Barack Obama – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 17 Jan 2025 23:20:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Indipendenza energetica ed altre panzane/3 https://www.carmillaonline.com/2022/09/12/indipendenza-energetica-ed-altre-panzane-3/ Mon, 12 Sep 2022 06:10:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74004 di Alexik

Continua dal capitolo precedente.

Durante il mandato presidenziale di Barack Obama la produzione statunitense di petrolio passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno. Uno sviluppo che avrebbe avuto conseguenze anche oltre i confini degli Stati Uniti. Come disse all’epoca il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Thomas Donilon: “l’aumento della produzione energetica statunitense permette di ridurre la nostra vulnerabilità alle interruzioni di approvvigionamento [...]]]> di Alexik

Continua dal capitolo precedente.

Durante il mandato presidenziale di Barack Obama la produzione statunitense di petrolio passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno. Uno sviluppo che avrebbe avuto conseguenze anche oltre i confini degli Stati Uniti.
Come disse all’epoca il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Thomas Donilon: “l’aumento della produzione energetica statunitense permette di ridurre la nostra vulnerabilità alle interruzioni di approvvigionamento nel mondo e (…) ci dà delle carte migliori per perseguire e per raggiungere i nostri obiettivi di sicurezza internazionale”.1

Il primo paese a fare le spese della rinnovata produzione energetica statunitense e dei suoi corollari in termini di “sicurezza internazionale” fu l’Iran.
Fino al 2011 le sanzioni delle amministrazioni USA contro Teheran, imposte formalmente per fermare lo sviluppo del nucleare iraniano, si erano concentrate principalmente sul settore nucleare e militare.
Nel 1995 l’amministrazione Clinton aveva vietato alle società americane ogni transazione che riguardasse il petrolio iraniano, ma è con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca e di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato che si venne a determinare un salto di qualità, spostando l’asse principale delle misure punitive sugli idrocarburi e sulle banche (in particolare quelle utilizzate per i pagamenti delle esportazioni petrolifere iraniane), ed estendendo le sanzioni contro l’Iran a tutto il mondo.

Un salto di qualità che sarebbe stato più difficile se gli USA non avessero potuto contare su una produzione interna di gas e petrolio di scisto, tale da ammortizzare gli effetti di una contrazione dell’offerta sui mercati internazionali.
Nel dicembre 2011 gli Stati Uniti imposero l’embargo internazionale sulle esportazioni di greggio iraniano2, seguiti pedissequamente dagli europei che decretarono un mese dopo il blocco totale dell’import di petrolio e gas da Teheran3.
L’embargo venne assicurato anche grazie alle sanzioni secondarie, quelle che colpiscono i soggetti non statunitensi che intrattengono relazioni economiche e commerciali con il paese bersaglio, e che possono venir puniti con l’imposizione di multe pesanti o con l’esclusione dal mercato degli USA4.
E’ in questo modo, infatti, che gli Stati Uniti declinano il concetto di “indipendenza energetica” applicabile al resto del mondo.

Le esportazioni di petrolio iraniano in due anni vennero dimezzate a causa delle sanzioni, con conseguenze sulla popolazione del paese colpito, sul prezzo internazionale del petrolio e sulle economie importatrici5. Conseguenze che in parte toccarono anche agli Stati Uniti, dove l’aumento della produzione ancora non riusciva a soddisfare completamente il consumo interno.
Ma ormai questa forma di aggressione era stata sdoganata, e andava solamente messa a punto dalle amministrazioni successive, che dimostrarono in maniera bipartisan una straordinaria continuità in merito allo sviluppo della produzione interna di idrocarburi ed al suo uso come “energy weapon”.

Donald Trump spinse ulteriormente avanti le trivelle, abrogando normative di protezione ambientale e tutelando il fracking a colpi di ordini esecutivi6. Sotto la sua amministrazione gli USA diventarono esportatori netti di idrocarburi, superando l’Arabia Saudita sui mercati internazionali del petrolio7
Nel 2018 Trump scatenò contro l’Iran la politica della “massima pressione”, una nuova campagna punitiva che fece seguito al ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano, rendendo esplicito come il vero obiettivo di Washington non fosse la minaccia nucleare ma la caduta del regime degli ayatollah8.
Le nuove sanzioni petrolifere, ancora più pesanti delle vecchie, contribuirono a un’altra impennata del prezzo del petrolio di cui però, questa volta, gli Stati Uniti poterono avvantaggiarsi, grazie alla loro nuova condizione di esportatori netti9.
Gli USA scoprivano di poter guadagnare dalla guerra dell’energia, ed è per questo che da allora la prospettiva di scatenarla non gli fa più paura.

Rileggendone la storia a distanza di qualche anno, le sanzioni contro l’Iran assumono le forme di una prova generale, di una sperimentazione, da parte degli Stati Uniti, di nuove inedite potenzialità offensive.
Una prova generale che prelude all’uso dell’arma dell’energia nel contesto di un livello più alto dello scontro, che oggi vediamo dispiegarsi.

Uno dei vari elementi di continuità che unisce trasversalmente le amministrazioni USA, repubblicane o democratiche che siano, è la tensione a dare profittevole sbocco sui mercati internazionali alla produzione degli Stati Uniti di gas naturale.
Abbiamo già visto come Donald Trump abbia sfoderato tutte le sue innate capacità di persuasione affinché gli europei scegliessero volontariamente e liberamente fra l’alternativa di subire i suoi dazi e quella di comprare il suo gas naturale liquefatto (GNL).
Ma per creare un mercato del gas naturale liquefatto  non basta la “persuasione”: ci vogliono, fra l’altro, infrastrutture e  i capitali per costruirle. E i capitali si muovono in base a prospettive di profitto che non sempre il contesto garantisce.

Durante l’amministrazione Trump si sono moltiplicate le richieste di autorizzazione per la costruzione di nuovi terminal per l’export del GNL.
Fra queste, ventuno – ereditate da Biden – riguardano progetti ancora fermi, non solo perché in attesa della fine della procedura autorizzativa, ma perché in attesa di finanziatori10.
La scarsa propensione ad investire su questi impianti veniva motivata citando la volatilità del mercato del GNL (che mette in forse la remunerazione del capitale investito sul lungo termine); gli accordi internazionali sul clima; l’opposizione delle comunità locali; le forti oscillazioni dei prezzi sui mercati spot, capaci di vertiginosi crolli durante la pandemia e vertiginosi aumenti con la ripresa.
O almeno, queste erano le problematiche prima della guerra in Ucraina.

Per gli stessi motivi nella vecchia Europa erano in forse diversi progetti per la costruzione di terminal per la ricezione del GNL.
Per esempio, nel settembre 2021, il progetto del Rostock LNG Terminal era stato annullato per “condizioni di mercato sfavorevoli”11
Nel novembre 2020, una società commerciale tedesca, citando la mancanza di interesse da parte degli acquirenti, aveva annunciato che stava rivalutando i suoi piani per costruire un nuovo terminal di importazione di GNL a Wilhelmshaven12.
Nel gennaio 2022 i tre terminali di importazione di GNL proposti dalla Germania, finalizzati alla ricezione del gas di scisto degli Stati Uniti, si trovavano ad affrontare ritardi a causa delle forti oscillazioni dei prezzi e, in generale, della continua incertezza sul futuro dei combustibili fossili13.
Non che il mercato internazionale del GNL fosse in crisi, ma la ripresa asiatica attirava le metaniere da quella parte del mondo, con una tendenza che le previsioni davano di lungo periodo.

Dalla fine di febbraio la costruzione di questi impianti in Europa è tornata all’ordine del giorno.
RePower EU, il piano della Commissione europea per eliminare le importazioni di idrocarburi dalla Federazione Russa, ha aggiunto nuovi terminal GNL ai Progetti di priorità europea.
La Germania ha appena programmato l’ormeggio di sei rigassificatori galleggianti14, che si aggiungono ai progetti per due Floating Storage and Regasification Units (FSRU) greche, per il Paldiski FSRU Terminal in Estonia, e per due rigassificatori olandesi (Gate LNG Terminal e Eemshaven FSRU). In Irlanda il terminal GNL di Shannon è in costruzione, mentre in Polonia viene allargato quello di Świnoujście. In Italia incombono nove progetti di cui le FSRU di Piombino e Ravenna sembrerebbero i più imminenti.

Ci è voluta la guerra per sollevare le sorti del GNL americano in Europa, e per spazzare via dal tavolo ogni obiezione sulla pericolosità dei rigassificatori, sull’inquinamento che generano, sulla follia di continuare a costruire nuove dipendenze da combustibili fossili nonostante la crisi climatica.
Sulla follia di continuare a costruire, in particolare, nuove infrastrutture del metano, ben sapendo che:

Il metano è  un potente gas serra. In un periodo di 20 anni è 80 volte più potente dell’anidride carbonica in termini di riscaldamento globale.
Il metano ha rappresentato circa il 30 per cento del riscaldamento globale dall’epoca preindustriale e sta proliferando più velocemente che in qualsiasi altro momento dall’inizio della registrazione negli anni ’80. Infatti, secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti, anche se le emissioni di anidride carbonica sono diminuite durante i blocchi legati alla pandemia del 2020, il metano atmosferico è aumentato vertiginosamente.
L’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C non può essere raggiunto senza ridurre le emissioni di metano del 40-45% entro il 2030. Una riduzione di questa entità eviterebbe quasi 0,3°C del riscaldamento entro il 2045 e integrerebbe gli sforzi di mitigazione del cambiamento climatico a lungo termine
15

Questa dichiarazione del United Nations Environment Programme si riferisce al metano incombusto, che ha fra le sue varie fonti le emissioni dei processi di estrazione, trasformazione, trasporto e distribuzione del gas naturale.
Quegli stessi processi su cui si è deciso di investire, anche grazie alla decisione della Commissione Europea di inserire il gas naturale (assieme al nucleare !) nella tassonomia degli investimenti “sostenibili”, “come mezzi per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle energie rinnovabili”. 
Una evidente fake, funzionale a convogliare sulle infrastrutture del gas (GNL compreso) fiumi di denaro pubblico e privato. (Continua)

Immagini:

DSC_1203.jpg, di Paulann_Egelhoff . Licenza: CC BY-ND 2.0.
President Trump Visits Cameron LNG Export Terminal. Fonte: The White House. Foto di pubblico dominio.
Mappa europea delle infrastrutture per il gas – Progetti di priorità europea e progetti aggiuntivi identificati attraverso REPowerEU. Fonte: Commissione Europea
Molecola di metano. Fonte UNEP.


  1. In: Michael Klare, Washington, game master Le Monde Diplomatique, giugno 2022, p.11. 

  2. Con poche eccezioni. Venne permesso solo a Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Turchia di acquistare petrolio iraniano a un livello fisso. 

  3. Harvard Kennedy School, Belfer Center for Science and International Affairs, Sanctions Against Iran: A Guide to Targets, Terms, and Timetable, 2015, pp.60. 

  4. Marco Valsania, Sanzioni Usa a chi compra dall’Iran, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2012. 

  5. Il petrolio supera i 100 dollari al barile. Greggio alle stelle per le tensionicon l’Iran nel Golfo Persico, La Stampa, 03 Gennaio 2012. 

  6. Nadja Popovich, Livia Albeck-Ripka, Kendra Pierre-Louis, The Trump Administration Rolled Back More Than 100 Environmental Rules. Here’s the Full List, The New York Times, 20 gennaio 2021. Trump ha firmato un ordine esecutivo per tutelare il fracking in Pennsylvania, AGI, 31/10/20. 

  7. Riccardo Barlaam, Gli Usa di Trump superano i sauditi: primi al mondo per l’export di petrolio, Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2019. 

  8. Pompeo outlines ‘maximum pressure’ plan for Iran, Al Monitor, 21 maggio 2018. Annalisa Perteghella, Iran: tornano in vigore le prime sanzioni USA, Ispionline, 05 Agosto 2018 

  9. Gli impatti del barile in rialzo per le sanzioni Usa all’Iran, Quale Energia, 24 aprile 2019. 

  10. Global Energy Monitor, Gas Run Aground, marzo 2022, pp.35. 

  11. Global Energy Monitor, Europe Gas Tracker Report 2022, aprile 2022, pp.23. 

  12. Uniper to Reconsider Plans for LNG Terminal in Germany, Hydrocarbons Technology, November 9, 2020. 

  13. Vanessa Dezem and Anna Shiryaevskaya, German Natural Gas Import Terminal Delayed by Market Volatility, BNN Bloomberg, January 13, 2022. 

  14. Germania, arriva il sesto rigassificatore, Focus Energia, 2 settembre 2022. 

  15. Da: United Nations Environment Programme

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Armi letali: il gran ballo dei diritti umani e la macelleria della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/06/08/arma-letale-1-war-and-the-great-human-rights-swindle/ Wed, 08 Jun 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72234 di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International [...]]]> di Sandro Moiso

“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)

“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)

”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)

Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.

Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.

Può iniziare da questo episodio una riflessione sul fatto che il segretario del PD, Enrico Letta, che si scandalizza ad ogni piè sospinto per i motivi più disparatii, come nel caso delle parole proferite per stigmatizzare le scelte del premier ungherese («Sono particolarmente scandalizzato in questo momento dall’atteggiamento dell’Ungheria di Orban, mette il suo veto rispetto alle sanzioni e si pone come chiaro ed esplicito alleato di Putin»), in realtà non si scandalizzi affatto per l’indiretta partecipazione del governo che sostiene il conflitto in atto in Ucraina.

Anima candida, erede del Veltroni-pensiero, pieno di nostalgia per l’età (kennedyana) dell’innocenza perduta, il segretario di un partito che accetta qualsiasi compromesso a favore delle scelte della Banca Centrale europea e del suo ex-governatore ed attuale premier italiano e del progressivo ampliamento della guerra russo-ucraina verso Est e, inevitabilmente, verso Ovest, in compenso, non ha mai perso l’occasione per sbandierare la sua personale difesa, e del suo partito, dei diritti umani e civili.

Questo atteggiamento di un “democratico” difensore dei diritti individuali serve perfettamente ad illustrare l’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo dei valori occidentali e degli interessi economici, politici e militari che li sottendono. In cui, ancora una volta, le violenze connesse a un conflitto sono ascrivibili soltanto ad una delle parti in causa, senza mai considerare l’autentica macelleria di vite, di donne, uomini e bambini che la guerra esige per sua stessa natura. Una divinità che non ha riguardo alcuno per il fronte “giusto” o quello “sbagliato”, da cui esige un medesimo tributo di sangue e di violenza.

Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati, soprattutto occidentali, a definire ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale oppure di quello globale per la spartizione delle ricchezze e delle influenze economico-militari su scala mondiale.

Pertanto, l’uso che oggi viene fatto, sia dalle ONG che dagli apparati propagandistici e militari, del concetto di “diritti umani” non risulta essere dovuto ad un radicale travisamento degli stessi ma, al contrario, già implicitamente contenuto proprio nelle formulazioni che hanno accompagnato tale concetto fin dalle sue origini.
Come hanno affermato Nicola Perugini e Neve Gordon in una loro ricerca:

Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano1.

Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto, il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative. Contribuendo così a sviluppare il cosiddetto diritto penale del nemico, ovvero un non diritto sostanziale, in cui fa rientrare tutti gli avversari dell’ordine sociale, economico e geopolitico dato, ogni qualvolta si tratti di giudicarli.

La storia anticoloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale. Però, paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid”2.

Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani possa essere costituito proprio dalle forze armate americane, come è riscontrabile dall’annotazione posta in epigrafe a questo intervento. Non solo, ma si stima anche che:

L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum3.

Salta immediatamente agli occhi come tale scelta possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, adottare.

In un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”. Magari per speculari interessi propri, ma sempre diversificati o opposti rispetto a quelli dell’Occidente.

Per questo motivo, a titolo di esempio, l’uso di droni “assassini” per eliminare generali, carri armati con relativi equipaggi o leader politici avversari, sarà sempre presentato in maniera benevola, quasi a voler far svolgere alla macchina la funzione dell’eroe invincibile e sempre giustificato nella sua azione, per violenta che essa sia. Mescolando, nell’immaginario, l’apparato tecnologico diretto a distanza attraverso un joy-stick oppure da un evoluto programma search and destroy con gli eroi del mito, da Gilgamesh a quelli più dozzinali portati sullo schermo da Bruce Willis o Sylvester Stallone.

