Banda Cavallero – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 C’era una volta Sergio Leone https://www.carmillaonline.com/2025/02/12/cera-una-volta-sergio-leone/ Wed, 12 Feb 2025 20:04:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86613 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Nel West con Sergio Leone. Dollari, armoniche e pistole a Cinelandia, Giulio Perrone Editore, Roma 2024, pp. 146, 16 euro

Be’, c’è un film che ho visto una volta / su di un uomo che cavalcava nel deserto, l’attore era Gregory Peck. / Veniva ucciso da un ragazzino affamato che bramava di farsi un nome. / Gli abitanti della cittadina volevano prendere il ragazzo e appenderlo per il collo. / Be’, lo sceriffo lo pestò per bene / mentre il pistolero morente era sotto il sole ed esalava l’ultimo respiro. / «Lasciatelo libero, lasciatelo andare, [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Nel West con Sergio Leone. Dollari, armoniche e pistole a Cinelandia, Giulio Perrone Editore, Roma 2024, pp. 146, 16 euro

Be’, c’è un film che ho visto una volta / su di un uomo che cavalcava nel deserto, l’attore era Gregory Peck. / Veniva ucciso da un ragazzino affamato che bramava di farsi un nome. / Gli abitanti della cittadina volevano prendere il ragazzo e appenderlo per il collo. / Be’, lo sceriffo lo pestò per bene / mentre il pistolero morente era sotto il sole ed esalava l’ultimo respiro. / «Lasciatelo libero, lasciatelo andare, lasciategli dire che mi ha sconfitto con lealtà. / Voglio che sappia che cosa si prova ad affrontare la morte in ogni momento.» (Bob Dylan, Brownsville Girl)

A partire da C’era una volta il West, il film di Sergio Leone del 1968, Diego Gabutti ci consegna ancora una volta un’opera-mondo, definizione certamente usata a sproposito al giorno d’oggi per troppi romanzi e saggi, ma che serve perfettamente a riassumere il lavoro del saggista e giornalista torinese appena pubblicato da Perrone Editore nella collana Passaggi di dogana.

Come ogni opera realmente degna di questa definizione, a partire dal quarto film western realizzato da Leone, il sintetico saggio di Gabutti mette a fuoco ed esplora, aprendosi a riflessioni che procedono per cerchi concentrici, sia lo storia del cinema western che quella del regista italiano, allargandosi progressivamente a tutto l’immaginario cinematografico, hollywoodiano e non, e pop del secolo appena trascorso, con qualche puntata anche negli anni più recenti, per poi tornare alle origini e al suo centro reale: la novità rappresentata dal regista stesso e dal suo cinema.

Cinema innovativo che ha anticipato, si scusi ancora l’utilizzo di un altro termine fin troppo abusato, tutto ciò che è stato definito postmoderno, sia nella letteratura che nell’arte e nel cinema, nei decenni successivi. Un cinema totale, ma non reale o realistico, in cui tutto l’immaginario, popolare e dotto, a partire da Omero fino a Popeye passando per la letteratura picaresca e il vaudeville oppure Tex Willer e John Ford e dalla commedia dell’arte alla commedia all’italiana, ma l’elenco potrebbe continuare all’infinito, è stato riassunto, sintetizzato e magnificamente portato sugli schermi con un successo di pubblico, anche se non sempre di critica, enorme e, probabilmente, mai raggiunto da tutto il cinema italiano precedente e successivo. Con buona pace di tutti gli estimatori, spesso sfegatati e immotivati, del neorealismo.

E proprio su questo punto è giusto sottolineare le pagine autobiografiche in cui l’autore ricorda, con la sua solita ironia, un esame di Storia del cinema sostenuto col vate del realismo “critico” e dell’intellighenzia cinematografica italiana di un tempo ormai lontano: Guido Aristarco. Critico cinematografico e docente universitario, fondatore della rivista “Cinema Nuovo”, esponente della critica materialista e avverso al cinema di Leone, ma i cui dettami della sua idea di cinema sono probabilmente rappresentati ancora oggi da film assolutamente improponibili e inguardabili di molto cinema italiano e da un’erronea concezione di ciò che dovrebbe essere considerato cinema d’autore (con tutte le ambiguità e le pretese intellettualistiche che tale definizione reca con sé). D’altra parte, come avrebbe avuto modo di affermare lo stesso Gabutti in un’intervista rilasciata diversi anni or sono:

Non c’è mai stata un’influenza dei film di Leone sul cinema italiano, tranne che al tempo degli spaghetti-western, quando i suoi film erano banalizzati e fraintesi da una pletora d’imitatori. Leone è stato un esempio per il giovane cinema americano degli anni sessanta e settanta. Era il regista preferito di Coppola, di Scorsese, di Lucas e di Spielberg. Chi ne apprezzava l’umorismo, chi l’arte di dirigere gli attori, chi gli eleganti e solenni movimenti di macchina, chi la natura aforistica dei dialoghi. Clint Eastwood, che gli deve tutto anche come regista, non è tra i suoi ammiratori dichiarati, anche se in ogni suo film, naturalmente, c’è qualcosa di Leone (a cominciare dalla sua faccia, dai suoi primi piani). In Italia – anche dopo C’era una volta in America, che non è il suo film migliore (il miglior film di Leone è senza discussioni C’era una volta il west) ma che è il suo solo film esaltato dai nostri critici parrucconi – è stato sempre amato dal pubblico e detestato dal milieu cinematografico. Critici che considerano Pasolini un regista cosa possono capire di Leone? (E di letteratura, e di politica, e di qualunque altra cosa?)

