Batman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’alieno, il pipistrello e il clown tragico. Transiti identitari e impotenze visive https://www.carmillaonline.com/2022/08/28/lalieno-il-pipistrello-e-il-clown-tragico-transiti-identitari-e-impotenze-visive/ Sun, 28 Aug 2022 20:52:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73308 di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano (e che in essi si esprimono): la minaccia e la rassicurazione, l’alterità e l’identità» (p. 123).

In queste righe che aprono il capitolo dedicato alle due serie di film che Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022) [su Carmilla], sceglie come terreno privilegiato di analisi di quei processi di crisi che investono e di cui danno consapevolmente conto i film negli ultimi decenni del vecchio millennio, ponendosi al contempo come avvisaglie della contemporaneità più recente, esplicita la centralità che ha assunto il rapporto alterità/identità in un periodo storico segnato da grandi trasformazioni sia a livello materiale che di immaginario.

Alien e Batman anziché collocarsi nettamente all’interno delle polarizzazioni minaccia/rassicurazione ed alterità/identità, transitano tra di esse trovando nell’ibridazione la loro specifica connotazione costitutiva, inoltre, continua Canova, l’alieno e il pipistrello sembrano aver bisogno l’uno dell’altro:

Alien trova cioè in Batman la figura mitopoietica necessaria a bilanciare la sua ambigua minacciosità con un’altrettanto ambigua rassicurativà, mentre per Batman vale esattamente l’opposto. Nel rapporto chiasmico che le lega, le due figure danno vita dunque a un sistema di compromesso, o a una coincidentia oppositorum: per certi versi, sostituiscono a loro volta l’aut aut del moderno con l’et et del postmoderno. E perimetrano un territorio immaginario in cui fra minaccia e rassicurazione (ma anche fra identità e alterità, fra visibilità e invisibilità, fra riproposta delle forme classiche e crisi dei processi di significazione) non c’è più contrapposizione esclusiva, ma solo e sempre coabitazione inclusiva (p. 124).

Si tratta di serialità tipicamente postmoderne, costruite sulla mescolanza e sulla contaminazione di codici e linguaggi, che, rifuggendo la logica fordista della catena, optano per la reticolarità, costruite come sono attorno a “un mostro senza volto” (Alien) o a un “eroe mascherato” interpretato di volta in volta da attori differenti (Batman). Sono serie fondate su criteri di

flessibilità, multidimensionalità e pluricorporeità (sia attoriale sia testuale) […] in cui tra un episodio e l’altro non c’è più, necessariamente, né ripetizione né sviluppo diegetico […] in cui “la differenza eclissa la norma” in un processo di ottimizzazione del “marchio di fabbrica” che ha bisogno di espandersi in ogni direzione, di dilatarsi al massimo. E di autoriprodursi incessantemente, in ogni modo e in qualsiasi direzione. (pp. 126-127).

La questione della riproducibilità, del resto, è ricorrente in entrambi casi; nel caso del mostro alieno questa si palesa con la sua ossessione riproduttiva che lo pone alla costante ricerca di corpi entro cui poter generare la propria discendenza, nel caso dell’eroe oscuro di Gotham City si insite invece sul suo stato di orfano che si trova ad agire da “macchina celibe” improduttiva.

Canova ricorda come, negli anni Cinquanta, nell’indagare la figura dell’alieno nella fantascienza, già Roland Barthes avesse sottolineato la sostanziale incapacità nella cultura occidentale di immaginare l’Altro, tanto da risolvere il “controllo sociale dell’alterità” «attraverso un atto di appropriazione e di ridefinizione morfologica che lo rendeva in tutto e per tutto omologo all’Identico» (p. 128). Evidentemente, continua Canova, si è trattato di processo di rimozione di comodo destinato a durare poco, visto che già sul finire degli anni Settanta l’immaginario occidentale si è trovato a fare i conti con “il ritorno del rimosso” e ciò, soprattutto nella cultura statunitense, si colloca all’interno di quel progressivo eclissarsi della figura del nemico esterno. Per certi versi è proprio nel venir meno «di un oggetto esterno su cui scaricare e a cui attribuire la responsabilità delle proprie paure persecutorie [che] la società occidentale le proietta in un mostruoso “fantasma circolante, senza forma o confini”, a cui dà tout court il nome archetipo di Alien» (p. 129).

Di fatto, nell’immaginario degli ultimi due decenni Alien “eccita” le fantasie di alterità e negozia la loro controllabilità sociale. Dà una forma all’Altro e lo rende visibile, ma segnala anche il pericolo che si annida nel nostro ostinarci a volerlo vedere. Di fronte a un pantheon cinematografico sempre più sguarnito di eroi, Alien offre al contempo un appagamento al bisogno inconscio di minacciosità e una garanzia che quella minaccia non diverrà mai reale (pp. 130-131).

La serie Alien, esplicitando sin dalle modalità con cui si compone il titolo del primo film (da una serie di brevi linee bianche) il suo rifarsi a un meccanismo generativo che prevede l’identico produrre il diverso e il differente generarsi a partire dall’uguale, si inserisce all’interno dell’archetipo del mostro proteiforme. La serie Batman deriva invece dall’archetipo dell’ibrido (uomo/pipistrello, roditore/volante ma è tale anche per la sua transcodificabilità e flessibilità multimediale).

Non è difficile vedere come entrambe le serie palesino un «legame metaforico (e metalinguistico) con la dimensione della filmicità» (p. 132): Batman diviene tale dopo essere restato orfano di ritorno dal cinema, pertanto la sua scelta può essere vista come «risposta nemesiaca a un dolore immeritato che ha interrotto il piacere conseguente a un consumo scopico» (p. 132), Alien, invece, «emerge dalle tenebre in cui è sepolto quando un raggio di luce fende la caverna in cui giace […] e si proietta direttamente sul suo organismo» (p. 132).

Seppure in maniera diversa, Alien e Batman sono due figure di transito identitario: il primo «cerca di sfuggire alla sua alterità fecondando il corpo di una donna che renda la sua progenie simile a lei, ma si vede continuamente respinto nella sua corsa verso l’identico dai rifiuti che riceve e dall’orrore che provoca, tanto da essere ogni volta rigettato all’indietro, verso le regioni buie e oscure dell’informe» (p. 133), il secondo, invece, controlla i suoi spostamenti tra i suoi due estremi identitari potendo contare sulla reversibilità.

Un’ulteriore metamorfosi di Batman deriva dalla sua rilettura gotica e spettrale dell’archetipo che lo conduce nel «buio di una città che sembra essere immersa nella stessa luce sporca e malata del pianeta di Alien, che comincia a proiettare nel cielo il suo marchio luminoso» (p. 134), quasi a rimandare a quella proiezione archetipa che, da bambino, di ritorno dal cinema, ha indirizzato il suo destino al desiderio di vendetta.

Se in Alien tutti sono in qualche modo stranieri che abitano i diversi luoghi in una situazione di transito, gli abitanti di Gotham City, città priva di estranietà rispetto a cui costituirsi identitariamente come differenza, intrattengono con il luogo relazioni di appartenenza e di identificazione, facendo tutti parte della medesima razza-cultura. In tale realizzazione del sogno occidentale autocentrico e solipsistico, la

figura minacciosa dell’Altro inteso come barbaro, diverso o straniero che preme ai confini e minaccia di entrare, secondo quella sindrome invasiva che costituisce la vera fobia epocale della società occidentale di fine millennio, nel mondo finzionale di Batman è esclusa a priori. L’Altro, a Gotham City, non viene da fuori, nasce da dentro. Emerge all’improvviso dalle viscere della città, appare nel buio livido delle sue notti. E la sua alterità è tanto più traumatica quanto più è avvertita, appunto, come endogena: quanto più marca ed evidenzia cioè una frattura che spacca in due un corpo etnico-sociale apparentemente coeso, rivelando il ritorno della differenza laddove sembrava non dovesse esserci che identità (p. 142).

Analogamente Alien e Gotham City si mostrano entità informi e mutevoli che adottano rapporti mimetici nei dei confronti dei corpi con entrano in contatto: «Alien assume la forma dei corpi in cui penetra, Gotham City si fa imprimere una forma da coloro che lottano per il suo dominio» (p. 144). Mentre «Gotham City è il luogo dell’Identico che genera al proprio interno l’Altro (architettonico, antropologico, etico, segnico), il cosmo di Alien è il luogo dell’Altro che si riplasma perennemente all’insegna dell’Uguale» (p. 146).

Entrambe le serie, sottolinea Canova, operano un indebolimento delle forme codificate e consolidate della della figura del viaggio. In Batman, pur trovandosi sempre nello stesso luogo, si ha l’impressione dell’altrove, di essere di volta in volta in luoghi diversi, in Alien, pur non essendo mai nello stesso posto, è come se lo si fosse in quanto i luoghi si presentano uguali. «L’estetica postmoderna della rovina (architettonica in Batman, meccanico-metallica in Alien) serve dunque ai creatori di Batman per produrre una spazialità differenziata ed eterogenea nei territori dell’Identico, mentre viene usata dai creatori di Alien per omologare la radicale alterità del mostro, imbrigliandola dentro spazi diegeticamente diversi ma iconicamente identici» (p. 148).

L’uomo-pipistrello e l’alieno tentano di sottrarsi allo sguardo altrui, di essere ridotti ad oggetto scopico. Il primo lo fa sia sul piano iconico (mascherandosi) che su quello diegetico (intervenendo nel racconto per impedire agli altri di fotografarlo o di filmarlo), il secondo agisce sul piano scopico (occultandosi).

L’inafferrabilità visiva dell’alieno, sottolinea Canova, non è però dovuta alla sua particolare conformazione fisica e iconica, che si scoprirà mutevole pur conservando sempre una componente animalesca sessualmente marcata irriducibile alla razionalità tecnica con cui si trova a fare i conti. La sua inafferrabilità è sopratutto cinematografica:

Alien è un mostro instabile o indecidibile non per le sue intrinseche caratteristiche teratologiche […] quanto per le modalità con cui viene messo in scena. Risulta instabile nella misura in cui diventa oggetto scopico. Allora si sottrae alla vista, sfugge e si nasconde, elude le trappole della tassonomia percettiva. E porta sullo schermo il trauma della inidentificabilità del visibile. Non basta vederlo per conoscerlo, per capirlo, per dargli una forma. La sua apparizione segna lo scacco della vista, è un evidente sintomo della sua crisi (p. 156).

