Baudelaire – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Madame, di Mauro Baldrati – un estratto https://www.carmillaonline.com/2022/11/23/madame-di-mauro-baldrati-un-estratto/ Wed, 23 Nov 2022 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74915 Bompiani, Milano 2022, pagg. 133 € 15

E’ in libreria il nuovo romanzo del nostro redattore Mauro Baldrati, ambientato a Parigi nel 1894. L’anziana baronessa Veronique Fourier, vedova di un giovanissimo generale aiutante di campo di Napoleone, vive sola in un grande palazzo deserto e semibuio, ostaggio dei suoi ricordi e della sua malinconia. Gli unici appigli a una vita ancora attiva sono i rari inviti che riceve dalle mesdames dei salon mondani. Durante uno di questi pranzi viene avvicinata da un ragazzo, bello, elegante, prodigo di complimenti fino alla piaggeria, che le [...]]]> Bompiani, Milano 2022, pagg. 133 € 15

E’ in libreria il nuovo romanzo del nostro redattore Mauro Baldrati, ambientato a Parigi nel 1894. L’anziana baronessa Veronique Fourier, vedova di un giovanissimo generale aiutante di campo di Napoleone, vive sola in un grande palazzo deserto e semibuio, ostaggio dei suoi ricordi e della sua malinconia. Gli unici appigli a una vita ancora attiva sono i rari inviti che riceve dalle mesdames dei salon mondani. Durante uno di questi pranzi viene avvicinata da un ragazzo, bello, elegante, prodigo di complimenti fino alla piaggeria, che le chiede un’intervista per un saggio che intende scrivere su Baudelaire. Quel ragazzo è Marcel Proust. Inizia un ciclo di incontri sui quali aleggia il personaggio enorme, folle e disperato di “Charlie” Baudelaire, che cambieranno per sempre la sua vita. Di seguito pubblichiamo un estratto del capitolo “Giorno di ricevimento”, che racconta il primo incontro tra Veronique e il giovane Marcel Proust.

