banlieu – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La nostra guerra civile quotidiana: Athena https://www.carmillaonline.com/2022/10/12/una-tragedia-per-la-nostra-guerra-civile-quotidiana/ Wed, 12 Oct 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74272 di Sandro Moiso

«Guardate il dio incatenato e doloroso, il nemico di Zeus, il detestato da tutti gli dei, perché amò i mortali oltre misura» (Prometeo incatenato, Eschilo)

La guerra in Ucraina e, soprattutto, la disinformazione e la propaganda bellicista che la circondano sembra averci fatto dimenticare che in realtà una guerra altrettanto sfiancante e spietata percorre le strade e i quartieri periferici delle metropoli occidentali. Una guerra di classe tra lo Stato e i settori più disagiati della società che, ormai, non possono nemmeno più identificarsi collettivamente come “classe [...]]]> di Sandro Moiso

«Guardate il dio incatenato e doloroso, il nemico di Zeus, il detestato da tutti gli dei, perché amò i mortali oltre misura» (Prometeo incatenato, Eschilo)

La guerra in Ucraina e, soprattutto, la disinformazione e la propaganda bellicista che la circondano sembra averci fatto dimenticare che in realtà una guerra altrettanto sfiancante e spietata percorre le strade e i quartieri periferici delle metropoli occidentali. Una guerra di classe tra lo Stato e i settori più disagiati della società che, ormai, non possono nemmeno più identificarsi collettivamente come “classe operaia”. Ce lo ricorda, però, con forza il magnifico film Athena di Romain Gavras, prodotto e distribuito da Netflix, e co-sceneggiato con Ladj Ly già regista dell’altrettanto bello «Les Misérables».

La prima osservazione, la più semplice da fare, è che i giovanissimi protagonisti del film di Ladj Ly sono cresciuti, esattamente dello stesso numero di anni trascorsi tra quello (2019) e il film attuale (2022), e che la situazione di scontro e odio sociale in Francia, e nel resto delle periferie delle metropoli occidentali, non è affatto migliorata, anzi…

La trama prende le mosse dall’uccisione, dopo un alterco, di un giovanissimo ragazzo di origini nordafricane, Idir, ad opera di un commando vestito con le divise della polizia. Quando però il film inizia l’omicidio è già avvenuto e i rappresentanti delle forze dell’ordine cercano di rassicurare una folla preoccupata e nervosa e uno dei fratelli, Abdel (interpretato da Dali Benssallah), militare e veterano decorato delle guerre neo-colonialiste francesi nel Mali.

Il lancio di una molotov di un altro fratello più giovane, Karim (interpretato da Sami Slimane), è il segnale per un assalto al commissariato da parte dei giovani abitanti del quartiere ghetto di Athena.
Durante il quale gli assalitori riescono a portare via armi, mezzi, divise e caschi degli agenti, prima di ritirarsi tra le “mura” del ghetto. Da quel momento si dipana una autentica tragedia, ispirata sia a quella greca che a quelle shakespeariane.

Narrata per mezzo di lunghi piani sequenza in cui lo spettatore si trova coinvolto negli eventi, senza il tempo necessario per riflettere o decidere cosa sia effettivamente meglio fare, l’opera di Romain Gavras (classe 1981), figlio del regista Costa-Gavras e già autore di controversi e violente videoclip musicali e del lungometraggio Le monde est à toi (2018) oltre che di Our Day Will Come (Notre jour viendra) del 2010, si ispira infatti esplicitamente alla tragedia greca. Come ha affermato lo stesso regista:

Da sempre, sono ispirato dalla tragedia greca. Mi affascinano il suo significato metaforico, l’unità di tempo e il modo di trascendere la realtà. Era mio desiderio avvicinarmi a questo metodo di narrazione per tradurlo in immagini e creare una coinvolgente esperienza cinematografica.
Athena è una storia familiare ma racconta anche una storia più ampia: la forma della tragedia greca era quindi essenziale […] Crea l’impressione di svolgersi in tempo reale: come i personaggi in scena, neanche gli spettatori avranno il tempo di pensare. Sperimenteranno l’intensità del momento e lo vivranno a pieno. Il film abbraccia l’epico e il personale. […] Non ho paura dell’eccesso, dello spettacolo e della potenza delle immagini.

La funzione svolta dal coro nella tragedia greca viene qui svolta proprio dall’intensità e dal ritmo delle immagini che coinvolgono lo spettatore e lasciando allo stesso, se ne avrà il tempo, la possibilità di decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato nella sequenza degli avvenimenti.
Non tentano regista e co-scenggiatore, come era gia anche avvenuto con Les Misérables (recensito qui su Carmilla), di descrivere sociologicamente i fatti; quel che conta è penetrare all’interno dell’intreccio di sentimenti, passioni, interessi famigliari, di classe, criminali e istituzionali attraverso la rappresentazione “epica” e realistica allo stesso tempo dei fatti. Fatti sovra-determinati sì dalla situazione sociale, economica e politica delle banlieu francesi, ma allo stesso tempo guidati dalla hybris dei singoli protagonisti che, più che dar vita ad un’unica figura di eroe, mostrano le molteplici e disperate sfaccettature dello stesso. Inevitabilmente destinate tutte, come in Eschilo, alla sconfitta.
Un eroe, se si vuole, antico, tormentato dal dubbio e dal dolore oppure vinto dalla sua stessa superbia. Come nel caso di un altro dei fratelli, Mokthar (interpretato da Ouassini Embarek), che, pur colpito dalla perdita del fratello più piccolo, è interessato a perseguire i propri interessi criminali più che a essere partecipe della rivolta e della vendetta.

