Barriera di Milano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Orgogliosamente rivoluzionari: per una storia dei GAAP https://www.carmillaonline.com/2018/03/08/orgogliosamente-rivoluzionari-storia-dei-gaap/ Wed, 07 Mar 2018 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44080 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia italiana e il dibattito politico-ideologico, che ha nutrito e di cui si è nutrita, avevano drasticamente rimosso. Una ricerca di tal fatta, motivata e libera da impicci ideologici, potrebbe poi servire a rimuovere quell’idea, falsamente moderna, che gli appelli rivoluzionari alla lotta di classe e all’anticapitalismo radicale possano appartenere soltanto a un folklore e a una tradizione ormai superati.

Soprattutto in questo cinquantenario del ’68 diventa perciò utile e necessario far riscoprire ai giovani, ma anche a coloro che non lo sono più, l’immensa mole di esperienze e riflessioni che accompagnarono le numerose aggregazioni politiche che, tra la caduta del fascismo e la ripresa delle iniziative di classe degli anni sessanta, si svilupparono a sinistra del PCI e in netta polemica con lo stalinismo e la conduzione togliattiana del “più grande partito comunista dell’Occidente”.1

Ancora una volta è stato Franco Bertolucci, intrepido ricercatore, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa e responsabile editoriale della stessa casa editrice BFS, a curare un’opera che scava negli anni compresi il 1945 e la fine degli anni Cinquanta e costituisce la conseguenza del fatto che, nell’aprile del 1998, Pier Carlo Masini avesse fatto dono alla Biblioteca Serantini dell’archivio politico dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) e delle sue carte personali. L’impegno era che alla sua scomparsa, dopo un periodo di dieci anni, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.

Così questo volume, il primo di tre, testimonia il rispetto di quell’impegno e di vent’anni di lavoro, per riportare letteralmente alla luce, come un reperto sconosciuto ai più, la ricerca portata avanti da un ristretto ma deciso e significativo nucleo di compagni, prevalentemente di estrazione anarchica, di un comunismo consigliarista e libertario che superasse le disgraziate scelte messe in atto dai partiti e dalla Terza Internazionale stalinizzati e allo stesso tempo l’impasse in cui sembravano essere precipitati l’anarchismo e le opposizioni di Sinistra dopo le esperienze devastanti della guerra di Spagna, dei totalitarismi e del secondo conflitto mondiale. Come afferma G. Berti, citato da Bertolucci:

“La tragedia della rivoluzione spagnola fu veramente la tragedia e la fine del movimento anarchico nato a Saint-Imier. Questo infatti si trasformerà lentamente ma inesorabilmente in un corpo ideologico immobile e in questa scia obbligata, ma sterile, affronterà i devastanti effetti della seconda guerra mondiale. Gli anni che seguirono non portarono sostanziali mutamenti alla irrimediabile situazione emersa con la sconfitta della rivoluzione spagnola. L’anarchismo non ebbe un vero ricambio generazionale perché la condizione creatasi dopo il 1945 lo mise, in modo ancora maggiore, in una posizione di assoluto isolamento che lo poneva di fatto fuori dalla realtà”.2

Nel settembre del 1939 avrebbe poi avuto inizio

“il più grande conflitto armato della storia dell’umanità, nel quale vennero usate nuove armi di distruzione di massa mai utilizzate fino a quel momento. […] Il movimento operaio internazionale rimase, ancor più che nella Prima guerra mondiale, lacerato e immobilizzato. La guerra imperialista fra gli Stati ebbe il sopravvento e quasi tutti i partiti di sinistra si dichiararono favorevoli al conflitto con le potenze dell’Asse”.3

Gli stessi esponenti anarchici, in alcuni casi, finirono con l’appoggiare l’intervento bellico degli alleati interpretandolo in chiave esclusivamente antifascista, mentre le opposizioni di Sinistra, schiacciate tra nazi-fascismo e stalinismo, si ritrovarono a tacere oppure ad avere un’influenza quasi nulla sulle masse ormai diversamente nazionalizzate. Mentre gli agenti dell’Ovra, della Ghepeù e dei nazisti davano loro la caccia per eliminarli fisicamente o per internarli nelle carceri o nei lager o nei gulag, oppure ancora mentre gli stati “liberali” concorrevano ad internare nei campi di prigionia militanti anarchici e comunisti di sinistra insieme a filo-fascisti e filo-nazisti.
Qualche anno dopo le prime prese di posizione degli anarchici a favore della guerra, che lasciarono uno strascico di polemiche e di lacerazioni interne al movimento,

“un convegno organizzato a New York dai gruppi anarchici riuniti del Nord America (24 dicembre 1943) elaborò un lungo documento, pubblicato l’anno seguente, dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione. Nel documento, uno dei pochi prodotti in questo periodo di guerra dal movimento libertario di lingua italiana, si fa una lunga disamina delle radici del conflitto, partendo da quello precedente e analizzando la nascita delle dittature, lo sviluppo del capitalismo, il ruolo della Russia sovietica e la politica contraddittoria delle democrazie occidentali di fronte al nazifascismo e alla sua politica aggressiva. La conclusione del documento ribadisce, con le parole usate a suo tempo da Luigi Galleani, l’atteggiamento degli anarchici: «contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale»”.4

Questa posizione può costituire, per certi versi, il canto del cigno dell’opposizione anarchica al conflitto imperialista in atto e, allo stesso tempo, la base di quell’elaborazione politica e teorica che nel secondo dopoguerra, in un clima di controrivoluzione imperante, avrebbe portato al tentativo di riorganizzare tra di loro i militanti anarchici e della Sinistra Comunista che avevano tenuta ferma la barra nella direzione della lotta al capitalismo e all’imperialismo, qualsiasi fossero le forme sotto cui si presentavano le due idre.
Occorre qui ricordare

“che il numero dei militanti (anarchici – N.d.R.) sopravvissuti a vent’anni di regime, che non si erano piegati e non avevano accettato compromessi, si aggirava nell’estate del 1943 intorno ai 2/3.000 individui, nella stragrande maggioranza nati tra il 1880 e i primi del Novecento e formatisi politicamente prima dell’avvento al potere del fascismo. Praticamente sono pochi i ventenni, cioè la generazione di giovani nati sotto il fascismo e che possono rappresentare il futuro del movimento. Questa cesura, o vuoto, generazionale peserà fortemente nello sviluppo del movimento e soprattutto nella sua incapacità di riallacciare le file della propria presenza tra le classi subalterne. […] Altro dato importante è il fatto che il nucleo più consistente di militanti, circa 200/300, che si trovava assegnato nelle diverse carceri o in località di confino, in particolare a Ventotene, non viene immediatamente liberato come gli altri prigionieri politici al momento della caduta del fascismo. Ad esempio, su iniziativa del capo della colonia di Ventotene, Marcello Guida – nome che ritornerà prepotentemente nella storia del movimento libertario nell’autunno del 1969 quando, come questore di Milano, si troverà a gestire la «Strage di Piazza Fontana» e il caso di suicidio/omicidio del ferroviere anarchico ed ex partigiano Giuseppe Pinelli –, gli anarchici confinati vengono destinati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo insieme con alcune migliaia di slavi. Solo dopo l’8 settembre riusciranno a fuggire dal campo di prigionia prima dell’arrivo dei tedeschi”.5

L’euforia post-resistenziale e la fine della guerra oltre che del fascismo non avrebbero sviato l’attenzione di questi compagni da quello che era il reale fuoco e il reale motore dei drammi appena trascorsi. L’abbuffata democraticistica, in cui apparentemente Truman e Stalin, borghesi e proletari, nazioni e classi, capitalismo e sfruttati potevano darsi felicemente la mano, non li aveva minimamente toccati. Anche se nel frattempo la situazione politica internazionale e nazionale, la composizione di classe e la cultura che le accompagnava si era, per forza di cose, significativamente modificata.