Alien palesa come il limite dello sguardo non risieda soltanto nel fuoricampo; anche ciò che si fa intercettare dallo sguardo può non lasciarsi comprendere. «Alien è il sintomo esplicito di una frattura fra il vedere e il conoscere: la visibilità non garantisce più la conoscenza, non certifica alcuna verità. Produce piuttosto incertezza, indecisione, instabilità» (p. 156).

Alien sfugge al dominio dello sguardo sia per le modalità con cui è messo in scena visivamente che perché ogni sua apparizione diegetica manda in tilt i dispositivi tecnologici della visione. Nel suo continuo e simultaneo apparire-sparire è possibile scorgere «uno dei segni più radicali del disagio attraverso cui lo sguardo filmico svela a se stesso il proprio collasso epocale, e ne prende atto (o lo esorcizza) cercando – ancora una volta – di metterlo in scena » (p. 159)

Alien è anche un soggetto scopico inquietante, oltre che sfuggente: oltre a sottrarsi allo sguardo umano ne mette in campo uno proprio, “altro”, disorientante. L’intera serie è disseminata di sguardi senza padrone non attribuibili a qualche personaggio e nemmeno interpretabili come visioni diegetiche di un narratore esterno. Ad inquietare nella serie «non è tanto un differente modo di vedere, quanto il fatto che non è mai del tutto chiaro chi sta vedendo o guardando per noi. È la scoperta che la radicale alterità di cui Alien è portatore si esprime in uno sguardo del tutto simile al nostro (o a quello che i modi di rappresentazione e la retorica del cinema ci hanno abituato a percepire come “nostro”)» (p. 161).

I meccanismi di negoziazione fra Altro e Identico, attorno a cui ruota la problematica della definizione identitaria, sono riconducibili ai nemici di Batman ed a quelli di Alien, in particolare Ripley, che viene presentata come una novella Artemide, divinità della guerra e del parto allo stesso tempo, icona combattiva e chiamata a svolgere funzioni di maternità surrogatoria in difficile equilibrio tra l’umano e il bestiale. Come Artemide, Ripley vive ai margini, abita spazi liminali sulle frontiere dell’Altro, proprio come Batman che mascherandosi si fa altro da sé per rapportarsi con un’Alterità caratterizzata da una sorta di aspirazione frustrata al godimento. I suoi antagonisti, infatti, si presentano come creature infelici che esorcizzano il godimento negato simulandolo in maniera teatrale e narcisista smisurata:

diventano “altri”, insomma, nel momento in cui ambiscono a uscire dall’ordine quotidiano del dovere e della responsabilità per entrare anche solo virtualmente nel regime del godimento. È questo che Batman trova intollerabile in loro: il fatto che vivano come occasione gaudiosa quella stessa maschera che egli sente come scissione sofferta e dolorosa. In loro, insomma, Batman punisce tutto ciò egli non sa, non può e forse non vuole essere (p. 167).

Le due serie non presentano alcuna evoluzione del racconto, non presentano alcuno sviluppo:

“mettono in forma” una sofisticata dialettica fra l’Altro e l’Identico, poi (meglio: nello stesso tempo) attuano anche su di sé – sul proprio organismo seriale – quel farsi altro da sé che hanno tematizzato sul piano funzionale. Il che significa rappresentare un equilibrio e nello stesso tempo renderlo precario. Eccitare una pulsione e contemporaneamente inibirla. Evocare una forma e simultaneamente visualizzare un sintomo di crisi nei suoi processi di significazione (p. 174).

Ed è proprio «in questo equilibrio tensivo tra messa in forma e deformazione, tra iconofilia e iconoclastia, tra sfiguramento ed epifania della figura, che Alien e Batman acquistano un rilievo strategico nello scenario del cinema contemporaneo e danno voce a un conflitto e a un destino davvero – a modo loro – epocali» (p. 176).

Se c’è un «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7), scrive Canova nel capitolo aggiunto alla nuova edizione de L’alieno e il pipistrello, questi è Joker. Ed è proprio lui a togliere la scena a Batman nel Joker (2019) di Todd Phillips, eroe mancato che per un momento si trova a dare il volto-maschera alle frustrazioni e alla rabbia di una società alla deriva ma che non saprà/vorrà sfruttare l’occasione per farsi eroe di una rivolta collettiva nel momento in cui si viene a trovare tra una folla in tumulto che potenzialmente potrebbe trasformare il disagio individuale in desiderio collettivo di rivolta.

Quello messo in scena da Phillips, interpretato da Joaquin Phoenix, è soltanto l’ultimo di una serie di Joker che hanno tentato di scalzare la figura di Batman da Gotham City. Ne Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan, ad esempio, Joker (Heath Ledger) è presentato come un personaggio interessato al collasso della ragione, all’implosione di ogni forma di convivenza civile e, soprattutto, scrive Canova, mira

a dimostrare che in ogni essere umano, compresi gli eroi che lo combattono, alligna una cattiveria immotivata e radicale come quella di cui lui stesso è espressione: di fronte alla paura, ogni essere umano può diventare un mostro, ogni individuo che si ritiene “offeso” può mostrare il lato più oscuro di sé e rivelarsi peggiore di chi è responsabile dell’offesa […] Joker produce l’orrore come forma precipua di disgregazione sociale, come sfida all’idea stessa di giustizia (p. 211).

Nel fare della giustizia una questione centrale del film, Nolan «produce volutamente nello spettatore una sensazione vorticosa di caos e di vertigine, in cui a volte sfuggono i nessi causali fra azione e reazione, ma in cui quel che risulta chiaro – dall’inizio alla fine – è proprio la confusione in cui precipita l’idea stessa di legge e di legalità. Nessuno è del tutto “giusto”, nel Cavaliere oscuro. Neppure Batman» (pp. 211-212)

Ne Il cavaliere oscuro, costruito com’è sulla dualità, se tutte le individualità che si ergono a protagonisti escono sostanzialmente sconfitte, i cittadini asserragliati sui battelli minati tentano invece di affrontare l’emergenza e la paura attraverso una convivenza civile, lasciando intendere, scrive Canova, di poter fare a meno di supereroi.

Il decennio che separa il film di Nolan da quello di Phillips conduce «in un mondo completamente cambiato e in cui la convivenza civile sembra minata alla radice dal serpeggiare del rancore, del risentimento e dell’indignazione per l’ingiustizia dilagante» (p. 213).

Nel suo film Phillips mette in scena l’ultima di una lunga serie cinematografica di incarnazioni dell’archetipo del “clown tragico” che pur vedendosi respinto nella sua professione è al contempo condannato a una risata priva di una corrispondenza emotiva che non gli permette la rimozione del comico. Il Joker che ride suo malgrado è un eroe mancato che si accontenta di combattere la sua battaglia individuale «per l’eliminazione del sorriso e della risata dal mondo» (p. 215). Già, perché nel soffocante spazio concentrazionario quale è diventata, o è sempre stata, la città in cui vive (viviamo), ridotta a una successione di scale, corridoi, cunicoli, tunnel e anfratti vari, c’è davvero poco da ridere.

 

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Divine Divane Visioni – 85 https://www.carmillaonline.com/2022/07/14/divine-divane-visioni-85/ Thu, 14 Jul 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72543 di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011 Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non [...]]]> di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011
Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non faccio altro che fotografare le percentuali figlie di un sistema maschilista, dove i registi sono maschi e i produttori sono maschi. Tendenzialmente, eh, perché ci sono sempre ovvie e virtuosissime eccezioni, ma se guardiamo i grandi numeri questo accade. Il pippello è ovviamente dovuto ai sensi di colpa, sensi di colpa che aumentano quando vedo un bel film come questo, firmato da Valérie Donzelli. Non so neanche come ci sono arrivato ma è stata una bella sorpresa. Juliette e Romeo sono giovani e innamorati appassionatamente: un figlio sembra la logica conseguenza. Vediamo l’ansia genitoriale, la difficoltà di imparare giorno per giorno a fare da papà e mamma e i primi dubbi, le ansie, il pensare di non capire qualcosa per concludere che si è troppo apprensivi. Però il bimbo, Adam, cresce male, non parla, vomita all’improvviso, non riesce a stare in piedi. E allora comincia un rosario pietoso di visite, di sguardi imbarazzati, di responsi detti a bassa voce, fino a quello finale, il peggiore che un genitore possa sentirsi dire: vostro figlio ha un tumore al cervello. Un tumore di quelli brutti. La narrazione è pulita, essenziale senza essere brutale, ma invece con momenti di vita straordinari, liberatori, perché il bimbo soffre e i genitori sono annichiliti da questo calvario e una serata con degli amici, un bacio rubato, una fuga dal dovere, diventano momenti di serenità esistenziale impagabile, fino al prossimo esame. Combattono una guerra assieme al loro figliolo, una guerra logorante, senza tregua dove non c’è alcuna certezza né eroismo. Io nulla sapevo del film prima di vederlo e al termine scopro che i protagonisti hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo dolore e hanno saputo restituirlo con umanità e asciuttezza, senza compiacimenti familiari e ricatti emotivi. Un film bello e intenso: cercàtelo! (10/10/12)