Toccherà a Abdel e, soprattutto, a Karim essere l’incarnazione metropolitana di Prometeo. Portatori del fuoco della violenza e della rivolta più che della conoscenza. Comunque e sempre incerta e tradita. Eroi orgogliosi e primordiali, annullati e azzerati dai fatti, lontani dall’immagine dell’Io borghese che troppo spesso accompagna le rappresentazioni degli stessi in altri contesti.

Le trame sfuggono di mano, le idee si confondono, le scelte sono dettate dal caso e dal momento, mentre l’unico che sembra perseguire una sua strategia di distruzione, pur fingendosi demente, è il militante radicale islamico. Unico ad essere lucidamente conscio del proprio e dell’altrui destino.
Mentre sullo sfondo della trama e dell’inconscio dei personaggi aleggia la figura di una Mater dolorosa magrebina che fin dai primi istanti sembra sapere che le sue sofferenze non solo non sono ancora terminate, ma destinate ad aumentare.

Un film lontano da ogni buonismo e da qualsiasi rigurgito ideologico che, pur poco o nulla pubblicizzato sui canali televisivi italiani durante l’ultima Mostra dell’arte cinematografica di Venezia di cui l’unica cosa che sembrava interessare erano le presenze delle star sul red carpet, proietterà tutti gli spettatori nelle contraddizioni, ineludibili e insanabili, di una società occidentale che si pretende ancora stabile, benestante e democratica. Riassunte tutte in un sintetico dialogo tra Abdel e la sorella, un attimo prima che la situazione precipiti:

«Qual è il tuo problema? Ti piace ancora obbedire agli ordini?»
«E’ meglio che non ci sia la guerra, specialmente qui.»
«Ma non capisci che è già cominciata la guerra?!»

(Qui il trailer originale del film)

]]>
I don’t live today / 2: la guerra delle periferie https://www.carmillaonline.com/2020/08/26/i-dont-live-today-2-la-guerra-nelle-periferie/ Wed, 26 Aug 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61580 di Sandro Moiso

E’ uno dei migliori film francesi da anni a questa parte, ma è impattato nell’emergenza da Covid-19, che ne ha quasi impedito la distribuzione e la circolazione nelle sale italiane. I miserabili del regista, attore e sceneggiatore francese Ladj Ly ha vinto il premio della giuria per l’edizione del 2019 del Festival di Cannes, ma non è certo solo per questo motivo che sarà ricordato a lungo.

A quasi un quarto di secolo di distanza da La haine (L’odio) di Mathieu Kassovitz, che nel 1995 vide esplodere sugli schermi [...]]]> di Sandro Moiso

E’ uno dei migliori film francesi da anni a questa parte, ma è impattato nell’emergenza da Covid-19, che ne ha quasi impedito la distribuzione e la circolazione nelle sale italiane. I miserabili del regista, attore e sceneggiatore francese Ladj Ly ha vinto il premio della giuria per l’edizione del 2019 del Festival di Cannes, ma non è certo solo per questo motivo che sarà ricordato a lungo.

A quasi un quarto di secolo di distanza da La haine (L’odio) di Mathieu Kassovitz, che nel 1995 vide esplodere sugli schermi non solo l’eccezionale interpretazione di Vincent Cassel ma anche la rivolta delle banlieu parigine, che proprio a metà degli anni Novanta avevano cominciato a segnalare la non vivibilità delle condizioni sociali delle cosiddette città satellite che circondano la capitale francese e il germe dell’insurrezione spontanea tra i giovani immigrati di seconda e terza generazione, il film ispirato dal titolo dell’opera principale di Victor Hugo ci riporta in quegli spazi tracciandone una topografia socio-economica e politica aggiornata e severa.

Una topografia i cui confini di classe, etnici, religiosi e di appartenenza politica finiscono col determinare una stratificazione sociale complessa di cui le dicotomie francese-non francese, bianchi-neri, islamici-cristiani, ricchi-poveri, legge-fuorilegge costituiscono soltanto alcuni elementi del tutto e non risolvono di per sé la totalità dei problemi che derivano da una difficile convivenza ordinata secondo le leggi della società capitalistica e mercantile. In cui, troppo spesso, diritti aleatori sembrano sostituirsi a ben più concreti e mai pienamente soddifatti bisogni.

Quasi 25 anni, si diceva prima, e dieci anni di età separano i due film e i due registi (52 anni per Kassovitz e 42 per Ladj Ly), ma le condizioni denunciate all’epoca non sono affatto cambiate né, tanto meno, migliorate. L’impoverimento delle periferie e la disgregazione sociale della Francia non si sono fermate, mentre l’unico elemento coesivo sembra essere affidato soltanto ai risultati della nazionale di calcio. Ben poca e pallida cosa per tener insieme un paese in cui gli immigrati di prima, seconda e terza generazione costituiscono poco più di un quinto della popolazione su scala nazionale, ma una fetta ben più ragguardevole nella e intorno alla sua capitale, la cui area urbana conta oggi quasi 13 milioni di abitanti.