Fu in questa situazione e in questo iato culturale venutosi a creare tra le avanguardie militanti più radicali e la società circostante che ebbe inizio l’avventura dei Gruppi anarchici di azione proletaria (GAAP). Il cui principale animatore si può individuare nella figura di Pier Carlo Masini (1923 -1998), straordinaria figura di intellettuale, ricercatore, storico del movimento anarchico ed operaio, che proprio nel 1949, su Volontà, aveva scritto: «A mio giudizio non è esatto affermare che nella storia tutti i moti di libertà o di giustizia o di umana affermazione, ieri o domani, possano avere una relazione di consanguineità con l’anarchismo». Affermazione in cui era evidente l’intenzione di Masini

“di contestare tutte quelle correnti e/o tendenze del movimento anarchico che interpretano l’anarchismo come un’idea generica di ribellismo o, viceversa, ogni forma di ribellismo sociale che si senta in qualche modo autorizzata a essere inclusa nell’alveo della grande famiglia libertaria. Questa posizione nasce, appunto, dalla considerazione di come il movimento anarchico nell’immediato Secondo dopoguerra, sull’onda della riconquistata libertà, abbia accolto nelle sue file militanti di ogni genere, che spesso hanno creato confusioni e contraddizioni. […] «La storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di lotte di classe», la lapidaria sentenza si trova, come è risaputo, nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e secondo Masini non è necessario esser convinti adepti del materialismo storico per accettare l’essenza di verità racchiusa nella frase testé citata. Sebbene la storia umana non possa esser tutta spiegata con l’azione della lotta di classe, non si può negare che i conflitti sociali più o meno violenti ne siano stati uno dei motori principali.[…] Dell’elaborazione marxiana sulle classi, Masini condivideva l’individuazione nel proletariato e nella borghesia delle due classi emergenti, ma antagoniste, di quella fase storica – il secolo decimonono – e da ciò ne conseguiva la considerazione che nel momento in cui il proletariato avesse portato avanti i propri interessi all’interno del sistema capitalistico, essendone in quanto forza-lavoro prodotto e componente prima, ne avrebbe determinato la totale distruzione; e poiché alla proprietà dei mezzi di produzione avrebbe sostituito la proprietà comune, avrebbe conseguentemente eliminato anche le classi che sono a quella connesse. Era quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, riprendendo la riflessione del filosofo ed economista di Treviri, erano principalmente di ordine economico; esse potevano però soltanto delimitare quella che veniva definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo aveva creato una situazione comune”.6

Inoltre Masini scriveva ancora sulla classe e il proletariato

“che, illuso o tradito, non può mai venir meno a se stesso perché è sempre e ferreamente presupposto dalla classe nemica, dallo stato nemico: resta un conflitto di classe, sia pure deviato dai liquidatori o sfruttato dai demagoghi, una lotta implacabile di «quelli che stanno sotto» contro «quelli che stanno sopra»; resta soprattutto l’esigenza di dare a questo movimento di classe una ideologia che esso non esprime mitologicamente dal suo seno come un tempo sognarono i pontefici massimi dell’operaiolatria, ma che un secolo di lotte ci propone oggi come il prodotto delle sue dirette esperienze”.7

A fronte di un movimento anarchico che rivendicava, attraverso la redazione della stessa rivista Volontà, un ruolo più di testimonianza che di direzione politica, Masini opponeva l’idea che

“gli anarchici devono organizzarsi e attrezzarsi con un’ideologia che rivendichi la piena autonomia dei lavoratori nel definire e realizzare il proprio percorso di emancipazione, e questa è una condizione sine qua non per l’acquisizione di una coscienza politica che può condurre verso la conquista e l’avvento di una società liberata”.8

“Per Masini, come per il gruppo formatosi nel frattempo intorno a lui, non può esistere una rivoluzione senza un movimento rivoluzionario, di conseguenza è fondamentale per gli anarchici uscire dal loro isolamento e darsi una funzione di «avanguardia», proprio per insinuare nelle lotte sociali il germe dell’insurrezione: «È per questo che noi vogliamo agganciare al movimento della classe lavoratrice una rivendicazione di libertà che completa e trascende le limitate richieste a fondo politico ed economico». E la funzione dei gruppi anarchici specifici per Masini nel divenire sociale è ben precisa: «Allora non bisogna dimenticare che i gruppi anarchici nei luoghi di lavoro operano oggi in una situazione controrivoluzionaria e non possono avere che uno scopo: quello di illustrare, documentare, descrivere la crisi, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria»”. 9

Su queste basi, che sottendono una situazione controrivoluzionaria che solo successivamente potrà essere superata e un confronto serrato con molte delle federazioni anarchiche diffuse sul territorio nazionale, Masini contribuirà a dare vita al periodico L’Impulso, che vedrà raccogliersi intorno alla sua redazione (composta nel primo anno e mezzo di vita quasi esclusivamente dal solo Masini) Augusto Boccone, fornaio e militante di vecchia e provata fede; due giovani della classe 1920 entrambi amici personali di Masini: Luciano Arrighetti operaio della Galilei e Sirio Del Nista impiegato ai Cantieri Orlando di Livorno. I liguri Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Agostino Sessarego e Aldo Vinazza – classi 1925-1927 – tutti di estrazione proletaria con esperienze nella Resistenza. I piemontesi, che rappresentano forse il gruppo più omogeneo dal punto di vista sociale essendo tutti di estrazione proletaria e inseriti nei principali stabilimenti industriali del capoluogo regionale con una grande esperienza sindacale alle spalle e anche internazionalista visto che tra loro ci sono volontari che hanno combattuto in Spagna come Aldo Demi – classe 1918 –, o che hanno un lungo excursus nel movimento, come Paolo Lico – classe 1903 –, tutti o quasi facenti parte di un gruppo storico dell’anarchismo torinese, quello del quartiere popolare di Barriera di Milano, insieme a numerosi altri provenienti da diverse regioni. I militanti che ruotano intorno al periodico hanno una prevalente estrazione proletaria, ma con una significativa presenza di giovani intellettuali, studenti e insegnanti, che poi svolgeranno una discreta influenza sullo sviluppo dell’organizzazione.