In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario. Mentre le vittime causate dall’azione avversa, come ben si è visto in questi cento e più giorni di guerra in Ucraina, non possono essere altro e soltanto che vittime di “crimini di guerra”.

Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi si trova ad operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti oppure dai “crimini di guerra” se le vittime saranno il frutto di scontri allargati con potenze di egual forza militare. Seguendo questa logica, nel caso della campagna condotta in Ucraina, i bombardamenti e le azioni militari delle forze armate di Zelensky, per default, colpirebbero quasi sempre e solo obiettivi militari mentre le azioni dei militari russi sarebbero sempre e soltanto dirette a colpire le comunità civili, attraverso i loro corpi fisici e le loro abitazioni.

Contribuendo a sviluppare un’autentica pornografia della morte in cui è possibile seguire in diretta ogni azione mirante a debellare il nemico fino alla sua distruzione, con manifesta simpatia se non addirittura gioia dei media, oppure osservare, con sollecitata commozione e indignazione, le immagini dei corpi trucidati dei “buoni” o dei danni da essi subiti.

Le istanze delle vittime reali o degli avversari diventano così una questione di “verità assoluta”, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed indiscutibile dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. In cui il concetto ampliato di “crimine di guerra” diventa estremamente efficace nello spazzare via dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale, economico o al conflitto perenne tra le classi e tra gli imperi. Non a caso:

Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle di grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali4.

La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: «L’essenza della nostra metodologia non è la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza […] l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani»5. In tal modo:

L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale6.

Cosicché

l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce7.

Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere8.

Interrompendo questo lungo excursus sulla funzione del cosiddetto diritto umanitario, in gran parte tratto, con le dovute modifiche, da una recensione già pubblicata su Carmilla nel 20169 e riportando l’attenzione sui fatti attuali, può risultare utile riflettere sul fatto che, proprio per i motivi appena elencati, chi difende i diritti degli immigrati a diventare proletari sfruttati come braccianti o manodopera e manovalanza della malavita, una volta accolti nella democratica italietta bellicista e colonialista, poco o niente voglia sentir parlare di classi sociali e di lotta tra le stesse.

Altrettanto vale per la questione femminile e la violenza sulle donne ridotta a spettacolo hollywoodiano, in cui la drammatizzazione per mezzo di una sceneggiatura basata su frasi e scene ad effetto contribuisce più a dar vita ad una forma di scripted-reality che non a una concreta analisi dei fatti.

Un altro aspetto del genocidio sono i crimini di carattere sessuale, non soltanto contro donne e ragazze, ma anche bambini, ragazzi, uomini […] Non riusciamo oggi a dare un numero preciso di questi crimini. Possiamo però dire che hanno un carattere di massa. E sono intenzionali, non casuali. Sappiamo di una ragazza di sedici anni: due nemici, non riesco a chiamarli umani, l’hanno violentata in tutti i modi, il terzo teneva ferma sua sorella di 25 anni, e le diceva «Guarda, è quello che faremo a tutte le puttane naziste». Questi orchi violentano i nostri bambini e dicono alle madri «Così non metterete più al mondo nazisti ucraini»10.

Peccato soltanto che l’autrice dell’articolo summenzionato, la super-commissaria dei diritti umani ucraina, Lyudmyla Denisova, sia stata rimossa successivamente dal suo incarico dal voto di un parlamento ucraino preoccupato dalle cifre degli abusi sessuali russi esagerate e gonfiate dalla stessa. La Verkhovna Rada ha infatti licenziato la commissaria parlamentare per i diritti umani a causa della sua prolungata e ingiustificata permanenza all’estero durante i mesi del conflitto e del

ripetuto mancato adempimento delle sue funzioni relative all’istituzione di corridoi umanitari, alla protezione e scambio di prigionieri, al contrasto alla deportazione di adulti e bambini dai territori occupatie ad altre attività per i diritti umani. Secondo il Parlamento, Denisova ha concentrato la sua attività mediatica sui numerosi dettagli relativi agli abusi sessuali su adulti e minori nei territori occupati che non erano supportati da prove e hanno danneggiato solo l’Ucraina11.

E soprattutto le vittime reali degli abusi, verrebbe da dire. Ma, si sa, lo spettacolo mediatico e il trionfo del verosimile piuttosto che del vero sembrano costituire l’intima essenza del discorso sulla guerra e i diritti umani. In un contesto in cui la propaganda bellica deve assolutamente raggiungere lo scopo di annichilire le coscienze, sotto un profluvio di immagini e parole accuratamente selezionate.

In tale contesto mediatico e propagandistico l’antimilitarismo di classe dovrebbe zittirsi per accordare i propri strumenti con la partitura dominante e piegarsi alla logica “inconfutabile” dei processi spettacolo in cui, come in una farsa ripetuta con successo, a fare le spese delle vendette degli Stati e delle classi al potere, saranno sempre e solo personaggi secondari e miserabili, presentati come “autentici mostri”, come nel caso del caporale russo poco men che ventenne condannato all’ergastolo da un tutt’altro che imparziale tribunale ucraino. Oppure per timore di cadere all’interno delle liste di proscrizione che alcuni giornali e apparati di sicurezza sembrano imbastire quotidianamente in omaggio al vecchio comandamento di epoca bellica e fascista: Taci, il nemico ti ascolta!12.

Invece di denunciare come la sofferenza e il dolore, la morte e lo stupro, la distruzione e il massacro connessi alla macelleria bellica, da qualsiasi parte in causa siano originati, diventino soltanto, in nome dei diritti umani, strumenti di una propaganda per nulla interessata a sradicare davvero ciò da cui tutto questo ha origine, ma soltanto a sostituire il vero con il verosimile.

La realtà di una forma sociale autoritaria, violenta, egoistica e patriarcale fondata sulla trasmissione della proprietà privata, sulla famiglia, idealizzata al di sopra di tutto, e sullo Stato, ma destinata soltanto a legittimare la figura del pater familias e della religione che a sua volta lo legittima in quanto tale. La realtà dello sfruttamento e dell’imbarbarimento rinviabili alla forma sociale capitalistica, in tutti i suoi aspetti, con quella dei diritti risalenti ancora, e soltanto, alle rivoluzioni borghesi. Grandi o piccole che esse siano state. Dietro al cui spirito, presunto, si son sempre mascherate le aspirazioni espansionistiche e di dominio di potenze ormai giunte, piaccia o meno, alla fine del loro corso storico. Di cui, per l’autentico bene della specie, sarebbe auspicabile la caduta non a fronte di una sconfitta nel corso di un conflitto inter-imperialista dalle conseguenze inimmaginabili, ma a causa di uno scontro, non più ulteriormente rinviabile, tra coloro che possiedono quasi tutto e coloro che, uomini e donne, sono stati spossessati di tutto, compresa la loro umanità. Ad Est come a Ovest.


  1. Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 29-32  

  2. op. cit., p. 13  

  3. Ibid, pp. 25-26  

  4. ibid, p. 198  

  5. ivi, p. 199  

  6. pag. 202  

  7. p. 203  

  8. p. 207  

  9. Sandro Moiso, Che cosa resta dei diritti umani?, Carmillaonline, 14 dicembre 2016 successivamente ripreso in Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019  

  10. Lyudmyla Denisova, Donne stuprate davanti ai figli, porteremo le prove dei crimini russi, «La Stampa», Domenica17 aprile 2022, p.8  

  11. Kiev rimuove dall’incarico la commissaria Denisova, «La Stampa» Mercoledì 1 giugno 2022, p. 11  

  12. cfr. Lo scandalo dei dossier investe il Dis e il governo, il Fatto Quotidiano, mercoledì 8 giugno 2022  

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Venaus, 17 e 18 novembre: da Flint a Flint passando per la Valsusa e il Salento. https://www.carmillaonline.com/2018/11/15/venaus-17-e-18-novembre-da-flint-a-flint-passando-per-la-valsusa-e-il-salento/ Wed, 14 Nov 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49567 di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie [...]]]> di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie umana nel suo complesso.

Nel primo, Roger and Me (1989), sono ricostruite le vicende legate al licenziamento di 30.000 lavoratori dagli stabilimenti della General Motors della città di Flint, situata nel Michigan a poco più di cento chilometri da Detroit, le cui conseguenze hanno portato quella località ad essere, da insediamento industriale legato al ciclo dell’auto qual era, una delle città meno vivibili degli Stati Uniti, con conseguente crescita della criminalità e diminuzione del numero degli abitanti.

Nell’ultimo, Fahrenheit 11/9 (2018), all’interno della descrizione del processo di nazificazione della società americana dell’era Trump, Flint torna in scena sia per il dramma scatenatosi, ufficialmente a partire dal 2014, con l’inquinamento da piombo delle acque distribuite dall’acquedotto locale, sia per l’utilizzo del suo territorio (fabbriche dismesse e quartieri abbandonati tutt’altro che distanti da quelli ancora abitati) come luogo di esercitazione anti-guerriglia da parte dell’esercito americano, con l’utilizzo di armi, esplosivi ed autentiche tempeste di fuoco e di piombo scatenate dagli elicotteri d’assalto.

L’inquinamento, ed è per questo che vale la pena di parlare di Flint in questo contesto, è derivato dall’avvio di una grande opera inutile costituita da un nuovo acquedotto che avrebbe dovuto sostituire quello già esistente, che prelevava l’acqua dal lago Huron, lago di antichissima origine glaciale e la cui profondità delle acque garantiva una qualità pressoché ottimale delle stesse, con uno nuovo, la cui costruzione ha richiesto che le acque metropolitane fossero prelevate dal fiume Flint, inquinatissimo dagli scarichi industriali che in esso si sono riversati per decenni.

Nonostante le denunce dei residenti e di tutti i servizi sanitari, che hanno rilevato da subito le gravissime conseguenze dall’avvelenamento da piombo sulla popolazione locale, prevalentemente ormai di origine afro-americana, l’opera è andata avanti e l’acqua fornita è rimasta la stessa. Tranne che per gli stabilimenti superstiti della General Motors cui è stata nuovamente fornita l’acqua del lago Huron, visto che quella del fiume Flint rovinava e corrodeva la componentistica delle auto prodotte negli stessi.

Non è stato dunque un caso legato soltanto all’abbandono di una parte del territorio urbano, in cui il valore delle case è sceso praticamente a zero, a far sì che l’U.S. Army scegliesse quell’area per le sue esercitazioni a fuoco ma, piuttosto, la necessità di sperimentare violentissime tecniche anti-guerriglia in ambiente urbano proprio là dove una vasta protesta di massa contro condizioni di vita bestiali ed impossibili potrebbe sorgere a breve. In un’America che, come molti osservatori rilevano, assomiglia sempre di più ad una nazione sull’orlo della guerra civile.

Mi scuso con i lettori per questa, apparentemente, lunga divagazione, ma ritengo che il percorso economico, ambientale, sociale e politico della città del Michigan costituisca una significativa metafora di ciò che il capitalismo occidentale ha in serbo per il futuro della specie umana. Tema che è già stato trattato e approfondito nel convegno tenutosi a Melendugno tra il 5 e il 7 ottobre di quest’anno (qui e qui ).

Tema che riguarda il degrado economico ed ambientale dei territori, la sostituzione di un’economia reale con quella fittizia e devastante legata all’estrattivismo e alle “grandi opere inutili” e la conseguente e necessaria (per il capitale) repressione per sedare e reprimere (ovvero “pacificare” nel linguaggio soft degli apparati preposti alla stessa) i movimenti sempre più numerosi e vivaci che a partire dai territori e dal ‘basso’ si oppongono a tutto ciò.

No Tav, No Tap, No Muos, No Mose, e chissà quanti altri movimenti ancora, avranno modo nella due giorni di Venaus di confrontarsi sia sulle problematiche inerenti alle singole specificità territoriali ma, anche, su ciò che occorre rafforzare e organizzare a livello nazionale ed internazionale affinché tali movimenti possano coordinarsi in maniera sempre più stretta ed efficace affinché il motto valsusino “Si parte insieme e si torna tutti insieme” diventi davvero una pratica costante dell’opposizione, a livello locale, nazionale e sovranazionale, a un modo di produzione ormai devastante per la vita della specie e la sopravvivenza dei territori.

Organizzazione e collegamento che richiederà sempre più la coscienza del fatto che non esistono governi o partiti amici. Come dimostrano i fatti recenti della politica italiana, in cui tra i movimenti e gli interessi delle grandi compagnie petrolifere i partiti spergiuri scelgono i secondi. Per fare un esempio più chiaro si pensi alla promessa fatta da Conte a Trump sulla realizzazione della Trans Adriatic Pipeline e al successivo premio ottenuto dall’Italia (si legga ENI), che è stata esclusa dalle sanzioni americane nei confronti dell’Iran e dei paesi che continueranno a fare affari con quel paese.

Lo stesso Michael Moore, un tempo fervente democratico, è stato costretto a rilevare, proprio nel corso del suo ultimo film, la sostanziale identità tra gli interessi del Partito Repubblicano e quelli ‘profondi’ (finanziari, industriali, militari ed energetici) del Partito Democratico. Sintetizzata magnificamente nella scena in cui Obama finge di bere l’acqua dell’acquedotto di Flint davanti ai suoi, delusissimi, sostenitori per convincerli a fare altrettanto e in ‘tranquillità’.

Non esistono partiti e governi ‘amici’, ma non esiste nemmeno la possibilità di usarli come taxi. Sono già stati programmati per quella che dovrà essere la destinazione finale del viaggio, indipendentemente dalla volontà del passeggero salito a bordo. Anzi, il vero rischio è costituito dal fatto che possano essere proprio i movimenti a costituire il taxi di cui possono avvalersi, per un tratto del loro percorso, partitini e partitoni oppure fasulli movimenti pluristellati. Magari proprio ai danni che di chi provvede al loro trasporto.

I movimenti, oggi, non solo non possono più accontentarsi di promesse o di atti estemporanei non accompagnati da fatti concreti, ma, anche laddove si vincesse su una singola questione, non possono mai dimenticare che la loro forza sta proprio nel partire, lottare e tornare tutti insieme. Motivo per cui non ci si potrà accontentare di una singola vittoria con cui, forse, alcuni vorrebbero dividere un movimento che è, per sua natura e necessità, unitario e indivisibile.

D’altra parte è proprio questa sua natura a spaventare i suoi avversari, ben consci del fatto che con i partiti di governo si potrà sempre trattare, cosa che li ha spinti a ridar vita (anche se in realtà non era mai morto) ad un autentico blocco conservatore, costituito da impresari, sindacati, associazioni di categoria, organizzazioni fasciste e lobby politico-economiche, compresa quella del partito alleato di governo dei 5 Stelle, che con l’appoggio di tutti i media in queste ultime settimane ha deciso di attaccare frontalmente il movimento No Tav.

Il cui risultato si è visto con la manifestazione SìTav tenutasi a Torino il 10 novembre. Sicuramente partecipata, anche se non nei numeri sbandierati dai media, da quella che un tempo si sarebbe definita “maggioranza silenziosa”. Una maggioranza di cui ad aver bisogno, oltre al PD e Forza Italia e le consorterie connesse, sono proprio i partiti ‘amici’: per poter aprire trattative (come il sindaco di Torino, Appendino, ha già promesso) e giungere ad un accordo, ai danni di chi da sempre si oppone alle grandi opere inutili. Proprio come nel 1980, sempre a Torino e grazie al suo genius loci sempiterno perbenista e conservatore, la marcia dei quarantamila servì alle organizzazioni sindacali per firmare e giustificare un accordo che era stato respinto dalla assoluta maggioranza degli operai della Fiat.

Più che una manifestazione anti-grillina, come qualcuno si ostina a leggerla, è stata piuttosto l’espressione di quel all’ordine costituito e di accettazione dell’esistente, che da sempre costituisce l’anima delle maggioranza silenziose e reazionarie, che si contrappone al No della sovversione del presente stato di cose. Una manifestazione di quello scontro tra chi, in nome di pochi ed egoistici interessi immediati, vuole continuare a sfruttare l’uomo, l’ambiente e i territori adesso e subito, senza pensare al futuro e chi, invece, in nome di un futuro diverso e migliore di cui si sente già parte, lotta in nome della comunità umana e della salvaguardia di quell’ambiente senza il quale la specie non può sopravvivere. Una nuova forma di quel secolare scontro tra le classi e i modi di produzione che oggi sembra affrontare una fase nuova e decisiva.