Mentre in tutte le altre regioni, come ha ben dimostrato il movimento dei Gilets Jaunes, buona parte della popolazione autoctona non riesce a coniugare le esigenze quotidiane di vita con il guadagno contenuto nella busta paga oppure del lavoro in proprio a fine mese.
Una realtà in cui lo Stato ha progressivamente smesso di intervenire come strumento di mediazione e contrattazione per assumere sempre di più la funzione di strumento della repressione, armata e violenta.

Ed è intorno ad una squadra della brigata anti-crimine della polizia di Stato di Montfermeil, in azione nella banlieu 93, che si articolano le vicende che si svolgono nel film.
La zona è proprio quella del quartiere di Cherbourg in cui già si svolgevano i fatti del romanzo di Hugo, con la differenza che oggi le Cosette e i Gavroche sono quasi tutti di pelle scura e di religione islamica.

Qui lo Stato centrale assume i volti duri o sfatti degli agenti che pattugliano incessantemente le vie, mentre il governo dei fermenti e delle contraddizioni, oltre che del crimine spicciolo, è condiviso da questi con le varie forme di organizzazione, politica o criminale, che si dividono e contendono il territorio: Fratelli mussulmani, mafie africane e turche e gang Rom. Un autentico caleidoscopio di interessi contrapposti che pacificano, a suon di violenze oppure di lusinghe, le fiamme della rivolta o dell’iniziativa autonoma che covano sotto la cenere, soprattutto tra i più giovani.

Più giovani che, nel film e nella realtà, sono ormai distanti per età anche dai protagonisti del film di Kassovitz e che sono perlopiù bambini e pre-adolescenti. I più grandi potranno avere, sì e no, quindici anni e si vedono costretti a muoversi tra repressione famigliare, religiosa e mafiosa anche solo per promuovere le attività più semplici della loro età: giocare, scherzare, sfidare la sorte in gruppo o individualmente. Maneggiare un drone per divertimento oppure compiere qualche piccolo furto che ha più le sembianze del dispetto o dello scherzo che non quello del piccolo crimine. Oppure, ancora, fumare uno spinello per strada.

L’occhio vigile della polizia però, alleato con quelli dei Fratelli mussulmani, della mafia locale e della malavita organizzata, è sempre in agguato. Pronto a individuare e a reprimere, talvolta con violenza estrema e altre volte con paternalismo, ogni iniziativa, ogni sprazzo di vitalità ribelle che possa venire dagli ultimi arrivati (soprattutto per età). In un’opera che, senza un briciolo di retorica o di sentimentalismo, oltre a rendere oggi quasi più ‘leggere’ le vicende narrate dal film di Kassovitz, sembra voler ampliare il discorso sulle nuove generazioni, magari emarginate ma non per questo marginali, cresciute in un clima di incertezza, noia e violenza condannato a produrre soltanto paura, rancore e vendetta, destinate a diventare, anche inconsapevolmente, le affossatrici di un ordine sociale ormai da lungo tempo caduto in pezzi. Come già aveva anticipato, pur in un differente contesto, James Ballard nel suo romanzo Un gioco da bambini (Running Wild) nel 1988.

E’ l’immagine di un conflitto, di una guerra strisciante che può però esplodere in guerra combattuta con tutti i mezzi possibili (dai flashball degli agenti, alle mazze delle gang fino alle pietre, i fucili ad acqua, i petardi e le molotov maneggiate dai ragazzini) in qualsiasi momento della giornata. Magari a partire da episodi futili e facilmente risolvibili. Se non fosse che ormai ognuno di quegli elementi costituisce indissolubilmente un anello di quella guerra civile in cui da anni siamo ormai tutti inconsapevolmente coinvolti. In un mondo in cui è la vita con le sue esigenze più scontate ad essere diventata impossibile e che ci trasforma tutti quanti, immigrati e non, agenti delle forze polizia e giovani ribelli senza causa, lavoratori e disoccupati, marginali e membri delle gang, nei nuovi miserabili.

Il magnifico film e e i suoi magnifici giovani e giovanissimi interpreti sono lì a dimostrarcelo, contribuendo così ad aprire gli occhi anche dei più ciechi.

N.B.
Vale la pena di segnalare ancora che nell’edizione in dvd del film, distribuita in Italia da Lucky Red, è allegato il breve e intenso cortometraggio dallo stesso titolo realizzato da Ladj Ly nel 2017 con gli stessi attori nei panni dei tre agenti.

]]>
Il conflitto sociale che viene, tra guerra e populismo https://www.carmillaonline.com/2017/03/16/conflitto-sociale-viene-guerra-populismo/ Wed, 15 Mar 2017 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37052 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00

quadrelli-sulla-guerraOggi la guerra non è più una tendenza bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)

Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00

quadrelli-sulla-guerraOggi la guerra non è più una tendenza bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)

Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate alla presenza militare della Nato nei Balcani, soltanto per citarne due dei più interessanti.

