Be bop – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Portare la guerra sul palco https://www.carmillaonline.com/2017/01/19/portare-la-guerra-sul-palco/ Wed, 18 Jan 2017 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36029 di Sandro Moiso

suicide Kris Needs, Dream Baby Dream. SUICIDE. La storia della band che sconvolse New York City, Goodfellas 2016, pp.336, € 22,00

“La gente tende a resistere al cambiamento, il sistema lo considera una minaccia, ma alcune persone non riescono a evitare di essere ciò che sono, e quello è il loro dono per gli altri, se sono in grado di riceverlo” (Annette Peacock)

Potrebbero bastare i 23 minuti di registrazione che ci rimangono del concerto tenuto dai Suicide a Bruxelles il 16 giugno del 1978, tra un basso ripetuto di pulsazioni elettroniche, fraseggi vocali ridotti all’osso e fischi, [...]]]> di Sandro Moiso

suicide Kris Needs, Dream Baby Dream. SUICIDE. La storia della band che sconvolse New York City, Goodfellas 2016, pp.336, € 22,00

“La gente tende a resistere al cambiamento, il sistema lo considera una minaccia, ma alcune persone non riescono a evitare di essere ciò che sono, e quello è il loro dono per gli altri, se sono in grado di riceverlo” (Annette Peacock)

Potrebbero bastare i 23 minuti di registrazione che ci rimangono del concerto tenuto dai Suicide a Bruxelles il 16 giugno del 1978, tra un basso ripetuto di pulsazioni elettroniche, fraseggi vocali ridotti all’osso e fischi, applausi e proteste di un pubblico sempre più esausto, per comprendere appieno il senso della frase della vocalist d’avanguardia riportata sopra e per assimilare anche solo in parte quale fu l’impatto provocato sul pubblico e sulla scena musicale degli anni ’70 dal duo composto da Alan Vega (nato Bermowitz, 1938 – 2016) e Martin Rev (nato Reverby, 1947).

Occorre però considerare che era dal 1970 che i due performer avevano iniziato a terrorizzare la scena musicale newyorkese con un misto di musica sperimentale eletttronica, vocalizzi esasperati e provocazioni fisiche nei confronti del pubblico (spesso scarsissimo) che impedì loro, per diversi anni, sia di individuare una casa discografica disposta ad incidere un loro disco che di trovare ingaggi continuativi nel locali in cui si esibivano gli altri musicisti della Grande Mela.

Kris Needs, giornalista e prolifico scrittore inglese, un tempo redattore per il New Musical Express e ZigZag, attraverso un lavoro di interviste durato sei mesi ricostruisce la loro storia, praticamente dalla nascita fino agli ultimi anni, con un’opera che intreccia la vita e le opere dei due musicisti con l’ambiente sociale, culturale e musicale in cui si trovarono a crescere e a veder maturare le proprie esperienze. Ma nel fare questo finisce col dar vita ad una delle opere più interessanti sulla storia culturale, architettonica e sociale di New York, dagli anni Quaranta alla fine degli anni Settanta del XX secolo, che potrebbe anche costituire un ideale compendio novecentesco del lavoro svolto da Bruno Cartosio sulla storia della città tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.1

Suicide 1 Figli entrambi di famiglie della working class emigrate negli Stati Uniti dall’Europa Orientale a causa dei pogrom antisemiti, pur separati da una decina d’anni di età, i due futuri compagni di scorribande avanguardistico-musicali, ebbero modo di crescere in uno degli ambienti più vivaci dal punto di vista artistico-culturale della seconda metà del ‘900. La New York di Jackson Pollock, del Be bop e di Charlie Parker, della letteratura beat, del doo wop dei gruppi vocali di strada, di Miles Davis e della nascita del free jazz con Albert Ayler, John Coltrane e una schiera di altri musicisti afro-americani e bianchi dediti all’esplorazione delle sonorità più libere ed inaspettate, costituì infatti l’ambiente in cui Alan Vega e Martin Rev trascorsero l’adolescenza e la gioventù.

Un ambiente sul quale da lì a poco il rock’n’roll, la pop art e i suoni importati dall’Inghilterra avrebbero ulteriormente influito portando successivamente alla formazione di gruppi come i Velvet Underground legati alla Factory di Andy Warhol o come i Silver Apples, i primi a sperimentare forme di musica elettronica davanti ad un pubblico giovanile in attesa di un concerto rock.

