Banksy – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Banksy e dintorni nonostante il sistema arte https://www.carmillaonline.com/2022/08/09/estetiche-inquiete-banksy-e-dintorni-nonostante-il-sistema-arte/ Tue, 09 Aug 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72992 di Gioacchino Toni

Grosso modo a partire dall’ingresso nel nuovo millennio, l’interesse che si è generato attorno a quella nebulosa che viene genericamente definita street art, si è esteso al di là dei tradizionali – per quarto mai sopiti – contenziosi sul decoro urbano tra amministrazioni locali, comitati di cittadini e ambienti creativi giovanili, finendo per coinvolgere, oltre che sociologi, critici e studiosi d’arte e di fenomeni urbani, l’universo dei collezionisti, delle gallerie e delle case d’asta, insomma “il sistema arte” così come questo si presenta ai nostri giorni.

Il boom commerciale dell’arte [...]]]> di Gioacchino Toni

Grosso modo a partire dall’ingresso nel nuovo millennio, l’interesse che si è generato attorno a quella nebulosa che viene genericamente definita street art, si è esteso al di là dei tradizionali – per quarto mai sopiti – contenziosi sul decoro urbano tra amministrazioni locali, comitati di cittadini e ambienti creativi giovanili, finendo per coinvolgere, oltre che sociologi, critici e studiosi d’arte e di fenomeni urbani, l’universo dei collezionisti, delle gallerie e delle case d’asta, insomma “il sistema arte” così come questo si presenta ai nostri giorni.

Il boom commerciale dell’arte contemporanea giunge all’apice negli anni Ottanta del vecchio millennio, quando una serie di artisti come Clemente, Schnabel, Haring, Basquiat, Koons ecc., vengono catapultati all’interno di prestigiosi musei ed influenti gallerie raggiungendo quotazioni altissime in un lasso di tempo brevissimo, cosa impensabile per gli artisti delle generazioni appena precedenti. Si è trattato, come argomentato da Fancesco Poli (Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza 1999), di un fenomeno di breve durata, destinato a implodere già all’inizio degli anni Novanta, quando infatti, si è assistito al crollo di un sistema drogato in cui l’euforia speculativa, supportata e incentivata da una moda culturale gonfiata dai media, è arrivata a determinare la storicizzazione istantanea delle nuove stelle del firmamento artistico.

Si è pertanto assistito «a una riconfigurazione, peraltro non improvvisa, dei rapporti di forza tra produzione e consacrazione dell’arte, giocata sullo sfondo di interessi estranei alla sfera culturale. Se inizialmente l’arte d’avanguardia aveva tratto origine proprio dal rifiuto di quel supporto che l’arte tradizionale forniva storicamente all’ideologia dominante, nel tempo l’antagonismo nei confronti del sistema e del mercato dell’arte si è trasformato in una vuota spinta alla novità, richiesta da un sistema artistico sempre più succube della logica delle mode. Tutt’oggi, le strategie messe in atto al fine di “creare il nuovo” a tutti i costi, come necessità commerciale, vedono sempre più le gallerie, i musei, i mass media e la critica “fare sistema”» (Gioacchino Toni, Gianluca Ruggerini, Guida agli stili nell’arte e nel costume. L’età contemporanea, Odoya 2020).

È in un tale contesto che “il sistema arte” ha iniziato a guardare al variegato universo della street art tentando di assorbirla all’interno dei suoi meccanismi culturali e, soprattutto, economici lusingando i giovani “imbrattatori” di mura metropolitane di cui viene valorizzato persino l’agire fuorilegge sfruttando l’aura romantico-maledetta-bohémien che gli interventi furtivi al calar delle tenebre si portano dietro.

Il sistema arte contemporaneo, attraverso la sua propensione a quotare e stilare classifiche di opere e artisti, incide fortemente sulla notorietà e sulla fortuna di questo o quell’artista. Giorgia Ligasacchi (Il mercato della Street Art in asta, in «Art&Law» 1/2020), riprendendo i dati diffusi dal portale «Artprice» – il cui nome suggerisce con che occhi si guardi all’arte da quelle parti –, evidenzia come nel periodo compreso tra luglio 2018 e giugno 2019, tra gli artisti nati dopo il 1945 che hanno venduto attraverso le aste il maggior numero di opere, figurino ben quattro street artist nelle prime cinque posizioni. Al primo posto figura Shepard Fairey, meglio noto come Obey, con i suoi 660 lotti, seguito da Kaws con 622, Banksy con 550 e Keith Haring con 482.

Ad essere battuti alle aste, ed a finire nelle gallerie, ai “graffiti staccati dai muri” si affiancano spesso opere che riproducono soltanto l’estetica delle produzioni urbane; in tutti i modi si tratta di opere che, decontestualizzate dagli scenari peculiari della street art pubblica, non ne trattengono gli aspetti sito-specifici e performativi.