“Il primo obiettivo di questo nuovo impegno del gruppo è quello di iniziare alla base un paziente lavoro di restaurazione teorica allo scopo di rianimare i compagni disorientati o ideologicamente deboli; di qui la necessità di riassestare consolidare potenziare, sul piano locale, il tessuto associativo minacciato da un avanzato processo di lacerazione. Va altresì ricordato che questo gruppo, soprattutto i più giovani, è attraversato da un sentimento di inquietudine, di voglia di essere in qualche modo protagonista del proprio avvenire, ma nel contempo è incerto nelle scelte soprattutto teoriche. Masini li sprona allo studio, invia loro continuamente lettere nelle quali suggerisce letture di classici, sia politici che economici. Tra di loro c’è chi non ha una formazione prettamente anarchica, ma spesso è mutuata da elementi spuri derivati dalla cultura social-comunista, o repubblicana; Masini ne è ben cosciente e cerca con tutte le sue forze di costruire un cammino comune, ma l’impresa come vedremo non sarà priva di ostacoli e anche di delusioni. Tra i nomi dei giovani che sono tra i più irrequieti e in qualche maniera “problematici” c’è Cervetto”10

Che nell’immediato Secondo dopoguerra vive un’evoluzione politica e teorica che lo porterà ad essere da antifascista ribelle e comunista irregolare ad anarchico, come reazione alla svolta del «partito nuovo» di Togliatti.
E proprio in una lettera a Cervetto del 16 novembre 1949 che Masini delineerà in parte il programma dell’attività di quelli che diverranno i GAAP:

“Mi sembra che sul piano ideologico si possa andare d’accordo dichiarando il fallimento di socialdemocrazia-bolscevismo-sindacalismo-anarchismo tradizionale. […] Ora ecco la prospettiva che si disegna
a) dichiarare il fallimento di tutto il passato (anche nostro);
b) procedere alla formazione di un movimento (anarchico) nuovo.
Fin qui la prospettiva politica, di anni. Poi la prospettiva storica, di decenni.
c) Formare il movimento di classe.
Natura non facit saltus.
Sul terreno ideologico le nostre posizioni coincidono.
Sull’astensionismo siamo d’accordo.
Sul «partito» nessuno vuole il partito tradizionale della classe operaia, né l’azienda elettorale dei socialdemocratici né la superassociazione di amicizia italo-sovietica degli stalinisti, ma qualcosa di superiore di metapartitico.[…] se un presupposto della dissoluzione dello stato nella fase rivoluzionaria è la formazione particolare dei quadri rivoluzionari, risulta anti-pedagogico, controproducente parlare a questi quadri il linguaggio della «dittatura», della «egemonia», della «conquista del potere». Significa capitolare innanzi tempo di fronte all’ipotesi dello stato, ripiegare passivamente su posizioni di rinuncia, di pigrizia, di controrivoluzione preventiva.
Bisogna decisamente puntare sul non-stato, concentrare tutte le forze nel periodo rivoluzionario senza deroghe, senza proroghe dei problemi. Ci siamo?”11

Sarà sostanzialmente su queste basi, oltre che su una più vasta riflessione di carattere geo-politco sull’imperialismo e sull’opposizione alla guerra, che sarà formulato il documento politico della Conferenza nazionale convocata dal Gruppo d’iniziativa per un movimento «orientato e federato» svoltosi a Pontedecimo, in provincia di Genova, dal 24 al 25 febbraio 1951da cui avranno ufficialmente origine i GAAP. Le cui tesi principali saranno elaborate da Masini e da Cervetto.
Con il secondo ormai più orientato verso ipotesi di stampo leninista.

“Tra gli osservatori che partecipano alla Conferenza di Genova-Pontedecimo vanno segnalati Bruno Maffi, rappresentante del Partito comunista internazionalista; Livio Maitan e Sergio Guerrieri dei Gruppi comunisti rivoluzionari IV Internazionale. La presenza di queste organizzazioni a una riunione di anarchici rappresenta una novità. […] I bordighisti all’epoca rappresentano una delle «dissidenze» storiche del comunismo italiano, nel loro costituirsi in formazione politica distinta durante gli anni del Secondo conflitto mondiale, avevano sempre cercato di rivendicare la continuità con l’esperienza del Partito comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921. Questo richiamo alle radici non era casuale, e non riguardava solo anagraficamente la storia di alcuni dei principali militanti e teorici – tra cui lo stesso Amadeo Bordiga, primo segretario e fondatore del PCd’I –, ma soprattutto era di natura politico ideologica. La scelta nella propria denominazione dell’aggettivo «internazionalista», testimoniava la rivendicazione della vera essenza del comunismo rivoluzionario in contrapposizione al modello staliniano e togliattiano del partito, che faceva del nazionalismo la propria bandiera. La loro presenza alla Conferenza nazionale del gruppo de «L’Impulso» era dettata soprattutto dai buoni rapporti personali che negli anni Masini aveva mantenuto con quest’area politica e dalla quale traeva alcune riflessioni teoriche, specialmente quelle riguardanti l’analisi di Bordiga sullo Stato e la scelta internazionalista che l’intellettuale toscano stesso aveva condiviso durante l’ultima guerra”.12

La preoccupazione maggiore di Masini non fu però soltanto quella di costruire un’organizzazione che in una situazione controrivoluzionaria non avesse altro scopo che quello di illustrare, documentare e descrivere la crisi, non solo economica ma soprattutto politica del movimento proletario, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria. Ma anche quella di chiarire che nel momento in cui il lavoro politico fosse venuto

“a combaciare con la realtà rivoluzionaria, in questa si dissolve e scompare come movimento. Guai se l’organizzazione politica sopravvivesse di un attimo! Guai se anche i gruppi anarchici di fabbrica non si bruciassero ipso facto nel nuovo spazio umano delle assemblee. Avremmo allora una mostruosa dittatura, chiusa e tirannica quanto altre mai. L’alba della rivoluzione deve coincidere col tramonto dei suoi annunziatori”13

Quell’avventura politica sarebbe durata fino al 1957, in uno dei periodi più burrascosi e difficili per il movimento operaio non soltanto italiano; segnato dalla fine apparente dello stalinismo, dalla rivolta operaia “rimossa” di Berlino Est del 1953 e dalla repressione sovietica dell’insurrezione dei consigli ungheresi del 1956. Nel mentre quei compagni sarebbero stati sempre attenti ai nuovi sviluppi della lotta di classe e all’evolversi della situazione internazionale e dei conflitti interimperialistici.