Ma ritorniamo alla tesi e al tema centrale del testo, da cui poi si diramano tutte le altre riflessioni: C’era una volta il West come ultima, unica e potentissima espressione del western classico e della sua fine. Dopo il quale non solo Leone non realizzerà più film alla stessa altezza, pur rimanendo fino all’ultimo uno dei registi dell’Olimpo della storia del cinema, non solo italiano, ma non sarà più possibile realizzare film western dello stesso livello, esclusi forse i due capolavori di Sam Peckimpakh: Il Mucchio Selvaggio e Pat Garrett e Billy the Kid.

Tutti e tre, anche se il film di Leone del 1968 rimane il più innovativo e il più radicale dal punto di vista della riscrittura delle saghe western, parlano della fine del West e del western tradizionale allo stesso tempo. Ferrovie, automobili, filo spinato per dividere le proprietà, grande finanza (non le banche che comunque si potevano ancora tranquillamente rapinare fuggendo a cavallo oppure con l’auto come avrebbe fatto la banda Cavallero proprio negli anni della leoniana Trilogia del Dollaro1 ), avevano finito per chiudere definitivamente gli spazi dei cavalieri, degli sceriffi e dei banditi romantici. La ferrovia sarebbe arrivata fino all’Oceano Pacifico finendo di unificare l’unica potenza che si sarebbe potuta affacciare contemporaneamente sui due Oceani maggiori, rendendo meno ”avventuroso” e quindi niente affatto mitico quel «Go West, Young Boy!» da cui la leggenda aveva avuto inizio. Almeno sugli schermi e nella narrativa popolare.

Ancora una volta la lettura del testo di Gabutti si presenta come una cavalcata, e in nessuna altra occasione il paragone potrebbe essere più adatto, attraverso la storia del cinema western, da The Great Train Robbery (film della durata di 11 minuti realizzato nel 1903) fino a Quentin Tarantino, ma anche attraverso la vita dello stesso Leone, che l’autore ebbe modo di conoscere ed intervistare più volte e sul quale aveva già pubblicato quarant’anni prima un altro libro altrettanto bello e importante: C’era una volta in America2.

Nello specifico vanno comunque segnalate le pagine dedicate alle superbe intepretazioni di Charles Bronson (Armonica), che mai avrebbe più raggiunto tale intensità espressiva; Henry Fonda (Frank) nella sua forse unica e credibilissima interpretazione del villain di turno; Jason Robards (Cheyenne), il più bravo tra i protagonisti e il più romantico dei banditi e, infine, di Claudia Cardinale (Jill), all’apice della sua bravura, bellezza e sensualità istintiva.

Cinema e volti di un tempo che fu e che, nonostante gli sforzi successivi, non sarebbero mai più tornati ad essere visti sugli schermi, considerato anche che, come afferma Gabutti, quel film aveva di fatto «esaurito il genere» e, aggiunge chi scrive, il cinema del mito. Quello di Hollywood o comunque ispirato dagli studios dell’epoca d’oro che, come aveva scritto da qualche parte Amadeo Bordiga in una frase raccolta in epigrafe dall’autore torinese, copiava «dal paradiso terrestre».

E’ giusto, però, far scorrere i titoli di coda di un libro che ogni amante del cinema dovrebbe leggere accompagnandoli con le chitarre distorte e l’armonica minacciosa del tema dell’uomo dell’armonica o da quello romantico di Jill oppure, ancora, dalle note della marcetta dedicata a Cheyenne o quelle tristi che accompagnano la sua morte. Autentici capolavori di un compositore, Ennio Morricone, che legò indissolubilmente il suo nome a quello di Leone, conosciuto ancora sui banchi di scuola, e al successo planetario dei suoi film.


  1. Sostanzialmente composta dai primi tre film del regista: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966)  

  2. D. Gabutti, C’era una volta in America. Dollari, cowboys, whisky, donne, oppio, gangster e pistole… Un’avventura al saloon con Sergio Leone, Rizzoli Editore, Milano 19844.  