Al di là delle scelte operate dai singoli artisti e della loro capacità, oltre che volontà, di mantenere contenuti, oltre che tracce estetiche, di arte pubblica urbana, e di renderle più o meno redditizie, a rendere la street art interessante resta il suo rapporto con il contesto cittadino in cui viene relaizzata ed è con tale spirito che vale la pena guardare al volume di Alan Ket (a cura di) Pianeta Banksy (Mimesis 2022) ed alla sua imponente offerta di riproduzioni fotografiche degli interventi sui muri realizzate da Banksy e da altri artisti.

Le opere presentate qui si concentrano su temi comuni che sono stati esplorati da Banksy e da altri. Non sorprende che la polizia, il governo e la legge siano il soggetto centrale di molti artisti tra cui Dede (Israele), Keizer (Egitto), Hogre (Italia) e Mogul (Svezia). Rivolte civili, guerra e pace sono un altro tema diffuso tra gli artisti di tutto il mondo tra cui: Camo (Australia), Soon (Germania) e Icy and Sot (Iran). #codefc (Regno Unito) ne ha fatto il tema principale di uno dei suoi progetti più importanti. Altri, come Wild Drawing (Grecia), si occupano di problemi legati alla povertà e alla disoccupazione molto diffuse nella sua città natale, Atene. Tuttavia, per controbilanciare tutta la drammaticità che questi artisti portano nelle strade, ce ne sono molti altri che preferiscono diffondere arte ricca di divertimento e umorismo, come Ender (Francia), Ozi (Brasile) e Zuk Club Art Group (Russia), autore di una simpatica serie con protagonisti dei nani. Un’altra missione preponderante è quella che diffonde un senso di giocosità nella giungla urbana in cui molti di noi vivono. Animali fantastici cavalcati dai bambini prendono vita nell’arte di Run Dont Walk (Argentina), bestie enormi fanno sembrare formiche i pedoni nell’arte di Toxicómano Callejero (Colombia) mentre Be Free (Australia) dipinge una bambina spensierata che scarabocchia sul muro. Celebrità, eroi, martiri, angeli, la morte e molti altri temi affascinano gli artisti e sono fonte di ispirazione per la creazione di capolavori (p. 7).

Il volume fotografico è strutturato in sezioni che raggruppano le prove di diversi protagonisti della street art: Angeli e demoni; Giungla d’asfalto; Volti celebri; Umorismo; Ordine pubblico; Segni dei tempi; Guerra e pace.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico https://www.carmillaonline.com/2016/07/22/31544/ Fri, 22 Jul 2016 21:30:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31544 di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come [...]]]> di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come agli sponsor ed ai “creatori di eventi”, un po’ di polemica piace sempre. Ora i media torneranno a parlare di graffiti solo per celebrare qualche associazione impegnata a ripristinare il candido decoro urbano prevandalico, per promuovere qualche nuova mostra dispensatrice di aura ufficiale o per motivi di ordine pubblico. Difficilmente la questione graffiti urbani potrà uscire da questa trattazione schematica.

Al di là della semplificata e rigida partizione con cui se ne occupano i media, sono davvero così impermeabili l’uno all’altro questi diversi fronti? A ricostruire il quadro della situazione viene in aiuto il saggio di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. In tale volume il fenomeno del graffitismo viene trattato dal punto di vista estetico, sociale e culturale a partire dall’analisi tanto delle motivazioni che muovono i giovani writer ad intervenire sulle mura urbane, sfruttando il buio della notte e giocando a guardie e ladri con l’autorità, quanto quelle del fronte antigraffiti. Da un lato gli autori del testo si preoccupano di palesare le contraddizioni che attraversano i diversi schieramenti che non possono essere ricondotti a soli due soggetti, writer e antiwriter. Dall’altro lato il saggio evidenzia come alcune “categorie di pensiero” tendano a travalicare i diversi fronti in campo. Davvero, come evidenziano i due studiosi, parlare «sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (p. 19) e se c’è «un fenomeno culturale che illustra a meraviglia il funzionamento tautologico e circolare dei meccanismi sociali in un mondo complesso, si tratta proprio dei graffiti e delle campagne per cancellarli» (p. 153).

Nel Primo capitolo il writing contemporaneo viene collocato all’interno di una lunga tradizione di scrittura ed arte murale. Se la prima è un tipo di espressione che risale ad antiche culture, come quella egizia, le forme di rappresentazione parietale si trovano già nel Paleolitico superiore. Gli autori non intendono proporre improbabili paragoni tra le pitture rupestri preistoriche e le forme contemporanee, ma sottolineare come il gesto di quei lontani antenati costituisca una sorta di universale antropologico. Nelle decorazioni rupestri, in un ambiente collettivo, viene rappresentato il mondo nei suoi aspetti considerati significativi; attraverso quelle pratiche il mondo viene dunque condiviso. Da quando, attorno al XV secolo, l’arte inizia ad essere intesa come espressione individuale, si è via via persa l’idea «dell’attività artistica come opera collettiva, nel doppio senso di qualcosa creato in comune e rivolto a un uso collettivo» (p. 47). Secondo Dal Lago e Giordano, al di là di improbabili altri paragoni, come detto, il writing contemporaneo ha in comune con il graffito rupestre l’idea di dar vita ad una forma di comunicazione pubblica.