* * *

Il ragazzo si girò di scatto, quando udì lo sfregamento della tenda. Si stringeva nel cappotto, sembrava preoccupato, spaventato quasi.
“Avete freddo monsieur?” chiese Veronique.
Il suo interlocutore mosse la testa a destra e a sinistra, e anche in alto, come per trovare sollievo dalla sciarpa di lana bianca che lo stringeva fino alle orecchie.
“In effetti sono molto sensibile alle correnti d’aria. Vi prego di scusarmi, madame.”
“Avvertite una corrente? Non mi stupisce, in questo vecchio palazzo dei fantasmi. Ora farò accendere una stufa da Jacques.”
La sala era riscaldata da due monumentali stufe di maiolica altoatesina, poste alle estremità del locale. Stava per chiamare il suo anziano domestico tuttofare, ma il giovane la fermò con un gesto della mano.
“Vi prego di non disturbarvi madame. Soffro d’asma, e se la stufa nell’accendersi sprigionasse fumo il mio respiro peggiorerebbe.”
Il giovane, mentre si sistemava sul divano, si sbottonò il cappotto. La baronessa notò che sotto indossava un’altra giacca, probabilmente di lana, abbottonata fin sotto al mento. Poi cercò di rilassarsi, benché ogni tanto lanciasse occhiate sospettose qua e là, soprattutto alle spalle, e frequentemente si sistemasse il cappotto, chiudendolo senza chiuderlo davvero coi bottoni. Sembrava voler ridurre la superficie corporea, implodere il suo volume.
Poi attaccò con una sequenza di ringraziamenti e di complimenti, esagerati come il giorno prima. C’era un che di erudito nei termini che usava, nella costruzione delle frasi; le ricordarono, chissà perché, le sonate del pianista Reynaldo. E aveva un modo di parlare che incantava. Le parole erano straordinariamente nitide, precise, scandite con una melodia senza sbavature. Lei era un modello di stile, di classe e di eleganza, e lui considerava un privilegio il fatto di essere in sua compagnia. Proprio lei, pensava Veronique, che si considerava una sopravvissuta, il relitto di un passato estinto.
Ma quel ragazzo, se manteneva i suoi modi esagerati, non era il giovane esuberante e allegro del pranzo. Tossiva, fu attraversato da qualche brivido, e forse aveva la febbre. In un momento difficile, quando la sua faccia sembrò implodere in un pallore mortale, glielo chiese.
“Vi sentite bene?”
Lui si portò una mano alla bocca, cercò di fare un respiro profondo, ma tossì di nuovo.
“Perdonatemi, madame, ma nel salone-serra di madame Lemaire i fiori fanno impazzire la mia asma, per cui devo somministrarmi una fiala di caffeina prima di entrare, e una dopo, quando esco, che non mi fanno dormire. E qui… sento la polvere.”
Veronique avvertì una scarica di dispiacere. Aveva ragione. Quello era un locale polveroso, per il semplice fatto che un giorno alla settimana di pulizia, per il quale aveva incaricato un’agenzia, non era sufficiente con tutti quei tappeti, i libri e i tendaggi. Si sentì in colpa. In qualche modo quei complimenti la caricavano di responsabilità. Come se quel giovane, con le sue lodi, le avesse costruito addosso un personaggio, e ora dovesse tenerlo in vita rispettandone l’immagine, coi relativi doveri.
“Dunque, madame… come vi dicevo sto lavorando a un saggio su Baudelaire.”
Lei aveva passato una parte della giornata immersa nei ricordi, per richiamare alla mente la figura del poeta, con la sua voce, i suoi modi. Soprattutto ricordava il suo aspetto, i suoi vestiti eccentrici. Iniziò a parlare sicura di sé, come se leggesse un intervento a lungo preparato, in realtà fluiva del tutto spontaneo.
“Certo. Io lo chiamavo Charlie. Sembrava stupito ogni volta che lo pronunciavo. Come se fosse in ascolto di un suono che si sprigionava da quel nome. Talvolta veniva da me vestito di bianco, o di nero. Voglio dire che ogni particolare del suo abbigliamento, dai lacci delle scarpe ai bottoni alle cuciture era di quel colore. E anche i guanti, aderentissimi, sui quali infilava gli anelli e i bracciali. Gli anelli avevano pietre di vari colori, che lui alternava secondo il colore dei guanti. Si incipriava con la polvere di riso e si truccava, come nel Settecento. Ogni dettaglio, anche minimo, era curato con precisione maniacale. Tuttavia… c’era anche qualcosa di sobrio nel suo aspetto, nulla a che vedere con l’immagine dell’artista selvaggio che iniziava diffondersi. Che lui peraltro detestava. La sua tenuta abituale, salvo quando era il personaggio nero, o bianco, era un soprabito scuro con pantaloni grigi, o nocciola, che lui sfregava con la carta abrasiva per togliere quella lucentezza del tessuto, che odiava.”
Il ragazzo sembrava avere dimenticato i suoi malanni. Ascoltava attento, con gli occhi puntati nei suoi, come schegge di granito nero, vigili, voraci. Il suo volto era immobile, come una maschera che esprimeva concentrazione, e turbamento. Quando la baronessa parlò dei guanti inanellati arcuò le sopracciglia, e le labbra si incresparono in un sorriso.
“Il nero gli piaceva molto. Quando arrivava in nero il suo umore sembrava cupo. Aveva la faccia incipriata, pallidissima…” Come la vostra, pensò Veronique fissando il giovane. “E le labbra erano corrette col rossetto. Non rideva, parlava pochissimo e qualunque cosa dicessi assumeva un’espressione di fastidio. Era irritato da tutto, gli oggetti, le altre persone, i discorsi, i fiori. Fastidio, o forse dovrei dire disprezzo, o entrambi.”
Il giovane aveva un quaderno sulle ginocchia, ma non aveva scritto una riga. Era come rapito dal racconto, in contemplazione del personaggio che la baronessa stava costruendo davanti a lui.
“E soffriva. Non ho mai visto nessuno soffrire come lui. Sembrava avvolto in una nube di disperazione che lo perseguitava. Ma lui la viveva col suo autocontrollo assoluto. Una volta, lo ricordo ancora come se fosse qui, disse: Ho una bandiera nera piantata sulla sommità del cranio. E un’altra, mentre si teneva la testa tra le mani: La mia mente è infestata da infami ragni che mi divorano.”
Il ragazzo, che sembrava molto colpito, appoggiò la penna sul foglio, ma la mano restò immobile. “Quindi che anno era?” chiese.
Quella mattina la baronessa aveva cercato di ricostruire i tempi degli incontri. Li confrontava con altri eventi, altri personaggi, abbinandoli a date che ricordava.
“Ci siamo incontrati su per giù il 1842, forse il 43.”
Il ragazzo socchiuse gli occhi. Sembrava fare calcoli a sua volta, o sognare altre epoche, altri stili.
“Quando era nero diceva di amare il tempo piovoso, il clima freddo, la neve, ma non il vento. Il soffio d’aria era un movimento eccessivo per lui. Tutto doveva essere immobile. Per cui il mare doveva essere piatto. Le onde lo infastidivano. E i fiori. Li odiava. Li trovava orrendi. Forse, diceva scherzando (ovvero con una smorfia sprezzante sulle labbra), solo i crisantemi erano sopportabili. Non parliamo del sole. Odiava uscire di casa col sole. Preferiva il cielo nuvoloso, meglio se di un grigio uniforme. Quando il tempo era brutto sembrava allegro, mentre col sole diventava cupo, e sgarbato.”
Il suo giovane ospite di nuovo non aveva scritto una parola. Mentre Veronique raccontava si proiettava in avanti, come per sentire meglio, e gli occhi si dilatavano, o si socchiudevano. Più di una volta si portò una mano alla bocca. Sembrava insaziabile di particolari, di dialoghi. Chiedeva continuamente se le recitava delle poesie.
“Certamente, ma non nei giorni neri. Mi avrebbe insultata se gliene avessi chiesta una. Le poesie, o le sue recite, perché recitava, sempre, salvo quando sembrava davvero sprofondare nella infelicità più abissale, erano per le giornate bianche. In bianco il suo personaggio usciva dall’oscurità e diventava persino allegro, forse perché nel periodo bianco mangiava e fumava l’hashish, talvolta l’oppio. Ma era un’allegria di maniera, esagerata e affettata, perché il suo stato d’animo abituale era la freddezza. Però non credo che la sua fosse solo una recita costruita. Secondo me Charlie si sentiva davvero quel personaggio, quel maledetto, quel poeta ispirato. Lo viveva fino in fondo, fino a diventarlo davvero.”