Ne ho sempre apprezzato la ricerca militante unita ad una passione che è raro trovare persino nel pensiero antagonista e di sinistra. Non sempre ho completamente condiviso i presupposti teorici ed ideologici2 su cui basa le sue analisi, ma ho comunque sempre ritenuto le sue narrazioni e proposte un buon punto di partenza per discutere delle contraddizioni del presente e delle prospettive della società e delle lotte di classe in questa fase di senescenza dell’imperialismo occidentale.

Tale impressione mi è stata confermata dal testo edito di recente dalla Red Star Press che affronta, senza mezzi termini, il problema della guerra in cui siamo già immersi. Anche se, troppo spesso, molti sembrano non essersene ancora accorti.
Su tale problema Quadrelli spende parole sintetiche e prive di dubbi fin dalle prime righe: “Il mondo è nuovamente in guerra. La crisi sistemica cui è giunto il modo di produzione capitalista non sembra avere altra via di uscita se non quella di un’immane distruzione di capitale variabile e capitale costante. Come le due guerre mondiali novecentesche sono lì a testimoniare, solo distruggendo il capitalismo può dare vita ad un nuovo ciclo di accumulazione. Il ricorso alla guerra, pertanto, diventa la soluzione non solo possibile ma necessaria”.3

Mentre i media e i governi continuano a coltivare l’illusione che il modo di produzione capitalistico abbia superato le sua contraddizioni più violente e che la guerra generalizzata sia soltanto un brutto ricordo, di cui i conflitti attuali non costituiscono che un riflesso, in una società destinata a durare in eterno, l’autore ci ricorda che la guerra costituisce l’anima dell’imperialismo, sia nella sua forma finanziaria e commerciale che in quella guerreggiata. Non un errore da correggere, ma l’essenza del suo divenire e della sua sopravvivenza.

Quanto la triade crisi-guerra-ricostruzione sia, oggi, un semplice dato di fatto è sotto gli occhi di tutti. Il mondo è già in guerra e la generalizzazione di questa una possibilità che sembra darsi dietro ad ogni angolo. In ciò vi è ben poco di soggettivo. La guerra non è il frutto di qualche folle «volontà di potenza» bensì il sobrio approdo di un processo oggettivo che nessuno è in grado di controllare. La borghesia imperialista la quale, aspetto che non deve mai essere ignorato, è l’agente «fenomenico» di forze storiche materiali e oggettive di cui incarna le funzioni senza, però, governarle coscientemente, precipita dentro la guerra non diversamente da come piomba nella crisi.4

sulla guerra 1 I nove saggi che costituiscono il volume, di cui quattro scritti con Giulia Bausano, intorno al discorso della guerra che viene, ne costruiscono però un altro, più articolato, che non esamina soltanto i moventi oggettivi del conflitto, ma, e soprattutto, le forme politico-sociali e militari che gli attori devono darsi per affrontarlo e le loro possibili ricadute sulla lotta di classe e la sua organizzazione, autonoma ed insorgente, che potrebbe derivarne.

Da qui la particolare attenzione che Quadrelli riserva sia alla diffusione della militanza islamica radicale, tanto nel Medio Oriente che nelle metropoli imperialistiche, e allo scontro militare che ne deriva, sia alla rinascita dei movimenti populisti negli stati occidentali e alle ragioni della loro affermazione. In tutti e due i fenomeni, che l’autore non esita a ricollegare al neo-imperialismo arabo (il primo) e ad una più moderna riproposizione del fascismo degli anni Venti e Trenta (il secondo), è però già possibile ravvisare una manifestazione di contraddizioni di classe insolute che, in riferimento ad alcune opere di Karl Marx ed Friedrich Engels, possono essere definite come “gemito degli oppressi”.5

Per quanto riguarda il primo, l’autore afferma:”Nel campo dell’imperialismo arabo-fondamentalista sono presenti masse proletarie e subalterne attratte dalle retoriche «anticoloniali» che questo imperialismo sfrutta in maniera intelligente e che, questo il punto, poggiano su contraddizioni reali e materiali […] Bisogna comprendere, cioè, che nella relazione crociato-colono a essere determinante per i combattenti islamici è l’aspetto coloniale che il crociato riveste e che lo «scontro di civiltà», nel mondo contemporaneo, non è altro che una forma alienata di un conflitto politico che affonda le sue radici nelle contraddizioni materiali prodotte dal sistema imperialista6

Quindi, facendo riferimento alle personali conoscenze dovute alle sue precedenti indagini e ricerche condotte sulle banlieues parigine, può ricollegare la militanza islamica radicale alle trasformazioni della condizione della classe avvenute nelle metropoli occidentali, in cui illegalismo e attività precarie costituiscono il cuore di una condizione materiale di sopravvivenza, e di rabbia, in cui sono state fatte sprofondare milioni di persone. Di entrambi i sessi.