In anni in cui i musicisti che si erano formati nello studio accademico della musica classica iniziavano a rompere le barriere tra i generi e, soprattutto, la barriera fittizia elevata da un sapere accademico classista e perbenista tra cultura alta e cultura bassa. Così come avevano fatto fin dal 1968 in Germania Irmin Schmidt e Holger Czukay, due ex-allievi di Karlheinz Stockhausen, dando vita ai Can. Un gruppo che non poco avrebbe influito sui futuri sviluppi della musica d’oltreoceano.

Anni, però, in cui gli Stati Uniti non avrebbero più smesso di essere in guerra, dalla Corea al Vietnam, dopo il predominio planetario assunto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Anni della cosiddetta guerra fredda che sarebbero sfociati in uno dei maggiori massacri imperialisti oltre oceano: quella guerra in Vietnam in cui furono coinvolti più di un milione di giovani americani, di cui quasi centomila tornarono in patria rinchiusi in un sacco nero e molti di più menomati fisicamente o psichicamente per il resto dei loro giorni.

Causando così al proprio interno una diffusa sollevazione popolare in cui giovani studenti bianchi, chiamati al servizio militare insieme ai loro coetanei neri, accanto ai militanti del Black Panther e ai reduci di una guerra imperialista insopportabilmente trasmessa dalle tv dell’epoca ad ogni ora del giorno, diedero vita ad un movimento che portò il paese quasi sull’orlo della guerra civile e che servì a ridestare sia i movimenti per i diritti civili degli afro-americani in patria che le coscienze dei giovani e dei lavoratori nel resto del mondo occidentale.

A tutto questo non poteva sfuggire l’ambiente musicale ed artistico bazzicato dai due che proprio sulla necessità di opporsi a quella guerra trovarono una prima base di accordo, sia artistico che amicale. Primi ad utilizzare il termine “punk” in tempi ancora non sospetti, diedero vita ad eventi che definirono all’inizio “punk mass”, traducibili sia con “massa di spazzatura” (con riferimento al muro di suoni prodotto) che con “messa per froci” (nell’accezione più offensiva di un termine che già serviva a definire qualcosa o qualcuno di bassa qualità) con un evidente provocatorio riferimento ad un tempo in cui il militarismo tendeva ad offrire un’immagine virile e forte dell’America in guerra.

Come afferma uno dei due: ”Convivevamo con la realtà della guerra e portavamo la guerra sul palco.Tutti ci odiavano”. Guerra alla guerra, ma anche guerra contro le convenzioni in cui la musica di una generazione veniva continuamente risucchiata, mentre “i due condividevano il desiderio comune di creare il manifesto più rumoroso e provocatorio possibile2
Alan avrebbe ricordato: “Suonavamo per ore e registravamo tutto. Dopo una sessione di circa tre ore, riascoltavamo quello che avevamo fatto e ci dicevamo «Siamo pazzi?». Ma lo adoravamo. Noi improvvisavamo, qualcosa che nessuno fa più. Da lì è arrivata anche la parte vocale. Non scrivemmo molte canzoni, ma continuavamo ad improvvisare, e lasciavamo che andasse da sé. Tutto venne fuori come fosse in stile free jazz”.3

Poiché le prove si svolgevano nel grande loft del Project of Living Artists, situato in una delle zone più degradate di Manhattan, di cui Alan era formalmente il custode, una notte il frastuono proveniente dalle alte finestre del locale attirò una folla nella strada sottostante, cosa che Alan avrebbe ricordato nei suoi colloqui con l’autore. “Suonavamo a volume davvero alto, direi assordante. Era una tiepida notte di primavera, stavamo suonando di brutto quando all’improvviso sentimmo della gente giù in strada dire «Ancora, ancora!». Guardai fuori dalla finestra e c’era, cazzo, un centinaio di ragazzini laggiù ad ascoltare noi che ci lasciavamo andare a questo flusso di coscienza sonoro. Non riuscivamo a crederci. Probabilmente si trattava dei fattoni di Washington Square Park”.4

Questo episodio può servire a testimoniare lo strano incontro tra rock’n’roll, elettronica, ricerca sonora e blues di strada che fini col costituire l’anima e il prodotto dei Suicide. Incontro magnificamente illustrato da un brano come Cheree, pubblicato nel primo album ufficiale registrato nel 1977 e prodotto da Marty Thau, capolavoro assoluto di quella che potrebbe essere definita poesia della strada e che consiglio ai lettori di ascoltare all’infinito mentre leggono questa recensione.

suicide 2 Questo insistere sull’improvvisazione, però, potrebbe far dimentica che almeno uno dei due , il tastierista Martin Rev, aveva avuto una educazione jazzistica tutt’altro che superficiale. Fu infatti allievo di un grande pianista misconosciuto come Lennie Tristano e, in seguito, ebbe modo di prendere lezioni da un percussionista fondamentale nella storia del jazz moderno come Tony Williams, di poco più vecchio e di cui divenne amico.