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Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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Joker di Todd Phillips https://www.carmillaonline.com/2019/10/21/joker-di-todd-phillips/ Mon, 21 Oct 2019 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55487 di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara [...]]]> di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara però). Qualche volta ci siamo chiesti: ma perché ci piace tanto la violenza? La mia risposta, che lui mi pare condivida, è che richiama la violenza che abbiamo dentro. E in questo va spazzata via l’obiezione che i film violenti ne favorirebbero l’emulazione. E’ esattamente il contrario: la rappresentazione della violenza in forma artistica serve per scaricarla su obiettivi innocui, e quindi esorcizzarla. La rappresentazione della violenza è una pratica di antiviolenza.

Così, anche ora che abbiamo superato gli anni ruggenti, la postadolescenza e le avventure pericolose, continuiamo a vederci, con appuntamenti più o meno settimanali, per una pizza seguita da un film.

L’ultimo che abbiamo visto insieme è stato Joker, l’evento dell’anno, si potrebbe dire. Qui a Bologna imperversa. Al Lumiere, dove proiettano in lingua originale coi sottotitoli, sabato non siamo riusciti a entrare. E Martedì, ci è stato detto, idem. Così abbiamo riprovato giovedì, trovando una fila chilometrica al Medica Palace, che per fortuna è la sala più grande della città. Il 90% era costituito da under 30, cosa che immediatamente mi ha mandato in crisi. I giovani sono esuberanti, parlano, mangiano, accendono i cellulari per controllare la pagina FB. Io il film voglio guardarlo in religioso silenzio. Però questi ragazzi, studenti fuorisede, sono diversi. L’abbiamo sperimentato con l’ultimo Tarantino, altrettanto gremito di giovani e addirittura giovanissimi. Stanno zitti, guardano e ascoltano e neanche mangiano. Bellissimi.

Per cui ci siamo fatti forza, abbiamo sopportato il trauma della fila e siamo entrati. Abbiamo trovato due posti senza comitive alle spalle, laterali (perché io riesco a sedermi solo nell’ultimo posto laterale), e ci siamo preparati mentalmente.

Joker. Ero prevenuto, come spesso mi accade. Odio le omologazioni, le mode che dominano, per cui tutti corrono a vedere i film che impazzano, mentre altre opere meno cool ma bellissime vanno semideserte. Inoltre avevo letto una messe di stroncature: gli americani, il Washington Post, il New York Times, anche Marie Claire, e naturalmente sul web, dove le stroncature, in stile trollesco, sono praticamente un must. L’accusa più ricorrente è che sia un film studiato a tavolino per essere grande, col risultato di essere invece piccolo, e scontato. Insomma, un film falso, forzatamente didascalico.