]]>
L’Italia del boom e la banda Cavallero https://www.carmillaonline.com/2015/11/10/litalia-del-boom-e-la-banda-cavallero/ Tue, 10 Nov 2015 07:00:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26514 di Marc Tibaldi

BologniniIntervista a Claudio Bolognini, autore del romanzo I ragazzi della Barriera

Dalla cronaca al romanzo, dall’invenzione alla cronaca il confine è labile, a volte impercettibile. Claudio Bolognini prova a camminare su questo confine nel suo I ragazzi della barriera. La storia della banda Cavallero (Agenzia X, 219 pagine, 14 euro), romanzo che ripercorre le vicende personali e politiche di alcuni uomini e delle circostanze che fecero di loro una banda di rapinatori. Una vicenda che sarebbe inimmaginabile e irripetibile nella società del controllo, tra telecamere e dispositivi di sicurezza, ma che può invitarci a pensare analogie e differenze tra [...]]]> di Marc Tibaldi

BologniniIntervista a Claudio Bolognini, autore del romanzo I ragazzi della Barriera

Dalla cronaca al romanzo, dall’invenzione alla cronaca il confine è labile, a volte impercettibile. Claudio Bolognini prova a camminare su questo confine nel suo I ragazzi della barriera. La storia della banda Cavallero (Agenzia X, 219 pagine, 14 euro), romanzo che ripercorre le vicende personali e politiche di alcuni uomini e delle circostanze che fecero di loro una banda di rapinatori. Una vicenda che sarebbe inimmaginabile e irripetibile nella società del controllo, tra telecamere e dispositivi di sicurezza, ma che può invitarci a pensare analogie e differenze tra due epoche, a ripercorrere in maniera critica la storia recente dell’Italia del boom economico. Nel romanzo si indaga, come nessuno finora ha fatto, sulle ragioni politiche e sociali di questi figli della Torino fordista. Il lettore viene accompagnato, passo dopo passo, a seguire la vita di questi banditi fino al tragico epilogo di sangue e carcere. Il 25 settembre 1967 a Milano si consumò l’ultima sanguinosa rapina della banda, la notizia rimbalzò su tutti i notiziari e le cronache del tempo si occuparono a lungo di quella che venne chiamata la banda Cavallero. Ciò che tali resoconti avevano omesso di dirci è come quegli uomini sono arrivati a compiere quelle rapine, e soprattutto perché. Ed è lì che nasce questo romanzo.

Perché hai deciso di dedicare un romanzo alla banda Cavallero?

Qualche anno fa, durante le ricerche per la stesura del mio romanzo Mani in alto, dedicato alla banda Casaroli, una banda di rapinatori che operò a Bologna negli anni Cinquanta, mi imbattei spesso in articoli sulla banda Cavallero e dopo un approfondimento notai con fastidio che la loro storia era stata raccontata quasi sempre in maniera distorta, dimenticando totalmente le idealità politiche iniziali che avevano portato all’azione questi giovani proletari. Ho lavorato molto nel raccogliere materiali di archivio, studiando le fotografie dell’epoca che restituiscono l’atmosfera di quegli anni meglio di molti articoli, ripercorrendo le strade del quartiere. Importante è stata anche la visione di Il Bandito della Barriera, interessante documentario su Pietro Cavallero, di Maurizio Orlandi, con molte interviste a persone che lo avevano conosciuto. Riscoprii anche un libro che avevo letto da ragazzo, ossia L’evasione impossibile di Sante Notarnicola (pubblicato nel 1972 da Feltrinelli). In quel libro, prima di addentrarsi nella lotta dei detenuti di cui fu protagonista, Notarnicola racconta della banda torinese. Sono partito da quelle pagine.

Verosimile e vero. Alla fine del romanzo c’è un’appendice molto bella dedicata al tuo incontro con Sante Notarnicola.

Sì, Sante è rimasto molto colpito dal mio manoscritto, la sua è stata una testimonianza che insieme rende il romanzo più romanzo e la storia più vera. Per scriverlo mi sono servito di un personaggio di fantasia, un amico fraterno che saprà guardare la vicenda dall’interno e dall’esterno, non tradendo mai i suoi compagni, ma che quando la banda inizia il ciclo delle rapine decide di non parteciparvi.

Il romanzo è anche uno spaccato dell’Italia del boom economico, della mutazione antropologica analizzata in quegli anni da Pasolini. Ma mentre Pasolini – pur con la sua acuta sensibilità e cultura – rimane fermo all’analisi la condizione sociale, la banda Cavallero – bene o male – agisce.

Ho cercato di raccontare l’Italia degli anni ’60, l’eredità degli ideali della Resistenza e la vita nelle sezioni del PCI – che erano le fondamenta etiche dei componenti della banda. E poi l’emigrazione dal Sud, i quartieri operai e il duro lavoro di fabbrica, ma anche le feste, la musica, il calcio. Sia Pasolini che i ragazzi della banda Cavallero – come successivamente molti altri giovani degli anni ’70 – si sentirono traditi dal Partito Comunista. Le reazioni furono diverse, è vero che Pietro Cavallero si era molto politicizzato prima della formazione della banda, ma è anche vero che alla banda mancò totalmente un progetto politico. La banda Cavallero è un’esperienza pre-politica. Notarnicola negli anni successivi, in carcere, attraversando le lotte, maturò ulteriormente la sua militanza.

