avanguardie – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quel brutto pasticcio della guerra (e della prigionia) https://www.carmillaonline.com/2023/02/01/quel-brutto-pasticcio-della-guerra-e-della-prigionia/ Wed, 01 Feb 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75802 di Sandro Moiso

Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, a cura di Paola Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 626, euro 35,00

Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è stato uno straordinario innovatore nell’uso della lingua nella prosa italiana. Autore di romanzi, racconti, saggi e traduzioni, soprattutto quest’ultime di testi del Siglo de Oro spagnolo, ha visto, però, la straordinaria varietà e ricchezza linguistica e l’ironia, spinta in taluni casi fin quasi al sarcasmo, che hanno connotato le sue opere maggiori trasformate in ostacoli che hanno reso talvolta più difficile l’approccio [...]]]> di Sandro Moiso

Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, a cura di Paola Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 626, euro 35,00

Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è stato uno straordinario innovatore nell’uso della lingua nella prosa italiana. Autore di romanzi, racconti, saggi e traduzioni, soprattutto quest’ultime di testi del Siglo de Oro spagnolo, ha visto, però, la straordinaria varietà e ricchezza linguistica e l’ironia, spinta in taluni casi fin quasi al sarcasmo, che hanno connotato le sue opere maggiori trasformate in ostacoli che hanno reso talvolta più difficile l’approccio del grande pubblico ai suoi testi.

Testi che, soprattutto dal punto di vista linguistico, è infatti possibile avvicinare alle avanguardie letterarie, non solo italiane, più che alla letteratura tradizionale dell’Italia moderna, caratterizzata, fin dall’Ottocento, da certi scadimenti nazionalpopolari e melodrammatici che non sono migliorati nemmeno oggi, quando a tale tendenza si è affiancato, in tanta produzione letteraria degli ultimi decenni, un eccesso d’intimismo che non ha fatto altro che rafforzarne il sentimentalismo.

Tra gli autori italiani del ‘900 sono stati Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini a concentrare maggiormente l’attenzione sull’uso della lingua che lo scrittore, ingegnere di professione come ricordano le sue biografie, spesso dilatava in tutti i suoi infiniti registri stilistici nei suoi romanzi e racconti. Ma se Calvino, che può essere considerato insieme allo stesso Gadda e a Primo Levi uno degli autori italiani più attenti a ibridare il linguaggio tecnico-scientifico con la ricerca letteraria, non abbandonò mai la sponda illuministica della facoltà raziocinante e razionalizzatrice della creazione letteraria, Gadda invece, con un uso smodato della lingua in ogni sua forma tendeva a costringere la ragione, di cui lui, ingegnere, doveva esser portatore in ogni progetto, a fare i conti con una realtà magmatica, la cui oggettività poteva espandersi fino a diventare inafferrabile nei suoi sviluppi. Come affermò lo stesso Calvino, nella introduzione all’edizione americana del Pasticciaccio nel 1984:

È il ribollente calderone della vita, è la stratificazione infinita della realtà, è il groviglio inestricabile della conoscenza ciò che Gadda vuole rappresentare. […] La vera cosa che Gadda aveva da dire è la congestionata sovrabbondanza di queste pagine attraverso la quale prende forma un unico complesso oggetto, organismo e simbolo che è la città di Roma.
[…] La Roma stracciona e sbraitante del cinema neorealistico (che proprio in quegli anni viveva la sua età dell’oro) acquista nel libro di Gadda uno spessore culturale, storico, mitico che il neorealismo ignorava1.

In occasione di una conferenza tenuta a Buenos Aires e pubblicata nel 1984 con il titolo Il libro, i libri, Calvino avrebbe ancora affermato: «In Italia il romanziere enciclopedico per eccellenza è Carlo Emilio Gadda, che nel Pasticciaccio brutto di Via Merulana condensa in un intreccio poliziesco i dialetti di Roma e di mezza Italia, l’arte barocca e l’epopea di Virgilio, la psicologia e la fisiologia, e soprattutto una filosofia della conoscenza»2. Mentre nella quinta delle Lezioni americane, avrebbe ancora sostenuto: «Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento»3.