Proprio parlando degli attentatori di Charlie Hebdo e del susseguente attacco ad un piccolo supermercato nel quartiere ebraico di Parigi, l’autore può rilevare che: “I tre provengono da quei mondi sociali dove attività legali ed illegali si intrecciano in permanenza in quella complessa e variegata articolazione a cui è approdata “la giornata lavorativa” di quote non secondarie di forza lavoro globalizzata in basso, i cui numeri cominciano a essere particolarmente consistenti anche dentro le metropoli imperialiste europee […] Lì, in aperta contrapposizione al nulla nichilista dei territori metropolitani, l’Islam politico ha buon gioco nell’offrire un’identità forte, una prospettiva di vita, un obiettivo storico/politico a quote di popolazione alle quali, il capitalismo globale, non riserva altro che un’esistenza prossima al servaggio”.7

Citando un autore cui fa più volte riferimento Quadrelli nel corso dei suoi scritti, si potrebbe affermare che cogliere appieno le contraddizioni di classe e della Storia “non è possibile se non nello spazio vuoto e popolato, al tempo stesso, di tutte quelle parole senza linguaggio che fanno udire a chi tende l’orecchio un rumore sordo che proviene da sotto la storia, il mormorio ostinato di un linguaggio che dovrebbe parlare da solo: senza soggetto parlante e senza interlocutore”.8

E’ nel silenzio delle periferie e del malessere privato della parola e della possibilità di esprimersi, anche e soprattutto dalla sinistra istituzionale, che occorre infatti individuare le radici profonde della rabbia e delle rivolte che verranno. Con modalità e manifestazioni inaspettate e talora, come nel caso del radicalismo islamico o dei populismi, stravolte nella loro intima essenza.
Deviate dall’”affermarsi di un modello dove non esiste più alcun collante collettivo. Anzi, a essere rimossa, come nella nota asserzione di Margaret Tatcher – «La società non esiste» – è l’esistenza stessa dei mondi sociali. Palesemente ciò che emerge è il venir meno di qualunque retorica incentrata sulle masse. Queste spariscono dalla scena storica. Per il potere imperialistico non esistono più.9

Accade così, paradossalmente, che le masse giovanili espropriate di qualsiasi diritto delle banlieues e gli operai timorosi di perdere il lavoro, oppure che già l’hanno perso,10 finiscano col proiettare il loro scontento, nella totale assenza di una sinistra capace di rappresentarli, su forme di organizzazione politica e all’interno di proposizioni ideologiche tra di loro soltanto specularmente rovesciate: il radicalismo islamico e il populismo. Entrambi nazionalisti ed identitari su basi non classiste. Entrambi prodotti da borghesie già avviate ad una deflagrazione bellica mondiale in cui il ruolo partecipativo delle masse tornerà ad essere decisivo. Sia durante che dopo. Con buona pace di coloro che dell’esclusione delle stesse dalla partecipazione attiva avevano fatto uno degli obiettivi prioritari del liberismo sovranazionale di cui la Tatcher sintetizzava così chiaramente il pensiero e l’attitudine.

sulla guerra 2 Gabbie autentiche in cui il moderno proletariato delle suddette metropoli è paradossalmente tornato alle condizioni di partenza del XVIII secolo11 grazie alla globalizzazione produttiva, ma anche alla progressiva perdita della propria identità di classe dovuta a decenni di illusorio “benessere” e di campagne di ricomposizione ideologica condotte dalle forze sindacali e delle sinistre istituzionali.

Una trasformazione passata anche attraverso una riformulazione in chiave individualistica dei rapporti di lavoro di cui i giuslavoristi, come ben individua Quadrelli,12 portano una significativa responsabilità. Anche se “Centrale, in tutto ciò, è la liquidazione di tutta una procedura formale, fondata sui resti di un modello di rappresentanza politica, sostituita attraverso la «messa in scena» della comunicazione diretta del leader con il popolo”.13
Forma di comunicazione che, se è servita in tempi di liberismo trionfante ad annullare la “società” in quanto insieme di organi rappresentativi, oggi fonda il populismo trionfante che, in tempi di crisi e di tendenza esplicita alla guerra, deve illudere masse de/classate di essere nuovamente protagoniste del proprio destino.

Il Movimento 5 Stelle sotto tale aspetto è esemplificativo, acquista consensi e organizza quote di popolazione, per lo più subalterne, a partire da un programma sociale all’interno del quale vi è tutto e il contrario di tutto” così, prosaicamente “i movimenti populisti di destra si occupano di negozi che chiudono, di mercati rionali che spariscono, di officine che abbassano le serrande, di fabbriche che cessano la produzione, di case che mancano, di pensioni insufficienti, di degrado e insicurezza urbana e di lavoro che non c’è. I politici, i potenti in generale, le banche, le multinazionali sono individuati come i soli e veri responsabili della crisi e, in virtù di ciò, identificati come gli elementi antinazionali e antipopolari di cui occorre sbarazzarsi”.14

Insomma, non diversamente dai riformisti di un tempo, il populismo “coltiva e propaganda l’illusione di un capitalismo buono contro un capitalismo cattivo”.15
Immagine tutta interna, però, alle differenti forze imprenditoriali ed imperialistiche che nella loro lotta a livello nazionale ed internazionale si preparano a ripartirsi, ancora una volta sui campi di battaglia, la ricchezza socialmente prodotta.
Un grande gioco in cui la “nazionalizzazione” delle masse torna ad essere un elemento portante, ma che, per altri versi, potrebbe condurre ad effetti destabilizzanti e indesiderati per la classe al potere ed insperati, in prospettiva, per la lotta di classe.