La banda Cavallerò suscitò all’epoca un interesse mediatico fortissimo. E alla banda Carlo Lizzani si ispirò esplicitamente per il suo “Banditi a Milano”. La fine della banda e il processo milanese alla stessa fanno da spartiacque tra prima e dopo il ’68. Pietro Cavallero, Sante Notarnicola e Adriano Rovoletto – dopo la lettura della sentenza che li condannava all’ergastolo – si alzarono in piedi e con il pugno chiuso alto cantarono Figli dell’officina, notissimo inno anarchico della tradizione operaia.

Qualche mese prima del processo ci fu il maggio parigino, è probabile che quei fatti abbiano rinverdito le originarie convinzioni politiche della banda. Mentre invece – sempre qualche mese prima del processo – uscì Banditi a Milano, con protagonisti Gian Maria Volontè e Tomas Milian. Tra l’arresto e il processo passano solo sei mesi, e quindi questo fu un vero istant-film, ideato e girato in pochissimo tempo da Lizzani, che da buon intellettuale organico al PCI – indirettamente o direttamente sotto influenza degli apparati moralisti del Partito, che in quegli anni teme anche le rivolte giovanili – cancella gli ideali originari della banda e la loro militanza attiva nella sezione Banfo e relega le azioni dei suoi componenti a mera conseguenza dei mutamenti economici e sociologici del periodo. D’altronde cinque anni prima il Partito aveva già fatto dei distinguo rispetto ai fatti di Piazza Statuto, quando definì “elementi incontrollati”, “scalmanati” e “irresponsabili” i protagonisti di quella rivolta, figuriamoci se poteva in qualche modo comprendere e tanto meno giustificare l’uso di pistole e rapine. Per inciso, ricordo che furono oltre mille gli operai che vennero arrestati e denunciati, e molti di più parteciparono agli scontri. Il film di Lizzani – che ha anche i suoi pregi – fu comunque un film seminale che dette inizio a un genere di successo, il poliziesco all’italiana o poliziottesco (seguiranno La Polizia ringrazia, Milano violenta, La polizia ha le mani legate, etc).

Uno dei fili conduttori della tua scrittura è la memoria.

Spesso sono partito da frammenti di memoria che poi ho articolato in forma di biografia, di romanzo, di racconto, dalle gesta sportive di Pierino Ghetti, calciatore del Bologna degli anni ’70, a quelle di Dante Canè, campione di pugilato, dai giochi dei bambini alla biografia a fumetti (con i disegni di Fabrizio Fabbri) di Giorgio Morandi. Io mi limito a raccontare le vicende cercando di trovare punti di vista diversi, i miei libri più che un lavoro di intreccio narrativo sono l’esposizione di punti di vista differenti. Cerco di romanzare la realtà dei fatti, dialogando con la storia e – in qualche maniera – con l’attualità. Per esempio, quando per documentarmi ho visitato i quartieri di Torino, mi sono reso conto che, se a livello lavorativo abbiamo avuto una trasformazione enorme, la condizione degli immigrati dal Sud del mondo che ora abitano quelle vie è molto simile a quella degli immigrati meridionali degli anni ’60, ecco allora che ho potuto calcare meglio certe situazioni per creare dei cortocircuiti che possono far pensare anche all’oggi.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una sorta di “dittatura del vintage”. Si possono osservare tendenze che recuperano stili dei decenni passati e li mitizzano, quasi una paralisi immaginativa che si rifiuta di creare e immaginare nuovi scenari. È un fenomeno che sottolinea la nostra incapacità a leggere e ad analizzare il presente. In questa “dittatura del vintage” rischiano di rimanere impigliati anche gli scrittori che raccontano e mitizzano figure di rivoluzionari e di movimenti del passato. Il tuo romanzo mi è sembrato fuori da questo rischio, non mitizza nulla pur raccontando in maniera partecipata gli accadimenti della banda Cavallero.

Sì, ho cercato di non enfatizzare, di non dare giudizi, rischiando anche una certa freddezza e descrittività cronachistica, insomma una scrittura distaccata e coinvolta nello stesso tempo. L’io-narrante, come spesso per chi scrive, ha in fondo anche alcuni tratti biografici. Inoltre c’è una sorta di comprensione amicale, senza per questo creare degli eroi, che sarebbero inutili sia alla storia sia all’attualità.

Claudio Bolognini ha pubblicato diversi libri di racconti e romanzi, tra cui “Apache”, “Mani in alto”, “Tana libera tutti”. Insieme a Fabrizio Fabbri ha scritto la biografia a fumetti di Giorgio Morandi.

I ragazzi della barriera. La storia della banda Cavallero

Agenzia X, 219 pagine, 14 euro

Agenzia X, via Giuseppe Ripamonti 13, 20136 Milano tel. + fax 02/89401966
www.agenziax.it – info@agenziax.it facebook.com/agenziax – twitter.com/agenziax

]]>
Un granello di sabbia/2 https://www.carmillaonline.com/2015/07/16/un-granello-di-sabbia2/ Wed, 15 Jul 2015 22:30:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23941 di Alexik

Volterra 4[A questo link il capitolo precedente.]