Durante il suo primo viaggio in America, Calvino aveva avuto occasione, nel 1959, di mettere a confronto Gadda e Pasolini, proprio sul tema del linguaggio, in un discorso che sarebbe stato pubblicato in seguito con il titolo Tre correnti del romanzo italiano d’oggi:

Pasolini scrive i suoi romanzi nel dialetto o meglio nel gergo del sottoproletariato dei sobborghi di Roma […] Con ostinata volontà razionale, Pasolini contrappone nei suoi romanzi e soprattutto nelle sue poesie in lingua […] una sua idea di popolo come istintiva gioia sensuale e una sua idea di severa morale politica di riscatto sociale. Nell’una e nell’altra idea e soprattutto nella loro contrapposizione, c’è ancora una buona parte di ostinazione intellettuale e una buona parte di fervore romantico. […] Il maestro a cui Pasolini si richiama nei suoi esperimenti linguistici è uno scrittore ora già anziano, Carlo Emilio Gadda, che pur rappresenta nella letteratura italiana quasi direi l’unica punta d’avanguardia nella ricerca formale, che possa affiancarsi a consimili esempi stranieri. Il linguaggio di Gadda è la Babele, o meglio la stratificazione, di tutti i linguaggi: dialetti (milanese e romanesco soprattutto), linguaggio dell’antica tradizione letteraria, formule burocratiche, con mille modulazioni e riflessioni che paiono i virtuosismi d’un grande musicista e gli scatti d’insofferenza d’un nevrastenico. Più che a Joyce, a cui molti lo paragonano, Gadda può essere avvicinato a Rabelais. Il suo romanzo maggiore Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, a cui lavora da vent’anni, è una specie di storia poliziesca a cui tutta Roma ribolle come un immenso calderone. In modo paradossale e ossessionato, si compone in Gadda un’immagine dell’Italia d’oggi, sospesa tra umore popolaresco, tradizione, razionalità e nevrosi.

La lingua di Gadda, in cui il realismo si mescola con una fervida fantasia e una satira spesso violenta sembra infatti prendere spunto da quella di Rabelais; un’efficace mistura che avrebbe fatto sì che lo stesso Pasolini definisse Gadda come un «grosso anarchico buono come un ragazzo». I due si erano conosciuti nel 1955 e fin dal 1956 l’Ingegnere aveva collaborato alla rivista «Officina» fondata nel 1955 a Bologna da Pasolini insieme a Francesco Leonetti e Roberto Roversi. Per poi vedere separate le loro strade sul finire degli anni ’50, quando Pasolini iniziò il progressivo avvicinamento a nuove amicizie e sodalizi artistici (con Sergio Citti, Elsa Morante e Alberto Moravia) 4.

Il testo appena ripubblicato da Adelphi, apparso per la prima volta nel 1955, viene ora proposto, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte dell’autore, in una nuova edizione accresciuta da sei taccuini inediti, e ci permette, forse, di individuare l’origine di quella babele linguistica e di quello scontro tra volontà di mantenere fermo un punto di vista positivo e la realtà caotica della società moderna di cui hanno parlato comunque sia Calvino che Pasolini a proposito di Gadda.

Il giornale di guerra e di prigionia, infatti, ci consegna, non solo, il primo lungo esercizio di scrittura di un giovane Gadda arruolatosi come volontario e interventista nel Regio esercito italiano fin dai primi giorni di guerra, ma anche il tentativo di riporre ordine in un’esperienza caotica, disordinata, deludente e tutto sommato inafferrabile come quella della guerra (dall’agosto del 1915 all’ottobre del 1917), prima, e della prigionia (dal novembre 1917 al 29 dicembre 1918), poi.

Per il sottotenente Gadda, che l’aveva auspicata come «necessaria e santa», la Grande Guerra si rivela uno scontro durissimo. Più ancora che con il nemico, con ciò che scatenava in lui un’indignazione così violenta da sfiorare la «volontà omicida»: la meschinità della «vita pantanosa» di caserma; l’incompetenza dei grandi generali; l’indegnità morale dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori, che costringevano gli alpini a marciare con scarpe rotte: « se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato a una rissa, per finirlo a coltellate » confessa.
Come afferma la curatrice, Paola Italia, nella Nota al testo:

Questa nuova edizione dei diari di guerra che Gadda tiene dal 24 agosto 1915, due mesi dopo l’inizio, a Parma, della sua milizia, alla fine del 1919 […] – edizione resa possibile dalla scoperta di sei quaderni inediti, di proprietà degli eredi Bonsanti – […] si rivela un’opera profonda e potente: pur difforme dai più celebri, e letterariamente atteggiati, diari di Soffici, Stuparich e Comisso, appartiene a pieno titolo alla grande letteratura di guerra, e basterebbe da solo ad assicurare a Gadda un posto nel nostro Novecento. Non si tratta, come inizialmente si è ritenuto, di una prova generale della sua narrativa (che prende avvio proprio durante la prigionia), ma di un’opera in sé, originalissima e autonoma. Un’opera che è anche un eccezionale documento storico. Gadda ha vissuto infatti non una, ma una pluralità di guerre, combattute su vari fronti e da lui registrate in maniera accurata e veridica: i diari ce lo mostrano dapprima a Edolo, dove, destinato al 5˚ Reggimento Alpini, giunge il 18 agosto 1915, e a Ponte di Legno, dove trascorre gli ultimi mesi del 1915 fino al gennaio 1916; poi, al termine dell’addestramento a Torino nel maggio 1916, lo seguono a Vicenza, nelle trincee dell’Altopiano dei Sette Comuni, sul monte Zovetto, a Cesuna, a Campiello e in Val d’Assa, dal giugno all’ottobre 1916. Il vuoto dal novembre 1916 all’ottobre 1917 è una voragine aperta nell’anima di Gadda, che, smarrito a Caporetto il prezioso quaderno di «Torino Carso Clodig» e fatto prigioniero il 25 ottobre 1917, ricomincia a scrivere su un quaderno – «acquistato nel Gefangenenlager presso Celle, (provincia di Hannover), alla Kantine del Block C» – che testimonia la sua vita di prigioniero nella «baracca dei poeti », dal maggio all’inizio del novembre 19185.

E forse qui, in questa autentica officina, il lettore attento potrà trovare tutte le inquietudini dell’autore: lo sconforto di non poter inquadrare secondo una logica efficace i fatti, la sconfitta, lo sfondamento delle linee a Caporetto, i cedimenti dei soldati e gli errori e la superficialità degli ufficiali e dei comandi. Il tentativo di descrivere ciò che fino ad allora nessuna aveva osato o saputo immaginare: una guerra devastante che avrebbe irrimediabilmente proiettato la sua ombra sul XX secolo e forse, come oggi purtroppo possiamo constatare, anche oltre.

Un’esperienza che, naturalmente non fu solo di Gadda6. Ma che spesso, proprio negli interventisti convinti scatenò le più forti delusioni ed emozioni. Come ad esempio dimostrano le poesie scritte dall’”interventista” Ungaretti durante la guerra, anch’esse datate come se si trattasse di un diario, certamente tra le più belle e significative dell’intera sua produzione.

Lì, nel fango delle trincee, nella confusione delle ritirate e delle sconfitte, nel sangue dei commilitoni, nel dolore per la scomparsa degli amici oppure, come nel caso di Gadda, di un fratello e nella scoperta della debolezza e insignificanza del singolo, nasceva la necessità di nuovi linguaggi, di nuove formule affabulatorie che potessero rendere l’idea di un caos che non si sarebbe mai potuto immaginare prima.