L’organizzazione sarebbe stata attraversata anche dolorosamente dalle contraddizioni esplosive che si manifesteranno nella seconda metà del decennio post-bellico, ma sempre quei compagni avrebbero cercato di non perdere la rotta e di mantenere un punto di vista adeguato sia alla situazione ancora ritenuta controrivoluzionaria che alle possibili evoluzioni future della lotta di classe e della rivoluzione.
Come esempio di tale attenzione e lucidità basti qui ricordare una risoluzione del Comitato nazionale dei GAAP sui moti di Berlino del giugno 1953:

“Il giorno 17 giugno le strade di Berlino, quelle stesse strade che nel primo dopoguerra rosso furono teatro della estrema resistenza spartachiana contro le truppe del traditore Noske, sono state invase da prorompenti turbe di lavoratori e di lavoratrici che dopo anni di silenzio, di reazione croce-uncinata, di guerra imperialista, di occupazione militare hanno levato la voce fremente ed angosciosa di una classe di schiavi in rivolta. Come anarchici e come rivoluzionari noi consideriamo questo avvenimento, insieme alle eroiche sollevazioni dei popoli coloniali, insieme alle dure lotte dei lavoratori europei contro l’imperialismo americano, come uno dei fatti più importanti e più significativi degli ultimi anni.
Il 17 giugno l’imperialismo sovietico ha rivelato le debolezze e le contraddizioni del suo sistema non più attraverso oscuri conflitti tra alti gerarchi di partito e di governo, facilmente risolvibili con l’impiccagione dei vinti, non più attraverso processi, sensazionali e clamorosi quanto privi di ogni significato sociale, di fronte ai quali le masse assistevano passive e attonite. No, questa volta le masse sono entrate nel processo come accusatrici ed hanno impostato la causa su chiari motivi di classe: di là lo Stato burocratico e poliziesco, l’esercito straniero, il partito di governo; di qua noi, popolo lavoratore, armato dei nostri diritti al pane ed alla libertà. Ancora una volta è stato dimostrato che né il peso opprimente di una dittatura, né l’illusione di un «socialismo» statalista e burocratico. Né il violento annientamento fisico di ogni qualificata opposizione rivoluzionaria sono sufficienti a garantire la classe egemone dall’incontenibile insurrezione delle forze di classe che sgorgano alla base della sua stessa egemonia e le si avventano contro”.14

L’enorme mole di documentazione e di testi riportati in questo primo volume andrebbe esaminata ancora più approfonditamente, cosa che lo spazio di una recensione non può permettere, ma sicuramente le pagine della coraggiosa e ampia opera di ricostruzione curata da Bertolucci, insieme a quelle dei due volumi che seguiranno15 e che ancora qui su Carmilla saranno recensiti, richiamano tutti allo studio della Storia e ci ricordano che il processo di formazione dei partiti e dei movimenti reali non è semplice né casuale né, tanto meno, volontaristico. Sorge invece da lunghe riflessioni sulle sconfitte passate e dalla dura esperienza delle lotte reali, condivise (non soltanto sulla base ideologica) e diffuse sui territori, non da un’urna elettorale e nemmeno dall’aggregazione di rappresentanti di formazioni politiche ormai defunte che come fantasmi si rifiutano semplicemente di accettare l’idea di esser già scadute da tempo.


  1. Come spesso si ricordava orgogliosamente, senza allo stesso tempo ricordare quale incredibile baluardo della restaurazione borghese questo avesse finito col rappresentare fin dalla svolta di Salerno e quale ostacolo avesse sempre costituito per la riorganizzazione di classe dal basso e per l’autonomia politica della stessa  

  2. G. Berti, Il pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998, pp. 47-48 cit. in F.Berolucci, Per una storia dei Gaap, in GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1, pag. 56  

  3. F. Bertolucci, op.cit. pag. 56  

  4. Bertolucci, op.cit. pp.57-58  

  5. Bertolucci, pag. 61  

  6. op.cit. pp. 94-95  

  7. pag.96  

  8. pag.96  

  9. pag. 97  

  10. pag. 110  

  11. pag. 114  

  12. pp. 153-154  

  13. Cit. in Bertolucci, pag. 97  

  14. Le rosse giornate di Berlino est, Genova 15 luglio 1953, op.cit. pag. 475  

  15. Il secondo intitolato: Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest. Dall’organizzazione libertaria al partito di classe; mentre il terzo sarà dedicato alle biografie dei vari militanti  

]]>
Una selvaggia e incontenibile voglia di libertà https://www.carmillaonline.com/2017/04/27/selvaggia-incontenibile-voglia-liberta/ Wed, 26 Apr 2017 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37879 di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere [...]]]> di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.

Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria. Naturalmente, facendo sì che anche gli ultimi e più autentici testimoni degli eventi, delle rivolte e delle lotte giungano al termine del loro percorso biologico senza avere potuto lasciare una propria testimonianza diretta, anche quella apparentemente più condivisa potrà in seguito essere manipolata dagli storici e dagli ideologi irreggimentati nei diversi tipi di Presente.

Se vogliamo, lo stesso destino è stato riservato alle memorie dirette di coloro che hanno cercato, e magari cercano tutt’ora di testimoniare, lo svolgersi degli eventi e le cause delle scelte degli attori coinvolti. Tipico ne sia, per tutti, il ritardo con cui un testo di rilevanza assoluta, rispetto al dramma dei campi di lavoro, prigionia e sterminio tedeschi, come “Se questo è un uomo” di Primo Levi sia stato accolto con un ritardo incredibile nella cultura, nella vita politica e dalla “grande” editoria italiana. Ma di Levi si tornerà a parlare in chiusura di questa recensione.

E’ rimasta così la via della memoria romanzata oppure della storia romanzata che, anche là dove si è espressa come nuova epica italiana, ha continuato e continua a promuovere una sottomissione della memoria di classe alle esigenze della Storiografia ovvero della Politica. Ci si arrende infatti, anche involontariamente, al fatto che, non potendo ormai contrastare il peso dei documenti ufficiali scritti (anche le interpretazioni dei partiti e dei loro leader e rappresentanti fanno parte di questi, soprattutto qui in Italia e negli ambienti delle sinistre, tradizionali e non), occorra adottare espedienti destinati a ricostruire il passato attraverso varie e differenti forme di complotto oppure per mezzo di colpi di scena attraverso i quali, troppo spesso, la testimonianza autentica rischia di affogare tra le esigenze dell’intreccio.1

Il testo di Silvio Borione, classe 1930 e testimone giovanissimo della lotta antifascista torinese, e di Giaka, militante del CSOA Gabrio di Torino e autore del romanzo Le orme del lupo (pubblicato da Agenzia X nel 2014),2 sfugge a queste trappole e ci dona una lettura appassionante e, per gran parte, autentica di eventi che, nonostante gli sforzi messi continuamente in campo per rimuoverli o ridimensionarli, occorre ancora conoscere e approfondire di più.

Sicuramente la narrazione e le memorie del vecchio Biund hanno costituito per Giaka, così come per i giovani compagni che continuano a frequentarlo su quelle colline su cui si è ritirato da tempo, un autentico motore di ricerca e sviluppo, sia per la ricostruzione della Resistenza operaia torinese, con tutti i suoi eroismi e i suoi errori, sia per la comprensione di una realtà storico-politica molto più complessa e violenta di quella trasmessa dalla vulgata dominante.