Il saggio si sofferma anche sul muralismo messicano che, riprendendo la tradizione figurativa preispanica, palesa forti intenti pedagogici. Tale movimento presenta diverse contraddizioni a proposito del rapporto arte/potere, tanto che dal ruolo sovversivo rivestito nella prima fase della rivoluzione, passa ben presto ad avere un mero ruolo celebrativo una volta che le istituzioni rivoluzionarie si sono stabilizzate. Gli autori mettono in luce come l’ambiguità dei muralisti messicani derivi anche dall’adesione ad un’ideologia progressiva positivistica e questo è proprio uno dei motivi per cui tali artisti esercitano una certa attrazione anche nel capitalismo statunitense. A tal proposito gli autori ricordano come lo stesso Diego Rivera, nel 1931, venga chiamato dall’industriale Ford per illustrare il Detroit Insitute of Art con l’opera Detroit Industry or the Man and the Machine. «L’ambiguità si rivela nella celebrazione del matrimonio tra uomini e macchine proprio nel momento in cui la società americana era attraversata da aspri conflitti tra operai e industriali (si dice che tra i lavoratori che protestavano ci fossero anche i malpagati assistenti di Rivera)» (p. 53).

DECORO URBANO

DECORO URBANO

Nel volume viene ricordato anche come agli albori della pubblicità di massa, le scritte tracciate con la vernice sui muri vengano preferite ai manifesti cartacei, tanto che su diversi edifici statunitensi ed europei risultano ancora visibili le tracce sbiadite di vecchi messaggi commerciali. Ancora oggi nell’Africa, soprattutto sub-shariana, le pubblicità sono spesso dipinte direttamente sulle pareti. Alle pitture murali ha fatto ricorso anche il regime fascista al fine di riportarvi i motti mussoliniani o l’effige stessa del dittatore. Dunque, fino ad epoca recente, “scrivere sui muri” è stato un sistema di comunicazione diffuso e legittimo. In Occidente, le cose sembrano cambiare negli Stati Uniti dei primi anni Settanta, quando nei ghetti arfoamericani e latinos i graffiti murali iniziano ad essere utilizzati come reazione alle discriminazioni delle minoranze ed all’omologazione dello spazio urbano.

Secondo gli autori del saggio, al di là dei significati originari, il writing rappresenta «un impulso a lasciare il proprio segno sul palcoscenico urbano» (p. 34). I muri finiscono con l’ospitare «i punti di vista di mondi privi di accesso legittimo alla parola in pubblico» (p. 34). Dunque la prima e “pericolosa” novità introdotta dal fenomeno del writing degli anni Settanta, non è tanto il comunicare sui muri urbani, ma il fatto che a farlo non siano più soltanto gli apparati di propaganda commerciale e politico-statale. Si tratta in primo luogo di una “presa di parola” da parte dei ceti meno abbienti: «tracciare i segni sui muri significa […] contrapporsi all’immagine della povertà, dell’emarginazione e dell’ingiustizia sociale che la società ufficiale o legale produce in nome dell’ordine pubblico» (p. 35). Oggi le cose sono ovviamente cambiate ed a ricorrere a comunicazioni murali non sono soltanto gli ambienti marginali ed antagonisti; i muri oggi sembrano rappresentare spazi fisici in cui l’irrequietezza esistenziale e politica si può manifestare liberamente e ciò non è per forza prerogativa dell’antagonismo sociale.

Nel saggio viene sottolineato come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche da un senso di impotenza nei confronti di una scelta che altri, nottetempo, hanno fatto per tutti. Il cittadino che si ritrova le mura del palazzo “esteticamente modificate”, non ha avuto voce in capitolo. Tale frustrazione si scarica facilmente sui writer ma, a ben guardare, suggeriscono gli autori del testo, il cittadino è impotente anche di fronte alle modificazioni estetiche della città, siano esse temporanee o permanenti, imposte dalle politiche urbane comunali e dal mondo del commercio. Gli spazi urbani in cui i cittadini si trovano a vivere costituiscono pertanto «l’arena dei conflitti (di interessi e visioni del mondo) che si esprimono anche nelle dimensioni semiotiche ed estetiche. Ciò che gli abitanti vedono intorno a loro è, a seconda dei punti di vista, una scena collettiva squallida o invitante, degradata o scintillante, rilassante o inquietante, piacevole per alcuni, sgradevole per altri…. In ogni caso, è il risultato dell’azione di poteri e interessi spesso invisibili, a cui nessuno pensa quando passeggia per le strade e giudica ciò che lo circonda» (pp. 41-42). Dal Lago e Giordano individuano nei graffiti contemporanei l’indicazione di un punto di vista altro, diverso, rispetto ad una scena urbana che intende proporsi/imporsi come necessaria/obbligatoria ma che in realtà è contingente, derivata da un’evoluzione storica che avrebbe potuto dirigersi verso tante altre direzioni.