Un ambiente, quello del jazz tradizionale e soprattutto d’avanguardia, che non smise mai di affascinarlo e di ispirarlo e in cui ebbe modo di esibirsi al fianco di alcuni suoi importanti esponenti.
Alan invece iniziò la sua carriera artistica come scultore e creatore di strutture luminose, ricavate da materiali di scarto recuperati nelle strade oppure rubati qua e là. Una sorta di arte povera che in qualche modo si sarebbe poi anche riflessa negli strumenti utilizzati sul palco da Martin.

In un epoca in cui l’uso dell’elettronica in musica era ancora abbastanza limitato e in cui il Moog e il Theremin costituivano ancora gli unici “strumenti” disponibili sul mercato (a caro prezzo), i due si videro costretti ad inventare la strumentazione di cui avevano bisogno. Un po’ come già aveva fatto alla fine degli anni Sessanta Simeon Coxe III, tastierista dei Silver Apples, un duo costituito da lui e dal batterista Danny Taylor.

Come ha ricordato Alan ridendo: “Comprammo tutto per la somma di dieci verdoni perchè non potevamo permetterci di più: un organo giapponese scadente da cui non riuscivamo a cavare alcun suono e un ampli per basso […] Faceva schifo. Quindi iniziammo a comprare tutti questi booster per i toni acuti e per i bassi, oggettini da un dollaro che allora tutti volevano, delle puttanate elettroniche! Noi li saldammo insieme per ricavarne un altro suono. La tastiera di Marty aveva una fila intera di questi cosi e un sacco di comandi e altra roba. Schifo non è la parola giusta. Faceva più che schifo. Era straordinario! Era tutto un sound creato in base alla necessità di creare un sound perché non riuscivamo ad ottenere un sound. E venne fuori. Boom! Fu come il big bang!5

Una creazione artistica che, si potrebbe dire, più dal basso di così non avrebbe potuto iniziare. Eppure, eppure…gli album che ne sarebbero scaturiti, soprattutto i primi due ufficiali registrati rispettivamente nel 1977 e nel 1979, sarebbero stati destinati non a grandi vendite e successi, ma a modificare irrimediabilmente il gusto musicale dei decenni successivi. Due album di una discografia ridottissima (5 album in studio tra il 1977 e il 2002), ma “esagerata” fino alla fine. Come dimostra l’ultimo American Supreme, mal accolto (tanto per cambiare) dalla critica eppure violentissimo e ancora feroce nei confronti del sogno americano dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Kris Needs costruisce intorno alle vicende che avrebbero portato alla celebrità i due artisti newyorkesi un’opera “totale” in cui Sun Ra incrocia i Cramps e il glam dei New York Dolls si accompagna alle ricerche della musica d’avanguardia, mentre sullo sfondo nascono, crescono oppure letteralmente crollano come il Mercer, locali glamour e à la page oppure fatiscenti passati alla storia della musica come il Vanguard , il Max’s Kansas City, il CBGB e molti altri ancora. Così come gli imprenditori, talvolta legati al malaffare e talvolta soltanto appassionati di musica, che li animarono nel successo oppure che ne seguirono il rovinoso destino.

Tra personaggi come Fellini, Hendrix, Warhol, Burton Green, Joey Ramone e molti altri ancora l’autore ci guida così in una folle, appassionata e attenta ricostruzione della New York più vivace e attraente sia dal punto di vista musicale che intellettuale della seconda metà del Novecento. In cui , come in una canzone di De Andrè, i fiori nascono da un sottobosco urbano in cui drag queen, malavitosi, musicisti pieni di idee ma spiantati, snobismo, contraddizioni sociali enormi e povertà e tossicodipendenza diffusa hanno dato vita ad alcuni dei percorsi artistico-musicali più importanti del secolo appena trascorso.

Ancora una volta, dunque, occorre ringraziare le Edizioni Goodfellas per aver pubblicato il testo in italiano in una collana, la Spittle, di cui costituisce il terzo validissimo volume.