Non nascondo di aver letto il libro in un sol giorno, 170 pagine dall’alba al tramonto, e di aver tratto dalle sue pagine momenti di commozione, di rabbia e di riflessione.
Proprio per questo vorrei qui sottolineare i principali punti di forza del testo e lasciare alla fine i suoi pochi punti discutibili e sicuramente non dovuti ai due co-autori .

Il primo elemento di forza è quello di spogliare la lotta antifascista condotta dal basso dal prevalere di quegli elementi morali ed ideologici che, pur avendo probabilmente contraddistinto le scelte degli intellettuali e dei militanti dei vari partiti antifascisti, predominano nella ricostruzione della lotta partigiana. Che invece fu condotta a partire spesso dalle esigenze quotidiane (la fame così spesso ricordata e centrale nello sviluppo delle vicende narrate e sottolineata benissimo dal titolo stesso), di classe (la lotta per il mantenimento dei miglioramenti salariali, promessi e mai realizzati dal regime e dagli imprenditori, che costituì il motore decisivo per gli scioperi della primavera del 1943) e da quello spirito delinquenziale e di ribellione giovanile che manifestava quella selvaggia ed incontenibile voglia di libertà citata nel testo3 e nel titolo di questa recensione.

Il secondo è costituito dal rivelare fino in fondo la brutalità dell’azione repressiva dello Stato. Sia nella sua versione repubblichina, fascista e nazista, sia in quella dell’interregno trascorso tra la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e l’Armistizio firmato dal Re e dal maresciallo Badoglio (8 settembre 1943). “Intorno al fuoco la sera si parlava solo più della caduta del fascismo e degli scioperi, le voci si rincorrevano ed era difficile fare un bilancio.La Spezia, Sesto Fiorentino, Firenze: morti e feriti. Milano, Torino: ancora morti e feriti. Bari: 23 morti e 60 feriti. Al carcere San Vittore di Milano sulla folla che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici l’esercito di Badoglio sparava con i carri armati, uccideva, feriva e fucilava quattro manifestanti sul posto; al carcere Regina Coeli di Roma sedava una rivolta con un massacro e lo stesso faceva a Reggio Emilia, in un elenco che non sembrava finire mai. L’intero paese si stava sollevando e il governo Badoglio aveva deciso di affogare le proteste nel sangue, con il tempo e grazie alla stampa clandestina le notizie si facevano chiare e ai primi di settembre la realtà era sulla bocca di tutti: il nuovo governo, nel giro di cinque giorni, aveva ucciso 93 operai, ne aveva feriti 536 e arrestati 22764

Il terzo è dato dal descrivere una realtà organizzativa che, nei quartieri operai di una Torino impoverita, bombardata e passata dai seicentomila abitanti di prima della guerra ai duecentomila dell’ultimo anno, nasce. ancora prima che dalle direttive organizzative di partito, da un senso di solidarietà e di appartenenza in cui la comunità operaia accoglie anche chi operaio e lavoratore non è e, magari, non è neanche piemontese, ma è solamente, come tutti, vittima di un regime politico ed economico capace soltanto di sfruttare e reprimere un’umanità intesa quasi solo come forza lavoro. Fatto sottolineato particolarmente nelle pagine dedicate ai maltrattamenti e alle condizioni di lavoro all’interno del carcere giovanile Ferrante Aporti, in cui le condizioni non erano poi così distanti da quelle dei lager.

Un’umanità in cui le discriminazioni di genere non esistono e in cui le donne sono sempre in prima fila nelle lotte e nel soccorso ai combattenti o alle vittime della repressione. Spesso contro le stesse direttive del PCI.5

silvio-borione-con il padre Il quarto è quello di essere capace di descrivere e ricordare un’epoca di lotte e scelte in cui l’interazione tra le differenti generazioni, di cui il rapporto tra Silvio e il padre Eugenio6 è altamente sintomatico e rappresentativo, non solo era motivo di presa di coscienza e di crescita politica, ma anche di reciproco rispetto. All’interno della quale le piole, le caratteristiche vinerie torinesi (prima dell’avvento dei wine bar e dei locali da aperitivi, rimasero un elemento centrale di scambio e di incontro fino agli anni settanta.

Poi c’è la descrizione di Torino, città operaia per eccellenza, con i suoi borghi e le sua barriere (San Paolo, Nizza, Milano, Barca e tutti gli altri) così inseparabili dalla storia delle sue lotte e della sua netta formazione antagonista nei confronti delle classi al potere. Una città che con la sua fabbrica diffusa e la presenza enorme di lavoratori dell’industria ha creato condizioni di resistenza, riflessione e crescita politica assolutamente impensabili in altre città italiane nel corso dei primi settant’anni del Novecento.

Lotte che partono dalle fabbriche e dai quartieri operai che i partiti e i movimenti organizzati dovevano sapere interpretare prima ancora che dirigere e che avrebbero formato una classe di intellettuali, poco appariscenti ma decisi, che vanno da Antonio Gramsci, con le sue prime riflessioni sulla città-fabbrica, a Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Tutti diversi tra loro, ma egualmente e strenuamente impegnati in prima linea nella lotta contro il fascismo.

La forza delle memorie di Silvio sta, infine, anche nella sua capacità di ricordare la partecipazione alla Resistenza anche delle formazioni spesso eluse dalla storiografia piccista; ad esempio quella filo-bordighista, o presunta tale, di Stella Rossa, che aveva spinto con le sue audaci azioni per un’insurrezione prettamente proletaria della città già nel febbraio del ’45, oppure quelle anarchiche. O nel sottolineare l’amarezza con cui gli operai e i militanti che avevano difeso a rischio delle loro vite e con scarsi mezzi e ancor meno armi gli stabilimenti FIAT di Mirafiori dai tentativi di saccheggio tedeschi, videro sfilare migliaia di sappisti ben armati in piazza Vittorio nelle giornate successive alla Liberazione (avvenuta a Torino con un giorno di ritardo rispetto ad altre città italiane).

Oppure nel ricordare ancora che la vendetta non è un gioco e che la violenza non si può mai usare a cuor leggero e senza provare un senso di nausea per il sangue versato, anche dal nemico più odiato. Così come capita a Silvio nell’assistere all’eliminazione dei collaboratori e degli ultimi, invasati sostenitori del regime che giravano per la città cercando di colpire alle spalle chiunque capitasse loro a tiro. Un triste, orrendo rituale di sangue in cui la sete di vendetta non poteva bastare a sopportarne le conseguenze fisiche e psicologiche.