Nel Secondo capitolo viene passata in rassegna l’evoluzione del writing e le sue connessioni con l’arte contemporanea. Questa sezione del volume prende il via con l’articolo comparso nel luglio del 1971 sul “New York Times” ove viene riportata la fotografia di una porta della 183a strada ricoperta da sigle. Tale pubblicazione rappresenta per certi versi un momento significativo per il writing perché apre un discorso pubblico su di esso.

È soprattutto nell’ambito della cultura Hip Hop che «le tag, che nascono come sigle o firme e quindi come un tipo di scrittura, diventano vere e proprie forme artisticamente autonome, composizioni complesse, progettate e poi realizzate (pieces). Le lettere si dilatano nello spazio, si riempiono di colore creando immagini di grandi dimensioni (masterpieces). I caratteri (blockletters) si gonfiano (bubble style), oppure acquistano una dimensione in più (3d style) e, infine, perdono la loro funzione, diventando forme volutamente illeggibili (wild style)» (pp. 78-79). La risposta delle istituzioni newyorkesi non tarda ad arrivare; all’epoca del sindaco John Lindsay sono ben 1500 i writer arrestati. Lo stesso mondo dei graffiti si rinnova; la bomboletta spray sostituisce il pennello e s’impone il lavoro di gruppo, dunque le stesse tag non di rado si trasformano da firma individuale ad espressione dell’intera crew.

La stagione d’oro della Street art coincide con gli anni Ottanta, quando il «graffitismo si emancipa come linguaggio autonomo e l’attenzione si sposta dal gesto in sé al risultato» (p. 82) e ciò, sottolineano gli autori del saggio, attira l’attenzione del mondo dell’arte ufficiale provocando così l’apertura di un fronte interno al mondo dei writer che vede contrapporsi “puri” e “venduti”. «Dal momento in cui l’idea di Street art ha libera circolazione all’interno dei confini dell’arte riconosciuta, diviene oggetto di un discorso fondamentale per confezionare gli oggetti artistici. Un discorso a cui i graffitisti “perbene” aderiscono pienamente. Spesso, le dichiarazioni di guerra al sistema dell’arte e al suo mercato da parte loro sono in netta contraddizione con fruttuose frequentazioni di galleristi e collezionisti. Una contraddizione che non disturba affatto questi ultimi che, al contrario, si industriano per trovare formule spericolate, capaci di conciliare la natura anarchica della Street art con il suo sfruttamento commerciale» (p. 84).

Al fine di consentire ai graffiti di entrare a far parte del circuito artistico ufficiale, occorre togliere loro l’etichetta criminale e così gli “addetti alla trasformazione” si appellano all’idea che i graffitisti sono criminali per necessità (mancanza di spazi su cui lavorare) e non per scelta. A questo punto, sostengono gli autori, i writer indipendenti che non si concedono, o che tentano di resistere per quanto è loro possibile – visto che il sistema-arte non manca di speculare su produzioni indipendenti anche senza il consenso degli autori -, sanno benissimo che la Street art è divenuta una moda tra le altre all’interno del circuito ufficiale. «Sanno anche che il loro lavoro anonimo potrebbe essere fotografato e inserito in un catalogo, con tanto di prefazione di un critico alla moda: un’eventualità a cui non possono opporsi, ma della quale non intendono approfittare» (p. 87). Altri writer accettano di entrare a far parte del mercato dell’arte e non mancano di estendere l’ambito d’azione commerciale a sneakers, cappellini, t-shirt e felpe dei grandi marchi. In un modo o nell’altro il luccicante e remunerativo mondo dell’arte (e del commercio più in generale) ha modificato le regole del gioco e nulla può più essere come prima.

DECORO URBANO

DECORO URBANO

«I writer, quando sposano il mercato, portano in dote l’aura di trasgressione della loro vita precedente, ma non basta. Sono necessarie le giuste parole dei critici per trasformare in arte ciò che fino a qualche anno prima era deliberatamente fuori dal sistema […] Occorre rompere con il passato, mantenendo vivo quanto basta il mito degli anni ruggenti, ridotto a una scena di sfondo. Occorre soprattutto inventare qualcosa di nuovo per garantire la bontà del prodotto, dimostrando che non tutti i graffiti sono arte. Ciò significa mettere ordine in un repertorio sterminato e, come sempre accade, stabilire criteri estetici, canoni tecnici, limiti e regole» (pp. 90-91).