“La prima volta che sono arrivato a Volterra era di sera. Arrivo e mi portano in una specie di corridoio … C’era un televisorino e una cinquantina di persone, tutte anziane. Vedo tutti questi vecchi ergastolani, ‘senza fine’. Seduti su sgabelli, in silenzio, che guardano… Lì vidi l’ergastolo1”. (Sante Notarnicola)

La presa in carico a livello legale di Adriano Rovoletto, e [...]]]> di Alexik

Volterra 4[A questo link il capitolo precedente.]

“La prima volta che sono arrivato a Volterra era di sera. Arrivo e mi portano in una specie di corridoio … C’era un televisorino e una cinquantina di persone, tutte anziane. Vedo tutti questi vecchi ergastolani, ‘senza fine’. Seduti su sgabelli, in silenzio, che guardano… Lì vidi l’ergastolo1”. (Sante Notarnicola)

La presa in carico a livello legale di Adriano Rovoletto, e a livello umano di tutti i componenti della Banda Cavallero, segnò l’inizio, per Bianca Guidetti Serra, di un lunga battaglia contro la pena dell’ergastolo, “incompatibile con il principio costituzionale che assegna alla pena una finalità di recupero del condannato, al quale non può dunque essere negata la speranza in un futuro oltre le sbarre”. 

Così disse nella sua arringa finale, anche se non riuscì ad evitare le condanne a vita per quella banda di rapinatori anomali, collocata a metà strada fra la Resistenza e la lotta armata degli anni ’702. Li abbracciò ad uno ad uno – con un atto poco consono al distacco professionale – prima che, in ceppi, venissero consegnati alla galera definitiva, suggellando la nascita di un lungo rapporto. Di Rovoletto, Cavallero e Notarnicola, Bianca Guidetti Serra raccolse e pubblicò brani sull’esperienza dell’ergastolo3, nell’ambito del suo costante impegno per l’abolizione del ‘fine pena mai’. Anni dopo, come deputata di Democrazia Proletaria, avrebbe provato a scardinare l’istituto della galera a vita anche con una proposta di legge. Senza successo, visto che il vento tirava da tutt’altra parte, verso l’approvazione, cioè, dell’ergastolo ostativo4 (tuttora vigente), che impedisce l’accesso ai benefici di pena a chi rifiuti la delazione.

Le Nuove di Torino.

Le Nuove di Torino, costruite secondo il sistema “panopticon”.

Ma alla fine degli anni ’60 gli argomenti che il nascente movimento delle carceri poneva sul tappeto non riguardavano solo quanta pena fosse comminata, ma anche di quale pena si trattasse, dentro galere per nulla mutate dai tempi del fascismo. Le Nuove di Torino aprirono la stagione delle lotte carcerarie nel ’68, innescando un incendio che si estese in tutta Italia. Il vecchio carcere sabaudo riesplose poi nell’aprile ’69 quando “ fu distrutta la cappella (la religione è una delle chiavi del cosiddetto sistema rieducativo basato sulla violenza); l’ufficio matricola; l’ufficio fascicoli personali, dove il detenuto riceve il marchio di reietto; l’infermeria simbolo della discriminazione classista interna, in quanto è noto che le persone di elevata condizione (o che possono pagare) vi sono ricoverate sine die. Furono distrutte le fogne del 1857 e le tubature d’acqua antiquate, i miseri “impianti” per l’igiene, con lo scopo dichiarato di farle costruire nuove e come denuncia di una condizione di vita disumana. Furono resi inservibili i macchinari delle lavorazioni su cui si fatica otto ore per guadagnare 350 lire al giorno”.5

Questo l’epilogo della rivolta nei racconti di un detenuto: “Alle Nuove di Torino ho evitato per miracolo le raffiche dei mitra, sparate dalle mura di cinta, l’acre odore dei gas è ancora nelle mie narici, la visione di alcuni compagni feriti, due seriamente, una raffica alle mani a uno e un proiettile in una gamba a un altro, solo feriti per fortuna a Torino”.6

Le NUove di Torino.

Le Nuove di Torino.

Bianca Guidetti Serra si trovò nel collegio di difesa dei 68 imputati di quella lotta, in un processo che finì, come monito, con una sentenza fra le più dure. In seguito dimostrò la sua vicinanza al movimento dei detenuti anche nella difesa dei ribelli del carcere di Pescara, con i quali costruì una nuova modalità di affrontare i processi: gli imputati vollero gestire in prima persona la propria autodifesa “affiancati da noi avvocati che cercammo di fare il processo con loro, reinterpretando il nostro ruolo professionale”.7

Furono lotte durissime quelle carcerarie, con un prezzo molto alto in termini di morti, feriti e anni di galera, contro il regolamento penitenziario fascista datato 1931. Ottennero nel ’75 la riforma dell’ordinamento penitenziario (alla cui fase preparatoria lavorò anche la Guidetti Serra), che offriva, sulla carta, livelli minimi di decenza. Benefici presto annullati per i ribelli, a cui vennero destinati, due anni dopo, gli inferni delle carceri speciali.8

Avvocatessa dei rivoltosi, Bianca portò assistenza legale anche ai braccianti di Cutro, che nel novembre ’67 occuparono le terre incolte di Isola Capo Rizzuto sostenendo pesanti scontri con la polizia. Quella volta insorse un intero paese, e il Municipio finì in fiamme9. Fu uno degli ultimi fuochi del ciclo di lotte bracciantili, e forse l’anticipazione di quello che da lì a poco sarebbe divampato nelle università, e poi nelle fabbriche e nella società intera. Come è d’uso oggigiorno, anche i braccianti calabresi vennero accusati di devastazione e saccheggio, ma per loro fortuna, a differenza dei condannati del G8 di Genova, la questione si concluse con l’amnistia.