982 – Quasi amici – Intouchables di Olivier Nakache e Éric Toledano, Francia 2011
Torniamo al cinema, quello vero, dopo tempo immemorabile e l’occasione ce la fornisce un parrocchiale vicino a casa, gestito da fratacchioni francescani molto attivi. Il giovedì poi è giornata ideale: c’è la pulizia delle strade e fino a mezzanotte si trova parcheggio. Vi assicuro: è cosa non da poco in questa fetente città che è Milano. La sala è ampia e confortevole e Barbara mi fa sedere in mezzo a un sacco di gente, nel centro geometrico perfetto della platea. Sa benissimo che sono un eccentrico (perlomeno in termini spaziali), ma si impone. Sono tutti over 60 e non so se sentirmi giovanissimo o vecchissimo anch’io. Pavento catarri grassi, tossi asinine, borborigmi digestivi, dentiere che ballano tra le gengive, sordità gravi, cellulari dimenticati accesi e “eh?” a ripetizione. E invece saranno tutti bravissimi. Quando Quasi amici finisce, al primo titolo le luci vengono subito accese, con l’effetto di un flash al fosforo sulla retina. Tutto non si può avere, del resto. E il film? Beh, è indubbiamente piacevole per quanto con una trama abbastanza telefonata e che rischia pericolosamente di essere edificante. Dunque: Philippe è un ricco vero, sfondato, ma tetraplegico e condannato alla sedia a rotelle. Per scommessa assume come badante Driss, un giovane nero della banlieue dalla lingua scioltissima. Funzionerà a meraviglia. Recitazione inappuntabile di Omar Sy e François Cluzet, diversi momenti piacioni che effettivamente piacciono molto, sceneggiatura con qualche esitazione nel finale un po’ allungato. La scelta del terreno di confronto tra i due attori è notevole e la banalità del plot (tipico scontro che produce crescita reciproca tra due situazioni diametralmente opposte – ricco/povero, bianco/nero, vecchio/giovane, colto/ignorante, paralitico/ballerino, chiacchierone/laconico etc.) è attualizzata e resa vivace da una marea di idee: ogni episodio va a segno e si sorride anche per le situazioni e le facce, senza dare troppa enfasi alle battute. E poi devo dire che la regia non è pigra anche in termini fotografici, cosa rara in queste pellicole medie, per il grande pubblico. Film accattivante, gestito con delicatezza e altrettanta capacità di ridere grasso senza mai scadere nella volgarità, politicamente scorretto in maniera naturale, accettabile, senza che si voglia fare la faccia cattiva apposta. Poi, certo, è un film consolatorio, ma ogni tanto un po’ di consolazione, in questa vita, che c’è di male? Perché no? E detto tra noi, con l’emancipazione dello spettatore, quale film ormai non è consolatorio, che sia prevedibile o prevedibilmente imprevedibile, eh? (Questa non ve l’aspettavate, ma pensateci). (Cinema Rosetum, Milano; 11/10/12)

986 – Les amants réguliers di Philippe Garrel, Francia 2005
Sono 4 anni che mi aspetta lì, sulla mensola, messo tra le visioni urgenti. E poi ce n’è sempre una e si rimanda, sinché una sera – questa – frego Barbara e la inchiodo. Prima le propongo un Mizoguchi (giappo immoto in b/n), poi un Kalatozov del ’65 in russo e sottotitoli in inglese e infine Les amants réguliers. Che almeno è dell’ultimo decennio. La cosa le pare liberatoria, ma non le dico della durata: 3 ore secche. E non sapevo neanche io che saremmo stati chiamati a una tenzone di altri tempi: di Garrel ho giusto visto 14 anni fa J’entends plus la guitare, di cui ho ricordi vaghissimi e non precisamente entusiastici. Qui abbiamo dei giovanissimi reduci dal maggio ’68 appena trascorso, ancora tramortiti dall’esperienza. Artisti, studenti, fancazzisti che si ritrovano in una casa dove nascono amori, fughe, tradimenti. La prima ora del film è veramente una sfida ai nostri sensi anestetizzati da editing spedito, sintesi narrative estreme e ricchezza scenografica. Qui si parte lentissimi, con scene che durano eternità, senza che la semplice idea del montaggio abbia mai sfiorato la regia. È come se funzionasse da gradimento all’entrata: il regista seleziona il suo pubblico. Non siamo noi a sceglierci il film, e il film che procede alla decimazione e poi accoglie i sopravvissuti. Stringiamo i denti, non con qualche moto d’irritazione: se la sintesi è intelligenza, ti vien da pensare che Garrel sia stupido del tutto. Barbara è scocciatissima e non riesce a entrare nella vicenda, sbuffa e mi maledice: “Ma se io non l’ho mai sentito, ‘sto Garrel, ci sarà ben un motivo, no?”. Poi, però vieni trascinato dalla narrazione indolente e anche da un certo affetto per il protagonista François, poeta renitente alla leva e ribelle placido e innamorato. Perlomeno accade a me, conquistato nonostante un finale improvviso come una coltellata nella schiena. Non so bene come spiegarlo, ma questi ritmi, queste immagini antiche, questa inattuale messa in scena, riportano alla mia mente tanto cinema visto nei cineclub una decina di anni fa, La maman et la putain, Godard, Bertolucci ovviamente (e c’è un omaggio spudorato, con strizzata d’occhi in camera). È autoerotismo, lo so, ma chi dice che non abbia le sue qualità, eh? Il film è il racconto di una sconfitta in fondo produttiva (di esperienze, di conoscenza) dei giovani sessantottini di Parigi, ma senza la lagna del “quanto avevamo ragione”. Il regista ci fa vedere come fossero belli e puri i protagonisti di quell’epoca con semplicità, senza retorica, senza nostalgie reazionarie. C’è il rifiuto delle armi, la lotta con la (propria) paura, il volto duro della Legge e dei militari, la poesia come fuga e l’oppio che funziona sia come anestetico che da propellente della creazione e in ultima lettura anche come portatore di morte (intellettuale). Tanti temi, affrontati con un linguaggio autoriale sincero, quasi ingenuo, totalmente fuori tempo ma anche accordato a quell’estetica sessantottina: formato in 4/3, bianco e nero contrastatissimo, belle facce, pochi dialoghi emblematici che paiono ogni volta tranches di discorsi colti per caso, sussurrati, perché non c’è bisogno di declamarli. Musiche pianistiche suadenti (un incrocio innaturale tra Satie e i Beatles (!)) e l’improvvisa dissonanza di Nico (che era stata compagna del regista) con un brano straniante del 1981. L’attore principale è il figlio del regista, quel Louis Garrel già protagonista proprio di The Dreamers che fa andare in deliquio orgasmico qualunque femmina conosca; lei è l’intensa Clotilde Hesme. Bel film, carico di significati e memorie. Ah, questo film che parla d’amicizia e condivisione e chiacchiere e sorrisi e tradimenti, mi porta a segnarmi – come futuro ammonimento, se diventerò un vecchio bilioso e misantropo – che veramente avevano ragione Vinicius, Endrigo e pure Ungaretti: La vita, amico, è l’arte dell’incontro! (Dvd; 30/10/12)

990 – La bocca del lupo di Pietro Marcello, Italia 2010
Questo è un film splendido, un colpo al cuore immediato e un’endorfina a lento rilascio per il cervello. In breve è la storia d’amore tra Enzo e Mary, sottoproletari dell’angiporto genovese che s’incontrano e uniscono le rispettive difficoltà di vivere in una storia intensissima, lontana da ogni cliché romantico. Protagonisti loro – superstiti di un mondo del Centro Storico che sta scomparendo – e la città stessa. Le loro testimonianze – alcune riprese come confessioni esplicite, altre casuali, altre ancora recitate – si mescolano a immagini straordinarie di Genova durante il Novecento, tratte da film documentari e filmini amatoriali, testimoniando l’evoluzione spaziale e sociale di questa città incredibile. Ovviamente questo ha aumentato il mio delirio emozionale e sdraiato sul divano, era tutto un continuo rimbalzare gridandomi – da solo – “La mia facoltà di Architettura!”, “Santa Maria di Castello!”, “Sestri Ponente!” e così via. Inoltre in testa, a metà e in coda al film, tre parti liriche, con nuovi vecchi abitanti precari che vivono nelle grotte sotto il monumento di Quarto dei Mille (se non ho capito male). Il film – breve il giusto – lascia la voglia di saperne ancora: i due protagonisti, vessati da una vita veramente difficile, hanno finalmente trovato requie in una casetta sui monti sopra Genova, da cui si vede, lontano, il teatro delle loro esistenze tribolate. La storia non è immediata: Mary racconta Enzo ed Enzo rievoca solo a tratti, con un italiano incerto e coinvolgente, il suo passato carcerario (27 anni al gabbio, in tre periodi diversi) e le sue gesta criminali. La figura di Mary è più sfumata, fino al finale: un piano sequenza senza interruzioni in cui ancora una volta è Mary a svelare la sua identità di persona trans, la sua fuga da una famiglia borghese ostile, la solidarietà trovata nei carruggi. E poi l’incontro in carcere: Enzo rinchiuso per avere sparato a due poliziotti, lei eroinomane. Un amore fulminante, immediato e senza mediazioni: non si lasceranno più, si difenderanno dal mondo, continueranno a comunicare – dopo averlo fatto a gesti, nel silenzio delle celle separate da due spioncini – con audiocassette, lettere, disegni e brevissimi incontri in licenza. Una storia struggente e magnifica, messa in scena con rigore antico, senza MAI dire il nome De André, grazie a dio (e Fabrizio sarebbe stato contento!), senza inseguire pruriti morbosi del pubblico snobbetto che gode di film così, ma guai a metter piede nel Centro Storico (lo scrivo maiuscolo perché ce ne sono tanti, ma grande e ricco così, solo uno, quello di Genova). Bravi Pietro Marcello e Sara Fgaier (montatrice e tantissimo altro). Come tutti i film editi da Feltrinelli, il dvd si accompagna a un buon libro, curato da Daniela Basso ricco di testimonianze e di documenti accessori. Dario Zonta, uno dei produttori, racconta l’iter che ha portato a vincere diversi premi in tanti festival: un testo esemplare della fatica e della forza richiesta per fare qualcosa in questo paese, che si conclude con un paragrafetto che scolpirei nel marmo: in Italia basta realizzare un’opera – magari coi piedi – per attribuirsi subito una patente da artista: sono tutti pittori, scrittori, autori etc. E anche chi produce un film, magari un corto sgarrupato, diventa subito produttore. Ecco, lui e gli altri che hanno aiutato questo film a venire alla luce, sono i veri produttori che ci mancano. Bravi, veramente. (Dvd; 9/11/12)