La questione dei canoni estetici che creano gerarchie ed indicano cosa è arte e cosa non lo è, risulta centrale nel discorso di Dal Lago e Giordano. Gli autori citano esempi di writer “convertiti al mercato” che imputano l’ostilità dei cittadini nei confronti dei lavori di tanti “colleghi” alle loro scarse capacità professionali. Chi ha scelto di “contaminarsi col mercato” è costretto, come abbiamo visto, a mantenere i piedi su due staffe e nell’argomentare circa i difficili rapporti del writing con la cittadinanza, può giungere ad indicare nella mancanza di abilità tecnica di tanti colleghi la principale causa di astio. Se tutti fossero “bravi” come coloro che il mercato ha saputo scegliere, verrebbero meno molti motivi di ostilità. «Riemerge il fantasma della tecnica, grande cavallo di battaglia di qualsiasi posizione reazionaria nell’arte» (p. 92), sostengono gli autori che, a tal proposito, portano alcuni esempi di motivazioni addotte dalle associazioni ostili al writing in cui si sostiene che i graffiti “non possono” essere considerati un fenomeno artistico o perché “l’arte è un’altra cosa” o perché, derivando da un’azione illegale, “non possono” essere considerati “arte”. Lo stesso Museo d’arte moderna di Bologna (Mambo) nel luglio del 2009 giunge a proporsi di “periziare” i murales in città al fine di evitare che, “malauguratamente”, vengano cancellate “opere d’arte” nel corso delle operazioni di ripristino del “decoro urbano” promosse dal Comune. Insomma, da più latitudini si avverte la necessità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è.

Negli anni Novanta ormai il mondo dei writer è cambiato radicalmente rispetto alle origini del fenomeno; è cambiata la composizione sociale, ora molto meno connotata, sono mutate le tecniche di realizzazione e si è di fronte ad un contesto molto più globalizzato. Se in passato l’idea era quella di coprire la città, ora l’intervento tende piuttosto a scoprirla, svelarla e, spesso a deriderla. Negli ultimi tempi diversi writer hanno messo in campo notevoli abilità manageriali nella gestione della propria immagine, nel saggio viene fatto esplicitamente riferimento al caso forse più noto: «Banksy incarna perfettamente il modello dell’artista capace di fondere la sua arte e la sua capacità imprenditoriale in un’unica grande opera: se stesso» (p. 101). C’è chi ha voluto vedere analogie tra la figura di Banksy e quella di Andy Wharol. A tal proposito, nel saggio, viene evidenziato come mentre il primo si è più volte espresso con opere di esplicita contestazione nei confronti del sistema capitalistico e consumista, Wharol ne ha invece tessuto acriticamente le lodi. Resta il fatto che l’anonimo fustigatore della società dei consumi ha finito col generare un business impressionante attraverso le sue opere e le riproduzioni delle stesse. Lo stesso attacco del celebre writer ai brand delle grandi multinazionali è stato portato attraverso tecniche pubblicitarie che hanno contribuito a creare il “brand Banksy”.

Anche l’arte mainstream non ha mancato di fare i conti con il fenomeno del graffitismo ma, puntualizzano gli autori, «l’interesse degli artisti “ufficiali” nei confronti della strada è un’estensione del territorio della galleria e non una reale fuoriuscita dalla gabbia dorata in cui operano. Diciamo che l’arte ufficiale può solo citare quella di strada, può appropriarsene o trasformarla, ma non sarà mai la stessa cosa. Infatti non gode del privilegio della gratuità e del disinteresse, da cui in fondo deriva ogni innovazione nell’arte e nella vita» (p. 163).

Nel Terzo capitolo vengono analizzate le ragioni dell’ostilità nei confronti del writing. Come presupposto alle questioni che verranno affrontate, gli autori sottolineano come l’attività artistica, indipendentemente da cosa essa sia in origine, divenga socialmente tale solo nel momento in cui viene riconosciuta da chi dispone, storicamente, della legittimità per farlo. Sappiamo che tale soggetto, tale istituzione, viene ad avere diritto di vita e di morte circa il riconoscimento dell’artisticità o meno di un’opera ed in questo discorso non si tratta di accettare o mettere in discussione tale autorità, si tratta di prendere atto del ruolo che certe cariche hanno nell’ambito del conferimento di artisticità qui ed ora. Premesso ciò, Alessandro Dal Lago e Serena Giordano sottolineano come nelle motivazioni delle associazioni antigraffiti non ci si appella tanto al diritto decisionale degli abitanti circa gli interventi sulle superfici delle pareti di casa, ma piuttosto, spesso, si entra nel merito artistico dei graffiti sostenendo che questi non sono opere d’arte. Così facendo tali associazioni si inoltrano su un terreno scivoloso perché sappiamo come sia variabile il concetto d’arte nel tempo. Se i graffiti, o alcuni di essi, fossero ritenuti opera d’arte dalla maggioranza dei cittadini e/o dalle “autorità in materia”? In linea di principio, ricordano gli autori, qualsiasi graffito può “divenire” (essere indicato come) opera d’arte.

In alcuni casi gli abitanti del quartiere hanno difeso i graffiti (e gli autori) in quanto ritenuti una valorizzazione del contesto urbano e tutto ciò indipendentemente dal fatto che fossero stati realizzati illegalmente e che nessun critico d’arte od altra autorità in materia si fosse espresso a riguardo. La mera questione estetica risulta scivolosa, pertanto il fronte antigraffiti, non di rado, si sposta sul versante pedagogico indirizzando i potenziali vandali verso spazi consentiti, non rendendosi conto che una componente fondamentale del writing ha a che fare con il fascino dell’illegalità.