Torino 1967Intanto, dall’altro capo della penisola, gli studenti di Torino anticiparono di qualche mese il ’68 occupando la sede universitaria di Palazzo Campana, contro l’autoritarismo dei baroni e per la riforma dei programmi di studio. “Quel “restare” nei locali dell’università – disse Bianca – provocò presto a Torino circa cinquecento denunce per occupazione di pubblico edificio, e una folla di studenti nel mio studio per consigli legali”.10

Bianca fu interna al comitato di difesa organizzato dai giuristi democratici per fare fronte alle centinaia di arresti e denunce che seguivano gli sgomberi, le manifestazioni, gli scontri di piazza. Presto i processi per picchettaggio davanti a Mirafiori cominciarono ad interessare anche studenti, e non solo gli operai. Ancora uno volta lo studio legale si dimostrava un osservatorio privilegiato dei cambiamento, intercettando sul nascere questa saldatura, e l’emergere della conflittualità di un nuovo soggetto operaio, quello che aveva già ricevuto il battesimo del fuoco qualche anno prima a Piazza Statuto.

In fabbrica il ’68 cominciava a entrare nei reparti. Si intuiva dalla partecipazione altissima agli scioperi indetti dai sindacati per le pensioni, per la riduzione dell’orario, per la rinegoziazione del cottimo, contro i turni di notte e i sabati al lavoro, per l’abolizione delle gabbie salariali.

Alla Fiat l’era Valletta si era chiusa due anni prima, col subentro di Gianni Agnelli al timone della ditta. Duro esordio per il rampollo degli Agnelli: nella primavera del ’69 negli stabilimenti di Torino gli operai delle presse si autoridussero la produzione, per la prima volta nella storia della Fiat. Cortei interni, scioperi a scacchiera … da allora fu un susseguirsi di lotte spontanee, in un crescendo sempre meno controllabile dagli organismi sindacali. L’11 aprile tutti gli operai Fiat di Torino uscirono in corteo dalle fabbriche (e non accadeva da almeno 20 anni) dopo l’uccisione da parte della polizia di Carmine Citro e Teresa Ricciardi, durante uno sciopero generale a Battipaglia

fiat69Il 3 luglio, nel tentativo di riprendere l’egemonia delle lotte, il sindacato organizzò uno sciopero contro il caro affitti. L’assemblea operai-studenti colse l’occasione per collegare le autoriduzioni degli affitti in corso nel quartiere Nichelino con le lotte di reparto, dando appuntamento alla porta due di Mirafiori. Il concentramento venne attaccato a freddo dalla polizia, ancora prima della partenza del corteo.

Succedeva. Ai tempi dirigeva la questura di Torino Marcello Guida, amico personale di Mussolini durante il ventennio e direttore, all’epoca, della colonia penale di Ventotene (evidentemente, la Commissione per le epurazioni non lo aveva minimamente sfiorato). Al vertice dell’ufficio politico vi era Ermanno Bessone, col suo sottoposto Aldo Romano. Entrambi, assieme al questore, risultarono in seguito sul libro paga della Fiat. Pertanto il comportamento poliziesco era abbastanza prevedibile.

Ciò che non era previsto e che forse non era prevedibile né dalla polizia né dagli organizzatori fu la reazione spontanea della massa dei dimostranti, che anziché disperdersi iniziarono a rispondere alle cariche della polizia con una fitta sassaiola e tentarono di ricostruire il corteo poco lontano, in corso Agnelli, dirigendosi quindi verso  in Corso Unione Sovietica per sfociare in Corso Traiano”.11

La battaglia di strada durò più di 10 ore, coinvolgendo operai di altre fabbriche e abitanti del quartiere, che dalle finestre tiravano sulla polizia oggetti di ogni tipo.12. Un assaggio anticipato dell’autunno caldo.  (Continua)

 


  1. Bianca Guidetti Serra,  Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), Linea D’Ombra, 1994, p. 87. 

  2. Per la storia della Banda Cavallero: Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Odradek, 2005, pp. XXVI- 197. 

  3. Bianca Guidetti Serra, Contro l’ergastolo. Il processo alla banda Cavallero, Edizioni dell’Asino, 2010, pp. 56. 

  4. Rosa Ugolini, Ergastolo, una pena infinita

  5. Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 1973. 

  6. Idem, p. 324. 

  7. Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p. 163. 