I compagni del movimento NoTap ci hanno scritto:

“Nel mese di Novembre TAP, agevolato da un governo che ha levato la maschera della menzogna, ha ripreso i lavori a Melendugno. Il via libera pentastellato, figlio del tradimento di un governo nei confronti del popolo, è però avvolto nella nebbia: infatti, è tutt’ora sotto sequestro un’area di cantiere denominata “le paesane” per mancato rispetto dei vincoli paesaggistici, è in corso un’indagine nell’area dove dovrebbe sorgere il PRT per valutare la possibile assoggettabilità dello stabilimento alla normativa Seveso III, ed è di questi giorni la notizia che un’altra indagine è stata aperta in località San Basilio (dove è stato costruito il pozzo di spinta) per probabile inquinamento della falda acquifera. A questo, si aggiungono i lavori in mare che, sempre per mano di un governo traditore, sono stati autorizzati senza necessità di una concessione demaniale.
I ministri si sono incartati sulle loro stesse dichiarazioni: l’arroganza del Ministro del Sud, che si permette di definirci “teppistelli”, o l’irriverenza del Ministro dell’Ambiente, che si concede il lusso di dichiarare di “non aver riscontrato irregolarità”, sbattono violentemente contro i documenti ufficiali: non esiste alcun contratto vincolante tra TAP e il governo italiano, né tanto meno (per dichiarazione ufficiale degli stessi ministeri dopo che associazioni e liberi cittadini hanno effettuato una richiesta di accesso civico agli atti) esistono analisi costi/benefici reali e approfondite. Inoltre, il fantomatico calcolo di 20 miliardi di € di risarcimenti, come afferma il MISE, non è stato effettuato dal governo italiano bensì da Socar, società privata azionista di Tap, che avrebbe dunque tutto l’interesse ad arrotondare per eccesso le sue stime.
La scelta politica di lasciare via libera a Tap contrasta con la realtà dei fatti sopra descritta.”

Tutto assolutamente vero, ma occorrerebbe ricordare ciò che si è già detto all’inizio: tutti i governi, parlamentari o autoritari che siano, sono potenzialmente ‘traditori’ poiché, anche se eletti con i voti e il consenso di una maggioranza pur sempre parziale dei cittadini, sono tenuti a rispettare, prima di tutto, gli interessi nazionali ed internazionali delle classi detentrici del potere economico. Come ha dimostrato anche la scelta attendista, in attesa di ordini dall’alto dei vertici europei, scaturita dall’incontro avvenuto lunedì 12 novembre tra il ministro dei trasporti Toninelli e la sua omologa francese Borne.

Dimenticare o rimuovere dal dibattito tutto questo significa, semplicemente, condannare i movimenti alla perdita della loro autonomia e alla loro inventiva, unica vera alternativa al modo di produzione esistente e agli interessi che lo sottendono (politici, economici, culturali, mediatici). Significa, inoltre, relegare la democrazia esclusivamente all’ambito dei giochi parlamentari e politici che rappresentano proprio l’autentica negazione della stessa ovvero l’essere, prima di tutto, democrazia dal basso.

Come hanno ricordato recentemente i compagni NoTav:

“C’è chi cerca di nascondere le proprie responsabilità sul saccheggio e la devastazione dei nostri territori, su una politica dei governi che non ha investito sulla messa in sicurezza e sulla tutela dell’ambiente, sullo sperpero di risorse pubbliche a favore di grandi opere inutili togliendo risorse a sanità, emergenza abitativa, welfare, scuola, ricerca e lavoro.
Mentre in Italia si continua a morire per il maltempo e intere aree del paese vengono messe in ginocchio, c’è ancora chi nega quale siano le vere priorità della collettività, provando a mettere avanti a tutto gli interessi delle grandi aziende e dei profitti di pochi.
Non ci siamo mai fatti ingannare e continueremo a lottare per la nostra terra e per un modello di sviluppo sostenibile per tutti.”

Per questo motivo l’8 dicembre, che dal 2010, è la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e in difesa del pianeta, molti movimenti sul territorio italiano si mobiliteranno per la tutela dei territori e contro lo spreco di risorse pubbliche.
Pertanto in quella data, storica per il movimento No Tav, lo stesso scenderà nuovamente in piazza a Torino per una grande manifestazione. Poiché, al di là dei giochi di palazzo e di potere, c’eravamo, ci siamo e ci saremo SEMPRE.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 80 https://www.carmillaonline.com/2018/04/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-80/ Sun, 15 Apr 2018 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45048 di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000 “Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film [...]]]> di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000
“Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film che sembra rinunciare programmaticamente alla dignità? Allora procedo con una fredda elencazione dei fatti: si parte con la giovane Michelle Hunzinker (sic, nei titoli di testa) che inorridita raccoglie un coltello insanguinato. È stata testimone di un assassinio e fugge col coltello tra le mani, il Nobel. Un giornalista televisivo in preda ad anacoluti (immagino per adesione realistica) consegna all’opinione pubblica la certezza che lei sia colpevole (di nuovo per amor di verità, se uno ricorda il Bruno Vespa vintage e tanti colleghi che sono seguiti). Lei fugge in macchina, i cattivi la incrociano su una strada di campagna e la cacciano giù da un dirupo. Esplosione e miracolo del buon pastore coi pecuri che la raccoglie. Poi conosciamo il personaggio di Alberto Tomba, Alex, agente del CIS: Albertone è attorialmente cane con pedigree stratosferico e mettiamoci anche anni di prese per il culo della Gialappa’s Band e di dichiarazioni insensate ai cronisti sportivi ed è fatta: la credibilità è nulla e la sensazione è di vedere uno Z Movie, tanto più che la regia alterna mestiere a vaccate imbarazzanti, zoomate missilistiche e altri attori senza senso (Ramona Badescu, porella).
E poi i dialoghi, con il sedicente infelice attore costretto a recitare (…) alla fidanzata versi seduttivi come “Giuro che stasera sono lì a stropicciarti le piume”. Ci mettiamo mezz’ora per arrivare al cuore della vicenda: Alex deve accompagnare la Hunziker, sospettata, a incontrare il giudice, ma lo mandano da solo. Uhm, sospetto! Fughe, scontri degni di una lite tra alunni ripetenti di terza elementare e il rapporto tra carabiniere e protetta che cresce con una profondità emotiva degna di un episodio di Peppa Pig. La coppia regala alla grande e devo dire che ho cominciato a tenere per loro, perché i delinquenti ai quali sfuggire non sono i tizi perversi che vogliono far secca lei, no, lo sono i produttori di questa incommensurabile vaccata. Che posso pure immaginare l’imbarazzo quando avranno visto per la prima volta il risultato della dissennata operazione: doveva essere una fiction Mediaset, poi s’è deciso per un’uscita estiva, nascosta, sinché il passaggio televisivo ha sancito la natura stracult della porcata in questione. Si arriva stancamente fino al finale e io metto da parte dialoghi stralunati come: “Mi hai fatto puntare la pistola contro una suora!” (e cosa volevi? Toccarti i coglioni?); oppure: “Mi devi rintracciare una targa: ti faccio lo spelling” (lo spelling?). Tomba è un patatone con l’espressività propria di chi aspetta un’autopsia e la Hunziker al confronto sembra Meryl Streep e l’apice si raggiunge quando i due, ammanettati, devono procedere a una pisciata boschiva. Uno pensa possa bastare la trafila di castronerie sinché non irrompe nella trama anche il vero cattivo, Orso Maria Guerrini, il baffo della Birra Moretti!, con una voce bassissima da vero attore di teatro, ma capitato in una recita dell’asilo. Insomma: fa tutto schifo e tenerezza e ho assistito a incontri di rubamazzo con più azione. Il finale è una specie di parodia di Ufficiale e gentiluomo e la parole FINE è l’unico momento riuscito di un film firmato da quel Damiano Damiani già glorioso regista di cinema impegnato. Che poi uno dice l’impegno… ma lo vedi i danni che fa? (Dvd; 6/6/12)

936 – Rocky III di Sylvester Stallone, USA 1982
L’idea era goderselo oscenamente con l’avanzamento veloce, scegliendo le scene migliori e tagliando la fuffa, ma non c’è stato niente da fare: i film di Rocky sono ineludibili, costruiti con una sapienza spettacolare infallibile, con tutti i meccanismi del Mito che girano a mille. E mi sono arreso praticamente subito: Rocky è uomo della strada, ignorante, rozzo, ma con un sogno, un pizzico di talento, forza di volontà e una squadra di amici e familiari che lotta per lo stesso obiettivo. Il problema è quando si è raggiunto il top della carriera: soldi, successo e lusinghe ottenebrano il già non lucidissimo fronte occipitale del pugile che guadagna sempre più, si allena di meno e diventa un po’ borghese, perdendo l’occhio della tigre. La noia, insomma, esistenziale e pure a livello di coppia, anche perché Adriana è appetitosa come un passato di verdure. Mettiamoci che l’entourage è completato da quel buzzurro di suo fratello Paulie, pseudo manager, e dall’allenatore Mickey, con l’apparecchio acustico e pronto per la fossa. Un incontro di wrestling con Hulk Hogan (!) rischia di finire male e il Balboa e i suoi si guardano negli occhi: hanno tutti la panza piena e lui è stufo di pigliare legnate come un somaro. Ma al momento dell’annuncio del ritiro davanti a una statua celebrativa si fa avanti Clubber Lang (Mr.T, quello dell’A-Team), lingua lunga, cresta e bicipite potente. Sfida Rocky e lo intorta insultandogli la moglie, tranello in cui lui casca come un tontolone. Come da manuale di sceneggiatura (di film un po’ di merda, in effetti) si riparte, solo che Rocky si allena davanti alla stampa con l’orchestra che suona e annesse manifestazioni circensi mentre l’altro, il negro cattivo che parla a mitraglietta, suda sette camicie al riparo dai flash. E quando si arriva all’incontro Clubber tira uno spintone al vecchio Mickey: Rocky non vuole combattere perché ne è turbato, stellassa, e il suo avversario ha messo nell’equazione – di nuovo, come con Adriana – qualcosa di estraneo allo sport. E non solo: prima del match Mr.T trova il modo di insultare anche l’elegante Apollo Creed, nero ripulito e commentatore tivù, cioè per lo spettatore medio negro accettabile. E a metà secondo round Rocky è già knock out, mentre il vecchiaccio sta morendo, cosa che farà puntualmente credendo che il suo protetto abbia vinto. Bene, siamo al punto di non ritorno: Balboa, sconfitto, si deve confrontare col suo monumento, metaforicamente e realmente, risultando in effetti meno espressivo del bronzeo gemello, eretto in cima a quella famosa scalinata. E come si fa? Apollo Creed vuole riportarlo sul ring, stavolta ci si allena the old way, in cantine puzzolenti, correndo sulla spiaggia, danzando sul cemento, al suono supercafone dei Survivor. Poi c’è il momento di crisi ed è Adriana che dà la svegliata e allora riparte il tema di Rocky, evvai di allenamenti, corse, sudore, danze, con Apollo che passa un po’ di negritudine e senso del ritmo a questa specie di blocco di travertino che esibisce una canotta veramente gayissima. Aggiungo che Apollo gli regala i suoi mutandoni: del resto, tra particolari dei muscoli guizzanti, abbracci intensi e praticamente nessun accenno etero, qui la bromance si trasforma in un amore omo che verrà spezzato solo da Ivan Drago, eh. Si arriva al match e Rocky adotta la strategia di Muhammad Ali in Zaire e fa stancare Clubber Lang che lo pesta come un mastro ferraio ed è provocato da parole grosse come “Mia madre me le dava più forte!”.
È una tattica curiosa, un po’ come pigliare a testate un muro e chiedergli: “Sei stanco, adesso?”. E quello lì a un certo punto è stanco sì e a Rocky torna l’eye of the tiger e lo tarella di brutto e vince. Yo, Adrian! I did it! E poi, a concludere la vera storia d’amore del film – a questo punto rivoluzionario perlomeno dal punto di vista sessuale – Rocky e Apollo sono a darsele di santa ragione in cantina, quindi di nascosto perché non è ancora epoca di coming out, ma sudati, felici e vivi. E io cosa posso dire? Che mi aspettavo anche peggio, perché la regia è ottusa ma essenziale, asinina con i primi piani insistiti ma anche movimentata quando la tensione lo esige, e in generale montaggio e recitazione sono inappuntabili. Okay, e Stallone? Ma Stallone non deve recitare bene, perché Rocky è così, un babbo di minchia, bloccato neuronalmente: gli devi leggere negli occhi la decrittazione del pensiero, devi abbassarlo al nostro livello di spettatore del Midwest, se no non funziona! E detto questo, c’è ritmo, drammaturgia e qualche (forse inconscio) spunto per una lettura erotica interessante. E poi, cosa posso dire? Io ormai voglio bene a tutti i film: brutti, belli, scarrafoni… il mio cuore ha più stanze di un bordello (cit.). Sarà l’età, il rincoglionimento, la malinconia, la depressione – che ne so! – ma di fronte a un film (un filmaccio) degli anni Ottanta, ritrovo quell’atmosfera, quel tempo, quelle sensazioni. Sto scrivendo un romanzo ambientato nel 1986 e rimpiango quel mondo senza telefoni, internet e social: cerco quel sapore come un cefalo merdaiolo perché in fondo quello è il cinema con cui sono cresciuto, che mi ha formato, informato, deformato e in cui mi ritrovo. Ora forse questo è il film sbagliato da prendere a esempio, perché è di una semplicità imbarazzante, ma oggi ricerco la linearità narrativa quasi elementare di certo cinema del passato e non sopporto più la ricchezza odierna, dove forma, effetti e innovazione nascondono il narrato, quasi lo soffocano. Certo, la mancanza di tempo e quella faccenda di una volpe con l’uva devono avere il loro peso, ma è così e non so che farci. (Dvd; 3/6/12)

938 – L’eccezionale Fawlty Towers di John Howard Davies, Gran Bretagna 1975
Ne avevo un pallido ricordo di quando ero a Londra, nel 1988, e avevo assistito con religiosa devozione a un’ennesima replica sulla BBC. John Cleese, lo spilungone dei Monty Python, è Basil Fawlty, un ambizioso quanto megalomane – e instabile mentalmente – direttore d’albergo: deve gestire le 22 stanze della umile pensioncina di grandi pretese Fawlty Towers, sulle costi inglesi, in un posto freddo, umido e dove non passa mai un cane. Lo affianca la stolida moglie Sybil, il cameriere pasticcione Manuel (uno spagnolo che non parla inglese) e Polly, una giovane cameriera sveglia. In 6 episodi da mezz’ora Cleese e compagnia disintegrano con ferocia inarrestabile e in un’isteria sublime tutte le vecchie buone maniere inglesi: un Little Britain anni Settanta acre e assolutamente irresistibile. La serie purtroppo brevissima si conclude con un finale grandioso, con la commozione cerebrale del personaggio principale e gaffe a ripetizione con degli ospiti tedeschi, a cui si ricordano tutte le malefatte della Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che oggi – in epoca di correttezza politica – si farebbe fatica non solo a mettere in scena ma anche a concepire, con una censura preventiva su tutto quanto sia nazismo. La seconda serie (di Bob Spiers, 1979) l’abbiamo vista in tempi lunghissimi ed è meno riuscita, esasperata ma senza finezze, con vicende che nascono da equivoci verbali e si trascinano fino a che non va puntualmente tutto in vacca. Meno brillante, insomma, ma il tutto è una boccata d’aria fresca e di gas esilarante che si può recuperare grazie alla generosità della Rete. Approfittatene! (Giugno e luglio 2012)