  1. Bruno Cartosio, New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917), Feltrinelli 2007  

  2. pag.108  

  3. pag.109  

  4. pag. 110  

  5. pag. 120  

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Blue, uno sguardo sul jazz nell’epoca del suo tramonto https://www.carmillaonline.com/2014/02/07/blue-sguardo-sul-jazz-al-tramonto/ Thu, 06 Feb 2014 23:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12341 di Sandro Moiso

EricNisenson_Blue Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il jazz?, Odoya, Bologna 2013, pp. 336, euro 20,00

Per il lettore, un libro è, o dovrebbe essere, un viaggio di scoperta. A volte i libri sono viaggi di scoperta anche per chi li scrive, e questo è uno di quei libri” (Eric Nisenson)

Attorno ai quindici anni lessi il mio primo libro sul jazz. Credo si trattasse di “I grandi del jazz” di Franco Fayenz. All’epoca la letteratura sul jazz, e sulla musica moderna in generale, era, in Italia, piuttosto scarna. Ci si affidava alla rivista “Musica Jazz”, diretta da [...]]]> di Sandro Moiso

EricNisenson_Blue Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il jazz?, Odoya, Bologna 2013, pp. 336, euro 20,00

Per il lettore, un libro è, o dovrebbe essere, un viaggio di scoperta. A volte i libri sono viaggi di scoperta anche per chi li scrive, e questo è uno di quei libri” (Eric Nisenson)

Attorno ai quindici anni lessi il mio primo libro sul jazz. Credo si trattasse di “I grandi del jazz” di Franco Fayenz. All’epoca la letteratura sul jazz, e sulla musica moderna in generale, era, in Italia, piuttosto scarna. Ci si affidava alla rivista “Musica Jazz”, diretta da Arrigo Polillo e ci si accontentava di una critica spesso rivolta ancora a definire il canone jazzistico in base al jazz di New Orleans e a quello suonato dall’orchestra di Benny Goodman oppure, al massimo, al be-bop e al cool jazz californiano. Eppure quel libro fu la causa del mio successivo entusiasmo per la musica afro-americana (naturalmente insieme all’ascolto, avvenuto qualche anno prima, di “Hit The Road Jack” di Ray Charles).

Insieme ad un mio compagno di classe, altrettanto appassionato di musica, andavo scoprendo il blues di John Mayall e di Eric Clapton e il sax di Charlie Parker, la chitarra elettrica di Jimi Hendrix e la poesia cosmica di John Coltrane, l’urlo libero di Ornette Coleman e il soul/funk delle metropoli industriali degli Stati Uniti, la suite per la libertà adesso e subito di Max Roach e Miles Davis che, da lì a qualche tempo, avrebbe finito col fondere il tutto in un calderone magico da cui sarebbero usciti “In A Silent Way” e “Bitches Brew”.

Oggi, a distanza di tanti anni, il libro di Nisenson, critico ed autore di importanti testi sul jazz e il suo mondo, ha causato in me lo stesso stupore, ha riacceso la stessa passione e lo stesso interesse nei confronti di tutta quella musica.
E di altro ancora, perché mi sono ritrovato tra le mani un libro appassionato, scritto con il rigore dello studioso e la furia del cultore, tutto rivolto non a ricostruire per l’ennesima volta lo storia della musica jazz e dei rapporti sociali che l’hanno prodotto, ma a trasmettere l’idea di cos’è , cosa è stato e cosa dovrebbe essere il jazz. E guardate che, non è cosa da poco, ci riesce benissimo.

Di storie della musica afro-americana ne esistono oramai anche troppe. Negli ultimi anni anche qui in Italia ne sono state pubblicate tantissime: tutte colte, tutte ricche di discografie e bibliografie, tutte scontate. Tanto, dal punto di vista storico-sociale, quella recentemente ripubblicata di Eric J. Hobsbawm, precedentemente edita sotto falso nome nel 1961 e poi nel 1982 con l’attribuzione all’autore reale, da sola potrebbe già bastare1.
Anche Blue ricostruisce gli snodi più importanti della storia del jazz e della sua evoluzione, ma non è mai scontato. Trasmette ad ogni pagina la voglia di andare avanti nella lettura per vedere cosa succederà ancora. Anche a chi quella storia e quell’evoluzione un po’ già le conosce.

L’intenzione dell’autore non è, come ho già detto, quella di riscrivere la storia di quella che forse è stata la musica più importante di buona parte del ‘900. No, l’intento è polemico. Proprio contro coloro, quelli che l’autore chiama i jazzisti neo-classici, che attraverso la ricostruzione storica e la riproposizione musicale più accurata vorrebbero trasmettere un ben preciso ed unico canone di quella musica. E che, così facendo, la stanno appunto uccidendo.