  8. La controriforma carceraria

  9. Chiedevano la terra e ora sono in tribunale, L’Unità, 21 febbraio 1968. 

  10. Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p. 158. 

  11. Diego Giachetti, Marco Scavino, La Fiat in mano agli operai: l’autunno caldo del 1969, BSF, 1999, p. 43. 

  12. Per approfondire: Diego Giachetti, Il giorno più lungo: la rivolta di Corso Traiano, BDF, 1997, 119 p. 

]]>
Un percorso lungo un secolo: in ricordo di Bianca Guidetti Serra https://www.carmillaonline.com/2015/05/13/un-percorso-lungo-un-secolo-in-ricordo-di-bianca-guidetti-serra/ Wed, 13 May 2015 21:40:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22572 di Sante Notarnicola

bianca-guidetti-serra 3[Nell’ambito della tre giorni “Una Montagna di Libri contro il Tav” un ricordo collettivo riproporrà il percorso di Bianca Guidetti Serra, uno dei giganti del ‘900 italiano, a quasi un anno dalla fine della sua lunga vita. Dieci persone si alterneranno leggendo i suoi scritti o raccontandone frammenti di storia, anche grazie alle testimonianze dirette di chi l’ha conosciuta: Fabrizio Salmoni, figlio di Bianca e militante No Tav, il giornalista Peter Freeman che l’ebbe come avvocatessa, e Sante Notarnicola, che la conobbe durante il processo alla banda Cavallero. [...]]]> di Sante Notarnicola

bianca-guidetti-serra 3[Nell’ambito della tre giorni “Una Montagna di Libri contro il Tav” un ricordo collettivo riproporrà il percorso di Bianca Guidetti Serra, uno dei giganti del ‘900 italiano, a quasi un anno dalla fine della sua lunga vita. Dieci persone si alterneranno leggendo i suoi scritti o raccontandone frammenti di storia, anche grazie alle testimonianze dirette di chi l’ha conosciuta: Fabrizio Salmoni, figlio di Bianca e militante No Tav, il giornalista Peter Freeman che l’ebbe come avvocatessa, e Sante Notarnicola, che la conobbe durante il processo alla banda Cavallero. Ne verrà ricordata l’opposizione al fascismo, l’amicizia con Primo Levi, la militanza nella Resistenza e l’attività forense vissuta come impegno sociale. Un impegno costante in difesa dei lavoratori, dei minori, delle donne, dei prigionieri delle dittature, dei condannati alla “morte in vita” dell’ergastolo. Il 15-16-17 maggio tutte le iniziative della tre giorni verranno trasmesse in diretta streaming da Radio Al Suolo.] Alexik

Ho conosciuto Bianca l’otto Maggio del 1968 nella Corte d’Assise di Milano, dove per la prima volta mettevo piede per essere giudicato insieme ai miei compagni di allora. I capi d’imputazione erano 75, alcuni dei quali comportavano la massima pena: l’ergastolo. Una pena che a Milano non era stata data da vari lustri, come diceva la stampa dell’epoca.

Venivo da 8 mesi di isolamento totale durante i quali non avevo avuto che poche e frammentarie notizie su ciò che circolava dal dopo arresto fino al processo. Ero quindi frastornato. Mi ripresi alla svelta rincontrando i miei vecchi compagni che non avevo più visto né sentito, durante un arco di tempo che aveva prodotto tra noi alcune contraddizioni piuttosto pesanti. Il prevedibile attacco scatenato dalla stampa, teso a delegittimarci nella dignità, ebbe invece l’effetto di ricomporre momentaneamente tutti noi imputati.

Iniziato il processo mi guardai intorno nell’aula e chiesi a Rovoletto chi era l’avvocatessa che lo difendeva. Da subito osservai l’atteggiamento riverenziale che gli avvocati avevano nei confronti dei giudici, e non ci detti peso fino a quando la Guidetti Serra prese la parola e con tono deciso fece scendere di qualche gradino la corte nel suo insieme, stabilendo con una sola parola “Giudice !” una specie di parità, inimmaginabile a quei tempi.

RIVOLTA DI DETENUTI DEL CARCERE DI SAN VITTORE, DETENUTI SUL TETTO DEL CARCERE ANNO 1969Più in là nel tempo, quando una buona parte dei detenuti di San Vittore (e anche di altre prigioni), si fece protagonista, con l’aiuto dei movimenti del tempo, di una dura lotta lunga sei anni che sconvolse tutte le prigioni del paese,  in molti processi i giudici restarono soltanto “giudici”, senza gli orpelli a cui si erano abituati facendosi chiamare “eccellenza”, con tanto di inchino.

Come fuori, anche nelle prigioni i detenuti conquistavano la loro dignità. Mano a mano con le lotte, letture e discussioni, costruivano la cosa più importante: l’identità. E la parola più usata, “compagno”, circolò tra le celle delle prigioni per molti anni.

Il processo si concluse i primi di luglio. Le contraddizioni nostre e soprattutto la divisione fisica nei vari bracci, impedì una difesa comune. Ci accordammo soltanto sulla risposta da dare all’inevitabile condanna all’ergastolo. Gli ergastoli furono tre a testa (in appello diventeranno cinque).