991 – 3 giorni per la verità di Sean Penn, USA 1995
Sono a Genova, dai miei, e la città è ferma, immobile, bellissima. A sera, papà tira fuori un vecchio ritaglio di giornale dove un critico definisce il secondo film di Sean Penn “da non perdere” e siccome lui si fida del Sole24Ore e non del Cacace lo vediamo. E non vale niente. Cioè, poco: ho perso due ore della mia vita davanti a una pellicola con una fotografia smorta, attori mal diretti, musica di Jack Nitzsche purtroppo senz’anima (e pure una canzone di Springsteen anonima, francamente) e trama esagerata, poco credibile anche quando qualcosa di emozionale potrebbe emergere. Perché la storia è questa: lui, Freddy, è Jack Nicholson (bisognerebbe dirgli: se il film non è Batman, non devi comunque fare il Joker, eh) e non ha mai superato il trauma della morte della figlioletta di sette anni, investita da un guidatore ubriaco, John, che sta uscendo dal carcere, roso dal rimorso e con la faccia incolore di tale David Morse (massì, se lo vedete capite chi è: caratterista di tanti film con registro interpretativo limitato a tre smorfie: assente, basito, addoloratissimissimo). La madre della vittima, Anjelica Huston, se n’è fatta una ragione e vive tranquilla ma Freddy non ci sta, è ossessionato dal desiderio di vendetta e si brucia tra alcol, sigarette e spogliarelliste e quando John esce dal carcere dopo 5 anni va ad ammazzarlo. Ma non ha messo il proiettile in canna (!) e allora si trova un accordo: tra tre giorni ti faccio secco. Cosa che John quasi vorrebbe, essendo uno zombi che non riesce ad amare la bella Jojo (interpretata da Robin Wright). Dopo un’ora e trenta di scassamento di palle dovuti ad andirivieni narrativi neghittosi e compiaciuti dialoghi sentenziosi, Freddy fugge ai poliziotti che l’han fermato ubriaco (e vai di elicotteri… per un ubriaco, boh) e riesce a raggiungere John che lo aspetta in plastica posa con fucile con cannocchiale. I due si confrontano ed è quasi una gara a chi si fa ammazzare dall’altro per mettere fine al tormento, dello spettatore, però. Dopo un pochissimo credibile inseguimento asmatico (e ci credo: fumano tutti come turchi, con Penn – tabagista convinto – dietro la cinepresa) conclusione sulla lapide della piccina, con Freddy che la vede per la prima volta e nota che si tratti di una pietra color rosa. Poi i due si danno la manina e fine, the end. Bestemmie a non finire, ma solo mentali per riguardo dei vecchi genitori che subiscono la pellicola ammettendo che il Sole24Ore è nemico della classe lavoratrice e degli spettatori. Altre cose notate in questa schifezzina con pretese: Nicholson ha le lunghie laccate, giuro. Robbie Robertson (particina) dovrebbe solo suonare la chitarra. E poi (e parliamo di un direttore della fotografia altrimenti validissimo, Vilmos Szigmond), rallenti agghiaccianti, zoom da interdizione e luci al neon che facevano schifo durante gli Ottanta, figuriamoci se utilizzate a metà Novanta e viste oggi. Inoltre traduzione in italiano tremenda, ma la colpa è mia che preferisco vedere i film in originale e soffro di gran spaesamento quando sento i migliori doppiatori del mondo non andare a tempo col labiale dei doppiati e condire tutto con inflessioni dialettali. Concludendo questa tirata sicuramente scomposta: film dall’idea buona ma dalla drammaturgia bislacca e dalla messa in scena sovraccarica. Per cui: Penn, sei tanto bravo quando reciti però i film falli fare ad altri, eh. (La promessa, da Dürrenmatt, non mi era dispiaciuto ma chissà cosa mi passava per la testa. O forse Sean aveva imparato, nel frattempo. Boh, non importa). (Diretta su Sky Cinema Cult; 16/11/12)

994 – Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, Italia 2012
Torno a casa distrutto da una giornata di lavoro spossante e – dopo cena – quando le pupattole accettano di andare a dormire, dopo denti, bidet, scelta dei vestiti, letture varie, implorazioni di ancora un minutino etc. etc. decidiamo di vederci un film. Ne scegliamo uno che ci tenga sulla corda, perché incombe il sonno, e non sbagliamo. Mi fa male ripercorrere la o le storie del G8, perché non c’ero, avrei voluto esserci, ma ho anche ringraziato il caso che mi ha impedito di partecipare. Diaz non ti molla un attimo: è un film importante e necessario (e lo so che sono termini abusatissimi e pericolosi, ma ho deciso che valesse la pena usarli), forse non esaltante in termini drammaturgici, però ben teso, diretto, senza sbrodolate, con pochissime sbavature (qualche dialogo didascalico). È un film che rinuncia al grido di dolore esagitato e militante (ed è un bene inestimabile) così come alla precisione assoluta di nomi, ore, luoghi, evitando un documentarismo che avrebbe reso sterile e non emotiva la narrazione. Certo: violento, sì, ma se avete visto i documentari con le immagini vere, vi assicuro che questa – al confronto – è una passeggiata di salute. Il racconto è corale, scomposto in termini temporali in modo intelligente, mettendo in scena le diverse anime dei manifestanti del G8 e senza dimenticare anche lo sconcerto di alcuni (pochi pochi) rappresentanti delle forze dell’ordine di fronte al cinismo, al sadismo e alla vendetta esercitata così brutalmente. E le scelte non sono per essenza democristiana quanto per trovare un equilibrio narrativo e per raccontare lo spaesamento di tutti. Cast a regime, ricco e ben diretto. Sulla pagina di Wikipedia leggo attonito i commenti di tanta stampa e, sarà perché io sono il Cacace, mi sembrano tutti sfocati, con addirittura un critico del Giornale (…) che lamenta la mancanza di scene con violenze dei dimostranti. E certo, perché così la lezione cilena alle zecche comuniste era più comprensibile, no? Io veramente non so perché devo pagare con le mie tasse lo stipendio a certa gente. (Dvd; 27/11/12)

995 – Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher, USA 2011
Torno a Genova per il battesimo del terzo nipotino. E la sera, dopo parca cena, film su Sky, come vuole papà, che sceglie questo thriller tratto dal celeberrimo libro che ho letto 3 anni fa con mucho gusto. Millennium parte con Immigrant Song dei Led Zeppelin in versione industrial su titoli di testa stilosissimi e assolutamente inutili, messi giusto per fare sciato, come diciamo qui da noi. Però nella testa di regista e produttori il ragionamento è: se faccio sentire il pezzo vichingo dei Led Zepp ho già fatto capire di cosa parliamo, di gente che vive in quelle zone là, di là dall’oceano, in Scandinavia, Ikea, Volvo, tetrapak, robe così. E anche per quel che riguarda personaggi e contesto, non si perde un secondo, tanto il librone l’han letto tutti e magari qualcuno s’è già visto le riduzioni svedesi. Per cui si parte come se sapessimo ogni cosa (e mi evito anch’io qualunque riassunto): chi è Mikael Blomqvist e di cosa si occupi al giornale Millennium. E Lisbeth Salander, idem. Scene brevi, veloci, secche: un sunto concentrato, un bigino, un dado Liebig della vicenda, con una narrazione spezzettata e velocizzata che mi ha presto rotto le palle. Siccome si crede che l’abilità del montaggio sia fare tutto in fretta e furia, a stacchi frenetici, senza piacere del racconto, hanno pure pensato di dare l’Oscar al film. E vabbeh, cara Academy: ma allora la prossima volta premiamo un trailer, dài! E poi, la cosa più incredibile. Seguitemi! Siamo in Svezia, con personaggi svedesi che parlano – si suppone – svedese. E invece Blomqvist prende appunti… in inglese. E i suoi Post It sulla lavagna sono… in inglese. E Lisbeth Salander, tatua “I am a rapist pig”, sul suo tutore violentatore svedese, che così non potrà più avere vittime anglofone, ma svedesi forse. E poi: libri svedesi stampati in inglese, polizia svedese che redige rapporti in inglese, giornali svedesi con titoli e articoli in inglese… Ma non è straordinario, tutto ciò? Neanche durante l’autarchia fascista! Si vede che Fincher deve aver pensato: in che lingua cantavano gli ABBA? Inglese! Per cui la vera scoperta di questo film, il suo valore occulto e il messaggio rivelatore che ci passa questo regista che se la tira da novello Hitchcock è: VOI NON LO SAPETE MA GLI SVEDESI PENSANO, PARLANO E SCRIVONO IN INGLESE. Aaaah, ecco. Stupido io! Vabbeh: David Fincher è considerato un maestro della cinematografia attuale ma ogni volta che vedo un suo film mi pare che manchi sempre quello che per me conta veramente: le emozioni, il senso di ciò che si dice, la moralità dello sguardo. E sì che nel primo libro della trilogia di Millennium ci sono il nazismo civile, il fanatismo religioso, la grande imprenditoria maledetta e tarata, la giustizia sociale assolutamente ingiusta, il diritto all’informazione contro i poteri forti, i rapporti tra uomini e donne e l’insopportabile prevaricazione maschile. Bene: qui è tutto buttato in un calderone in nome della funzionalità del thrilling. Ed è per questo che Fincher, nel grande schema delle cose della MIA vita, non conta né mai conterà un cazzo. Perderò qualche grande film? Di sicuro, perché questo sa anche (non qui) mettere in scena da Dio, chi dice di no. Ma chi se ne frega: ho tante colpe, una più una meno finirò lo stesso all’inferno. Come voi, del resto. (Diretta su Sky Cinema 1 HD; 1/12/12)

997 – Funeral Party di Frank Oz, Gran Bretagna 2007
Zia Luisa è un po’ che me lo dice: guardalo! E io, da bravo nipotino, obbedisco. Funeral Party è una commedia nera, abbastanza teatrale, che bordeggia il grottesco e la farsa facendoti sghignazzare assai. Come da titolo siamo a una veglia funebre e l’occasione impone misura, discrezione, rispetto, in un ambito british già di per sé molto controllato. E ovviamente accade la catastrofe. Le scene divertenti lo sono molto, ma molto proprio, facendo ricorso a comicità bassa, grassa e scatologica. A volte le gag sono un po’ fuori dal tempo (si scopre che il defunto era gay e si accompagnava a un nano) e soprattutto è quasi sgraziato nella sua banalità il motivo perturbatore principale: una boccetta di Valium che contiene invece delle pasticche di droga allucinogena. Chiaramente fanno ricorso al medicinale diversi partecipanti alla cerimonia e da lì il delirio: la realtà trasfigura e diventa tutto verde, come accadeva a Duccio in Boris (forse era una citazione, chissà). Con attori bravissimi, il film è gradevole, lungo il giusto e non posso certo criticarlo se poi rido come un posseduto perché un personaggio mette le mani nelle feci di un paralitico. (Dvd; 10/12/12)