Le uniche note non del tutto positive, riguardano il fatto che, forse, avrebbe dovuto essere maggiormente rispettata e riprodotta la lingua del narratore. Anche se qui e là il dialetto piemontese e la parlata torinese sono presenti con alcune frasi idiomatiche e modi di dire molto diffusi, la lingua del testimone, lasciato libero di esprimersi, avrebbe arricchito ancora di più il lavoro di ricostruzione della memoria di classe portato avanti dai due autori. Così come ha saputo fare benissimo Luca Baiada nel ricostruire le memorie della strage del padule del Fucecchio del 1944.7

Ma, in questo caso, credo che la scelta sia stata prettamente editoriale, così come quella di voler inserire nel testo discorsi e comunicati, oltre che informazioni, che se da un lato servono a storicizzarlo ed inquadrarlo nel periodo storico-politico in cui si svolgono i fatti, dall’altro rischiano di renderlo talvolta retorico ed eccessivamente dipendente dalla vulgata del Partito Comunista. Ma, queste ultime, sono osservazioni realmente marginali e vengono qui inserite proprio nella speranza che un editore attento come Red Star Press in futuro abbia più coraggio nel liberare la memoria di classe dai vincoli della riconoscibilità accademica o partitica.

Per Primo Levi e i partigiani ebrei caduti nella lotta di Liberazione
Nelle ultime pagine del testo, nella Postfazione, alcuni compagni e compagne del CSOA Gabrio ricordano le parole di Primo Levi quando sottolineava come la partecipazione alla lotta di Liberazione derivasse anche da “Un muto bisogno di decenza”. Ecco, a questo bisogno di decenza vorrei richiamare tutti coloro che, da Paolo Mieli al PD passando per quasi tutti i media nazionali e l’Associazione Amici di Isrele, in occasione del 25 aprile hanno sentito il bisogno di sbandierare per l’ennesima volta l’apporto della Brigata Ebraica alla lotta di liberazione italiana.
Dimenticano, i signori, alcune fondamentali verità che cercherò qui di riassumere brevemente.

Nell’anteporre, infatti, la “memoria” della Brigata Ebraica alle altre vicende della Resistenza italiana non solo si compie un’opera mistificatoria, superata per volontà di rimozione storica e superficialità soltanto dai militanti del PD sfilati con le bandiere e le magliette azzurre dell’Unione Europea in occasione del 25 aprile, ma si offende anche la memoria dei numerosissimi (circa 2000) ebrei “che parteciparono attivamente alla Resistenza (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di “patrioti”), con la massima concentrazione (circa 700) in Piemonte. La percentuale, pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, è di gran lunga superiore a quella degli italiani nel loro complesso. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; otto furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Sergio Forti, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman). Tra gli esponenti ebrei di maggior rilievo della Resistenza si annoverano: Enzo Sereni, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu e Elio Toaff. Fra i caduti, vanno ricordati il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, i torinesi Emanuele Artom e Ferruccio Valobra, i triestini Eugenio Curiel e Rita Rosani, il milanese Eugenio Colorni, il toscano Eugenio Calò, gli emiliani Mario Finzi e Mario Jacchia, e l’intellettuale Leone Ginzburg.8

Tutti parteciparono alla Resistenza oppure caddero combattendo nelle diverse formazioni partigiane, dalle Brigate Garibaldi a Giustizia e Libertà, escluse forse le formazioni cattoliche.
Anteporre ancora a questo semplice fatto l’”importanza” della Brigata Ebraica (costituita in Palestina il 20 settembre 1944 sotto il comando britannico e inviata a combattere sul fronte italiano e austriaco dopo lo sbarco degli Alleati) dimentica che questa operò sotto il comando di uno degli schieramenti imperialisti in campo e senza alcuna autonomia operativa o di scelta politica (a meno che non si parli di scelta politica a proposito dell’idea sionista, già esposta dal fondatore del movimento Theodor Herzl, di voler rappresentare la diga a difesa dei “valori” occidentali in Medio Oriente)

La Brigata venne inviata nel novembre 1944 sul fronte italiano. Sbarcata a Taranto, entrò in linea dal 3 marzo 1945 […] La Brigata combatté con le proprie insegne a fianco di unità italiane e polacche. Prese parte ai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945), poi venne trasferita più a sud di fronte a Cuffiano (sulle prime pendici dell’Appennino). Il 27 marzo combatté al fianco del Gruppo di Combattimento “Friuli” contro la IV Divisione Paracadutisti del Reich. Il 9 e 10 aprile 1945 partecipò alla Battaglia dei tre fiumi assieme alle forze alleate, con le quali fu protagonista dello sfondamento della Linea Gotica. Nel corso del ciclo operativo in Italia tra il 3 marzo ed il 25 aprile 1945 la Brigata Ebraica ebbe 30 morti e 70 feriti 9

Il peso del suo contributo fu pari, ma inferiore per numero di caduti e feriti, a quello di tutti gli altri contingenti militari presenti sul suolo italiano in chiave anti-tedesca durante la cosiddetta campagna d’Italia ovvero senegalesi, marocchini, francesi, polacchi, inglesi, americani e via dicendo e non è possibile oggi elevarla al di sopra né degli altri militari caduti né ancor meno al di sopra degli ebrei e dei partigiani caduti nel corso della Resistenza armata al fascismo e all’imperialismo tedesco. Tutti anti-fascisti, comunisti, socialisti e azionisti ancor prima che ebrei.

Guidetti Serra Levi Cortina40 Lo spirito che animò quei combattenti lo riassunse bene Primo Levi10 nella sua Prefazione del 1972 a “Se questo è un uomo”, dedicata ai giovani: “E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri. Istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in alcuni altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo”.

Spirito che appartiene a Silvio Borione sicuramente, ma non a coloro che della Brigata Ebraica, del sionismo imperialista e della vergognosa occupazione dei territori palestinesi hanno fatto la loro bandiera.


  1. E’ infatti difficile, se non impossibile, trovare nelle recente letteratura italiana la rigorosità e la fedeltà nella ricostruzione sia degli eventi storico-politici e delle lotte che della mentalità di classe che li ha accompagnati espresse da Valerio Evangelisti nella sua trilogia Il sole dell’avvenire oppure da Wu Ming 1 nel suo Un viaggio che non promettiamo breve  

  2. Dal quale mi aspetto ancora, come ebbe a promettermi durante la manifestazione Una montagna di libri contro il TAV tenutasi a Bussoleno nel 2014, una narrazione adeguata delle vicende torinesi di quell’anno e del rapporto istituitosi a Torino tra i giovani delle periferie, che avevano animato sia le proteste locali dei forconi che l’assedio dei mercati generali in occasione dello sciopero dei facchini, e i centri sociali  

  3. pag. 20  

  4. pp. 73-74  

  5. Come ben ricordato in Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016  

  6. Ripresi insieme nel 1939 nella fotografia qui pubblicata 

  7. Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016  

  8. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_ebraica  

  9. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Brigata_Ebraica  

  10. Nella fotografia qui accanto sono visibili Bianca Guidetti Serra, a sinistra, e Primo Levi, al centro, nel 1940  

]]>
Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

]]>
L’estate del 1964 (o giù di lì e oltre) – 1 https://www.carmillaonline.com/2016/01/16/lestate-del-64-o-giu-di-li-e-oltre/ Fri, 15 Jan 2016 23:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27865 di Sandro Moiso

Kriminal 4 [Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]

La precisione non è la verità” (Henri Matisse)

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.

Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima [...]]]> di Sandro Moiso

Kriminal 4 [Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]

La precisione non è la verità” (Henri Matisse)

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente.
La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.

Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima della nostra presa di coscienza l’unico comunista italiano moderno, prima di cadere nel delirio della senescenza.
Lezioni dal disastro avremmo potuto scrivere noi, se ne fossimo stati capaci.
O ne avessimo avuto voglia. Ma fummo sempre e irrimediabilmente pigri.
O forse soltanto un po’snob. Poco attratti dall’intellighentsia e dai suoi rituali.
Preferivamo l’azione.

Ignoranti? Forse, oppure soltanto portatori di altre culture. All’epoca sovversive, oggi maleodoranti.
La riforma della scuola media unica, quella della legge n. 1859, entrata in vigore il 31 dicembre 1962, ci aveva aperto le porte della cultura superiore.
Uno dei miei più cari amici dice sempre che come figli di un operaio e di un benzinaio abbiamo fatto fin troppo. E forse ha ragione.

In casa non avevamo una ricca biblioteca. Anzi non ne avevamo proprio.
La mia fu la prima, ma mio padre portò a casa, con la prima fonovaligia, un 45 giri di Ray Charles e mia madre ci avrebbe ascoltato di tutto. Dal beat ad Orietta Berti.
Cosa avevamo da condividere con le classi alte? La licenza elementare di mio padre?
La terza elementare di mia madre? L’emigrazione in America dei miei nonni materni?

Cosa cazzo c’entravano quelli come noi con il liceo?
Erano gli anni del boom e delle belle speranze e i nostri genitori ci tenevano a farci fare il salto. Ma ci mancava l’allenamento e qualcuno, soltanto più tardi, riuscì solo a svendersi senza nemmeno troppa discrezione.
Quello sarebbe stato il nostro destino, già scritto nell’anagrafe sociale: rimanere invisibili oppure esagerare.

Comunque, com’è solito ripetere lo stesso amico, non ne azzeccammo mai una.
Almeno da un punto di vista borghese. Anche soltanto piccolo.
Non era nel nostro Dna. Le nostre catene elicoidali si avvolgevano intorno a secoli di timori reverenziali, di sopravvivenza e di rabbia contenuta.
Specie quando si discendeva da una famiglia di ebrei convertiti, come la mia.
Tutto ciò non avrebbe potuto far altro che condurre ad una vita di macerazione interiore.

kriminal 5 Oppure esplodere. E così fu.
Gli antenati polacchi in fuga dai pogrom, la fatica dei campi, il fratello del nonno e primo marito di mia nonna disperso sull’altipiano di Asiago, la delusione resistenziale dei padri sarebbero esplosi con noi. Con me. Dentro di me. Chissenefrega…fuoco!

Ognuno di noi ha sicuramente in mente un anno particolare della propria vita, legato a episodi, drammi o gioie che l’hanno in qualche modo cambiata.
Alcuni anni hanno poi assunto un valore simbolico particolarmente forte: il ’68, il ’77, il 1967 e l’estate dell’amore, il’63 e l’uccisione di Kennedy oppure il 1978 e il rapimento Moro e così via. Per me quell’anno è il ’64, ma non a causa del generale De Lorenzo e del suo “Piano Solo”.1

Nella primavera morì il mio nonno paterno e non avrei mai potuto immaginare quale libertà ciò mi avrebbe regalato. Non per la sua presenza o meno, non ci eravamo frequentati moltissimo, ma per la fine della sorveglianza stretta cui mia madre mi aveva sottoposto fin dalla mia prima infanzia.
Così, a undici anni compiuti, ZAC! recisi definitivamente il cordone ombelicale con cui lei avrebbe voluto tenermi legato, forse, per sempre.

Mio padre ereditò la casa di campagna in cui il nonno viveva e, nonostante qualche rogna con la madre e la sorellastra, figlia di un precedente matrimonio della nonna con il fratello disperso del nonno, da quel momento la vecchia casa colonica divenne la meta fissa delle vacanze estive e dei nostri week-end. Così oggi posso celebrare il cinquantenario della Liberazione. La mia.

Ora a ben pensarci, dopo che anche quella casa è stata venduta durante la lunga malattia che poi portò mio padre a ricongiungersi con il genitore, quel paese dell’astigiano e quelle verdi colline non potrebbero più costituire il luogo più eccitante del mondo per un adolescente di oggi.
E nemmeno per un adulto.

Ma…cazzo! Lì mi fu possibile sfuggire alla sorveglianza di mia madre fin dalla prima estate. Grazie anche al fatto che lei doveva sorvegliare i lavori dei muratori, chiamati per ristrutturare la grande cascina. Per esempio fare un bagno in casa, visto che fino alla morte del nonno l’unico gabinetto era stato un bugigattolo sospeso sopra il letamaio.
Tutto molto ecologico, tutto molto vintage.

Già, il ’64. Anno delle mie prime scorrerie e della scoperta del potenziale sovversivismo che tanti anni di cure materne avevano così inconsciamente coltivato. O meglio, esasperato.
Più tardi, dopo il’68, un amico di quelle prime scorrerie che non avrebbe poi potuto continuare gli studi per andare a lavorare in una boita, una piccola officina del quartiere più tradizionalmente operaio di Torino, avrebbe acquistato “La proprietà è un furto” di Proudhon.

Non so se lo avesse poi letto per intero, ma certo quel titolo era affascinante.
Per noi ladruncoli di campagna. Abili a rubare la frutta nel momento esatto della maturazione sugli alberi oppure nell’infilarci in antiche dimore o cascine semi-abbandonate in cui avremmo trovato di tutto. Dalle antiche sale ricoperte di polvere vampiresca alla polvere da sparo e i pallini con cui ci divertivamo a costruire rudimentali bombe da far esplodere su fuochi vicino a cui ci coricavamo per sentire fischiare sulle nostre teste, e in prossimità delle nostre orecchie, pezzi di latta e palle di piombo.

Primi atti di una ritualità maschile di passaggio verso un’età adulta di cui i servizi d’ordine dei gruppi extra-parlamentari sarebbero stati il necessario e, all’epoca, inevitabile corollario.
Testosterone a mille, sesso ancora vietato e solo immaginato e, allora, via in cerca di emozioni a buon mercato. Con due nemici: la proprietà e i carabinieri.
Sì, proprio loro che già ci cercavano.

Non che non avessimo fatto nulla per farci notare.
Ad esempio dirottare di sera il traffico dei camion sulla provinciale verso le stradine strette del paese, utilizzando la segnaletica rubata in un cantiere stradale.
Oppure improvvisare blocchi stradali notturni, ma allora non li chiamavamo così, spargendo la solita provinciale di centinaia di pagine di giornale accartocciate che, da lontano e alla luce dei fari, sembravano centinai di sassi accumulati o dispersi sull’asfalto.