Perdio, mica una robetta da poco. Macigni. Film fasullo, artificioso. Film fallito.

Al diavolo, non abbiamo rilevato nulla di tutto questo. Non intendo sprecare il mio e il vostro tempo per riassumere la trama, ultraraccontata sui media mainstream e sul web. Vorrei invece sottolineare che se c’è un aspetto dell’opera che ci ha colpiti è la sincerità. E’ un film tutt’altro che falso. E’ sincera l’interpretazione di Joaquin Phoenix, che è praticamente sempre in scena, magro, ossuto, mobile, che fa di se stesso un’opera di body art. E’ sincera la sua difficoltà di adeguarsi al mondo, che lo schiaccia col disprezzo e l’indifferenza (comportamenti che in un certo senso lui attira, coi suoi atteggiamenti strambi, con la risata compulsiva, sintomo della sua sofferenza psichiatrica). Qualcuno ha scritto che evoca Taxi Driver, a me ha evocato Baudelaire. Era altrettanto emarginato, contraddittorio, rancoroso. Come il futuro Joker si sente fallito e ingiustamente ignorato, e i suoi spettacoli sono sempre di serie B, così Baudelaire falliva tutte le conferenze. Ma il fatto è che era un pessimo conferenziere: si impappinava, gesticolava, pronunciava battute sciocche che poi se le rideva da solo, mettendo in imbarazzo il pubblico. Dopo il disastro di Bruxelles fece la sua performance alla Joker scrivendo uno dei libri più violenti, razzisti e vendicativi della storia della letteratura: La capitale delle scimmie. Invece Arthur Fleck, che come il piccolo Baudelaire ha avuto un’infanzia segnata da una tragica infelicità, e dalla violenza, fa una scelta più pratica: diventa un genio del male, il nemico giurato di Batman. Il demone che ride.

Arthur muta in un essere autenticamente cattivo, perché esprime una carica eversiva senza sconti, una furia distruttiva che sgorga dalle cavità nere della società, dalla tragedia sociale che distrugge l’individuo anche come creatura collettiva (“E adesso con chi parlo?” chiede Arthur alla psicologa, mentre gli comunica che hanno appena tagliato i fondi dell’assistenza e quindi non potrà più riceverlo). Un essere che scardina ogni ordine, ogni morale, ogni ipocrisia (“Tu mi hai invitato qui, nel tuo programma, solo per prenderti gioco di me” dice a un cialtronesco Robert De Niro, prima di sparargli in faccia in diretta TV).

E proprio come Baudelaire, che nella sua meschinità di uomo vile, contraddittorio e perdente diventa un poeta inimitabile, così Arthur, frustrato, pazzoide e patetico, sale i gradini di una poesia nera, mostruosa e apocalittica.

Ma attenzione: Joker è un demone. Anche Hitler lo è. Ma non ha nulla di eversivo. Anzi, il contrario. Il demone nazista è l’estremizzazione terminale del Potere, dell’imperialismo capitalista che massacra i popoli per rubare le risorse e renderli schiavi (decine di migliaia di deportati che lavorano e muoiono in schiavitù nelle imprese tedesche).

Poi, soprattutto come ex lettore accanito di fumetti, non posso esimermi da alcune critiche: il suo diventare un eroe pop è rappresentato in maniera un po’ troppo sbrigativa e semplicistica; vanno bene i riferimenti, le incursioni nei vari generi, ma non lo scadimento nel “fumettismo”. Inoltre il finale è a mio avviso volutamente simbolico, mentre andava arricchito con alcuni cenni sulla definitiva mutazione in Joker, con l’evasione dal manicomio, la clandestinità e il crimine puro.

Però non sono mancate alcune scene che all’appassionato strappano un brivido: la comparsa di Bruce Wayne bambino (cioè il futuro Batman), quando Arthur si reca alla villa del ricco padre di Bruce, che lui considera anche suo padre, per un delirio narcisistico della madre, che lavorava come inserviente nella villa Wayne. E poco dopo la metà del film quando si alza, potente, seduttiva, la “voce della brughiera” di Jack Bruce, il cantante-bassista di una delle più strepitose band di rock-blues anni ’60, i Cream, per i quali io ho avuto una sorta di vera e propria infatuazione.

E basterebbe questo, solo questo, per fare di Joker un film indimenticabile.

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