1001 – Breaking BadThe Complete First Season di Vince Gilligan, USA 2008
Alla fine abbiamo ceduto: tutti ci dicono che si tratta di una serie eccezionale e son costretto a smentire. Non è eccezionale, è MONUMENTALE. Il livello di scrittura è francamente pazzesco rispetto ad altri prodotti seriali televisivi e dal punto di vista della messa in scena non vedo niente di meno rispetto a una produzione per il grande schermo. Ma quello che poi ti stupisce di più, ti affascina, ti cattura e ti convince, è trattare – e con naturalezza – assieme argomenti come l’etica, il decorso di un tumore, la produzione e il consumo delle droghe, i rapporti familiari, l’handicap, le aspirazioni frustrate, il sistema sanitario americano… La serialità consente affreschi molto ampi ma qui si rimane ammirati dalla capacità di condensazione di così tanti temi, come il team di scrittura riesca a svilupparli con credibilità, come sappia trattare l’ambiguità umana con questa misura eccezionale. Giusto per capirci: Walter White è un insegnante di liceo che avrebbe potuto diventare milionario con le sue competenze da chimico. Ha una moglie incinta e un figlio handicappato. Una casa (con piscina) ancora da pagare e i conti al limite. E un tumore ai polmoni. L’aspettativa di vita è bassa e allora Walt decide di sfruttare il suo talento per produrre metamfetamina e mettere da parte qualche soldo da lasciare alla famiglia. Metamfetamina purissima, di qualità eccelsa. Ma ovviamente a ogni scelta, a ogni azione, chimicamente segue una reazione, le cui conseguenze però, a differenza che in un processo di laboratorio, non sono mai prevedibili. Da timido studioso si può diventare spietati e avidi, pur di difendere la tribù o gli affari che permettono di tirare avanti. E così proviamo di nuovo l’angoscia persistente dell’ultima serie di The Shield, quella maledetta spada di Damocle sopra la testa, il continuo sentimento di non farcela, che da un momento all’altro sarai fottuto, e ogni tentativo per uscire dai tuoi casini implicherà ripercussioni che peggioreranno le condizioni di partenza, già disperate. Ogni episodio ha un arco drammatico spettacolare, sono belli i dialoghi perché son scelte bene le parole, è curiosa la localizzazione, in uno stato – il New Mexico – che è frontiera, deserto, prossimità al mondo latino, nuove possibilità e vicolo cieco. Ed è notevolissimo il discorso sulle droghe, senza infingimenti o balle: con un realismo disturbante ci viene raccontato tutto su produzione, consumo, cultura, società (permeata dal vizio a tutti i livelli), repressione (la lotta patetica della DEA) e giustizia, con i pesci piccoli vittime e quelli grossi che continuano, perché la droga è un affare anche per chi la combatte e senza non ci sarebbe un nemico per cui chiedere armi e denaro. Bravissimi e credibili, sempre, gli attori (su tutti il protagonista Bryan Cranston), belle le musiche, perfetto il montaggio e le continue sorprese registiche. E poi c’è il cattivo Tuco (rimando a chi ha memorie leonine), beh: uno splendore unico, specie quando sniffa i cristalli. Serie di livello superiore. (Dvd; dicembre 2012)

1002 – Michel Petrucciani – Body and Soul di Michael Radford, Francia 2010
Come fai a raccontare veramente la vita di uno come Michel Petrucciani? Questo bel documentario è una visione succinta e sicuramente parziale della sua vicenda umana e artistica ma se una storia come la sua potrebbe essere raccontata per ore, il regista (quello de Il postino, ma non solo) decide di concentrarsi sul versante emozionale: c’è la musica ma soprattutto c’è la vita e il documentario (abbastanza basic nella rievocazione biografica ma ricchissimo di contributi e testimonianze) è un inno al potere dell’arte che riesce a lenire le ferite di un’esistenza difficile. La storia di questo pianista – un piccolo grande uomo dalle ossa fragili e dalle mani abilissime – ha dell’incredibile: affetto da osteogenesi imperfetta e nanismo, aveva una fame incontenibile di tutto: amore, droghe, musica. Petrucciani voleva vivere la vita fino in fondo, reale o di fantasia che fosse: era un incontenibile contapalle (in una delle testimonianze si specifica: “Bisognava dividere per dieci quello che diceva”), respingeva ogni pietismo, si sentiva e voleva vivere come tutti gli altri. Del resto: “Abbiamo tutti dei problemi, chi non ne ha?”. Sorridente, ironico, cialtrone, esagerato, presuntuoso, bugiardo, egoista e traditore: la sua storia è un continuo accompagnarsi e lasciarsi, segnata dal rapporto col padre (l’assenza dopo il primo successo, come la debordante presenza prima, quando lo ha tirato su con spietatezza e gelosia) e dal desiderio di lasciare qualcosa di sé, come i figli voluti ostinatamente. Radford non esita a raccontarci (o meglio, a farci intravedere) attraverso le sue cinque compagne e i tantissimi amici, il lato oscuro del piccolo pianista: alcune meschinità, l’arroganza e l’incapacità di impegnarsi seriamente. Ma il genio andava di pari passo a questa ansia di vivere tutto fino in fondo, di non lasciare nulla per strada. Poca analisi musicale (tecnica non ortodossa, grande velocità e capacità melodica, criticato spesso proprio per la sua accessibilità o il suo virtuosismo da critici coglioni e totalitari) e un consueto errore di pigrizia registica: nessuna didascalia per dirci chi parla. Però bel film, e che musica, mamma mia. (Dvd; 1/1/13)

(Continua – 85)

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L’antagonista, il lato oscuro del soggetto https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/lantagonista-il-lato-oscuro-del-soggetto/ Mon, 21 Mar 2022 23:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71063 di Luca Cangianti

In Guerre stellari, Luke Skywalker è strappato alla quotidiana vita rurale dall’assassinio dei propri zii e intraprende un’impresa disperata per sconfiggere il malvagio Dart Fener. Il protagonista costituisce la propria soggettività nel corso viaggio: supera ostacoli, rischia la morte, scopre nuove porzioni di realtà e di se stesso, ma contemporaneamente condivide qualcosa di sostanziale con chi si oppone alla sua azione, l’antagonista.

La parola greca antagonistís è composta dalla proposizione «contro» (antí) e dal sostantivo derivato dalla parola «lotta» (agón). In questa figura s’incarna l’altro che [...]]]> di Luca Cangianti

In Guerre stellari, Luke Skywalker è strappato alla quotidiana vita rurale dall’assassinio dei propri zii e intraprende un’impresa disperata per sconfiggere il malvagio Dart Fener. Il protagonista costituisce la propria soggettività nel corso viaggio: supera ostacoli, rischia la morte, scopre nuove porzioni di realtà e di se stesso, ma contemporaneamente condivide qualcosa di sostanziale con chi si oppone alla sua azione, l’antagonista.

La parola greca antagonistís è composta dalla proposizione «contro» (antí) e dal sostantivo derivato dalla parola «lotta» (agón). In questa figura s’incarna l’altro che si oppone all’eroe e al suo desire. Con questo termine in narratologia si indica l’obiettivo perseguito dal protagonista, ciò che fa leva sulle sue ferite, sui suoi punti deboli, su quanto rende l’eroe una persona incompleta, instabile e quindi incline al mutamento, all’avventura, al viaggio.1
A un primo e parziale sguardo, l’antagonista sembra agire sull’io eroico come una realtà materiale assolutamente altra: ne vince l’inerzia, lo spinge a cambiare, ne tempra la soggettività. Dart Fener costringe Luke ad abbandonare il suo pianeta natale, tiene prigioniera la principessa Leila che il giovane vorrebbe liberare, uccide il suo mentore Obi-Wan Kenobi, insegue l’eroe e i suoi alleati ribelli.
Tuttavia, a ben vedere, la relazione tra eroe e antagonista non è meramente oppositiva ed estrinseca, ma incorpora un che di familiare, di intimo: Luke scopre nel secondo film della saga, L’Impero colpisce ancora (1980), di esser figlio dell’antagonista, sangue del suo sangue; i due hanno qualcosa in comune, sono facce della stessa medaglia. Federico Greco inoltre ricorda che «il protagonista della trilogia prequel, Anakin Skywalker, diventa l’antagonista… della trilogia originale della quale il nuovo protagonista è Luke Skywalker. Nella trilogia sequel Luke finisce a sua volta in secondo piano divenendo il coprotagonista, mentre è Rey ad assurgere a ruolo di protagonista. Quest’ultima, il cui cognome reale è Palpatine (Rey è la nipote “abiatica” dell’Imperatore, che è suo nonno), nel finale – rispondendo alla domanda di una donna che le chiede chi sia – si dichiara essere una Skywalker.»2 John Truby sostiene che l’avversario debba possedere alcuni aspetti in comune con il protagonista fino a rappresentarne una sorta di doppio.3

Un altro esempio esplicito di questa struttura è il film Face off (1997). Castor Troy è un terrorista che ha ucciso involontariamente il figlio dell’agente Sean Archer e nascosto una bomba batteriologica prima di finire in coma. Archer si sottopone a un intervento di trapianto del volto per assumere le fattezze del nemico al fine d’introdursi in carcere e sottrarre ai membri della banda di Troy informazioni utili a localizzare e disinnescare l’ordigno. Il terrorista però si risveglia inaspettatamente, riesce a sua volta a farsi trapiantare il volto dell’agente, elimina i testimoni dell’operazione segreta in corso nel carcere e inizia a condurre la vita familiare e professionale di Archer.
Qui la relazione tra eroe e antagonista eccede il mero cozzare esterno perché i poli oppositivi si scambiano i ruoli e apprendono reciprocamente qualcosa l’uno dall’altro. Siamo in un contesto dalle sfumature hegeliane: dopo lo scontro finale e la morte di Troy, l’eroe ne adotta il figlio. La progenie del Male è dialetticamente accolta come negativo nell’ambito del Bene e l’eroe può finalmente superare la ferita della morte accidentale del figlio.