Ancora inconsapevole, almeno in parte qui in Europa,16 di questo suo indubbio fine storico, il populismo “volta per volta fornisce, senza alcun problema di coerenza, risposte apparentemente forti e risolutive alle domande che i vari segmenti di subalterni o di borghesia in piena decadenza gli pongono. La sua vera forza e capacità, tuttavia, non consiste in questa sorta di equilibrismo permanente bensì nel saper convogliare tutte le istanze provenienti dal basso verso un nemico”.17 Esattamente come il radicalismo islamico sa fare.

La negazione della dialettica amico/nemico o, perlomeno, lo spostamento del suo significato su altri piani (per esempio quello dei diritti umani generici e privati di qualsiasi caratteristica di classe oppure l’”educazione alla legalità”), è stato lo strumento essenziale per disarmare i lavoratori e le classi subalterne del loro pieno diritto all’odio nei confronti del modo di produzione capitalistico che continua a devastare le loro vite e l’ambiente in cui vivono.18 Mentre questa è tornata oggi ad essere maneggiata da segmenti di borghesia in chiave bellicista, razzista e giustizialista.

Pertanto, e qua la cosa si fa interessante, l’emergere del populismo indica il passaggio da una forma politica ad un’altra […] Ovviamente le rotture storiche che permettono l’affermarsi del populismo da un lato, insieme al decisionismo che immancabilmente si porta appresso, intervengono dentro contesti determinati e ogni volta assumono forme e aspetti diversi19
Occorre che le contraddizioni economiche e politiche tra le borghesie imperialiste stesse siano giunte al punto da far sì che “le stesse classi dominanti mostrino segni di insofferenza verso il proprio ceto politico.20 Deve cioè prodursi un corto circuito tra tutte le classi sociali e gli istituti e i partiti politici chiamati a rappresentarle […] Perché il populismo sortisca un qualche effetto occorre che i subalterni non si riconoscano più dentro determinati vincoli e forme di rappresentanza e che, al contempo, quegli stessi vincoli si mostrino superati e inadeguati per le medesime classi dominanti”.21 Cosa che l’attuale crisi delle istituzioni e dei vincoli europei comincia a dimostrare piuttosto bene.

La sinistra, non solo istituzionale, sembra non saper cogliere pienamente i segnali che giungono in tal senso e neppure quelli provenienti dalle rivolte, anche se ancora sporadiche, delle periferie.
Nel momento in cui la banlieu è insorta, la sinistra bianca, la quale detto per inciso a quei territori è del tutto estranea, ha catalogato quell’insorgenza come insorgenza degli esclusi e degli emarginati nell’accezione classica che questa comporta. Non si è resa conto, cioè, che quella marginalizzazione non era il frutto di residui sociali del passato, non era eccedenza (tanto per usare un termine caro alla sinistra intellettuale) ma la prosaica materializzazione di un proletariato moderno, filiazione diretta delle punte più avanzate del modello capitalistico, Quel soggetto sociale rappresentava la storia del nostro futuro non la storicizzazione del nostro passato. Quella condizione marginale era l’esatta configurazione di gran parte della forza lavoro del presente. Con questa forza lavoro, palesemente, la sinistra bianca non vuole avere a che fare o, meglio, non vuole avere a che fare su un piano di parità. Ciò è diventato palese quando, nel 2006, nelle lotte degli studenti universitari e liceali contro le riforme del lavoro prospettate dal governo, universitari e liceali hanno volutamente cercato di tener fuori i coetanei dei tecnici e i banlieusards in generale”.22

Lo stesso atteggiamento discriminante caratterizza oggi la sinistra istituzionale nei confronti di un movimento come quello NoTav, accusato di essere localistico, primitivo, arretrato e antiquato quando, invece, può rappresentare un valido modello per l’organizzazione futura delle lotte.
Su tutto questo invita e induce a ragionare il testo di Quadrelli, ma non certo per il gusto della conoscenza e dell’astrazione. Al termine l’obiettivo non può infatti essere altro che quello della definizione, teorica e pratica, di quella che dovrà essere l’organizzazione destinata ad aiutare la storia a partorire una nuova comunità umana, libera dal capitale e dallo sfruttamento dell’uomo e della natura.


  1. Emilio Quadrelli su Alias del 13 gennaio 2007 e 3 febbraio 2007  

  2. Ad esempio Togliatti, Dimitrov e il concetto di “Grande guerra patriottica” solo per citare alcuni di quelli presenti nel testo  

  3. pag. 7  

  4. pag. 38  

  5. Il riferimento di Quadrelli è a K.Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel e F. Engels, La guerra dei contadini in Germania  

  6. pp. 58-59  

  7. pp. 35-36  

  8. Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Prefazione alla prima edizione del 1960  

  9. pag. 49  

  10. Si veda ad esempio, sul rapporto tra paure operaie e successo lepenista in Francia, Anais Ginori, Gli operai di Marine: nella Lorena tradita da Parigi ora le fabbriche votano Le Pen, La Repubblica 4 marzo 2017  

  11. Si vedano: E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1969; Dario Melossi e Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo), Quaderni della rivista “La questione criminale” – n° 1, Società editrice il Mulino, Bologna 1977 e Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1982  