940 – Mani sulle palle per The Day After di Nicholas Meyer, USA 1983
Questo l’ho visto al cinema Orfeo di Genova nel febbraio 1984, in via XX Settembre, sala che ormai da chissà quanto tempo ha chiuso… Era un film televisivo che aveva fatto parlare tutto il mondo ed era andato in onda dopo l’abbattimento di un aereo di linea sudcoreano da parte dei sovietici e, due mesi dopo, l’invasione USA di Grenada. Tutte cose che nell’equilibrio del terrore erano sollecitazioni per nulla tranquillizzanti; il mondo era diviso in due e anche se ti dicevi che non sarebbe mai successo nulla, ogni tanto ti si stringeva il culo solo a pensarci: e se uno si sbaglia e schiaccia il pulsante sbagliato? E se uno perde la testa? E soprattutto: oggi, quella marea di missili dove sono finiti? Io non ci credo mica che abbiano smantellato tutto, figurati, e non dormo all’idea che Putin abbia in mano questo arsenale. O che l’abbia avuto quello scemo di Bush. No, scusate: quegli scemi dei Bush. Vabbeh: per cui The Day After è un pezzo di storia che non sappiamo realmente se non possa tornare attuale. Il film è decisamente iettatorio, ossessivo, lugubre e rozzamente efficace. La fotografia bruttina, gli effetti così cosà (tremendi quelli con le persone che diventano radiografie!) e la musica orrendissima accompagnano una narrazione opportunamente frammentata in tante microstorie: i destini individuali di alcuni bifolchi di Lawrence, Kansas, che si trovano a vivere presso una base missilistica, ovvio obiettivo sensibile. Il fatto è che in DDR c’è casino, rivolte, scaramucce nei pressi del Muro e poi scontri tra truppe della NATO e del Patto di Varsavia. Finisce che a qualcuno – non è chiaro a chi per primo – scappi la mano e comincino a volare missili e al 55° minuto di proiezione Kansas City e dintorni conoscono gli effetti della tecnologia sovietica quando tre piccanti funghetti nucleari si alzano nel cielo. C’è la coppietta di contadinotti con figli che si fa una (ultima) trombatina incurante delle notizie che arrivano dal televisore, prima di essere tutti spazzati dal vento nucleare. C’è il soldato nero che vuole tornare dalla moglie ma strada facendo perde i pezzi e finisce in una fossa comune. E poi c’è il medico di buona famiglia (Jason Robards) che si danna invano per portare cure a tutti, fino a soccombere. Insomma: non c’è un cazzo di lieta fine e il giorno dopo è quello che viene a film concluso, con la terra rasa al suolo. Il film è angosciante ma decisamente antiretorico ed è girato in modo asciutto, con un percorso agonico senza speranza (e in realtà abbastanza ottimistico, secondo gli esperti). Però, al di là della confezione televisiva cheap, l’organizzazione del racconto non è male: la crescita del timore, il sentirsi totalmente succubi, senza difese, senza futuro, senza speranze, senza notizie. Nel tempo è diventato un film da considerarsi brutto, ma invece ha una sua forza di verità e dice cose sgradevoli a tutto campo (le esecuzioni degli sciacalli, l’egoismo e la violenza che esplodono di fronte alla tragedia). Reagan ne fu impressionato, anima sensibile. (Dvd; 3/6/12)

941 – Coraggio… fatti ammazzare di Clint Eastwood, USA 1983
Ravanando negli archivi della memoria e nei meandri della Rete mi ricapita tra le mani questo Callaghan reaganiano di cui avevo vaghi ricordi, se non per la famosa frase “Go ahead, make my day”, cioè “Va’ avanti, dà un senso alla mia giornata”. E decido di dargli retta, ritrovando un film rozzo come il suo protagonista ma efficace e divertente nella sua semplicistica bruttezza. Sì, perché la trama è perlomeno discutibile nella sua implausibilità e la messa in scena talvolta stupisce per sciatteria, però… Dunque, io con Clint ho un rapporto difficile: lo amo per i film di Leone, per Bird, per Madison County, per il magnifico e delirante Lo straniero senza nome e anche perché gli hanno cioncato una gamba ne La notte brava del Soldato Jonathan, ma di fronte a certe prese di posizione politiche che in qualche modo finiscono nei suoi film più sbirreschi, boh, vacillo. Diciamo che qui siamo – nell’arco parlamentare del suo operato cinematografico – molto a destra. Callaghan lo conosciamo già e qualunque cosa faccia, ci sono dei morti (come gli dirà un collega: “La gente quando ti frequenta ha il brutto vizio di morire”). Qui Harry ha 53 anni, è taciturno e parla solo per cavernose sentenze che più scritte non si può (in effetti tutte abbastanza memorabili), tiene le braccia pendule come il gorilla di Filo da torcere e con questa pellicola – di enorme successo – Clint incassò una barcata di dollaroni. Il film inizia, il protagonista va a prendersi il caffè e fa secchi tre rapinatori su quattro che hanno la sfiga di aver scelto quel diner lì da rapinare. Poi va a bluffare da un boss mafioso e lo fa schiattare d’infarto. I superiori gli dicono di darsi una calmata e lui decide di fare serata tranquilla sennonché i mafiosi provano a vendicarsi ma gli dice male e ne fa secchi altri tre. La sera dopo è un trio di stronzetti (tra cui uno mandato libero da una giudice troppo cavillosa) che prova ad arrostirlo con due molotov, ma lui gliene rende con estrema cortesia una e l’ameno trio finisce nella baia di San Francisco. Oh, ne fa secchi a mazzi di tre per volta: siamo al 43° minuto e ne ha già seppelliti dieci. Intanto una donna dalla memoria dolorosa (Sondra Locke, allora moglie di Clint e affascinante e disinvolta come un manichino) va vendicandosi della ghenga che dieci anni prima ha violentato lei e la sorella. Incrocia Callaghan nella cittadina (immaginaria) di San Paulo dove i superiori l’hanno mandato e da uno sguardo i due si intendono subito. Non sto a dirvi come va a finire perché c’è uno sviluppo ulteriormente violento e delirante che può dare qualche soddisfazione, specialmente con la scena finale che si conclude in groppa a un unicorno (…). Sappiate solo che Clint, con gli occhi spiritati e un virilissimo pistolone, perderà progressivamente la pazienza, specie dopo che gli hanno sgozzato l’amico nero e azzoppato il cane (scoreggione, giuro). (Dvd; 4/6/12)
P.s. del 2018: tre mesi dopo questa mia visione Eastwood si era surrealmente rivolto a una sedia vuota alla convention repubblicana, perculando Barack Obama e sostenendo Mitt Romney. Due anni fa ha ammesso una sorta di pentimento per il gesto, salvo poi informarci che lui, piuttosto che Hillary presidentessa, sosteneva Trump. Ecco.

943 – Il delirante Fantastica Moana di Riccardo Schicchi, Italia 1987
Moana Pozzi: l’angelo, la puttana, la santa, boh. E chi lo sa chi era, realmente? Specie dopo i misteri della morte e la beatificazione come perfetta icona cult. Io ricordo più l’imitazione di Sabina Guzzanti che le sue apparizioni tivù o le interpretazioni cinematografiche. Per cui, da vero studioso, mi procuro il film in pellicola che la lanciò, diretto dal visionario Riccardo Schicchi. Fantastica Moana è – a scanso di equivoci – una micidiale schifezza che fa quasi tenerezza per il tentativo, impossibilitato dalla mancanza di mezzi intellettuali e materiali, di costruire una fantasia erotica con uno sviluppo narrativo coerente. Anzi, se vogliamo, è un porno sbagliato, di cui si potrebbe sentenziare TROPPA TRAMA, perché la vicenda vede un ossessionato erotomane, Gabriel Pontello (già protagonista di fotoromanzi hard e idolo della generazione precedente la mia), che è ossessionato da Moana e s’ingroppa qualunque femmina gli si pari davanti – anche violentemente -, sognando di possedere la steatopigia pornodiva platinée. Il racconto è ambientato in un borgo che puzza di povertà, con esterni rurali squallidissimi e scene urbane che ci rimandano a un’Italia provinciale anni Ottanta imbarazzante. Lui ha una faccia da scemo rara ed è peloso come un orsetto. Lei è altera e bellissima e per qualche misteriosa trasmissione del pensiero viene turbata ed eccitata dalle fantasie del protagonista maschile. Le gesta del Pontello sono patrimonio comune di Moana, del suo agente e dei suoi compari: come per miracolo di sceneggiatura si conoscono tutti e condividono le info, arrivando alla mutua decisione che per liberare il borgo e la testa di Moana dall’incubo di questo satiro conviene farlo trombare con l’oggetto del suo desiderio.
Lei, voce off, ci spiega: “Esorcizzarlo consisteva nel coinvolgerlo in un’orgia a quattro e cioè distruggere ai suoi occhi la mia immagine”. Roba che neanche Deleuze e Guattari. Per cui Moana si concede generosamente all’indemoniato Pontello (assieme anche a Siffredi, che è il futuro tanto quanto Pontello era il passato) e si chiude in bellezza con champagne stappato. È finita? Ma no! C’è l’uscita magnificamente folle: Moana finalmente liberata guarda in camera, si contorce di nuova in preda a frenesia belluina e conclude: “E adesso… chi sarà di voi?”. Wow! Beh, che dire? L’alternanza tra realtà e sogno è dilettantesca ma il continuo montaggio parallelo è anche di un coraggio spropositato per un genere solitamente al risparmio. Detto questo le qualità tecniche del film sono imbarazzanti e quando ci sono momenti di recitazione Moana sonda gli abissi dell’infamità attoriale con un distacco quasi metafisico. E del resto anche quando zompa facendo e facendosi fare di tutto è straniante: non sembra mai partecipe, semmai dignitosamente indifferente, nivea, alta, bionda, aristocratica e sfuggente. Probabilmente questo atteggiamento che si riscontrava anche nelle uscite pubbliche ha contribuito a renderla l’icona che è diventata: silenziosa e misteriosa e presuntamente intelligentissima (ma per quali dichiarazioni non si sa), forse – come ha ipotizzato qualcuno – per accreditare i tantissimi amanti importanti (spettacolo, sport e politica… si diceva del cinghialone) dichiarati. Boh. (Youporn, 15/6/12)

945 – Lorax – Il guardiano della foresta di Chris Renaud, USA 2012
Lorax sembra il nome di un gastroprotettivo da banco. E invece è un discreto film, che da una storiellina piccina picciò del Dr. Seuss costruisce una vicenda più articolata. Chi si lamenta che il film è per bambini: 1) non ha sicuramente letto l’originale di Seuss (e gli basterebbero 5 minuti), 2) ha visto il film in preda a turbinio digestivo. Però qualche criticonzo ha detto questa stupidaggine per primo e da lì tutti hanno scopiazzato l’affermazione. Sbagliata. Comunque: si schianta dal caldo e al cinema si sta al fresco, per cui ci andiamo con le due bimbette. Loro si divertono molto e io le seguo, Barbara invece borbotta un po’ annoiata. Film dal messaggio ambientalista e anche anticapitalista, in un film hollywoodiano che farà milionate di dollaroni col merchandising. È contraddittorio? Sì, e alcuni hanno aspramente criticato il tradimento del messaggio del Dr. Seuss ma grande è la confusione sotto il cielo e questo è sempre bene. In termini spettacolari il film fila come un razzo. Straordinario il lavoro scenografico e la cura dei particolari: ormai non stupisce l’accuratezza della realizzazione quanto la scelta dei materiali, come in un film vero e proprio, girato live action o come cazzo si dice, ma ci siamo capiti. Qui il vetro o il metallo o la pietra hanno una resa più vera del vero che fa impressione. Ammirevole è l’invenzione di un mondo rotondo spassoso, allietato da canzoni molto divertenti, dove il cattivo è un tappetto iroso e avido (cosa che a noi italioti ricorda sicuramente qualcuno). Proiezione perfetta e luci solo tenui accese sui titoli. Esperienza da ripetere il cinema: ogni volta che ci torno lo penso. E poi non lo faccio, ach! (Cinema Ducale, Milano; 23/6/12)

946 – Mondo Cane oggi, l’orrore continua commesso da Max Steel, Italia 1986
L’orrore è quello che prova lo spettatore, non equivochiamo. Trattasi di repellente documentario erede dei Mondo Movie di Jacopetti, Cavara e Prosperi e che mette in fila, col solito commento stolido e suadente, nell’ordine: un aborigeno nudo che dorme sul ciglio della strada, un duello tra cani, un campeggio nudista tedesco (mmh) e – sdoganate le tette – vai!: donne in palestra, lotta di donne nude, modelle di nudo, danzatrice nera delle Figi seminuda che sa muovere indipendentemente le tette (oooh!), pescatrici di alghe giapponesi a seno nudo, donne nude che si fanno spugnare con le alghe. Poi, dopo l’erezione inversa provocata, passiamo a New York (cioè, la civiltà, si direbbe, ma…) e ci scoppiamo una bella apertura di cadavere ripieno di droga, allenamento di judoka, indiani che lavano i panni, tuffi in un tempio indiano, gauchos argentini, agopuntura ustionante, tatuaggi giapponesi, pitoni cinesi scuoiati, gastronomia estrema con serpentelli decapitati, corrida spagnola, lapponi che bevono sangue di renna e cibi afrodisiaci con tartarughe mangiate fresche. Il passaggio deve aver solleticato il montatore che subito propone dei massaggi occidentali con una bella patata pelosa in primissimo piano, bassorilievi erotici a Khajuraho e una lesbicata veloce veloce, per par condicio. Si passa poi a usi e costumi del mondo: svastiche indiane, cadaveri bruciati sulle rive del Gange, pipistrelli giganteschi, pesca nel fango, sushi servito su una donna nuda, ciccione americane alle Hawaii, vacche sacre che cagano letame poscia impastato a mano, allevamento di bovini in USA e macellazione, vita tra i morti di fame in India, tonsura dei monaci buddhisti, bambini storpiati per chiedere l’elemosina, culturisti indiani, igiene giapponese, massaggi sensuali, amputazione yakuza di un dito (la scena si direbbe vera, ma chissà), elettroshock, operazione a pene aperto, travestitismo orientale very exciting, evirazione a Casablanca (nel momento supremo del taglio, commento illuminante: “Il re è morto!”), crescita del seno con tubi aspiranti, cadaveri e rimozione di una calotta cranica e infine visita sul set di un film porno atroce con attori urfidi. L’orrore continua, indubbiamente: alla fine cosa ho visto? Una carrellata antologica di cose “strane”, impressionanti e pruriginose, senza un vero filo conduttore. Stelvio Massi è il responsabile di cotanta ignominia, subìta a tratti – confesso – con l’avanzamento veloce che, va bene l’aggiornamento professionale del Cacace, ma a tutto c’è un limite. (24/6/12)

947 – Cazzi vostri: Open Water di Chris Kentis, USA 2003
Attenzione agli spoiler, eh. Dunque: film di grande successo in diversi festival per appassionati di cinema horror e/o serie B, Open Water parte da una bella idea ma soffre per la malaccorta realizzazione: è infatti girato con una telecamera digitale peggiore della mia che risale al 2002. Non c’è alcun controllo della fotografia, con errori da operatore alle prime armi (ambiente luminoso e volti neri, per esempio). E inoltre il riversamento per l’emissione tivù (come accadeva anche a Italiano per principianti in Dvd) non passa evidentemente attraverso lavorazioni su pellicola e il risultato è poverissimo, proprio da filmino delle vacanze. In questo caso vacanze che finiscono in vacca ma a livelli epici. Dunque: esiste gente che si diverte a fare escursioni subacquee per guardarsi il fondo marino. Oh: hanno ben inventato i Dvd documentari PROPRIO per farci vedere comodamente da casa cosa cazzo ci sia la sotto, eh. Lo dico perché una volta ho fatto snorkeling sul mar Rosso e da allora mai più: m’è venuto un infarto perché un sacchetto bianco fluttuante mi ha fatto credere di essere vittima dell’attacco di una manta assassina. Vabbeh. Ad ogni modo la coppia dei protagonisti fa parte invece di questi invasati con bombole, mute, pinne etc., solo che il destino è beffardo e siccome queste cose sono organizzate da tipi che passano il loro tempo a sbevazzare e a dire “easy man” agli stolidi turisti, finisce che i due vengono dimenticati in mare aperto, ai Caraibi, ma mica a venti metri dalla riva come a me. E in mezzo al mare fa freddo e capita di incrociare bestiole come squali, barracuda e meduse. E poi viene la notte e hai una sete micidiale e la fatica ti ammazza. Da un punto di vista narrativo l’inghippo è ben gestito: l’attesa dei soccorsi e l’angoscia crescono bene fino a un prefinale buttato via (una lite insulsa – in quella situazione, poi –, la notte che passa in un baleno, l’attacco degli squali velocissimo) e un finale gestito veramente col culo, in campo lunghissimo, mentre dovrebbero arrivare i soccorsi. Un anticlimax frustrante, dove tenti di capire cosa stia succedendo al posto di goderti sadicamente l’epilogo GIUSTO della vicenda. Ispirato a una storia vera, film decisamente inferiore alle ambizioni e premiato perché queste operine grammaticalmente atroci fanno tenerezza al pubblico dei festival, che intravede una possibilità per piazzare un giorno i propri filmini matrimoniali. Non m’ha fatto impazzire, s’intuisce, no? (Coming Soon Television; 26/6/12)