Il tentativo di definire un canone unico per il jazz non è nuovo e non lo è per l’arte in generale. E ogni volta tale tentativo ha trovato sempre chi lo negasse e lo superasse, nei fatti, con la propria opera, spesso destinata a stravolgere gli schemi con cui la critica accademica, e non, guardava alle manifestazioni artistiche e musicali. Ma, nel jazz e in tutto quello che riguarda le culture afro-americane, c’è sempre stato un elemento in più ad intorbidare le acque: quello razziale.

La più importante musica americana è nata dall’incontro tra la cultura bianca e cristiana e quella africana, tribale e pagana. La libertà presupposta dall’ideale contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti si scontrava così direttamente con i suoni e i sogni di coloro che da tale libertà erano esclusi senza possibilità di redenzione: gli schiavi africani e i loro discendenti.
Questo dava vita non solo ad un mercato separato ( da una parte la musica bianca ed all’altra i race records destinati all’ascolto dei neri), ma a tutta una catena di conseguenze economiche e culturali in cui le industrie discografiche che stampavano la musica prodotta dai neri, i locali in cui questi si esibivano e la critica che li giudicava erano, nel 99% dei casi, di appannaggio dei bianchi, americani e non.

Ma, c’è sempre un ma…quella musica nera, tutt’altro che domata dal puritanesimo religioso dello schiavismo bianco, iniziò, molto prima dell’avvento di Elvis the pelvis e del rock’n’roll, ad attrarre molti giovani bianchi. E non solo come fruitori, per così dire, a sbafo, ma anche come autentici protagonisti e creatori. Chi potrà mai negare il contributo dato al jazz da Bix Beiderbecke, Bill Evans, Lennie Tristano, Scott La Faro, Chet Baker, Dave Brubeck, solo per citare alcuni dei principali innovatori bianchi tra i tanti che lo suonarono?

Ecco, qui si apre il problema affrontato da Nisenson nel suo testo: coloro che oggi rifiutano di ammettere qualsiasi contributo bianco al jazz, Wynton Marsalis e le sue serate jazz al Lincoln Center oppure critici “neri” come Stanley Crouch e Albert Murray, non rischiano di essere razzisti a loro volta interiorizzando proprio quella visione del “negro” come barbaro felice, unico depositario del ritmo e delle spontanee forze della natura, che ha contraddistinto la lettura sbiancata delle culture “altre” dall’Illuminismo in poi?

Se poi gli stessi insistono col trasferire sul pentagramma, nota per nota, tutta la grande musica improvvisata del passato per darle la stessa dignità della musica classica, europea e bianchissima, non accettano forse in pieno una visione culturale egemonica e bastarda che per secoli ha stabilito, a priori, cosa fosse civiltà e cosa fosse barbarie? E se, poi, gli stessi personaggi finiscono col ripudiare il free jazz come non musica e con l’abbracciare le ideologie più retrive del repubblicanesimo reganiano, non diventano essi stessi forze della conservazione e della reazione culturale e politica più bieca?

Questo è uno dei nodi centrali dell’opera e coinvolge, per alcuni aspetti, non solo una prospettiva di stampo genuinamente artistico, ma anche una visione del mondo e una prospettiva sostanzialmente politica che prova a capire perché il jazz oggi sta morendo nonostante siano in molti a suonarne la gran cassa. Anche se, in fin dei conti, è proprio la fine del predominio americano sul mondo a segnare la fine del secolo americano anche dal punto di vista musicale, e l’autore ne è pienamente consapevole, e quindi di tutte le sue “musiche”. Bianche, nere o meticce che siano. Ma il potenziale lettore non si deve preoccupare perché il libro fila via liscio anche per chi non ha mai letto nulla sull’argomento.

Anzi, si può dire che questo, attualmente, è forse il miglior testo in circolazione per cominciare a comprendere il suono nero e i suoi sviluppi. Specialmente per i giovani.
Louis Armstrong, George Russell, Sonny Rollins, Gil Evans, Sun Ra, Dizzy Gillespie, Lester Young, Duke Ellington, Albert Ayler, Thelonious Monk e tutti gli altri, dopo questa lettura non saranno più soltanto dei nomi o delle “figurine” sull’album dei collezionisti, ma figure vive e vere, in attesa di suonare ancora per chi li vuole ascoltare e capire davvero.

Intanto Nisenson, morto nel 2003 a 57 anni, da qualche parte sta ancora ascoltando, sicuramente, tutti quei musicisti che, dopo aver dato l’assalto al cielo, stanno ancora improvvisando insieme, senza distinzione di nazionalità o di colore della pelle.


  1. Eric J. Hobsbawm, Storia sociale del jazz, Editori Riuniti, Roma 1982  

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