  12. nota a pag. 18  

  13. pp. 18 – 19  

  14. pp. 21-23  

  15. pag. 23  

  16. Trump e le forze economiche che lo sostengono sono molto più consapevoli del proprio progetto politico  

  17. pag. 26  

  18. Un ulteriore esempio di ciò può essere costituito del discorso alla Camera con cui Fausto Bertinotti rifiutò apertamente la logica amico/nemico in nome di un superiore interesse nazionale  

  19. pag.17  

  20. Sicuramene oggi tra imprenditoria legata alla piccola e media industria e partiti rappresentativi del capitale finanziario qualche screzio c’è, considerati anche i pessimi risultati della produzione industriale italiana; come si può vedere nel più recente studio dell’ISTAT http://www.repubblica.it/economia/2017/03/13/news/istat_produzione_industriale-160428547/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P7-S1.6-T1 oppure come mostra ancor meglio la crisi di Confindustria e del suo “autorevole” quotidiano: http://www.huffingtonpost.it/2017/03/13/sole_0_n_15341040.html?utm_hp_ref=italy  

  21. pag.16  

  22. pp.71-72 Senza poter escludere che proprio al Bataclan alcuni dei differenti attori di quelle manifestazioni non si siano poi ancora ritrovati sui lati opposti dell’attentato  

]]>
Verrà l’Islam e avrà i tuoi occhi https://www.carmillaonline.com/2015/11/25/verra-lislam-e-avra-i-tuoi-occhi/ Wed, 25 Nov 2015 21:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26759 di Rinaldo Capra

verrà l'islam La comunicazione di tutti i media – TV, social, stampa, Radio, ecc.- dopo il 14 Novembre è straordinariamente uniforme, monolitica: è un atto di guerra. Lo scontro è di civiltà, e la compassione caritatevole, la solidarietà umana è a senso unico, nessun dubbio e nessuna incertezza. Per i militanti della guerra all’Islam l’identità è tutto, e non esitano ad arruolare tutta la comunicazione di massa per sfruttare e all’occorrenza falsificare ogni singola fotografia, ogni singolo video, ogni singola testimonianza. Per la “nostra” comunicazione occidentale l’identità nazionale, cristiana, “democratica” lo è altrettanto. Prima di tutto scontro di [...]]]> di Rinaldo Capra

verrà l'islam La comunicazione di tutti i media – TV, social, stampa, Radio, ecc.- dopo il 14 Novembre è straordinariamente uniforme, monolitica: è un atto di guerra. Lo scontro è di civiltà, e la compassione caritatevole, la solidarietà umana è a senso unico, nessun dubbio e nessuna incertezza. Per i militanti della guerra all’Islam l’identità è tutto, e non esitano ad arruolare tutta la comunicazione di massa per sfruttare e all’occorrenza falsificare ogni singola fotografia, ogni singolo video, ogni singola testimonianza. Per la “nostra” comunicazione occidentale l’identità nazionale, cristiana, “democratica” lo è altrettanto. Prima di tutto scontro di immagine identitaria dunque.

Non c’è giornalista o testata che non celebri l’orrendo rituale della reiterazione dell’orrore e della paura senza soluzione di continuità e indifferente al senso del limite. Video bui, mossi e con spari scorrono inarrestabili in tutte le Tv e nei siti dei quotidiani, fotografie di dettagli raccapriccianti, racconti e testimonianze raccolte mentre il testimone ferito sta entrando in sala operatoria ci vogliono inchiodare alle nostre responsabilità civili: siamo in guerra e tutti, ma proprio tutti la dobbiamo combattere senza riserve e senza pietà e, citando Hollande: Trionferemo.
Si perché sarà comunque un trionfo, comunque vada a finire per le nazioni i occidentali sarà un trionfo di immagine e di convenienza, ma soprattutto di pacificazione sociale.
Tutti gli interessi capitalistici sono stati tutelati.

La macchina di distruzione della coscienza e di amplificazione della paura è a tutto vapore. Ormai non c’è più nessun distinguo, non importa se è Isis, Al Qaeda, Hamas o altro, comunque è sempre Islam e tanto basta. E la guerra che scatena è barbarica: mutilazioni, uccisioni a sangue freddo e stragi di inermi, addirittura praticate a volte da cittadini europei, anche se di pelle scura e mussulmani, che ascoltavano Hi-pop e avevano l’iPad. Ma ogni guerra è per definizione barbarica. E in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, ecc. ne sanno qualcosa, è il loro pane quotidiano la barbarie della “guerra di civiltà”.

La nostra politica, le nostre autorità ora cercano di convincerci scatenare una guerra, in nome di una generica avversione alla guerra, per la difesa di questa democrazia e di questo sistema sociale ed economico. Vogliono che siamo noi a invocarla e ci stanno riuscendo. Facciamo la guerra perché non vogliamo la guerra. Del resto siamo tutti pacifisti, ma se vogliamo continuare a esserlo non possiamo farla fare tutta solo a Salvini e alla Meloni questa guerra.