(Fine – 80)

Utilizzate a dovere il vostro Bonus Cultura! È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la prefazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band).
Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook.
Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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L’America del nostro scontento. Parecchia rabbia. Molta confusione. Poca felicità https://www.carmillaonline.com/2017/07/07/39123/ Thu, 06 Jul 2017 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39123 di Gioacchino Toni

Roberto Festa, L’America del nostro scontento, Elèuthera, Milano, 2017, 181 pp., € 15,00

«l’America che ha creato Trump non è poi troppo diversa da quella che ha prodotto Obama […] Make America Great Again non è uno slogan molto diverso da Yes We Can: entrambi ugualmente illusori e carichi di aspettative che nessuna realtà traballante potrà mai soddisfare» (Roberto Festa, pp. 8-10)

Roberto Festa, nel suo ultimo libro, L’America del nostro scontento (2017), racconta le diverse reazioni, incontrate attraversando gli Stati Uniti, alla vittoria elettorale di Donad Trump a ridosso [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberto Festa, L’America del nostro scontento, Elèuthera, Milano, 2017, 181 pp., € 15,00

«l’America che ha creato Trump non è poi troppo diversa da quella che ha prodotto Obama […] Make America Great Again non è uno slogan molto diverso da Yes We Can: entrambi ugualmente illusori e carichi di aspettative che nessuna realtà traballante potrà mai soddisfare» (Roberto Festa, pp. 8-10)

Roberto Festa, nel suo ultimo libro, L’America del nostro scontento (2017), racconta le diverse reazioni, incontrate attraversando gli Stati Uniti, alla vittoria elettorale di Donad Trump a ridosso del suo insediamento. A tali testimonianze l’autore aggiunge, nella seconda parte del volume, la narrazione di alcune storie di luoghi simbolo della vita americana. Il volume si chiude con il racconto di una settimana passata a New York nell’estate del 2016, quando in città «si parlava molto di matrimoni omosessuali e di adozioni e sulle pagine domenicali del “New York Times” i gay si facevano fotografare vestiti di bianco sui prati fioriti; nei bar e nelle saune e sulle spiagge di Fire Island il vero oggetto di discussione era però una pillola, il Truvada, che permette di non avere più paura dell’AIDS e di tornare a fare sesso come negli anni Sessanta» (p. 12). Queste pagine finali sono state scritte prima del ciclone Trump e a rileggerle ora, sottolinea Festa, «sembrano una straordinaria fuga in avanti ma anche una sorta di gran ballo nella prima classe del Titanic» (p. 12).

Il declino dell’impero americano, la crisi della classe media e la disgregazione della vecchia working class hanno prodotto politiche identitarie che sembrano essersi pian piano sostituite al conflitto tra capitale e lavoro.

Trump ha vinto esaltando paure e voglia di riscatto dell’America bianca, soprattutto di una parte di quei maschi bianchi stufi di essere chiamati razzisti, stupidi e volgari. I democratici hanno fatto pressappoco lo stesso parlando a donne, neri, ispanici, omosessuali; e la mia impressione è che comunque si discuta molto di identità quando le identità sono incerte e a rischio. Si parla di identità nei momenti in cui le identità non corrispondono più alla vita, ai rapporti di forza, di produzione, quando le nostre idee non trovano più forme collettive di rappresentanza, quando i nostri strumenti di interpretazione si assottigliano, le nostre tasche si svuotano, quando il futuro si fa più opaco. Si parla molto di identità quando non sappiamo più bene chi siamo e questa è una delle cose più palpabili nell’America degli ultimi anni. (p. 9)

Donald Trump e Barack Obama sono espressione di un paese spaccato in mille frammenti perlopiù incomunicanti e tra di loro ostili: città e campagne, costa e interno, Nord e Sud, maschi bianchi e maschi neri, uomini e donne… «divisioni, rabbia, insicurezza, paura, voglia di fuga sono il terreno di coltura dell’America di questi anni» (p. 10) ed è tutto questo che Festa ha inteso indagare, evitando di farsi coinvolgere dalla cronaca più immediata, nella vita profonda delle persone incontrate lungo l’America.

Molte di queste identità che frammentano gli Stati Uniti si sono sviluppate proprio sulla ricerca/costruzione di un nemico. La politica americana può essere vista come causa e/o conseguenza di questo bisogno di nemico ed è su tale necessità che i politici costruiscono le loro fortune elettorali. «Gli steccati sono anche la premessa che nutre la fede nel leader e la politica come pensiero magico: se l’altro è il nemico privo di senso e credibilità, la propria parte e il proprio leader diventano le uniche fonti di legittimità e salvezza» (p. 10).

Dai racconti di Festa emerge l’immagine di un Paese costituito da una miriade di gruppi incomunicanti, ciascuno dotato del proprio nemico giurato e, sovente, del proprio leader carismatico nei confronti del quale gli adepti nutrono una fede granitica. La politica, finanziata dai grandi potentati economici, deve inevitabilmente fare i conti con tali blocchi identitari perché questi portano in dote pacchetti di voti importanti ed in cambio il politico di turno deve sposarne la causa e condividerne i nemici.

La prima parte del libro, come detto, narra di personaggi incontrati da Festa alla vigilia dell’insediamento di Trump; tra questi Rus Thompson viene presentato come l’immagine della rabbia americana. Si tratta di un sessantenne del Massachusetts, ex militare, che dopo aver lavorato come cuoco e muratore ora è proprietario di una piccola azienda di betoniere. Thomposon odia quelli che definisce i vecchi pezzi di merda del Partito repubblicano, odia la Camera di commercio, il Tribunale, l’Ufficio delle tasse, la Cina, gli illegali, l’inoperosa e parassita intelligence, la CIA e l’FBI ostili a Trump, i democratici che hanno spostato così a sinistra l’America, Barack Obama «che ha rotto le scatole con la storia della razza» (p. 20). Odia, inoltre, Hollywood per il suo criticare quello stesso capitalismo che la tiene in vita, odia «chi pensa che tutti debbano andare al college ed ha scordato che farsi una casa con le proprie mani è la cosa più bella del mondo» (p. 20), odia il socialismo e si dice certo che l’America sia davvero sull’orlo di una guerra civile e che questa potrebbe scoppiare da un momento all’altro e non importa se a sparare per primo sarà un veterano sofferente di stress post-traumatico o i federali che lo tengono d’occhio. L’iniziazione politica di Thompson è opera di Carl Paladino, capo del Tea Party di Grand Island, balzato alle cronache per aver espresso come desideri per il nuovo anno la convivenza con un gorilla di Michelle Obama nella savana africana e l’accoppiamento di Barack Obama con un bovino infetto del morbo della mucca pazza.

La seconda parte del volume è occupata da storie di alcune località emblematiche della vita americana. Tra queste colpiscono particolarmente le vicende della città di Wichita, in Kansas, feudo del fanatismo antiabortista. Nell’estate del 1991 la cittadina è stata letteralmente invasa da migliaia di militanti antiabortisti coordinati da Operation Rescue di Randall Terry con l’obiettivo di prendere in ostaggio le cliniche praticanti aborti.

Per sei settimane a Wichita ogni grano dei rosari recitati fu un appello alla liberazione dal male e l’urlo con cui i cristiani d’America si scrollavano di dosso gli anni Sessanta e i movimenti di liberazione e la secolarizzazione e il progresso e i miti di scelta e ragione. Tre anni dopo Bill Clinton approvava il Freedom of Acces to Clinic Entrance Act, la legge che rendeva un reato picchetti e minacce davanti alle cliniche. L’estate della misericordia aveva però mostrato che un movimento potente ribolliva nel cuore dell’America (p. 119).

Gli altri episodi eclatanti accaduti a Wichita riguardano il dottor George Tiller, medico di una clinica praticante aborti tardivi. Nel 1986 il medico rischia una prima volta la vita a causa di una bomba lanciata contro la sua clinica ed una seconda volta, pochi mesi dopo, quando una donna gli spara cinque colpi alle braccia. Nel 2009 i proiettili esplosi da Scott Roeder, cristiano rinato, gli sono fatali.

Il clima che si respira a Wichita è descritto dal libro attraverso alcune conversazioni con la dottoressa Mila Means, che ha aperto una clinica in cui si praticano aborti dopo l’uccisione di Tiller, e con alcuni militanti antiabortisti. Le pressioni esercitate sulla dottoressa sono facilmente immaginabili ed il clima di tensione che si vive in città può essere riassunto da un episodio: quando Festa e la dottoressa raggiungono il fidanzato della donna al ristorante per cenare insieme, lo trovano seduto al tavolo armato di un fucile. «È pieno di pazzi qua attorno» (p. 116).

Tra i militanti antiabortisti con cui l’autore ha modo di colloquiare si hanno personaggi come Troy Newman, presidente di Operation Rescue, che ama celebrare i successi della sua organizzazione nella lotta per la chiusura delle cliniche abortive attraverso bandierine collocate su una cartina degli Stati uniti alle spalle della sua scrivania. «Nel 1991, quando iniziai la mia battaglia, c’erano negli Stati uniti 2200 cliniche abortive. Oggi ce ne sono 274. Molte le abbiamo fatte chiudere noi. Questa è la nostra definizione di successo. Cliniche che chiudono» (p. 123).
Cheryl Sullenger, della medesima organizzazione, si definisce «Una guerriera. Guerriera di libertà» (p. 120) e ama ricordare come la Bibbia imponga ai fedeli di liberare chi, condotto dal massacro, non è in grado di difendersi.
Mark Geitzen, anch’egli appartenente ad Operation Rescue, gestore di un servizio di incontri per single cristiani, gira il Kansas con un camion su cui sono dipinti feti sanguinanti e piccoli corpi su monete da un dollaro con scritto “Abortion is an Obama Nation”. Geitzen racconta continuamente il numero di donne che ha convinto a non entrare in clinica e si dice impegnato al progetto Heartbeat legislation volto a vietare l’aborto quando avvertibile il battito del cuore del feto.
Festa incontra anche Jennifer McCoy, un vero e proprio mito del fronte antiabortista. La donna, nata in Michigan, con un passato nei marines in Kuwait durante la prima guerra del Golfo, è madre di dieci figli con l’undicesimo in arrivo e passa le giornate accampata, insieme ai bambini, davanti alle cliniche che praticano aborti piantando croci e protestando. Nel suo racconto, che ad un’indagine a posteriori da parte di Festa si rivela in parte artefatto, McCoy racconta anche di essere stata messa incinta all’età di dodici anni dal suo insegnante di catechismo e di essere stata condotta con l’inganno, dalla madre in combutta con il catechista, a sottoporsi ad un intervento abortivo in una clinica. Da quel momento la donna matura il suo odio nei confronti delle cliniche abortiste.

Dalla lettura del libro di Festa emerge un’America in cui convivono, confliggendo, identità e mondi separati, con preoccupanti ritorni ad un passato che sembrava rimosso una volta per tutte. Un’America che dovrebbe essere meglio indagata da quanti scrivono editoriali comandati dalle scadenze pensando di conoscere davvero il paese solo per aver trascorso qualche settimana in un hotel di New York durante le campagne elettorali o per essere cresciuti divorando programmi televisivi a stelle e strisce. L’America raccontata da Festa? «Parecchia rabbia. Molta confusione. Poca felicità» (p.12).

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Yankee Doodle Goes to War https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ Fri, 07 Apr 2017 15:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37474 di Sandro Moiso

yankee 2 Mentre Half-Nano, il ministro degli esteri dell’eterna Terra di Mezzo, ancora ieri era impegnato nel gioco delle poltrone e nei valzer delle leggi elettorali, il pragmatismo di uno dei suoi “più sicuri” alleati preparava il conto alla rovescia finale per l’ormai prossima deflagrazione bellica su scala planetaria. Infatti alle 2:30 (ora italiana) di oggi 7 aprile, da due portaerei americane al largo del Mediterraneo, sono stati lanciati 59 missili Tomahawk (quelli che abbiamo iniziato a conoscere fin dalle guerre del Golfo) sulla base aerea siriana di Al Shayrat da cui, secondo le prime informazioni, sarebbero partiti, [...]]]> di Sandro Moiso

yankee 2 Mentre Half-Nano, il ministro degli esteri dell’eterna Terra di Mezzo, ancora ieri era impegnato nel gioco delle poltrone e nei valzer delle leggi elettorali, il pragmatismo di uno dei suoi “più sicuri” alleati preparava il conto alla rovescia finale per l’ormai prossima deflagrazione bellica su scala planetaria. Infatti alle 2:30 (ora italiana) di oggi 7 aprile, da due portaerei americane al largo del Mediterraneo, sono stati lanciati 59 missili Tomahawk (quelli che abbiamo iniziato a conoscere fin dalle guerre del Golfo) sulla base aerea siriana di Al Shayrat da cui, secondo le prime informazioni, sarebbero partiti, nei giorni scorsi, gli aerei con le armi chimiche destinate a colpire la città di Khan Sheikhoun.

Questa la narrazione ufficiale. Narrazione preparata e pianificata fin dai giorni scorsi dal bombardamento mediatico che ha accompagnato la notizia secondo la quale nella città siriana più di ottanta persone, tra le quali 28 bambini, sarebbero rimaste uccise dalle armi chimiche usate dall’aviazione di Assad.

Ora, tralasciando i dubbi manifestati non soltanto dalla Russia di Putin sull’effettivo svolgimento degli eventi dei giorni scorsi e sui reali motivi del can can mediatico che ne è seguito,1 quello che occorre qui immediatamente sottolineare è il fatto che la lancetta del barometro politico e militare internazionale si è ormai decisamente stabilizzata sulla guerra. Con buona pace anche di coloro che nella vittoria di Donald Trump e nel riavvicinamento tra USA e Russia avevano visto un fattore determinante di cambiamento di orientamento della politica estera americana.

Che, invece, non è cambiata affatto dal punto di vista programmatico. Ciò che è cambiato, come ho già detto in altra sede, è piuttosto il fatto che gli Stati Uniti non hanno più né tempo né voglia di mascherarsi dietro ad ambigue ed altalenanti operazioni di “polizia internazionale” o “missioni di pace”. Trump è il presidente della guerra americana, anche se la farà seguendo le impronte dei suoi predecessori.

Facciamo un passo indietro di pochi giorni. Torniamo alla fine di marzo, quando Trump ha annunciato di voler applicare dazi del 100% su almeno 90 prodotti provenienti dall’Unione Europea, parlando apertamente di guerra commerciale dovuta agli ostacoli frapposti dalla stessa UE all’importazione di carni americane. Tutti i media hanno colto in quell’affermazione un’iniziativa tipicamente trumpiana per far vedere i muscoli e accontentare l’elettorato del Midwest e della Rust Belt che aveva contribuito ad eleggerlo.

Peccato, però, che tale provvedimento non costituisse altro che l’applicazione dell’ultimo decreto firmato dal Presidente uscente, Barack Obama il 26 dicembre 2016. 2 Questo semplice fatto rivela come la narrazione fatta dell’amicizia tra la passata amministrazione statunitense e l’Unione Europea fosse tutt’altro che veritiera3 e come la conflittualità “ideologica” sui muri sollevati contro i migranti (in Europa e in America) non facesse altro che nascondere le ragioni reali del conflitto a venire,4 ovvero la guerra commerciale, ultimo passo prima della guerra guerreggiata.