In conclusione, abbiamo visto come, ancora una volta, un fenomeno controculturale, di strada, finisca con l’essere in buona parte riassorbito da un sistema che non esita a ricavare profitto anche da chi lo contesta. Qualche writer si adegua, preferendo mettere a profitto le sue abilità creative a costo magari di trasformare quello che era stato un linguaggio di ribellione donato alla collettività in un testo vuoto che deve essere riempito da critici e dispensatori d’aura. Qualcun altro decide di resistere e di non farsi coinvolgere dal mercato, magari vendendo la propria forza lavoro altrimenti per campare. È una vecchia storia che ha attraversato – e sempre lo farà – le cosiddette sottoculture quando queste diventano appetibili al circuito economico; lo abbiamo visto nell’ambito musicale e nella gestione degli spazi sociali così come tante volte abbiamo assistito a contrapposizioni frontali tra più o meno “puri” contro più o meno “venduti”. Resta il fatto che i graffiti sono «sia un aspetto rilevante della convivenza urbana, sia l’occasione per i cittadini di esprimersi su un buon numero di questioni di interesse generale. In breve, hanno una grande capacità di aggregazione concettuale. Parlare sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (pp. 18-19).

 

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Street Art in museo: “E’ la contraddizione dell’essere umano, signore” https://www.carmillaonline.com/2016/03/19/street-art-museo-la-contraddizione-dellessere-umano-signore/ Fri, 18 Mar 2016 23:03:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29236 di Mauro Baldrati

BanksyStreetGuy, 16 anni, e i suoi due pard camminavano furtivi lungo Via Fioravanti, l’asse periferico del quartiere bolognese Navile. Per la verità non c’era motivo di procedere furtivi. Non ancora almeno. Svoltando a destra e a sinistra per strade che i tre non conoscevano, essendo residenti in San Donato, sbagliando, tornando più volte sui loro passi, lo trovarono: un muro di recinzione perfetto, alto tre metri, posto sul retro di un palazzo adibito a centro sanitario polivalente, raggiungibile dalla strada ma al contempo sufficientemente appartato per poter lavorare [...]]]> di Mauro Baldrati

BanksyStreetGuy, 16 anni, e i suoi due pard camminavano furtivi lungo Via Fioravanti, l’asse periferico del quartiere bolognese Navile. Per la verità non c’era motivo di procedere furtivi. Non ancora almeno.
Svoltando a destra e a sinistra per strade che i tre non conoscevano, essendo residenti in San Donato, sbagliando, tornando più volte sui loro passi, lo trovarono: un muro di recinzione perfetto, alto tre metri, posto sul retro di un palazzo adibito a centro sanitario polivalente, raggiungibile dalla strada ma al contempo sufficientemente appartato per poter lavorare indisturbati.
Scaricarono gli zainetti stracolmi e li aprirono. Allinearono le bombolette sul marciapiede e inforcarono le maschere. StreetGuy era particolarmente orgoglioso, perché dopo molte insistenze era riuscito a ottenere una dotazione di acrilici dal centro sociale San Donato 3, che aveva un laboratorio artistico.

Lavorarono fin dopo dopo l’alba, fermandosi solo per controllare l’opera, allontanandosi di qualche metro per valutare le proporzioni. Si abbracciarono e si dichiararono soddisfatti. L’avevano progettata con decine di bozzetti, e il risultato era all’altezza del lavoro preparatorio: bambini che giocavano ai piedi di enormi grattacieli invasi da rampicanti neri, con elicotteri che volavano minacciosi. Avevano visto qualcosa di simile in alcune foto scattate in Brasile, avevano copiato, ma solo in parte. C’era molto intervento personale, molte variazioni. Non era ancora pienamente terminata, la parte coloristica era parziale, anche perché i rossi e gli azzurri erano terminati. Il centro sociale doveva fornire altre bombolette. StreetGuy era pronto a combattere per averle.

Sarebbero tornati più avanti, per finire il lavoro. Ma avrebbe potuto restare anche così, era una prerogativa dei graffiti l’incompiutezza. Specialmente quelli figurativi, complessi ed estesi. Talvolta era troppo rischioso tornare. E la parzialità stava proprio a significare il concetto di blitz, colpisci e poi ritirati.

Street_art2Cinque giorni dopo a casa di StreetGuy si presentò una pattuglia di vigili urbani, un uomo e una donna dai modi compassati, quasi imbarazzati. Però l’uomo ogni tanto ghignava sotto i baffi. StreetGuy e un altro “writer” erano stati riconosciuti dalle riprese delle telecamere circostanti il poliambulatorio, il terzo non ancora. Secondo le nuove normative varate dal Comune (che i media chiamavano enfaticamente zero tolerance), i tre erano tenuti a rimborsare la collettività per il danno arrecato imbrattando un muro pubblico, per una cifra di 900 euro. Oltre a una segnalazione, una sorta di schedatura che sarebbe stata considerata in caso di reiterazione del reato. Facevano 300 a famiglia, 450 se il terzo ragazzo non fosse stato identificato. StreetGuy avvertì un senso di gelo all’altezza del cuore. Stava già vivendo la scenata di suo padre, al ritorno dal lavoro in cantiere. Stavano pagando il mutuo per la casa, dovevano risparmiare anche sulle pizze. E già immaginava le terribili pressioni per ottenere la delazione sul terzo amico.