Banda_CavalleroLa nostra risposta fu cantare l’inno dei giovani comunisti.

Dopo la sentenza nello stanzone che ci conteneva, pieno di carabinieri, si udì una voce alterata che gridava ”lasciatemi passare”. Un ufficiale le fece strada, era Bianca. Volle abbracciarci uno per uno e disse, scandendo le parole perché tutti potessero udire: ”come avvocato, come cittadina e come persona sono contro la pena dell’ergastolo”. Ci saremmo rivisti in appello.

Al processo d’appello le cose erano cambiate, avevamo stretto rapporti con Lotta Continua, con Re Nudo ed altri organismi del movimento. In aula ci fecero una gradita sorpresa: per tutte le udienze i militanti occuparono i posti destinati al pubblico. Un segno di solidarietà che ancora oggi ricordo con emozione.

Erano passati quasi due anni che risultarono decisivi per il consolidamento delle lotte e dei rapporti con il movimento: passo dopo passo diventammo interni a quel movimento. Le bombe di Piazza Fontana ci fecero maturare alla svelta.

Superammo, anche noi nelle prigioni, l’improvvisazione delle lotte. Ci eravamo dati un programma ambizioso: dovevamo muoverci nel carcere come in una fabbrica, e lottare come nelle fabbriche; ordinati e decisi ci guadagnammo il rispetto di tutto il movimento che non ci vide più come lumpen, ma come compagni di viaggio. E la verifica la fecero loro stessi perché la prigione, anche per loro, divenne consuetudine per via delle risposte repressive alle lotte.

RivoltaCosì quando due anni dopo ci trovammo in corte d’appello la maturazione, la consapevolezza, la responsabilità si evidenziò nell’occupazione da parte di Lotta Continua, di Re Nudo ed altri organismi del settore riservato ai cittadini.

Bianca, intravista a San Vittore mi disse, chinando il capo sul mio orecchio, “Hanno arrestato mio figlio…”. Fabrizio era stato catturato per aver partecipato a una manifestazione antifascista. Ovviamente alle Nuove di Torino fu trattato con particolare attenzione dalla massa di detenuti in quanto Bianca era popolare in quel carcere.

Finita la fase processuale, nel tornare a San Vittore carichi di ergastoli, di catene e di carabinieri, trovammo il portone chiuso. Incredulo mi comunicarono che la direzione del carcere non mi voleva. Ero stato espulso da San Vittore. Cominciò così la mia vita errante da un carcere all’altro. La corrispondenza con Bianca, con i compagni di movimento e con i detenuti di altri carceri (lettere per lo più uscite clandestinamente) mi impegnò, specie nei frequenti periodi di isolamento.

Intanto scoprivo tutte le fasi più importanti dell’impegno di avvocato (e non solo) di Bianca. In quel tempo era scoppiato lo scandalo “dei celestini”, di bambini rinchiusi in istituti e maltrattati. Bambini senza un futuro che non fosse il carcere, senza un solo affetto. Bianca fece un lavoro straordinario anche in quella circostanza gettando le basi per una legislazione a tutela dei minori.

Approdai nel penitenziario più rognoso di quel tempo: Volterra. Qui erano concentrati coloro che individualmente non accettavano passivamente nessun tipo di carcere. Una vera scuola di ribelli, molti dei quali avrebbero avuto un ruolo importante nelle lotte che già si allargavano ovunque nelle prigioni. Non ci avrebbero fermati gli scontri, i trasferimenti, le botte nelle segrete, l’affamamento, le denunce e i processi. Noi andavamo creando un carcere alternativo fatto di obiettivi sempre più alti, parlavamo già di organizzazione da curare giorno dopo giorno con l’obiettivo più nobile: la libertà, la fuga, quella fatta con le lime o sequestrando guardie. E chiunque, arrestato e messo in un braccio, da subito trovava il suo posto di lotta.

Un ricordo particolare del mio avvocato?

Ilona_Staller_in_parlamentoIl 2 Luglio 1987, primo giorno di legislatura, Ilona Staller entrò nella Camera come deputata del partito Radicale. L’accolse un muro di fotografi, telecamere e giornalisti. Ilona era una persona minuta e stretta in quella bolgia lo sembrò ancora di più.

Era manifesta la morbosità e lo squallore della stampa. Entrò nella Camera e qualcuno le disse quale era il settore riservato ai radicali, lassù in alto. Nella vastità dell’aula la Staller era un puntino bianco, col vuoto tutto intorno. Quel vuoto era un pugno nello stomaco.

Poi una donna salì, con una certa solennità i gradini dell’emiciclo, scansando i “poco onorevoli”. Andò a sedersi al fianco della Staller. Le mise il braccio sulla spalla e le regalò un sorriso misurato. Il brusio si zittì e Ilona parve accostarsi di più a quella donna che era (lei si ONOREVOLE) Bianca Guidetti Serra, il mio avvocato.

]]>