Una struttura dialettica analoga è riscontrabile anche nella serie Van Helsing (2016-2021). In questa narrazione ambientata in un mondo post-apocalittico nel quale dilagano i vampiri, il sangue di Vanessa Van Helsing è in grado di riportarli allo stato umano. Nel nono episodio della quinta stagione la protagonista assorbe la propria parte oscura e riesce a evadere dal mondo parallelo nel quale è stata intrappolata dalla sovrana della specie vampirica, Olivia von Dracula, la Dark One. Questa esperienza dona a Vanessa poteri simili a quelli della sua avversaria e nell’ultimo episodio le permettono di sconfiggerla imprigionandone l’essenza nel proprio corpo.
Il legame tra eroe e antagonista può essere così stretto da situarsi perfino nel corpo della stessa persona, come nel caso del dottor Jekyll e del suo doppio malvagio, il signor Hyde: «quell’orrore insorgente – scrive Robert Louis Stevenson – era legato a lui più intimamente di una moglie, più intimamente di un occhio; se ne stava chiuso nella sua carne, dove lo udiva borbottare e lo sentiva dibattersi per nascere ad ogni ora di debolezza e nell’abbandono del sonno prevaleva contro di lui e lo cacciava dall’esistenza.»4 Hyde è la personificazione del Male che si nasconde (to hide in inglese significa per l’appunto nascondersi) nella sfera domestica dell’eroe. Di notte striscia fuori attraverso una porta secondaria e commette i crimini più efferati.
In Batman Begins (2005) il desire dell’eroe e quello del suo antagonista (Henrie Ducards/Ra’s al Ghul) sono identici, debellare la criminalità e l’ingiustizia, mentre i mezzi differiscono.5 Nel secondo film della stessa saga, Il cavaliere oscuro (2008), i valori di Batman e quelli di Joker sono opposti: la legge per il primo, il caos per il secondo. Tuttavia il nuovo antagonista si rivolge all’eroe affermando: «Tu mi completi»; e poi ancora più esplicitamente: «Tu non mi uccidi per un malriposto senso di superiorità e io non ti uccido perché sei troppo divertente. Noi due siamo destinati a combatterci in eterno.»6

In Spider-Man 2 (2004) la dialettica tra eroe e antagonista coinvolge anche la comunicazione cromatica. Secondo Mauro Antonini «Tutto ciò che racchiude Peter Parker, dai vestiti agli sfondi, è rosso e blu, mentre il mondo intorno a Norman Osborn è prevalentemente virato a toni di verde… Ma al momento in cui Goblin scopre l’identità del suo nemico, quando i due si trovano a tavola nelle loro identità civili per festeggiare il giorno del Ringraziamento, è Peter Parker a indossare una camicia verde con cravatta viola, i colori del costume di Goblin, e Norman Osborn una camicia blu con cravatta rossa, i colori dell’Uomo Ragno… Come in un rito totemico il nemico si cinge dei colori dell’avversario per comprenderlo, sia psicologicamente che fisiologicamente. Ognuno ingloba l’avversario in un bilanciamento che rende esplicito il bisogno, innegabile, l’uno dell’altro».7
Come nota Giulia Cavazza, in mancanza di questa compenetrazione dialettica e dinamica tra opposti, avremmo a che fare solo con un villain, un cattivo che ostacola l’eroe in modo puramente esteriore. In Toy Story (1995) è il caso di Sid, il bambino seviziatore di giocattoli, che, pur contrastando l’azione del pupazzo cowboy Woody, non incarna la figura dell’antagonista, impersonata di contro dal giocattolo spaziale Buzz Lightyear.8 Il ruolo adialettico del villain, infatti, come avviene in molti disaster movie, può essere ricoperto da un fenomeno naturale che mette a repentaglio la vita della comunità o del mondo intero. In Armageddon (1998) è il caso di un meteorite. Questo si oppone agli umani e al protagonista che vi si scaglierà contro per distruggerlo, senza tuttavia generare alcuna unità di opposti.

Richiamandosi esplicitamente al concetto junghiano di ombra, Christopher Vogler considera l’antagonista come insieme di paure, qualità disprezzate e rifiutate dall’eroe, come «dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi.»9 Si tratta principalmente di nostre parti infantili represse, istinti animali primitivi e nevrosi10 che emergono dall’archetipo del nemico, del predatore e dello straniero malvagio.11 Per difendersi da questi contenuti indesiderati, l’ego cosciente non solo reprime l’ombra, ma la nega e la proietta su altri soggetti, spiegando così la presenza ubiqua della figura antropologica del capro espiatorio e delle logiche discriminatorie tra soggetti ingroup e outgroup.

A differenza dell’inconscio freudiano, l’ombra contiene tutto ciò che si trova al di fuori del cono di luce proiettato dall’ego. Pur rimanendo principalmente impregnata di negatività, l’ombra può quindi nascondere anche le capacità inespresse della coscienza: è il caso dei nuovi poteri acquisiti da Vanessa Van Helsing dopo il soggiorno nella dimensione parallela.
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde12 è un’altra delle più note e potenti esemplificazioni della dialettica proiettiva tra ego e ombra. Il protagonista, per preservare il suo aspetto avvenente e giovanile, così come rappresentato in un quadro donato da un amico pittore, vende la propria anima. I segni dell’età e del suo declino morale vengono assorbiti dalla pittura che l’eroe nasconde in una stanza polverosa, lontano dagli sguardi. Pur rimanendo di bell’aspetto, Dorian rimane ossessionato dalla sua immagine rappresentata nel quadro. Essa diventa sempre più orribile fino a quando il protagonista decide di distruggerla. Verrà ritrovato morto, invecchiato e imbruttito, a differenza del suo doppio pittorico che riprenderà le belle fattezze originali.

L’ombra è parte di noi, non possiamo eliminarla con un colpo di pugnale. Nel percorso analitico, in quello narrativo e perfino in quello politico, sconfiggerla significa diventare coscienti della sua non estraneità. Ciò implica che il Male è eterno: Frodo distrugge l’anello e sconfigge Sauron, ma non riesce a ucciderlo. Egli perde la propria corporeità, ma nulla esclude che possa riacquistarla, come già accaduto in passato nel Bosco Atro.13 Vanessa dorme nascondendo il suo tesoro oscuro, ma può risvegliarsi.


  1. Cfr. Antongiulio Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe, Mimesis, 2020. 

  2. Federico Greco, Star Wars. La poetica di George Lucas, La nave di Teseo, 2021, p. 520. 

  3. Cfr. John Truby, Anatomia di una storia, Audino, 2009, pp. 62-3. 

  4. Robert Louis Stevenson, Il dottor Jekyll e il signor Hyde, Bompiani, 1995, pp. 96-97. 

  5. Cfr. Paolo Braga-Giulia Cavazza-Armando Fumagalli, The dark side. Bad guys, antagonisti e antieroi del cinema e della serialità contemporanei, Audino, 2016, p. 31. 

  6. Ivi, p. 35. 

  7. Mauro Antonini, Cinema e fumetti, Audino, 2008, p 158. 

  8. Cfr. Paolo Braga-Giulia Cavazza-Armando Fumagalli, op. cit.., p. 80. 

  9. Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 1999, p. 115; cfr. anche p. 51. 

  10. Cfr. Liliane Frey-Rohn, “How to Deal with Evil” in Connie Zweig-Jeremiah Abrams Zweig (a cura di), Meeting the Shadow. The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature, Tarcher/Penguin, 1991. 

  11. Cfr. Anthony Stevens, Jung. A Very Short Introduction, OUP, 1994, p.64. 

  12. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli, 2013. 

  13. Cfr. Luca Cangianti, Il viaggio di Frodo non finisce, «Carmilla», 15.8.2020. 

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L’immaginario di un secolo (tutt’altro che breve) https://www.carmillaonline.com/2021/06/17/limmaginario-di-un-secolo-tuttaltro-che-breve/ Thu, 17 Jun 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66628 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone con la sua ultima raccolta di scritti. Un secolo che supera certamente i cento anni canonici, visto che le radici del suo immaginario si allungano almeno fino alla metà dell’Ottocento, mentre i suoi rami più lunghi si protendono fino al primo ventennio di quello attuale. Un percorso temporale caratterizzato tanto da numerosi “fin de siècle”, mai definitivi, quanto da altrettanti ripetuti inizi.

Una coazione a ripetere e ripetersi che sembra, di fatto, la base reale di ciò che viene definito spesso come post-moderno e che, a sua volta, guardando con attenzione ai personaggi e ai miti ri/proposti da Gabutti con il suo solito stile beffardo, non fa altro che rimodellare un immaginario definito una volta per tutte (o quasi) dal medesimo modello sociale e di produzione affermatosi nello stesso periodo su scala planetaria.

Simile per molti versi a due delle raccolte di testi più belle di Geminello Alvi1, con cui condivide l’attenzione per personaggi come Emilio Salgari, Amadeo Bordiga, J.R.R. Tolkien e Charlie Chaplin, Maschere e pugnali se ne distacca per la capacità dell’autore di sintetizzare in ogni occasione una enorme quantità di osservazioni di carattere letterario, filosofico, politico e fantastico mantenendo dritta la barra della fantasia scatenata come forza e utopia liberatrice dalle miserie del vivere quotidiano. Affiancando però, a differenza di Alvi, i personaggi reali a quelli altrettanto vividi prodotti dalla fantasia di autori di ogni genere, e suggerendo così al lettore che la vita possa essere essenzialmente null’altro che un sogno, tra i tanti che l’immaginario, sia individuale che collettiva, finisce col produrre e riprodurre in continuazione.

Problematica che ben si adatta ad una collana, DELIRIA, della casa editrice Write Up e diretta da Marco Vettorato, il cui intento è quello di sottolineare che: « Ricordare è sempre immaginare. Ci sono realtà entro le quali l’ignoto prende forma: dietro la razionalità dubitante c’è il genio creativo, c’è il lato fantastico della ragione che non riesce a distinguersi dalla follia sognante ».

E’ un enorme favoliere quello che Gabutti ci propone con le sue pagine, che racchiudono la Storia del lungo Novecento nella sua dimensione più autentica: quella della affabulazione letteraria e della narrazione, sia che questa si presenti come singola o collettiva, tossica o innovativa oppure , ancora, “realistica” o “fantastica”. Una grande narrazione, spesso destinata a ripetersi con trame ed eroi, malvagità e miracoli, speranze e deliri che solo apparentemente esplodono dal “nulla” come novità. Si tratti di ideologie oppure di catastrofi, di violenza, di incubi, sogni o avventure tutto finisce col confluire in una gigantesca e continua ricostruzione e distruzione del mondo che le ha prodotte. Una sorta di demiurgo impersonale, prodotto da migliaia o milioni di personalità, che come afferma l’autore a proposito dell’opera di Tolkien:

non si limitò a inventare nuove storie e neppure semplicemente raccolse quelle tramandate dalle
nonne e dalle antiche tradizioni letterarie. Organizzò un intero universo che agisse da cornice perfetta e smisurata per quell’idea di fiabe che lo divorava […]
Diede forma a un intero mondo, anzi a un intero cosmo, completo di storia, di lingue vive e morte, di popoli e di specie animali, con una geografia e uno scenario culturale perseguiti fin nei dettagli […] Quindi lo farcì di storie e accadimenti, di saghe celesti e d’ombre tenebrose, fino a comporre un quadro immane e labirintico, così vertiginoso e dettagliato da stordire chi troppo a lungo vi avesse fissato lo sguardo. La Terra di Mezzo divenne così un mondo storico, non meno reale di quelli testimoniati nei libri di scuola, persino altrettanto orribile e pericoloso2.