L’urlo della comunicazione di massa, che si alza imperioso e prepotente da parte del potere costituito, dei giornalisti e dei portavoce dei partiti di sinistra e di destra è uno solo: verrà l’Islam e avrà i tuoi occhi. Tutti siamo in pericolo, perché noi, quelli civili e buoni, quelli che esportano democrazia e ricchezza, siamo il bersaglio predestinato. E non c’è angolo al mondo dove l’Islam non ci possa colpire: al cinema, al bar, nell’hotel, a teatro, dappertutto e con più efficacia e ferocia di tutti i missili terra-aria e terra-terra e tutte le diavolerie elettronico-guerriere che la nostra tecnologia ha saputo costruire. L’elenco delle procedure da attuare è sciorinato come una lista della spesa, fatta di intelligence, corpi speciali e piani di guerra. Nessuno vuole rimanere indietro in questa corsa a occupare i posti buoni, perché il bottino sarà ottimo e non è il caso di andare tanto per il sottile.
Verrà l’Islam e avrà i tuoi occhi.

Leggere così i fatti, manipolandoli attraverso i media, vuol dire rinunciare a fare i conti con la storia della rapacità imperialista degli stati occidentali. Significa liquidare la politica.
Nessuna voce critica si è levata dai partiti, se non in campi marginali. Nessuna voce critica dall’informazione, se non in piccole realtà editoriali. Nessuno ha letto la situazione in senso critico, ma solo in senso spettacolare, granguignolesco e parziale. Certo è difficile con tanti morti sui selciati essere critici ed è più facile lanciare strali in nome di patriottismo, militarismo, e invocare la superiorità culturale ed economica occidentale, che deve governare il mondo. Al massimo un accenno all’instabilità sociale delle banlieu, al disagio dell’integrazione che genera mostri, tutto qui. Ma l’accesso all’informazione obiettiva è sempre negato.

Noi occidentali siamo tutti uguali, non c’è più differenza sociale, culturale, politica e di classe, c’è solo l’appartenenza ai valori occidentali. Liberté, égalité, fraternité, questo sarà il nostro grido. Ma chi più del capitalismo e colonialismo occidentale ha affossato questi principi? Macché ricchi e poveri, barboni e padroni: tutti uguali siamo, indistinti, indifferenti, e l’unica salvezza è rimanere uniti, superare le divisioni ideologiche e fare fronte comune.

In un sol colpo cancelliamo la lotta di classe, l’emancipazione del proletariato, anche di quello cognitivo attuale. Cancelliamo la possibilità di avere ancora un confronto dialettico con la classe politica, cancelliamo la possibilità lottare per una società più giusta. Ci hanno disarmato completamente, chiunque si metterà di traverso e protesterà sarà un disertore. Sarà pace sociale. Sarà disastro sociale. Leggi di Polizia sempre più dure ci vesseranno e impediranno qualsiasi manifestazione antagonista e le pene, già oggi assurdamente dure lo saranno ancora di più, e con il plauso di tutta la società civile: preti, rabbini e intellettuali di sinistra in testa.

Verrà l’Islam per avere i nostri occhi, ma non li troverà. Non li troverà perché se li erano già presi i padroni, le multinazionali, i fascisti, i politici corrotti o insipienti con la complicità della comunicazione di massa. Hanno usato i nostri occhi per creare ad arte una vera nuova Psicopatologia di Massa: la difesa dei “nostri” valori civili.balilla fascismo-2 Del resto anche il fascismo si creò così, anche quello era una Psicopatologia di Massa della quale tutti rimasero vittima e che per un po’ ci affascinò e ci rese tutti fascisti: ricchi e poveri, intellettuali e artisti, proletari e borghesi con le conseguenze note. E ai nostri occhi colmi di dolore e falsità, vittime della persuasione occulta e avida, non rimarrà che l’amarezza di non aver praticato il disincanto nei confronti di un sistema che ci imbroglia, ci violenta e ci perverte nel senso etimologico del termine: ci fa perdere la strada della consapevolezza politica, sociale e di classe.

La sinistra che latita, sempre più vacua, è incapace di leggere ed elaborare l’evoluzione del capitalismo globale e digitale. Ogni giorno è sempre un passo indietro rispetto alla storia e la distanza si moltiplica e diventa incolmabile. Totalmente appiattita e timorosa di questo piano identitario collettivo generato dalla comunicazione di massa, non osa neppure alzare il capino e si accoda. Ha rinunciato alla lotta e celebra vuoti riti autoreferenziali.

Oggi il ruolo centrale dei mezzi d’informazione, è così invadente, ostinato e strumentale che con l’ostensione del dolore degli altri condiziona la pancia del popolo e l’atteggiamento politico generale, anche quello della sinistra. Da una parte crea indifferenza o odio e desiderio di vendetta, e dall’altra sdogana pulsioni di potere abbiette, riscrive la scala dei valori condivisi e nega la pietas agli altri. La continua esibizione di atrocità ha creato un clima favorevole alle forze armate come da decenni non accadeva. A noi rimane l’annichilimento politico, la narcosi sociale e l’incapacità di far politica ogni giorno più. Panorama sconfortante.

Se verrà l’Islam avrà gli occhi dell’Occidente, che già ci ha riconsegnato ai padroni, ai capitalisti, ai nazionalismi e agli imperi.

]]>