4 anni dopo StreetGuy, ormai ventenne, si chiamava Paolo Fontana. Non faceva più graffiti, ma studiava giurisprudenza all’Università. Frequentava ancora il centro sociale, ma solo per fumare un po’ di canne, partecipare a qualche riunione e soprattutto collaborare al laboratorio artistico. Fu strabiliato, al di là di ogni immaginazione, quando lesse la notizia: uno dei principali musei della città ospitava una mostra intitolata Street Art – Bansky & Co. L’arte allo stato urbano. Lesse e rilesse, incredulo. Ma… erano proprio le loro cose, c’erano le foto di opere che conosceva benissimo, in un museo! In una istituzione! E la zero tolerance? E la sua multa? (di 450 euro, non avevano “cantato”).
Ma cosa diavolo stava succedendo?

Street_art1Già, è proprio quello che sta succedendo. L’organizzazione Genus Bononiae, “un percorso culturale, artistico e museale, nato per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna”, leggiamo alla voce “chi siamo” del suo sito web, ha inaugurato giovedì a Palazzo Pepoli una grande mostra internazionale di graffiti metropolitani. L’iniziativa ha scatenato molte polemiche, oltre allo sbalordimento e all’incredulità di tanti “writers” (termine abusato in modo improprio: i writers sono gli specialisti del lettering, chi realizza opere figurative è piuttosto un “muralista”, o più prosaicamente “street-artist”), a loro tempo indicati come imbrattatori, multati, denunciati, cavie viventi di politiche populiste di “tolleranza zero” di sindaci in cerca di consensi facili. Le loro opere, spesso realizzate dentro fabbriche abbandonate, lungo tratti ferroviari, sono state cancellate da gruppi di volontari vestiti di bianco, in nome di un “pubblico decoro” che ora è mutato in attenzione verso “nuove” forme di arte urbana. Così, improvvisamente. Senza preavviso. Basta fare un giretto nella stampa di neanche tre anni fa: “Ora, per la prima volta, il Comune ci mette la faccia (e il portafoglio), e lo stesso fa Hera: e l’intervento pubblico, l’intervento finanziario pubblico, è l’unico che può aiutare i bolognesi a non sentirsi soli nella lotta agli imbrattatori, e conseguentemente, educare anche i cittadini alla ‘riscossa civica’, per dirla col sindaco. I bolognesi non sono quelli che dichiarano ‘guerra’, ma che fanno, magari in silenzio. Verso gli altri, tolleranza zero” (neretti nell’originale). Il Resto del Carlino, 21/11/2013. E sei mesi dopo: “Per ripulire i muri dai graffiti, ora gli amministratori di condominio possono fare un “abbonamento”, da 100 euro, all’anno con il Comune di Bologna ed Hera. E intanto, dopo le pulizie dei muri degli edifici pubblici, da questa mattina si parte anche su quelli privati, a cominciare da via Indipendenza. Poi si passerà a via Ugo Bassi, via Rizzoli, Marconi, San Felice e le radiali del centro, spiega l’assessore ai lavori pubblici, Riccardo Malagoli, che stamane ha fatto una ‘ricognizione’ assieme al sindaco Virginio Merola e ad alcuni rappresentanti della multiutility.” La Repubblica, 27/5/2014.

Street_art3Educare.
Il museo ha anche una sezione chiamata “Servizi Educativi”, che accompagnerà i ragazzi delle scuole lungo un percorso formativo verso l’arte del graffito. Insomma, imparare il mestiere, con l’ausilio di alcuni writers che si sono prestati, felici di essere finalmente riconosciuti come artisti. Però! Spicchiamo un altro salto nel 2013, cosa facevano i bambini delle scuole? “Sono gli scolari della scuola primaria Giordani, guidati dalle mani esperte dell’Associazione Cirenaica, di alcuni residenti e del Centro Antartide di Bologna: la causa dei lavori sono gli ormai noti graffiti che pennellata dopo pennellata sono spariti per restituire al palazzo il bel tono rosso, tipico della città.” (neretti nell’originale). Il Resto del Carlino, 26/11/2013.
Prima li facevano cancellare “graffito selvaggio”, ora il contrario.
C’è da sperare che uno stesso bambino cancellatore non si ritrovi, due anni e quattro mesi dopo, allievo graffitista. Potrebbe riportarne un black out psicologico!

Su questa vicenda, che per certi aspetti ha dell’incredibile, ma neanche tanto, come vedremo tra poco, ha preso una posizione decisa Wu Ming, con un articolo su Giap: “Non importa se le opere staccate a Bologna sono due o cinquanta; se i muri che le ospitavano erano nascosti dentro fabbriche in demolizione oppure in bella vista nella periferia Nord. Non importa nemmeno indagare il grottesco paradosso rappresentato dall’arte di strada dentro un museo. La mostra Street Art. Banksy & Co. è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi.
Dopo aver denunciato e stigmatizzato graffiti e disegni come vandalismo, dopo avere oppresso le culture giovanili che li hanno prodotti, dopo avere sgomberato i luoghi che sono stati laboratorio per quegli artisti, ora i poteri forti della città vogliono diventare i salvatori della street art.”