Letteratura, giornali, cinema e fumetti contribuiscono così a creare e ricreare quel “mondo reale” in cui, più che vivere, fantastichiamo di vivere e in cui, per esempio, la Cina romantica e mitica di Edgar Snow

In balia di briganti, artisti di strada, orfani, prostitute e «intellettuali borghesi al servizio del popolo»; percorsa da sinistri signori della guerra e da generali comunisti simili a «soldati di Cromwell» (per citare Beppe Fenoglio) «col fucile a tracolla e la Bibbia nel tascapane», è stata per un po’ – prima di Piazza Tien An Men e d’Alibaba.com – l’equivalente radical dell’Inghilterra vittoriana, della Contea di J.R.R. Tolkien o della Parigi di Balzac: una terra immaginaria e un modello sociale, un miraggio nel deserto e un’utopia3.

Un’azione continua di costruzione e decostruzione dell’immaginario e, in fin dei conti, del mondo che vede quella che un tempo fu sbrigativamente liquidata come sovrastruttura rivelarsi come parte fondante della struttura e dell’ordine del discorso che la regge. Sia nell’arte del governo dell’esistente che del suo rovesciamento utopico. In un secolo in cui Batman e Stalin, Hitler e Superman, Sauron e Bordiga possono direttamente o indirettamente scontrarsi su piani che rinviano alle antiche saghe, rinnovandone i fasti con la potenza della stampa e dei massa media, del digitale o del technicolor.

Nuovi eroi, nuovi dei malvagi e nuove terre di mezzo o lande selvagge popolano continuamente l’immaginario della modernità; nuovi pericoli la minacciano e nuovi salvatori, in mutande e costume attillato oppure nel grigiore di giacca e cravatta si propongono per la salvezza della stessa.
Generali in divisa e drag queen piene di lustrini percorrono con la stessa naturalezza il palco dell’immaginario del ‘900. Si tratti di San Remo e della TV di oggi oppure della Berlino della fine degli anni ’20. I demoni di Dostoevskij possono essersi trasformati tanto negli hippy sbiellati al seguito di Charles Manson quanto negli esaltati combattenti dell’ISIS oppure riposare sotto le spoglie dell’impiegato cantato da Fabrizio De André in una delle sua ballate più celebri.

Un territorio, quello dell’immaginario di questo lungo secolo, in cui le funzioni dell’autore e dello spettatore, dello scrittore e del lettore, magari quest’ultimo insaziabile e compulsivo (come nel caso di Philip José Farmer citato nel testo), finiscono col fondersi in un’unica figura destinata a inventare e reinventare il mondo in continuazione. In uno scambio di ruoli, spesso involontario, in cui non si capisce più davvero chi crei e perché o, al contrario, perché distrugga per poi rifondare.
Alla fine sembrerebbe essere James Ballard, di cui Gabutti è gran conoscitore, a muovere i fili della faccenda anche se è l’unico a cui non sia stato destinato neanche un capitolo4.

Ma, sospendendo un’interpretazione che potrebbe farsi un po’ “ingombrante”, chi scrive questa recensione deve assolutamente rimarcare come la lettura del libro di Gabutti si riveli, ancora una volta, non solo stimolante ma anche estremamente divertente. Basterebbe infatti soltanto il capitolo dedicato alla ricerca da parte dell’autore della casa in cui sarebbe nato Nero Wolfe in Montenegro per fondere in una girandola di invenzioni e peregrinazioni (autentiche) la realtà con la fantasia, lo humour con la letteratura e la vita dello scrittore con quella del suo personaggi preferito.

Sono più di 160 i soggetti dell’antologia di recensioni, spunti di riflessione e articoli che ci vengono proposti nelle 450 pagine del libro (cui ne vanno aggiunte altre 15 soltanto per l’elencazione dei testi citati): da Bob Dylan a Ian Fleming, da Hugo Pratt a Marx e Engels oppure da Lord Greystoke (Tarzan) a Star Wars passando per Kerouac e Lucky Luciano, Orson Welles e Raymond Chandler.
In un’autentica enciclopedia che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chiunque si occupi dell’immaginario del ‘900 e della funzione mitopoietica e creatrice della letteratura e della affabulazione mediatica.

“Ti passano un pezzo di carta coperto di lettere e numeri e tu devi tirarci fuori una partita di baseball. Crei il clima, dai un corpo ai giocatori, li fai sudare, brontolare, gli fai tirar su le brache a strattoni, ed è straordinario, pensa Russ, quanto trambusto concreto, quanta estate e quanta polvere la mente sia in grado di sollevare da una singola lettera latina piatta su un foglio.” (Don Delillo, Underworld)


  1. Geminello Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano 1995 e G. Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano 2015  

  2. Diego Gabutti, Tolkien 2 (vita, morte e miracoli) in D. Gabutti, Maschere e pugnali, Write Up Books, Roma 2021, pp. 114-115  

  3. D. Gabutti, Edgar Snow in op. cit., p. 97  

  4. “In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger?
    Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale.” James Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, p. 37  

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Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

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Joker di Todd Phillips https://www.carmillaonline.com/2019/10/21/joker-di-todd-phillips/ Mon, 21 Oct 2019 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55487 di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara [...]]]> di Mauro Baldrati

Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide condivisioni di gusti, musicali (i punk, la new wave, e anche il rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara però). Qualche volta ci siamo chiesti: ma perché ci piace tanto la violenza? La mia risposta, che lui mi pare condivida, è che richiama la violenza che abbiamo dentro. E in questo va spazzata via l’obiezione che i film violenti ne favorirebbero l’emulazione. E’ esattamente il contrario: la rappresentazione della violenza in forma artistica serve per scaricarla su obiettivi innocui, e quindi esorcizzarla. La rappresentazione della violenza è una pratica di antiviolenza.

Così, anche ora che abbiamo superato gli anni ruggenti, la postadolescenza e le avventure pericolose, continuiamo a vederci, con appuntamenti più o meno settimanali, per una pizza seguita da un film.

L’ultimo che abbiamo visto insieme è stato Joker, l’evento dell’anno, si potrebbe dire. Qui a Bologna imperversa. Al Lumiere, dove proiettano in lingua originale coi sottotitoli, sabato non siamo riusciti a entrare. E Martedì, ci è stato detto, idem. Così abbiamo riprovato giovedì, trovando una fila chilometrica al Medica Palace, che per fortuna è la sala più grande della città. Il 90% era costituito da under 30, cosa che immediatamente mi ha mandato in crisi. I giovani sono esuberanti, parlano, mangiano, accendono i cellulari per controllare la pagina FB. Io il film voglio guardarlo in religioso silenzio. Però questi ragazzi, studenti fuorisede, sono diversi. L’abbiamo sperimentato con l’ultimo Tarantino, altrettanto gremito di giovani e addirittura giovanissimi. Stanno zitti, guardano e ascoltano e neanche mangiano. Bellissimi.

Per cui ci siamo fatti forza, abbiamo sopportato il trauma della fila e siamo entrati. Abbiamo trovato due posti senza comitive alle spalle, laterali (perché io riesco a sedermi solo nell’ultimo posto laterale), e ci siamo preparati mentalmente.

Joker. Ero prevenuto, come spesso mi accade. Odio le omologazioni, le mode che dominano, per cui tutti corrono a vedere i film che impazzano, mentre altre opere meno cool ma bellissime vanno semideserte. Inoltre avevo letto una messe di stroncature: gli americani, il Washington Post, il New York Times, anche Marie Claire, e naturalmente sul web, dove le stroncature, in stile trollesco, sono praticamente un must. L’accusa più ricorrente è che sia un film studiato a tavolino per essere grande, col risultato di essere invece piccolo, e scontato. Insomma, un film falso, forzatamente didascalico.

Perdio, mica una robetta da poco. Macigni. Film fasullo, artificioso. Film fallito.

Al diavolo, non abbiamo rilevato nulla di tutto questo. Non intendo sprecare il mio e il vostro tempo per riassumere la trama, ultraraccontata sui media mainstream e sul web. Vorrei invece sottolineare che se c’è un aspetto dell’opera che ci ha colpiti è la sincerità. E’ un film tutt’altro che falso. E’ sincera l’interpretazione di Joaquin Phoenix, che è praticamente sempre in scena, magro, ossuto, mobile, che fa di se stesso un’opera di body art. E’ sincera la sua difficoltà di adeguarsi al mondo, che lo schiaccia col disprezzo e l’indifferenza (comportamenti che in un certo senso lui attira, coi suoi atteggiamenti strambi, con la risata compulsiva, sintomo della sua sofferenza psichiatrica). Qualcuno ha scritto che evoca Taxi Driver, a me ha evocato Baudelaire. Era altrettanto emarginato, contraddittorio, rancoroso. Come il futuro Joker si sente fallito e ingiustamente ignorato, e i suoi spettacoli sono sempre di serie B, così Baudelaire falliva tutte le conferenze. Ma il fatto è che era un pessimo conferenziere: si impappinava, gesticolava, pronunciava battute sciocche che poi se le rideva da solo, mettendo in imbarazzo il pubblico. Dopo il disastro di Bruxelles fece la sua performance alla Joker scrivendo uno dei libri più violenti, razzisti e vendicativi della storia della letteratura: La capitale delle scimmie. Invece Arthur Fleck, che come il piccolo Baudelaire ha avuto un’infanzia segnata da una tragica infelicità, e dalla violenza, fa una scelta più pratica: diventa un genio del male, il nemico giurato di Batman. Il demone che ride.

Arthur muta in un essere autenticamente cattivo, perché esprime una carica eversiva senza sconti, una furia distruttiva che sgorga dalle cavità nere della società, dalla tragedia sociale che distrugge l’individuo anche come creatura collettiva (“E adesso con chi parlo?” chiede Arthur alla psicologa, mentre gli comunica che hanno appena tagliato i fondi dell’assistenza e quindi non potrà più riceverlo). Un essere che scardina ogni ordine, ogni morale, ogni ipocrisia (“Tu mi hai invitato qui, nel tuo programma, solo per prenderti gioco di me” dice a un cialtronesco Robert De Niro, prima di sparargli in faccia in diretta TV).

E proprio come Baudelaire, che nella sua meschinità di uomo vile, contraddittorio e perdente diventa un poeta inimitabile, così Arthur, frustrato, pazzoide e patetico, sale i gradini di una poesia nera, mostruosa e apocalittica.