Poi uno dice: Dove le avranno apprese le tecniche della guerriglia?
Nei diari del Che o nel manuale di Carlos Marighella?
Macchè, tutta roba cucinata in casa. Tra le verdi colline del Monferrato.
Insieme alle risse con le bande di ragazzini dei paesi vicini e, poco dopo, alle corse notturne a fari spenti su motorini smarmittati per sfuggire alla stradale e ai soliti, onnipresenti carabinieri.

Che ci tendevano agguati, persino nel centro del paese dove si appostavano a fari spenti sotto la chiesa, che si trovava in alto e da cui potevano vederci di sera senza essere visti.
Per poi piombare a tutta velocità giù per la ripida discesa appena qualcuno di noi accennava a u movimento sospetto. Finirono con l’aspettarmi direttamente sul portone di casa per potermi multare. Per la solita rumorosissima marmitta a tromboncino. Ma lì eravamo già a cavallo tra ’67 e ’68.

Kriminal 4bis Torniamo al ’64. Proprio nell’estate di quell’anno sarebbe uscito il primo numero di Kriminal.
Ideato da Luciano Secchi (in arte Max Bunker) e da Magnus (Roberto Raviola), il re del crimine fece fuori quella noia mortale rappresentata da Diabolik, le sue facce di gomma e la sua casta ed algida compagna Eva Kant. Gli altri fumetti erano già quasi del tutto scomparsi dalle nostre letture, ma Kriminal e Magnus ci avrebbero aperto altri orizzonti.

lolaOggi di sesso e sangue nella narrativa ne abbiamo fin troppo, ma allora la violenza dell’uomo dal teschio e la sensualità delle donne che lo circondavano, ora in funzione di vittime ora nel ruolo di amanti e collaboratrici, risultarono esplosive.

L’Italia era un paese bigotto dove, appeso all’interno delle porte delle chiese dei paesi di campagna, si poteva ancora trovare l’indice delle letture proibite. Praticamente tutte, tranne quei giornaletti che portavano stampigliata la sigla GM (Garanzia Morale) e i periodici ecclesiastici e vaticani.
Alla faccia del Concilio Vaticano secondo e del presunto ammodernamento promosso dal “papa buono”, Giovanni XXIII o vigesimo terzo come si diceva allora.

kriminal 2 Un anno prima anche Tex Willer aveva dovuto indossare, per adattarsi ai tempi e al mutamento dei gusti, i paramenti mortuari da scheletro che lo accompagnarono per alcune avventure. Ossa bianche su sfondo nero, classiche come le storie di Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini.
Kriminal invece no: scheletro nero su una aderentissima tuta gialla. Gialla come i vietcong che da lì a poco sarebbero stati rappresentati in una delle sue storie mentre sparavano sui marines all’urlo di “Morte agli yankee e all’imperialismo americano!”.

Negli stessi anni alcuni giovani proletari della Barriera di Milano, quella in cui vivevo a Torino, sarebbero balzati nei titoli di testa di tutti i quotidiani. Più che con i western dovevano aver nutrito i loro sogni giovanili con i film di Cagney e Bogart. Poi la disillusione politica e la memoria recente della lotta armata partigiana fecero il resto. Sui muri di corso Giulio Cesare, la grande arteria della Barriera in direzione di Milano, c’erano ancora i segni dei colpi sparati dalle colonne tedesche in ritirata.

Anche Piero e Sante dovevano aver visto quei fori.
Avevo dieci anni quando iniziò l’avventura della loro congrega di fuorilegge proletari.
Era il 1963 e quello stesso anno, a Dallas, fu ucciso John Fitzgerald Kennedy.
Piansi per l’uno e mi appassionai agli audaci assalti di quella banda che non aveva ancora un nome ufficiale.Il circo mediatico televisivo iniziava allora a porre le sue basi e a trasmettere la morte in diretta.

Kriminal 3Più che le audaci rapine, iniziate con un assalto ad una sede del San Paolo a Torino e finite con quello ad una filiale del banco di Napoli a Milano, fu la cronaca in diretta della fuga e della sparatoria finale a destare l’attenzione del neo-pubblico radio-televisivo.
Ero seduto nel tinello di mia zia quando, otto giorni dopo gli spari e il sangue, fu dato l’annuncio della cattura di Piero e Sante presso il casello ferroviari abbandonato di Villabella.

Ma a colpire ancora di più l’immaginario collettivo di chi già non si rassegnava all’esistente furono le dichiarazioni fatte al processo che li condannò a pesantissime pene.
Il pugno alzato nel momento della condanna all’ergastolo e il canto anarchico all’uscita dall’aula giudiziaria, tra lo scandalo di magistrati e pubblico benpensante. Era il 1968, ma di luglio.

Diciassette rapine e un bottino che procurò ai componenti della banda uno stipendio medio di duecentomila lire al mese.
Poco, maledettamente poco per le conseguenze poi pagate.
Ma all’epoca lo stipendio di un operaio si aggirava sulle cinquantamila lire mensili.
Poche lire sudate nella paura dei capi, della disoccupazione, di non farcela ad arrivare a fine mese.

Loro no, rifiutarono quel tipo di paura.
Nei quattro anni e mezzo vissuti da fuorilegge la paura la lesse negli occhi degli altri. Anche dopo il loro arresto, tra quei piccoli borghesi imbestialiti che avrebbero voluto linciarli davanti alla questura di Milano.
Li chiamarono belve e massacratori, come sempre si fa con gli sconfitti.

kriminal_1 Ma ben poca cosa erano state le vittime dell’ultima, sospetta sparatoria rispetto a ciò che stava già avvenendo in Vietnam.
Il napalm non scuoteva le coscienze comuni, ma le rapine e il rifiuto dell’ordine basato sullo sfruttamento sì. Ieri ed ancora oggi. Così all’inizio degli anni settanta, a Torino, i comontisti diffusero un volantino intitolato Lotta criminale. Un altro cerchio era chiuso.

* Come precisa la Redazione della stessa rivista: “In questo numero di «Zapruder» proponiamo una riflessione storica sui processi di formazione della classe lavoratrice. Un tema indubbiamente “classico”, che proviamo tuttavia ad affrontare attraverso chiavi di lettura nuove. Per cominciare, suggeriamo una triplice espansione del campo della nostra ricerca: pensiamo ai lavoratori e alle lavoratrici non necessariamente come a dei salariati; sottolineiamo che il lavoro è anche altro rispetto all’attività manuale della produzione di merci; ribadiamo che i luoghi della produzione capitalista, come la fabbrica, non sono gli unici luoghi in cui cercare e indagare la classe. Parleremo di lavoratori e lavoratrici, e dunque di conflittualità sociale, migrazioni, territori, genere, etnia.
Allo stesso tempo, cercheremo di indagare il modo in cui le definizioni e le auto)percezioni della classe diventano parte integrante del processo di formazione – o non formazione – della classe
“.
– Indice:
http://storieinmovimento.org/2015/08/02/trentasettesimo-numero/ ))

(Fine della prima parte – continua)


  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Solo  

]]>