Street_art4Posizione che è la stessa di uno degli artisti esposti, il muralista bolognese Blu, che ha diverse opere all’interno della mostra (i curatori hanno staccato le opere dai muri, per trasportarle nel museo, spesso contro la stessa volontà degli autori). Per protestare contro questo concetto di privatizzazione e di speculazione, ha cancellato due magnifici graffiti bolognesi, con l’aiuto dei ragazzi di due centri sociali.

E’ stata anche organizzata una mostra alternativa, graffiti realizzati in una fabbrica abbandonata in Via Stalingrado 63/65, purtroppo non accessibile al pubblico per problemi statici, ma visibili in spazio virtuale, qui.

I difensori dell’iniziativa sostengono che questo è l’unico modo per preservare opere che si sarebbero corrotte in breve tempo, per gli agenti atmosferici, gli inserimenti di altri graffiti, sfregi, intonaci che crollano ecc. E poi non tutto è arte, spesso si tratta di semplici sgorbi. Occorre individuare e valorizzare le opere migliori.

Eppure c’è qualcosa che non quadra in queste osservazioni. La Street Art è per sua natura transitoria, trasversale, ugualitaria, è un’espressione collettiva, dove i criteri di “bello”, “brutto”, sono aleatori, e forse privi di significato. E’ la città che si trasforma, per l’intervento dei suoi abitanti. Museificarla, sottoporla alla verticalità di un merito che è soprattutto commerciale significa renderla “prodotto”, farle violenza.

In realtà l’evento non è così sbalorditivo. Non l’ha sempre fatto il Mercato? Prendiamo un Archetipo, Van Gogh. Per tutta la vita critici e galleristi di grido gli hanno ripetuto che era negato per la pittura, che doveva cambiare mestiere. Questa continua, devastante emarginazione l’ha condotto alla pazzia e alla morte. Poi, anche questa sua discesa agli inferi della solitudine e del dileggio è diventata merce, per la costruzione del personaggio dell’artista “maledetto” molto redditizio.

Street_art6Sì, ma che c’entra Van Gogh?
Un po’ c’entra. Il suo progetto era creare un laboratorio collettivo di pittori-operai, in Provenza: artisti che avrebbero lavorato in condizioni di assoluto egualitarismo, facendo ricerca, documentando la vita, i luoghi, la natura, con l’unico scopo di vivere del proprio lavoro. Il suo amico dell’epoca, Gauguin, che non credeva in questa visione socialista dell’arte, ma cercava il successo, fuggì a gambe levate.

A modo suo anche la Street Art è un immenso laboratorio globalizzato di attività collettiva. Il Mercato non poteva restare indifferente ancora a lungo. Troppe potenzialità, troppa energia per lasciarla a se stessa. La zero tolerance, i comitati anti degrado sono ostacoli molto rarefatti, quando ci sono di mezzo gli investimenti.

E ora?
Sapranno resistere i muralisti più rappresentativi alle sirene del Mercato? Sapranno dissociarsi dall’Archetipo dell’artista contro, coccolato dai musei, dalle gallerie e dagli editori, che fingeranno di farlo sentire libero, amato solo per la qualità della sua arte?

Street_art9Intanto, al di là delle ideologie, lo spettatore naviga nella mostra contemplando le opere sradicate dal loro contesto naturale e deportate in saloni ipermoderni, di metallo e cristallo, opere molto varie, tanto che la mostra può definirsi ibrida: ci sono i murali, pezzi di seracinesche, di porte, pannelli di legno, ma anche opere su tela, disegni, quadri incorniciati di quegli stessi artisti che hanno lavorato con la bomboletta spray nelle città del mondo. Ma non ci sono solo opere “alte”, alcune sale sono dedicate proprio al “graffito selvaggio”, il writing, gli “sgorbi” che i teorici della zero tolerance facevano cancellare dai bravi giovani volonterosi in tuta bianca. Ci sono persino video che riprendono gli “imbrattatori” mentre “sporcano” il decoro urbano. In definitiva è una mostra di pop art, coloratissima, con incursioni negli anni Ottanta e Novanta. L’impressione è di una esperienza visiva interessante, però serpeggia un senso di straniamento, perché la maggioranza delle opere in effetti non si presta a questa museificazione. Anche senza ragionare per ideologie sono fuori posto, come animali nello zoo. Per cui lo spettatore, mentra passeggia nei saloni, non può non evocare quella scena di Full Metal Jacket, quando il generale chiede al Soldato Joker perché sull’elmetto ha il simbolo pacifista accanto alla scritta born to kill, e Joker risponde, lasciandolo senza parole: “E’ la contraddizione, la contraddizione dell’essere umano, signore.”

(Le immagini: in apertura, Banksy, Girl and Soldier; nell’interno: foto della mostra – cliccare sui riquadri per vederle nelle dimensioni originali)

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