Ma attenzione: Joker è un demone. Anche Hitler lo è. Ma non ha nulla di eversivo. Anzi, il contrario. Il demone nazista è l’estremizzazione terminale del Potere, dell’imperialismo capitalista che massacra i popoli per rubare le risorse e renderli schiavi (decine di migliaia di deportati che lavorano e muoiono in schiavitù nelle imprese tedesche).

Poi, soprattutto come ex lettore accanito di fumetti, non posso esimermi da alcune critiche: il suo diventare un eroe pop è rappresentato in maniera un po’ troppo sbrigativa e semplicistica; vanno bene i riferimenti, le incursioni nei vari generi, ma non lo scadimento nel “fumettismo”. Inoltre il finale è a mio avviso volutamente simbolico, mentre andava arricchito con alcuni cenni sulla definitiva mutazione in Joker, con l’evasione dal manicomio, la clandestinità e il crimine puro.

Però non sono mancate alcune scene che all’appassionato strappano un brivido: la comparsa di Bruce Wayne bambino (cioè il futuro Batman), quando Arthur si reca alla villa del ricco padre di Bruce, che lui considera anche suo padre, per un delirio narcisistico della madre, che lavorava come inserviente nella villa Wayne. E poco dopo la metà del film quando si alza, potente, seduttiva, la “voce della brughiera” di Jack Bruce, il cantante-bassista di una delle più strepitose band di rock-blues anni ’60, i Cream, per i quali io ho avuto una sorta di vera e propria infatuazione.

E basterebbe questo, solo questo, per fare di Joker un film indimenticabile.

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Il pipistrello e il predestinato, l’eroe attore e spettatore https://www.carmillaonline.com/2017/02/16/il-pipistrello-e-il-predestinato-leroe-attore-e-spettatore/ Thu, 16 Feb 2017 22:30:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36312 di Mazzino Montinari

batman-the-dark-knight-rises-theme-06-700x437Riflettere sull’eroe all’interno della più ampia questione dello spettatore e dell’attore, significa indagare sulla nostra doppia condizione di individui: da un lato, come attori, siamo continuamente coinvolti nell’agire quotidiano, in un’incessante dinamica che non permette di risalire al senso dell’esistenza in comune con gli altri; dall’altro, come spettatori, proprio per risalire a quel senso, avvertiamo la necessità di un distacco per osservare dove e con chi siamo. Queste due figure che dimorano presso di noi, sono in grado di comunicare e di riconoscersi? E possono abitare nella stessa persona? Sollecitati [...]]]> di Mazzino Montinari

batman-the-dark-knight-rises-theme-06-700x437Riflettere sull’eroe all’interno della più ampia questione dello spettatore e dell’attore, significa indagare sulla nostra doppia condizione di individui: da un lato, come attori, siamo continuamente coinvolti nell’agire quotidiano, in un’incessante dinamica che non permette di risalire al senso dell’esistenza in comune con gli altri; dall’altro, come spettatori, proprio per risalire a quel senso, avvertiamo la necessità di un distacco per osservare dove e con chi siamo. Queste due figure che dimorano presso di noi, sono in grado di comunicare e di riconoscersi? E possono abitare nella stessa persona?
Sollecitati da queste domande prendiamo in considerazione due film con protagonisti supereroi: uno più noto e raccontato in una storia dai toni cupi; l’altro invece immaginato nel momento della sua presa di coscienza.

Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan
Batman e il Joker, l’uno opposto all’altro, sono “eroi” che agiscono e che, al tempo stesso, comprendono il mondo a distanza. Si perdono entrambi nel caos provocato anche dal loro agire e, però, riescono ad allontanarsi per osservare, per comprendere ciò che accade, per risalire di volta in volta, mai definitivamente, il senso di quel mondo.
Sia Batman che il Joker hanno uno sguardo sul mondo e non agiscono per un interesse strettamente personale ma per uno collettivo, il primo a difesa della città, il secondo invece per distruggerla. Questa specularità non è fine a se stessa, non è semplicemente tesa a teorizzare l’identità dei poli opposti, ma sta a indicare che nel mondo delle vicende umane non esiste uno sguardo giusto in quanto tale. Ossia, non è prendendo le distanze e osservando fuori dagli interessi personali che si percorre automaticamente la retta via. L’attore e lo spettatore vivono nello stesso mondo e hanno a che fare con la contingenza e la fragilità connaturata all’esistere.
Sia Batman che il Joker, nonostante questa capacità di sguardo, non riescono a essere “cittadini del mondo”, cioè non possono stare ovunque, forse non hanno proprio alcun diritto di residenza. E se per il Joker questo è abbastanza comprensibile, dal momento che il suo obiettivo è dar fuoco alla città, per Batman è meno giustificabile, almeno in apparenza. Il cavaliere oscuro da questo punto di vista è un film radicalmente pessimista. Non c’è spazio per gli eroi, non c’è ricompensa per chi sa dove guardare. Nel mondo degli affari umani, e Gotham ne è una rappresentazione, nessuno è fuori dalla contesa e può porsi al di sopra degli altri, nemmeno chi ha una visione chiara delle cose, perché è con la pluralità dei punti di vista che ci si deve inevitabilmente confrontare.
La congiunzione di attore e spettatore poteva trovare nell’uomo pipistrello la sua realizzazione, ma le cose sono andate storte, Batman è costretto al sacrificio, a farsi da parte per consegnare alla collettività un’altra figura di eroe, quella del martire, del procuratore Harvey Dent, che non vede e non agisce più, che da morto non è più sottoposto alla fragilità degli accadimenti umani, alle debolezze che in vita lo avevano portato a stretto contatto col male. È lui, l’esempio da seguire, l’eroe designato, almeno fino al giorno in cui qualcuno non deciderà di ridisegnarne il profilo. Ma fino a quel momento e forse anche oltre, Batman, nell’invisibilità dell’esilio per essersi assunto delle colpe non sue, non sarà più d’esempio per gli altri.
Il Joker nella sua mostruosità a volto scoperto, invece, porta alla luce l’inconsistenza del mondo fondato sulla ricchezza e le vane ambizioni di dominio. E anche se alla fine sembra essere stato sconfitto, in realtà è riuscito a incendiare la città e quindi a interpretare la radicalità del caos.

Unbreakable – Il predestinato (Unbreakable, 2000) di M. Night Shyamalan
È il 1961 a Philadelphia, un bambino afroamericano è appena nato. C’è un problema però, le sue gambe e braccia sono rotte, fratture procurate prima ancora di uscire dal grembo materno. Un dottore lo visita e dichiara di non aver mai visto una cosa simile.
Ai giorni nostri, sempre a Philadelphia, un uomo è su un treno. Ha un momento d’inquietudine apparentemente immotivata. Il treno ha un incidente, muoiono tutti tranne lui che esce illeso senza un graffio. Ancora un dottore che non può fare altro che ammettere di non aver mai visto una cosa simile.
Il bambino è cresciuto. Elijah Price è l’uomo di “vetro” a causa delle sue ossa che si rompono al minimo contatto con la realtà circostante. Elijah cerca di capire quale sia il suo ruolo nel mondo. È diventato un esperto di fumetti e di supereroi. Non si accontenta di fantasticare, quello che legge vuole trovarlo nella vita. David Dunn, il sopravvissuto, è invece una guardia in uno stadio di football, rassegnato a una vita modesta, e anche per questo in crisi con se stesso, con la moglie e il figlio.
Unbreakable permette uno sguardo originale sul tema del supereroe. Alla questione del rapporto tra attore e spettatore, relazione che nel corso della storia si trasforma in modo significativo, si aggiunge quello della domanda intorno alla propria destinazione, al ruolo da interpretare. E in questo processo di formazione, Elijah, il fragile, è il mentore che sta all’esatto opposto di David, l’indistruttibile. È l’uomo di vetro a far scoprire a David quello che da sempre era senza che ne fosse a conoscenza, un eroe dotato di superpoteri.
Fino a questo punto sembra chiaro che Elijah è lo spettatore e David l’attore. Uno pare essere consapevole della realtà circostante, delle minacce e dei miracoli che si annidano nel mondo, l’altro si muove alla cieca insieme a una moglie che ha paura di perderlo e che interpreta l’incidente del treno come una seconda opportunità per la loro relazione, e a un figlio che invece vorrebbe tanto credere alla figura del padre come supereroe. Poi accade qualcosa e tutto si ribalta.
David acquista consapevolezza dei suoi poteri. Non solo con la sua forza può proteggere le future vittime, riesce a percepire il destino di chi tocca accidentalmente. Anche lui ha la sua kryptonite, il suo tallone d’Achille è l’acqua. Non è più un semplice attore inserito in una trama che non comprende. Ora può essere d’esempio per gli altri e soprattutto è in grado di osservare il mondo.
E come tutte le storie di supereroi, anche questa ha il “cattivo” per eccellenza. Si manifesta alla fine ed è Elijah che rivela il suo ruolo di attore e non di osservatore imparziale. È lui ad aver provocato gli incidenti al treno e in precedenza l’esplosione di un aereo e l’incendio di un hotel, al solo scopo di scoprire l’esistenza di un supereroe. E alla fine trovandolo si pone definitivamente agli antipodi di David.
«Sai qual è la cosa più spaventosa? – rivela Elijah -. Non sapere qual è il tuo posto nel mondo. Non sapere perché sei qui. È una sensazione terribile. Quasi non ci speravo più. Ho dubitato di me talmente tante volte. Ma ti ho trovato. Così tanti sacrifici solo per trovarti. Ora che sappiamo chi sei tu, so chi sono io. Non sono uno sbaglio».
Il sodalizio tra i due protagonisti si rompe perché le domande esistenziali che Elijah e David si pongono, seppur simili, hanno motivazioni profondamente diverse. Il primo vuole conoscere il suo ruolo nel mondo prescindendo dal mondo stesso. La ricerca forsennata del supereroe lo ha portato a compiere atti disumani, il suo potere si risolve nell’essere il negativo di David. È una risposta che cerca esclusivamente per sé. Mentre David, indossato il mantello, consapevole dei suoi poteri, al contrario di Batman, può calarsi tra le persone per comprendere i loro atti e proteggerle, invisibile, senza ostentazione, a parte un piccolo strappo alla regola quando mostra al figlio ciò che ha fatto e forse farà in avvenire. Il poter essere “per” e “tra” gli altri, questa la risposta che David cercava per sconfiggere la sua tristezza e che oggi come ieri in questa terra sembra un miraggio sbiadito.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti e Fabio Ciabatti (qui e qui)]

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