del Giappone per il riarmo. Guardando alla Cina, 15 gennaio 2015  

  6. Brunello Rosa, La guerra delle valute, in Moneta e Impero, Limes 2/2015  

  7. Hannah Arendt, Salvare la patria ebraica: c’è ancora tempo (1948) in Ebraismo e modernità, Feltrinelli 1993, pp. 167-168  

  8. Michael Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri 2004, pp. 48-49  

  9. M.Warschawski, op.cit., pag.123  

  10. Sulla possibile sconfitta elettorale di Netanyahu e della sua coalizione alle prossime elezioni si veda Bernardo Valli, Tra i seguaci di Netanyahu che temono le urne. La sinistra di Israele torna a sognare la vittoria, La Repubblica 13 marzo 2015  

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