Naturalmente tra guerra commerciale minacciata e missili lanciati corre ancora una certa differenza. Ma solo apparentemente, poiché i missili di oggi, indipendentemente dal fatto che ad essi segua o meno un’ulteriore escalation militare, anticipano soltanto quelli che domani, e in quantità ben maggiore, potranno essere lanciati sui competitor, imperialisti o meno, che non volessero adeguarsi alla weltanschauung americana che vede ormai svilupparsi nel mondo intero il suo spazio vitale.

Un lebensraum planetario in cui poco importa quali siano gli alleati tradizionali o fedeli, ma dove conta la fedeltà e l’ubbidienza al “capo”. Un autentico fuhrerprinzip che già il vice di Trump, Mike Pence, aveva ricordato agli alleati, parlando alla Conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco di Baviera il 18 febbraio di quest’anno, affermando che l’impegno “incrollabile” degli Usa nell’Alleanza atlantica dipende pur sempre dall’attesa enunciata da Trump di un maggior impegno finanziario dei partner. Asserzione avvalorata dallo stesso Trump che durante e subito dopo il colloquio diretto con la cancelliera Angela Merkel aveva affermato che “la Germania è in debito con gli Stati Uniti per l’impegno che gli americani forniscono in termini di difesa e sicurezza nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. Un dato di fatto suffragato da numeri e bilanci, come quello pubblicato lunedì dalla Nato e che dimostra come la Germania sia ben lungi dalla soglia obiettivo del 2% del bilancio destinato alle spese militari chiesto da Washington. Sebbene uno sforzo maggiore potrebbe permetterselo visto che dell’Europa è la regina con un surplus commerciale da capogiro.5

Insomma il capo decide e gli altri devono adattarsi, pena l’esclusione (e le inevitabili conseguenze economiche e militari). Anche se, per una volta, è evidente la debolezza intrinseca dell’azione americana. Non soltanto per la posizione traballante di Trump alla Casa Bianca che deve dimostrare, in questa occasione, una sorta di presa di distanza dall’”amico” Putin, ma anche perché gli Stati Uniti si trovano costretti ad accelerare i tempi del conflitto prima che altri schieramenti vadano formandosi tra i suoi stessi alleati o ex-alleati.

Come è successo disastrosamente questa estate, col fallito colpo di stato in Turchia che ha contribuito a riavvicinare Erdogan alla Russia.6 Si tratta, è vero, di un panorama di alleanze incerto, in cui i voltafaccia possono essere ancora numerosi e repentini, ma che spinge comunque quella che i media si ostinano a definire ancora come la prima potenza mondiale ad imprimere svolte drastiche, continue e pericolose ad una politica estera che sembra poter maneggiare soltanto più il big stick, il grande bastone, minacciato dal presidente Teddy Roosvelt fin dalla guerra ispano-americana del 1898. Senz’altro in cambio, viste le difficoltà in cui versa la sua economia. Un’economia che al termine del secondo conflitto mondiale rappresentava il 50% dell’economia-mondo mentre ora ne controlla il 16% e le proiezioni la vedono ridursi ancora al 12% entro il 2025. Mentre, solo per fare un esempio, la Cina, dal 1945 ad oggi, è passata dal 2% al 18%.

Così, paradossalmente, molti altri, inclusi russi, cinesi ed arabi, potrebbero ancora aspettare prima di rivelare le proprie carte, ma la diplomazia americana non è mai stata molto abile nel gioco del poker internazionale, se non giocando con il morto ovvero con qualcuno già predestinato ad essere sconfitto. Ruolo a cui sembra essere oggi destinato Assad con il suo regime che, però, a differenza di Saddam custodisce sul suo territorio alcune delle basi militari (aeree e navali) più importanti per la Russia, essendo dislocate sul Mar Mediterraneo.

Potrà trattare Trump una caduta di Assad senza toccare le basi russe e i “diritti acquisiti” da Putin sulle stesse? Potrà Putin accettare un’ingerenza americana tale da sminuire il suo ruolo, recentemente acquistato, nel Vicino Oriente? Iran e hezbollah libanesi potranno lasciar cadere tranquillamente Assad aprendo la strada alla Grande Israele sognata dai sionisti? E la Grande Israele fino a quando potrà andare d’accordo con il modesto, ma attivo, imperialismo arabo e non solo saudita?7

Qui, nell’eterna Terra di Mezzo, dove pur risiedono le basi Nato di riferimento per le portaerei già impegnate, per i media asserviti e benpensanti, insieme a presidenti del consiglio e ministri di facciata, la narrazione può continuare a escludere dal discorso pubblico la guerra commerciale e/o guerreggiata, in nome della qualità (“che non ha frontiere” secondo Paolo Gentiloni) e del negoziato (“tra tutte le parti in causa” sempre secondo lo stesso), ma Sauron si è risvegliato dal suo sonno caotico e sta già marciando con i suoi eserciti di troll e di morti presenti, passati e futuri.

yankee 1 Mentre gli imperialismi e i nazionalismi di ogni angolo d’Europa e del mondo sono già pronti a servirlo. Gli anti-americani filo-russi sono pronti a servirlo. I sionisti, anche quelli travestiti da progressisti, sono pronti a servirlo. Gli europeisti in preda al panico per la possibile perdita di centralità politica ed economica sono pronti a seguirlo. I razzisti e i fanatici religiosi sono pronti a seguirlo. I moralisti, i benpensanti, i pacifisti e i populisti sono pronti a seguirlo. I lavoratori immiseriti e ridotti a puro capitale variabile, in attesa di un rilancio produttivo che li reintegri al loro posto e in cambio di qualche perduto privilegio, sono pronti a seguirlo. In nome, comunque, sempre e soltanto della permanenza dell’attuale modo di produzione. Così lo yankee bonaccione della tradizione popolare americana è andato in guerra e l’oscurità ha iniziato ad avvolgere il mondo.

Chi potrà, dunque, distruggere definitivamente il suo malefico anello del potere, lanciandolo all’interno della voragine del Monte Fato e del fuoco della lotta di classe? Soltanto chi agirà in nome della comunità umana a venire, ammesso che sappia resistergli.


  1. Si vedano ad esempio: http://www.huffingtonpost.it/2017/04/06/tutto-quello-che-non-torna-sulluso-del-gas-da-parte-di-assad_a_22028433/ e le recenti osservazioni fatte da Fulvio Grimaldi sul fatto che: “Il riassetto generale del Medioriente-mondo arabo risale almeno al 1982, 35 anni fa, quando il consigliere del governo israeliano, Oded Yinon, formulò il famoso piano per la politica estera di Israele nei successivi vent’anni, che prevedeva la frantumazione degli stati-nazione arabi lungo linee etniche e confessionali. Piano diventato linea politica ufficiale del governo. Piano, però, che riassume la strategia imperialista israelo-anglosassone contro la Siria già elaborata alla fine degli anni ‘50.” (Comitato NoNato)  

  2. http://www.ilfoglio.it/list/2017/03/31/news/dazi-trump-obama-128047/  

  3. Come già si era potuto sottolineare a proposito dell’affaire dei dati ambientali truccati delle auto tedesche prodotte da Volkswagen: https://www.carmillaonline.com/2015/09/29/vae-victis-germania-2-car-wars/  

  4. https://www.carmillaonline.com/2015/09/16/vae-victis-germania-1-sulla-loro-pelle/  

  5. http://www.lastampa.it/2017/03/19/esteri/trump-la-germania-deve-molti-soldi-alla-nato-A7vqv0uKCCczHQazU79y8K/pagina.html  

  6. In proposito si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/  

  7. Come recita il titolo della rivista Limes disponibile in libreria ed edicola proprio in questi giorni: Arabia (non solo) saudita, Limes n° 2 / 2017, Lorenzo Declich, Un imperialismo minore: la paradossale parabola dell’Arabia Saudita, pp. 9 – 17  

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Hard working men: John Henry, Stachanov e la leggenda aurea del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/03/08/hard-working-men-john-henry-stachanov-due-leggende-auree-del-lavoro/ Wed, 08 Mar 2017 21:10:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36787 di Sandro Moiso

john henry statuaSoltanto il passato appare veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario?” (Georg Lukács – L’anima e le forme, 1911)

A volte lavorando sull’immaginario si riescono a fare straordinarie ricostruzioni di come mentalità e convinzioni, pur appartenenti a contesti storici e culturali apparentemente molto diversi e lontani, vadano inconsapevolmente uniformandosi tra di loro. Per questo può rivelarsi importante procedere ad un lavoro di disincrostazione delle certezze e delle conoscenze che spesso vengono date troppo facilmente per scontate sia in ambito politico che culturale.

Così procedendo nella ricostruzione [...]]]> di Sandro Moiso

john henry statuaSoltanto il passato appare veramente necessario, perché non vi si può togliere né aggiungere nulla. Ma il passato è veramente necessario?” (Georg Lukács – L’anima e le forme, 1911)

A volte lavorando sull’immaginario si riescono a fare straordinarie ricostruzioni di come mentalità e convinzioni, pur appartenenti a contesti storici e culturali apparentemente molto diversi e lontani, vadano inconsapevolmente uniformandosi tra di loro. Per questo può rivelarsi importante procedere ad un lavoro di disincrostazione delle certezze e delle conoscenze che spesso vengono date troppo facilmente per scontate sia in ambito politico che culturale.

Così procedendo nella ricostruzione del percorso di formazione dell’immaginario di una classe operaia, quella americana, che dall’essere stata una delle più combattive, a cavallo tra XIX e XX secolo, si è trasformata in un bel serbatoio di voti e di fiducia per un presidente dalle indubbie tendenze fascistoidi, è quasi impossibile non fare incrociare la storia leggendaria di un operaio nero della fine dell’Ottocento, John Henry, con quella di un eroe del lavoro sovietico degli anni del trionfo dello stalinismo: Aleksej Grigor’evič Stachanov.

stachanov 1 Aleksej Grigor’evič Stachanov,1 fu un minatore sovietico che lavorò nelle miniere di carbone della regione di Donbass. Nel 1935 divenne famoso per aver messo in atto un nuovo metodo di estrazione del carbone: eseguendo egli stesso il lavoro specializzato del “taglio” del carbone ed utilizzando i propri compagni per il trasporto del minerale sui carri, riuscì ad aumentare la produttività della squadra di lavoro fino a quattordici volte, arrivando a raccogliere102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti proprio il 31 agosto di quell’anno.

Il governo sovietico diede enorme risalto al suo metodo che fu così adottato in altre miniere, mentre Stachanov fu celebrato come “lavoratore modello” e fu nominato, ancora nel 1970, Eroe del lavoro socialista ed era diventato membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica fin dal 1936. Da lui ebbe origine lo stacanovismo, volto ad aumentare la produttività dei lavoratori incoraggiandoli sia a livello propagandistico che tramite incentivi. Lo stesso Stachanov, infatti, intraprese una carriera che lo portò a diventare direttore e assistente capo ingegnere di impianti minerari fino al pensionamento nel 1974.

John Henry è invece un eroe del folklore operaio ed afro-americano degli Stati Uniti. Si narra che egli abbia lavorato come operaio nella costruzione delle ferrovie e che il suo compito fosse quello di scavare con il suo martello la roccia per preparare i fornelli in cui si facevano brillare le mine destinate a spaccare le rocce durante la costruzione delle gallerie. Secondo la leggenda, per misurare la sua abilità e la sua forza nello spaccare le rocce con il suo martello, egli volle sfidare in una gara una delle prime trivelle azionate a vapore per vedere chi riuscisse a scavare più roccia a parità di tempo.

Una gara che egli vinse morendo, però, subito dopo per un collasso cardiaco causato dallo sforzo eccessivo. L’immagine di John Henry morto, con la mazza di ferro ancora fortemente stretta nel suo pugno è rimasta nell’immaginario ed è stata trasposta, come tutta la sua vicenda, in una classica canzone folk che è stata tramandata in tantissime e, spesso, non poco differenti versioni.2

Big_Bend_Tunnel_John_Henry La sua storia è entrata tanto nella narrativa orale che nella letteratura, nel teatro popolare ed è stata anche il soggetto di numerosi fumetti e film di animazione, di cui uno prodotto dalla Disney ancora nel 2000; mentre numerose località vantano ancora, a più di un secolo di distanza, il primato di aver costituito il reale contesto in cui si svolse la sfida prometeica tra l’operaio afro-americano e la macchina. Tra queste basterà qui ricordare il Big Bend Tunnel in West Virginia, il Lewis Tunnel in Virginia e il Coosa Mountain Tunnel in Alabama.

L’operaio russo ha una data di nascita, 3 gennaio 1906, e una di morte, 5 novembre 1977, riconosciute. John Henry è vivissimo nella cultura popolare, ma non si sa nemmeno se sia davvero esistito e dove abbia realmente compiuto le sue gesta. Entrambi però costituiscono i cardini di una cultura operaista in cui il lavoratore rappresenta la forza della Nazione e di un Popolo, orgoglioso di dare tutto se stesso, anche la vita, per dimostrare il proprio valore. Valore che, guarda caso, si confonde sempre con quello che è possibile trarre marxianamente dai suoi muscoli e dalla sua intelligenza.

john-henry-stamp Sarà per questo motivo che, nel 1996, le poste degli Stati Uniti hanno dedicato a John Henry un francobollo da 32 centesimi, insieme ad altri tre dedicati ad altrettanti eroi del folklore americano: Pecos Bill, Paul Bunyan e Mighty Casey. Rispettivamente un cow-boy, un boscaiolo e un ferroviere. Come dire: la nostra epica si fonda sul lavoro e sui lavoratori.

Senza essere, tra l’altro, neppure troppo distanti dall’ex-nemica URSS-Russia. In cui per ricordar Stachanov nel 1936, nella città sovietica di Donec’k fu fondata una squadra calcistica con il nome di Stachanovec’ in suo onore, mentre ancora nel 1978 la città ucraina di Kadievka prese il nome di Stachanov. Sempre negli anni Trenta il settimanale Time gli dedicò una copertina indicandolo come il grande eroe dello stakanovismo, mentre la miniera Tsentralnaja-Irmino, in cui Stachanov aveva compiuto le sue gesta, fu a lungo segnalata su tutti i libri di storia delle scuole sovietiche.

Time_-_Stakhanov “Lavoratori eroici” entrambi, Stachanov e John Henry portano indelebile le stimmate della schiavitù salariale; stimmate che, come nei peggiori oggetti di culto cattolico-romani, testimoniano la santità di chi le porta e, per riflesso, del lavoro coatto. Se, però, la figura di Stachanov è tutta compresa all’interno dell’immagine di “Stato operaio” e di socialismo “in un solo paese” che l’apparato staliniano voleva trasmettere nell’immaginario proletario russo e mondiale proprio negli anni delle grandi purghe, nel mito di John Henry è ravvisabile anche qualcosa di peggiore.

Dei quattro eroi americani celebrati dalla serie di francobolli dedicata ai “folk heroes”, John Henry è l’unico afro-americano. Come tale però si trova a metà strada tra lo schiavo e il proletario. Una figura di transizione che affonda le sue radici in quel momento di passaggio dell’economia statunitense tra una funzione eminentemente esportatrice di materie prime (cotone e tabacco) ancora basata su un’organizzazione del lavoro basata sullo schiavismo e il latifondismo ed una preminentemente industriale e, poi, finanziaria. In cui il plusvalore si estrae principalmente dalla forza lavoro operaia.

Questo passaggio avviene nei decenni successivi alla Guerra di Secessione, che tutto fu tranne una guerra di liberazione degli schiavi africani. Sono gli anni in cui si situa la leggenda di John Henry, a metà strada tra schiavo e proletario,3 in cui la coscienza dell’essere popolo americano deve essere diffusa tra le masse, indipendentemente dal colore della pelle e dalla collocazione di classe. In fin dei conti proprio la guerra civile aveva costituito l’ultimo passaggio per raggiungere l’indipendenza economica definitiva dall’ex-madre patria inglese.4

john henry springsteen In questo modello immaginario lo schiavo nero deve passare dal lavoro nelle piantagioni a quello nelle ferrovie, nelle miniere e nelle fabbriche senza modificare troppo le sue pretese. Deve essere soddisfatto di non dover più fornire obbligatoriamente il suo sudore ad un unico proprietario, ma di poter vendere la sua forza lavoro in libertà ad imprenditori diversi. Punto e fine. La libertà degli ex-schiavi inizia e finisce lì. E possono essere contenti quando, ammazzandosi letteralmente di fatica, possono raggiungere l’empireo del folklore americano.

D’altra parte l’andamento della canzone riportata precedentemente in nota è ancora quello della work song più che del blues. Le stesse work song che per decenni, e forse ancora oggi, erano cantate nelle chain gang di detenuti neri condannati ai lavori forzati.5 Il più famoso interprete e testimone di quella memoria popolare trasmessa attraverso il canto fu proprio Huddie William Ledbetter, in arte Leadbelly, che, rinchiuso nel Penitenziario di Stato della Louisiana fin dal 1930, fu qui scoperto, nel luglio 1933, da John Lomax, etnomusicologo, e suo figlio Alan.

leadbellyViaggiando attraverso il sud per conto della Library of Congress per raccogliere e registrare le ballate tradizionali, tramandate fino ad allora solo per via orale, i due scoprirono che le prigioni del sud degli U.S.A. costituivano i luoghi più fertili per reperire canzoni di lavoro, ballate, spiritual e canti tradizionali. Grazie a loro Leadbelly riuscì ad uscire dal carcere e ad incidere successivamente numerosissimi dischi di musica folk (bianca e nera), spesso in compagnia di artisti militanti quali Woody Guthrie e Cisco Huston, mentre proprio la sua versione di John Henry può essere considerata di riferimento per molte altre.

Il mito del lavoratore nero che si riscatta, operaio o schiavo che sia, attraverso il lavoro più che attraverso la rivolta giunge a noi, quindi, attraverso il carcere e il lavoro ultra-coatto delle chain gang. Ancora una volta il cerchio si chiude adeguatamente e l’ordine costituito non è messo né in discussione né, tanto meno, in pericolo. Anche se, per intima contraddizione di una cultura popolare e proletaria che non sempre si lascia così facilmente ingabbiare, per decenni gli studiosi del folklore americano confusero la ballata di John Henry con quella dedicata a John Hardy (il tema e gli accordi sono gli stessi) in cui si parla, però, di un ferroviere bianco che uccide a colpi di pistola un suo rivale o, ancor più probabilmente, di un fuorilegge della West Virginia.

doc holliday Addirittura, se lo sguardo e l’udito si facessero soltanto un po’ più attenti, nelle strofe di John Hardy in cui si parla di un “Desperate, little man”, ci si accorgerebbe che allora la memoria potrebbe andare ad un altro John Henry, questa volta piccolo e bianco: John Henry Holliday detto “Doc”, giocatore d’azzardo, assassino di ranger, tenutario di case da gioco e bordelli,compagno di Wyatt Earp nella, a sua volta leggendaria, sfida dell’O.K. Corral avvenuta a Tombstone nel 1880 e morto di tisi a trentasei anni nel 1887. Armi, denaro, violenza fai da te finiscono così col rivelarsi, ancora una volta, come l’altra faccia del mito americano. Proletario o borghese che sia.

Stachanov finì la sua esistenza, depresso e semi alcolizzato, in un ufficio di Mosca con una lunghissima targhetta d’ottone: “Capo del settore per l’emulazione socialista presso il commissariato del Popolo per l’estrazione del carbone”. Dopo l’impresa del 31 agosto 1935, gli erano stati consegnati 220 rubli, che corrispondevano a più di due stipendi mensili; una casa di tre stanze, ammobiliata con tappeti e un pianoforte a coda; un buono per una vacanza al mare con la moglie in Crimea; due abbonamenti a vita a tutte gli stadi, cinema e teatri della sua città.

Stakhanov 2 Le rivelazioni, mai smentite, di giornali statunitensi che parlavano di bluff, di record costruito con intere squadre di minatori che lavoravano per l’eroe, furono bollate come “invidia dei capitalisti”.
La propaganda stalinista sfruttò al meglio il personaggio con l’obiettivo dichiarato di sconfiggere la proverbiale indolenza del lavoratore russo. E con lo scopo, più nascosto, di scoraggiare ogni sorta di lamentela sul posto di lavoro: solo sacrificio e produzione per la causa del Socialismo6

John Henry finì rappresentato in numerose immagini che lo ritraevano morto, con il martello ancora in pugno. Una sorta di semi-dio7 immolatosi per il lavoro più che per la salvezza di una razza o della specie. Ritratto in una posizione a braccia aperte, con qualche imprenditore e redneck ai suoi piedi, che lo avvicina di più allo zio Tom di Harriet Beecher Stowe,8 il cui abolizionismo rimaneva relegato alla pietà cristiana e all’azione dei “buoni” padroni bianchi più che all’azione diretta degli schiavi sfruttati,9 che alla figura dell’autentico liberatore.

john-henry-dead La sua lotta con la macchina non ha nulla dell’odio dei luddisti per le macchine che riducevano forza e salario dei lavoratori, incrementandone la produttività. No, è una lotta arcaica che non emancipa il lavoro e che, sposandone l’etica del sacrificio, al contrario lo imbestialisce, caratterizzandolo soltanto in termini di rivalità con la macchina che, tutto sommato, potrebbe liberarlo davvero. Una lotta in cui l’orgoglio operaio non è di classe, ma di mestiere e il lavoro è ridotto a semplice strumento per la valorizzazione del capitale. Senza alcuna speranza di riscatto finale.

Valeva la pena narrare e ricostruire tutto ciò ancora una volta? Basti guardare ai risultati della presidenza di Barack Obama la cui unica eredità sembra essere costituita dal premio Oscar assegnato a un film come “Moonlight”. Una storia di “diritti umani” più che di classe, in cui la pregiudiziale anti-razzista è fortemente minata dal fatto di rendere ancora una volta le vicende degli afro-americani sufficientemente digeribili e patinate per un pubblico bianco e borghese bicolore. Ignorando del tutto le ragioni che hanno spinto anche una parte dell’elettorato operaio “nero” a votare per Trump e contribuendo così a far sprofondare ancor di più ogni rappresentazione dei conflitti di classe e razziali nel folklore più convenzionale.

Valeva la pena di rispolverare Stachanov e trarlo fuori dall’oblio? Si pensi alla proposta di Matteo Renzi per uno stipendio di cittadinanza legato, molto probabilmente, ad un lavoro sottopagato in stile cooperativistico, in cui i riferimenti alla dignità del lavoro e all’articolo primo della Costituzione sono da leggere in chiave puramente strumentale all’abbassamento della spesa di ciò che rimane dei servizi destinati ai cittadini e del costo del lavoro. Oppure alla straordinaria promessa di Calenda per ventimila nuovi posti di lavoro in Italia: tutti nei call center, una volta che le compagnie interessate avranno ridimensionato quelli aperti in Romania, Albania, Polonia e in altri paesi dove il valore dei salari è ormai prossimo a quelli pagati nel sud italiano. Tutte le risposte arriveranno da sole.

(2 continua)


  1. In realtà il suo vero nome era Aleksandr, ma nel giorno del record il corrispondente locale della Pravda aveva scritto per sbaglio Aleksej. In pochi giorni la complessa burocrazia sovietica cambiò tutti i suoi documenti per adeguarli alla svista del giornale. Pravda vuol dire verità e per questo non ammetteva smentite  

  2. Se ne presenta qui un estratto da una versione ricostruita che le riassume un po’ tutte:
    […] John Henry disse al capitano*:
    «Capitano, andate in città
    Portatemi due mazze di quelle da dieci chili
    Vedrete come batto la trivella, Signore, Signore
    Vedrete come batto la trivella»

    John Henry disse alla sua gente:
    «Sapete che uomo sono io.
    Posso battere ogni tappola che è mai stata inventata
    O morirò con la mazza stretta in pugno, Signore, Signore
    O morirò con la mazza stretta in pugno»

    La trivella era messa sulla destra:
    John Henry sul lato sinistro.
    Disse: «Batterò la trivella a vapore
    Oppure mi ucciderò a mazzate, Signore , Signore
    Oppure mi ucciderò a mazzate»

    John Henry buttò la mazza da cinque chili
    E prese quella da dieci;
    Ogni volta che batteva sulla mazza
    Il ferro trapassava la roccia, Signore, Signore
    Il ferro trapassava la roccia

    John Henry aveva appena cominciato
    E la trivella era già a metà;
    John Henry le disse: «Adesso sei avanti, trivella
    Ma all’ultimo vedrai che ti batto, Signore, Signore
    All’ultimo vedrai che ti batto»

    […] L’uomo che aveva fabbricato la trivella
    Pensava fosse buona assai;
    Johnn Henry avanzò per più di quattro metri
    La trivella ne fece a stento tre, Signore, Signore
    La trivella ne fece a stento tre.

    […] John Henry era uno spaccapietre,
    In tante squadre lavorò;
    Adesso è tornato all’inizio dei binari
    Per scavare ancora più lontano, Signore, Signore
    Per scavare ancora più lontano
    ”.
    Questa versione rielaborata si trova in Colson Whitehead, John Henry Festival, Minimum Fax 2002, pp. 108-113 *Capitano, captain in ambiente di lavoro sta per caposquadra, ma poteva anche essere colui che dirigeva il lavoro degli schiavi oppure i condannati al lavoro forzato.  

  3. Si veda a proposito di questa transizione: C.L.R. James – H. M.Baron – H.G. Gutman, Da schiavo a proletario, Musolini Editore 1973  

  4. Fondamentali, in questo senso, sono da ritenersi le riflessioni di Marx ed Engels scritte a caldo in quegli anni. Si vedano in: Marx – Engels, La guerra civile, Silva Editore 1971 e Hosea Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca Book 1977  

  5. Si ascoltino, solo come esempio tra i tanti, i due cd pubblicati dalla Rounder nel 1997: Prison Song. Historical recordings from Parchman Farm 1947-48, Volume 1: Murderous Home e Volume 2: Don’tcha Hear Poor Mother Calling?  

  6. cfr. http://www.repubblica.it/esteri/2010/08/13/news/stkanovista_super-6257615/  

  7. Cosa fu Gesù Cristo se non l’incarnazione di un ennesimo semi-dio?  

  8. Autrice nel 1852 dell’omonimo Uncle Tom’s Cabin or Life Among the Lowly  

  9. Protagonisti di infinite rivolte e azioni violente contro i proprietari e i loro cacciatori di schiavi, come si può leggere in George P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba: la formazione della comunità nera durante la schiavitù negli Stati Uniti, Feltrinelli 1979  

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Face Off https://www.carmillaonline.com/2017/02/05/face-off/ Sun, 05 Feb 2017 20:06:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36287 di Alessandra Daniele

Face Off (1)Fin dal secondo dopoguerra, il default mode dei media mainstream occidentali verso il presidente degli Stati Uniti era sempre stato il classico servo encomio. In diverse gradazioni, con qualche eccezione per i più sputtanati, e punte d’idolatria per i più fotogenici. L’attuale unanime costernato disprezzo verso Trump è quindi particolarmente inedito e interessante. Il coro mediatico inoltre amplifica ogni manifestazione di dissenso come mai prima d’ora, dando l’immagine fittizia di un’America sull’orlo della rivolta popolare contro un odiato dittatore, che ricorda tanto [...]]]> di Alessandra Daniele

Face Off (1)Fin dal secondo dopoguerra, il default mode dei media mainstream occidentali verso il presidente degli Stati Uniti era sempre stato il classico servo encomio. In diverse gradazioni, con qualche eccezione per i più sputtanati, e punte d’idolatria per i più fotogenici.
L’attuale unanime costernato disprezzo verso Trump è quindi particolarmente inedito e interessante.
Il coro mediatico inoltre amplifica ogni manifestazione di dissenso come mai prima d’ora, dando l’immagine fittizia di un’America sull’orlo della rivolta popolare contro un odiato dittatore, che ricorda tanto quelle della cosiddetta Rivoluzione Ucraina.
In questi giorni, mentre i social si riempivano di meme, abbiamo visto persino alcuni dei Tg  tradizionalmente più securitari simpatizzare coi casseur e coi black bloc, purché anti-Trump.
L’impressione è che chi controlla i media sia molto preoccupato che Trump possa diventare per gli USA una sorta di equivalente speculare di Gorbaciov per l’URSS: il liquidatore dell’Impero a cominciare dall’immagine.
Face Off (2)Il bando all’immigrazione infatti non è servito soltanto a sabotare gli accordi con l’Iran sgraditi a Putin.
L’orrido, arcigno, becero Donald Trump sta defacciando l’America.
L’impatto simbolico delle sue prime azioni di governo come delle sue dichiarazioni fuori dai denti sta definitivamente strappando agli USA la maschera di benevolo e accogliente protettore del mondo, sta distruggendo la narrazione falsa e paternalista che è sempre stata uno dei pilastri principali del colonialismo USA.
L’impresentabile Donald Trump sta ritirando gli USA dai territori dell’immaginario collettivo. 
È logico quindi che i media embedded che quei territori sono deputati a presidiare siano nel panico.
In questo Face Off, questo scontro epocale fra Imperialismo morente e Nazionalismo rianimato non ci sono Good Guys.
Gli stessi democratici che stanno dando a Trump del nazista per aver respinto i rifugiati da Libia, Siria e Iraq, sono responsabili della distruzione completa di Libia, Siria e Iraq. Trump non avrebbe rifugiati da respingere se Obama non li avesse bombardati.
L’ostilità di Trump verso Cina e Germania non promette però niente di meglio.
Il braciere nel quale arde la fiamma dell’unica vera religione di Stato USA, cioè la guerra, non si spegne mai.

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Sbarack Oboomerang https://www.carmillaonline.com/2016/10/23/sbarack-oboomerang/ Sun, 23 Oct 2016 18:06:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34152 di Alessandra Daniele

obama-renziMentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida. Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana. L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale. La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri. Non ci sono [...]]]> di Alessandra Daniele

obama-renziMentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida.
Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana.
L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente per il sì almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza internazionale.
La riforma renziana, che sapeva chiaramente di sóla fin dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco consigliato da una ditta di pompe funebri.
Non ci sono più dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le rivendicazioni.

Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.
L‘endorsement di Obama al si di Renzi è infatti direttamente condizionato all’impegno militare italiano in Libia e in Lettonia.
Il no alla truffaldina riforma renziana è quindi anche un indispensabile no alla dissennata deriva neocoloniale.
Un no alla guerra.
Non a caso una delle modifiche, della quale il governo non parla, riguarda proprio l’articolo 78, che cambierebbe così:

  • «Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari».

Con l’Italicum, il partito che vince il ballottaggio ottiene automaticamente la maggioranza assoluta alla Camera, quindi sia il governo, che il potere esclusivo di dichiarare guerra indisturbato come un monarca assoluto.
Questo è un golpe di fatto, e deve essere fermato.

Per la prima volta da anni un nostro voto potrà davvero fare la differenza. E non certo per merito dell’attuale classe dirigente, è la Costituzione che vuole rottamare a prevedere questo obbligatorio passaggio referendario, un fail safe che Renzi non è riuscito ad aggirare, benché ci abbia provato col Patto del Nazareno.
Per la prima, e probabilmente ultima volta abbiamo l’occasione di scaraventare la Boschituzione – Coostituzione Boschi – nel cassonetto dell’indifferenziata al quale appartiene, e liberarci d’un governo di cazzari arroganti, incapaci, guerrafondai, completamente asserviti alla finanza internazionale e all’industria bellica, che è diventato anche fisicamente pericoloso.
Perdere questa occasione per noi sarebbe il vero suicidio.

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Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump – Seconda parte. https://www.carmillaonline.com/2016/10/03/non-ce-crisi-paradiso-paradossi-identita-classe-nellamerica-obama-trump-2/ Mon, 03 Oct 2016 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33570 di Fabrizio Salmoni*

usa-6 Può essere utile alla comprensione del quadro cultural-ideologico dell’ultraconservatore una breve rassegna di temi-chiave.

I sindacati: Ostacolano la volontà di lavorare, e, con le vertenze causano l’aumento dei prezzi o, nel caso peggiore, la delocalizzazione dell’azienda.

La solidarietà: Per portare a casa otto dollari all’ora, lavorando a turni e pregando di poter fare straordinari per poter pagare le bollette, in competizione con i colleghi o con gli immigrati, l’inevitabile conclusione è che ognuno è per sé.

Il lavoro: Piuttosto che perderlo, meglio pagare l’azienda perchè non se ne vada. [...]]]> di Fabrizio Salmoni*

usa-6 Può essere utile alla comprensione del quadro cultural-ideologico dell’ultraconservatore una breve rassegna di temi-chiave.

I sindacati: Ostacolano la volontà di lavorare, e, con le vertenze causano l’aumento dei prezzi o, nel caso peggiore, la delocalizzazione dell’azienda.

La solidarietà: Per portare a casa otto dollari all’ora, lavorando a turni e pregando di poter fare straordinari per poter pagare le bollette, in competizione con i colleghi o con gli immigrati, l’inevitabile conclusione è che ognuno è per sé.

Il lavoro: Piuttosto che perderlo, meglio pagare l’azienda perchè non se ne vada. Come è successo nel 2002 a Winchester, Virginia, dove la comunità e lo Stato hanno raccolto quasi 1 milione di dollari per convincere la Newell Rubbermaid a rimanere, a titolo di “assistenza all’espansione”. La Rubbermaid ha incassato, ringraziato “l’incrollabile etica del lavoro dei cittadini” e ha ridotto il personale1

L’ambiente: Al diavolo gli ambientalisti, noi dobbiamo lavorare. L’ecologia è una dottrina ingannevole dei liberals.

Lo Stato sociale: Roba da negri. Il principio peculiarmente americano della responsabilità individuale impone che ognuno conquisti il proprio benessere senza dover dire grazie a nessuno, tanto meno al governo e tanto peggio se non ci si riesce.Aspettarsi l’assegno di disoccupazione vuol dire che si è pigri, parassiti, non intraprendenti, inadatti alla competizione che è durissima, e che la miseria te la sei meritata. Lo dice anche Dio.

I pacifisti: Dei rompicoglioni. Chiunque impedisca di lavorare o impedisca all’America di prosperare, magari negando fonti energetiche o materie prime, che sia un bamboccio di Hollywood o Bin Laden, è da eliminare senza pensarci su troppo. Ci pensino i militari.

Le armi: Un diritto costituzionale più che mai innegabile specie ora che arrivano profughi e terroristi da ogni buco ad aumentare i pericoli della criminalità. E poi non sono le armi il problema ma solo quelli che non sanno usarle.

La cultura: E’ il bagaglio di nozioni che servono nella quotidianità a lavorare bene e a sopravvivere. Tutto il resto è manipolazione dei liberals: giornalisti, storici, sociologi, yuppies fanno quel che fanno perché sono liberal. E i liberals mentono, ingannano. Il progressismo non è un prodotto delle forze sociali ma è una dottrina che si muove secondo schemi tanto meccanici e rigidi da ricordare il comunismo.

Il cittadino Repubblicano non destruttura la letteratura post-moderna, non beve cabernet, non compra dai cataloghi di Abercrombie o Fitch, non beve il “latte” di Starbucks (il nostro latte macchiato) ma sa costruirsi la casa, allevare i propri figli, fare tutti i lavori manuali, riparare un motore, riconoscere un buon albero d’acero per farci lo sciroppo, sparare col fucile, adoperare una sega elettrica senza timori, coltivare un campo, bere birra e whiskey al pub. Diversamente dai liberals che “pensano di essere i più furbi“, che usano il sarcasmo su tutto quanto non riconoscono, che sostengono che tutto quanto è confusione ideologica e morale sia consapevolezza, che frequentano le università più esclusive americane ed europee dove imparano gli insegnamenti di Marx con cui indottrinano i giovani.

Il cibo: Prodotti del grano e carne, non importa se gonfiata e intenerita da Ogm, preferibilmente di selvaggina cacciata, pesce pescato, cucina semplice, casereccia, patate e fagioli, oppure tutto quanto ti sfama in fretta e in qualsiasi momento del giorno: il tempo è denaro non guadagnato. Solo i fighetti e gli alternativi, vegani o vegetariani, fanno shopping alimentare a Wholefoods.

I valori: Umiltà e semplicità, le verità del buon senso popolare dei “vecchi tempi”, di sempre, sono celebrati come veri e originali valori americani. L’autenticità è quella che unisce la gente comune e che distingue dai liberals falsi e ipocriti. Una persona vera è cortese, gentile e rifugge dal sollevare argomenti, come la politica, che possano mettere in imbarazzo gli interlocutori (salvo magari attivarsi per la propaganda locale e poi votare Repubblicano), è una persona che lavora duramente. Il frutto del lavoro è concreto: si può misurare in pounds, bushels (la misura di capacità per i cereali), numero di mattoni posati, di chiodi piantati, mentre i liberals sono burocrati e imbelli imbratta-carte che fanno di tutto aria fritta. E poi c’è il patriottismo, sostenuto sovente contro ogni evidenza quotidiana, che l’America è il Paese migliore del mondo, dove tutte le libertà, anche più estreme se non contraddicono la morale e la legge, sono ammesse, e di conseguenza non si accettano né interferenze né critiche né tanto meno minacce esterne che impediscano il naturale corso della scalata al benessere. E allora si benedicono i figli che vanno in Afghanistan o in Iraq e vederli tornare in una bara innalza soltanto l’orgoglio, lo spirito di sacrificio dovuto al Paese, la volontà di rivalsa estrema (“l’atomica contro i terroristi”). Gli ultraconservatori non negano la realtà ma ne creano una parallela funzionale alla loro abissale ignoranza e sono pronti ad accettare una svolta politica autoritaria basta che garantisca la benzina a basso prezzo e la possibilità di andare alle corse Nascar o alla partita di football, o di fare acquisti al Wal-Mart.

In economia, il cittadino Repubblicano è per il libero mercato, senza ostacoli o regole imposte da governo o da qualsiasi autorità “esterna”, anche quando la realtà gli si ritorce contro sotto forma di tagli allo stipendio, di precarietà, di perdita del lavoro, di aumento dei prezzi, “perché un’azienda ha tutti i diritti di fare i propri interessi“.

Messo tutto questo insieme non deve stupire che, per molti, un Barack Obama, Presidente nero che coltiva gli orticelli alla Casa Bianca, che promuove una riforma sanitaria offensiva per la responsabilità individuale, che favorisce le politiche ambientali, che è favorevole a una seppur blanda regolamentazione delle armi, all’aborto e ai matrimoni omosessuali, sia un elemento estraneo, non-americano, un socialista, la nefasta conseguenza della cultura liberal. Hillary Clinton è quasi peggio: rappresenta l’establishment, la falsità del potere, la burocrazia governativa, le minoranze non-americane, l’odiato welfare, l’interferenza del governo sulle libertà costituzionali.

Quali risposte dal Partito Democratico?

A giudicare dal livello e dalle scelte tematiche del dibattito di lunedi 26 e dalle sue premesse, la candidata Clinton ha fatto poco per differenziarsi dall’avversario e quello che non ha detto non ha fatto che confermare le mutazioni in corso nel suo Partito. Razza e genere sono temi rientranti nella categoria dei valori, argomenti, come abbiamo visto, su cui la destra ha occupato quasi pienamente il campo. Non è quindi un caso che le posizioni espresse dalla Clinton siano solo lievemente più nette di quelle di Trump parlando dei recenti omicidi polizieschi di cittadini neri: si è di fatto limitata ad appoggiare le richieste della comunità nera di Charlotte in rivolta di rendere pubbliche le riprese del fatto e a denunciare “il sistematico razzismo” contro i neri. Giusto per confermare indirettamente l’assunto che il Partito Democratico è il naturale riferimento per neri e minoranze. Il livello delle risposte di entrambi, alle orecchie degli elettori, non fa che ribadire sommessamente che dei neri e delle minoranze ai due partiti importa poco. Tanto meno del proletariato bianco.

Sono anni che il PartitoDemocratico va in direzione diversa da quella della propria storia per assorbire le fasce professionali di indirizzo progressista (il termine yuppie fu coniato nel 1984 per descrivere i sostenitori di Gary Hart), e per corteggiare élite culturali, corporation e grandi aziende capaci di contribuire generosamente alle campagne elettorali, molto più che i sindacati, base tradizionale del partito. Per tali fini, la strategia dei cosiddetti New Democrats si è rivolta al sostegno forte e convinto dei temi”ideologici” (per la libera scelta su aborto, omosessualità, razzismo, diritti civili in genere), i valori, e mettere da parte a loro volta le questioni economiche su cui con l’altra mano fare infinite concessioni: il welfare, il Nafta, le leggi sul lavoro, la flessibilità delle norme (deregulation), le privatizzazioni, le tasse, ecc. ritrovandosi su questo piano in piena sintonia con i Repubblicani. Il voto dei lavoratori? Si suppone che non abbiano altra scelta: il PD avrà sempre un piccolo margine di interesse per loro che non gli avversari. E poi, diciamocelo francamente, quale politico in un Paese che mette la corsa al successo in primo piano ha interesse ad essere la voce dei poveri? O di sindacati che ormai contano per il 9% nel settore privato. Quindi niente battaglie autolesioniste sui temi sociali: gli elettori andranno a istinto. I Repubblicani ringraziano. I poveri sono sempre più soli, abbandonati al consumismo selvaggio nella tempesta del libero mercato.

Ecco dunque come entrambi i partiti sono diventati veicoli degli interessi primari dei ricchi o della medio-alta borghesia. Una tendenza che sembra riguardare tutte le forze politiche dell’Occidente produttivo, che tritura definizioni esauste come destra e/o sinistra.

E Dio, che dice?

usa-4 Questo schematico ritratto del cittadino bianco, povero, Repubblicano, non sarebbe completo e non basterebbe a far capire quanto possa pesare sul piano politico senza considerare l’involucro ideologico-spirituale fornito dalle dottrine evangeliche.
Parliamo dell’altro grande paradosso americano: una nazione che ha sancito dalle origini la separazione dello Stato dalla Chiesa ma che è la più “credente” degli altri paesi moderni contemporanei. I sondaggisti attuali certificano che il 62% dei blue collars va regolarmente in chiesa e una quota tra un quarto e un terzo di loro si riconosce nella definizione di “born again christian“, cristiano ri-nato. Nel loro insieme, i fedeli delle varie congregazioni evangeliche sono nella quasi totalità bianchi e con grado di istruzione massima di diploma superiore. Il fondamentalismo religioso è diviso in molte correnti e con le elezioni del 2000 è venuto allo scoperto sul terreno elettorale giocando un ruolo fondamentale per l’elezione di George W. Bush. Da allora si sono ulteriormente rafforzati e non c’è candidato dei due maggiori partiti che non coltivi rapporti con qualche settore cristiano-militante.

I fondamentalisti, in ogni religione, sono per l’interpretazione alla lettera dei testi sacri e l’applicazione alla realtà della parola di Dio. Come in Iran, come in Israele, come per i musulmani jihadisti, tanto per fare esempi di attualità, i fondamentalisti cristiani americani si pongono l’obiettivo di uno Stato teocratico. Certi evangelici vorrebbero cancellare la Costituzione e instaurare la Legge della Bibbia, altri sono convinti che la Fine dei Tempi e le più cupe profezie bibliche si stiano avvicinando. Una fine dei Tempi iniziata con la fondazione di Israele e che dovrà compiersi con il ritorno del Messia ma solo dopo un’apocalisse, l’Armageddon. Per affrettarne i tempi sostengono di voler accelerare tale processo, favorendo l’occupazione totale dei “territori biblici” da parte di Israele, se necessario anche con una guerra nucleare in Medio Oriente. Per essi, chiunque si adoperi per la pace ritarda l’Avvento ed è strumento di Satana. La sola speranza per gli uomini è di accettare Gesù come salvatore personale.

In questa cornice, tutti i mali del mondo, le guerre, l’aids, la criminalità, il collasso ambientale sono piaghe capitali, i segni dell’avvicinarsi della desiderata Fine dei Tempi.
Si può immaginare quali possano essere le conseguenze politiche di un proselitismo su quelle basi, proselitismo più che mai attivo visto che, per esempio, Mike Spence, il candidato vicepresidente di Trump è uno di loro, come tanti altri politici a ogni livello di rappresentanza. Ci si può cominciare a preoccupare alla luce di una significativa aspettativa: Dio fornirà un leader cristiano per condurre il gregge americano, che diventerà il suo nuovo popolo eletto per estendere il vangelo a tutto il mondo e liberare la Terra dal Male 2

Il ramo dei “dispensazionalisti”, coloro che credono che gli eletti verranno “rapiti” e portati in cielo, invoca anche lo smantellamento di ogni tutela ambientale, perchè non ci sarebbe più bisogno di questo pianeta dopo il “Rapimento”.
La dottrina fondamentalista è consolatoria e gratificante per chi non possiede che il proprio lavoro perché esige gratitudine per quello che Dio elargisce, anche se poco, ma non disdegna il vile denaro per accrescere gli strumenti di proselitismo e la disponibilità personale dei pastori: Tom Anderson, un esempio tra i tanti, è il fondatore della Living Word Bible Church di Mesa, Arizona. La sua Chiesa conta oggi più di 8000 fedeli, un patrimonio di 10 milioni di dollari e cinque sedi in tutto lo Stato. Anderson è autore anche del best seller Becoming a Millionaire God’s Way (Diventare milionari seguendo la strada di Dio) in cui istruisce la gente dicendo che “la prosperità si raggiunge con Dio, con il duro lavoro e con investimenti ben calibrati“. Lui ha evidentemente investito nella sua congregazione perchè chiede a ciascun fedele una “decima” del proprio reddito. Se poi vogliono dare anche di più saranno certi di essere chiamati in Paradiso.

usa-5 Le chiese fondamentaliste si sono espanse con la fine della Guerra Fredda, con la sconfitta del Diavolo materialista. Hanno aperto Fondazioni, scuole, università private, si sono allargate all’estero (anche qui da noi), lavorando sottobanco, catalizzando contributi dall’odiato governo.3
L’obiettivo del cristiano militante è collocare sempre più credenti in posizioni di rilievo nello Stato e naturalmente ne hanno i mezzi e le capacità,4 tra cui quella di convogliare comunicazione alternativa, quella che semplifica ogni argomento con concetti facili da acquisire che alimenta a sua volta il risentimento verso i saccenti intellettuali liberal.

Paradossalmente, ancora, la tensione mistica è al massimo nell’America di oggi, con il suo carico di tensioni millenaristiche e di ansie per la sopravvivenza quotidiana per i bianchi poveri, proprio quando la crisi sancisce la vittoria completa delle corporation, del capitalismo sfrenato. Tra i proletari bianchi5 c’è una rabbia compressa, un odio palpabile verso tutto ciò che è ritenuto snob, elitario, figlio degenerato della società urbana, superfluo, estraneo ai principi ed allo spirito originari americani, che è difficile dire quali sbocchi possa avere. La cattiva politica, i politicanti senza scrupoli ma anche l’ignavia dei progressisti che, arroccati nel nord est e tra le minoranze non vedono la pancia del Paese e ballano sul ponte del Titanic, hanno prodotto un capovolgimento di fronte nelle classi basse che rischia di produrre scenari drammatici per tutti. E’ bene esserne consapevoli.

stanlio-e-ollioSe poi qualcuno volesse trovare in quanto sopra descritto qualche similitudine con processi in corso anche da noi, troverebbe qualche ragione in più per preoccuparsi.

*Master in Studi Americani all’Università del Texas

(Finela prima parte è stata pubblicata su Carmilla sabato 1 ottobre)


  1. Joe Bageant. Deer Hunting with Jesus. Dispatches from America’s Class War, 2006, Crown Group  

  2. Joe Bageant, ibidem  

  3. Il 7% degli stage di lavoro offerti dall’amministrazione Bush è andato al Patrick Henry College di Purcellville, Virginia, un college che offre programmi di intelligence strategica, diritto e politica estera secondo una rigida visione cristiana del mondo. Il risultato è la collocazione della cultura mainstream e dell’istruzione nel recinto delle opzioni.  

  4. Un esempio significativo: sempre durante l’amministrazione Bush jr., l’attivista della destra cristiana Kay Coles James, ex presidente della Regent University del pastore Pat Robertson, è stata nominata direttore dell’Ufficio per gestione del personale del governo. 

  5. Circa il 60% degli americani secondo una stima governativa del 2006, pre-crisi, che però usa il criterio del grado di istruzione non del reddito, contando come istruzione superiore anche le scuole professionali.  

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