I soldati d’altri reparti, profughi e randagi, si frammischiavano alla nostra colonna, l’accompagnavano, la sorpassavano, facendomi inviperire per il disordine che ingeneravano. Il marciare uno per uno, in fila indiana e bene ordinata, divenne difficile. Nel scendere il breve tratto di china ripida e boscosa di arbusti, un 100 metri di pendio circa, con un dislivello di 50, infatti dovevamo perdere il collegamento. Cola aveva visto che in un certo punto alcuni ufficiali e soldati tentavano di costruire una passerella, in un punto in cui un masso emergente restringeva la larghezza del fiume. Era sceso lì: sopraggiunto anch’io, in coda alla colonna, vidi e approvai. Ma appena arrivato in fondo, Cola s’avvide che prima che l’incerta passerella fosse costruita occorreva tempo; e piegò subito verso Ternova, seguito dai primi soldati della 3.a Sez. che gli stavano appresso, e risalendo il corso dell’Isonzo (sempre s’intende sulla sinistra orografica). Ma i soldati in coda della 3.a sezione, stanchissimi, con le mitragliatrici a spalla, non poterono seguitare il passo troppo rapido e nervoso di Cola (Cola aveva un passo troppo nervoso, saltellante, irrequieto come il suo carattere, già altre volte riscontratogli), e s’accasciarono lì, pochi metri sopra l’acqua, nel gran disordine. Quando io sopraggiunsi poco dopo trovai i soldati lì, mezzo istupiditi dalla stanchezza, con le armi allato. Qualcuno già aveva smarrito un nastro o due; naturalmente li rimproverai, li copersi di rimproveri, ecc. e mi diedi a cercar Cola e gli altri, nella folla dei soldati e degli ufficiali di tutte le armi che s’affollavano presso la passerella. Cercai, chiamai, mi stancai andando su e giù: e potei radunare i soldati e le mitragliatrici che ancor rimanevano, e cioè la mia sezione e 1’arma della 3.a col Serg. Gandola. L’inquietudine e la responsabilità essendo rimasto solo, la situazione difficilissima, cominciarono a mettermi in gravi angustie. Ero inoltre arrabbiato con Cola e coi soldati per il distacco. Tuttavia mi raccolsi, nell’amarezza, e misurai la situazione: un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d’armi, cioè totalmente liberi da ogni peso, si pigiavano, a rischio di precipitare nel fiume verso la passerella; il fiume non poteva guadarsi in alcun modo; l’Isonzo, sopra Tolmino, e anche ad Auzza, Canale, ecc. ha un letto stretto (20 m circa) a rive precipiti, e profondo (5-6 e più metri). Il fondo non è visibile, ma l’azzurro cupo testimonia della profondità: la corrente è velocissima, torrentizia. Insomma esso ha un carattere affatto diverso dagli altri fiumi della pianura veneta, larghi, ghiaiosi, lenti, e dal corso suo stesso ai piedi del S. Michele. Un tal fiume, in tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore; tanto meno poi vestiti o con armi. – D’altra parte il tempo stringeva e l’affanno cresceva; sentivo ormai a poco a poco delinearsi il pericolo. Non in linea, non in posizione, dove avremmo potuto batterci con onore e infliggere anche ad un nemico preponderante terribili perdite; ma dispersi in ritirata fra una folla di soldati sbandati! Come la sorte s’era atrocemente giocata di me! Non l’onore del combattimento e della lotta, ma l’umiliazione della ritirata, l’abbandono di tanta roba, e ora questo maledetto Isonzo! questi ponti saltati7.

Sono le ore che seguono la ritirata di Caporetto e precedono la resa al nemico, mentre le pagine sono completate nel campo di prigionia di Rastatt nel novembre dello stesso anno. I luoghi e i fiumi (Monte San Michele, Isonzo) sono gli stessi descritti nei versi di Ungaretti. Qui la ricerca di senso mescola la stanchezza dei vinti con la descrizione morfologica e idrogeologica del territorio, mentre nelle poesie di Ungaretti il senso cerca di esprimersi attraverso il minor numero di parole possibile e una scelta precisa delle stesse come in un haiku.

Un rituale della parola, che cerca di dare senso ad una realtà che sembra perderlo ad ogni passo, che avrebbe accompagnato l’esperienza letteraria di chi quella guerra visse sulla propria pelle e attraverso i propri occhi e le proprie orecchie, ben distante dai salotti letterari, che cercarono in seguito di dar voce alle classi subalterne guardandole da lontano, sempre immaginando scenari di redenzione e senza mai provare davvero il senso della sconfitta e della perdita di ogni riferimento.
Come ha affermato Antonio Gibelli:

Che una guerra con queste caratteristiche, fuori e oltre ogni tradizione culturale, ogni esperienza percettiva precedente e soprattutto ogni previsione, costituisse un elemento di rottura profonda e mettesse a dura prova ogni genere di linguaggi acquisiti, è evidente: sia i linguaggi verbali, sia i linguaggi non verbali […] La guerra fu così smisurata che persino gli esponenti delle avanguardie, i quali in genere l’avevano prevista, attesa e non di rado affrontata con entusiasmo come clamoroso inveramento delle loro estetiche, finirono in gran parte per ammutolire di fronte ad essa […] La realtà aveva insomma superato l’immaginazione, aveva chiamato a una sfida estrema il modernismo della visione artistica e spuntato più di una lancia nel campo della rappresentazione dell’orrore8.

Una scoperta e cognizione del dolore che si sarebbe manifestata in tante opere di Gadda, in cui il linguaggio della scienza e della tecnica e quello dell’accademia non sarebbero più bastati a descrivere il mondo. Motivo per cui, ancora oggi, si rende necessario tornare a Gadda e alla sua ricerca linguistica senza accontentarsi di tanto “populismo”, letterario e non, che travestendosi da progressismo non ha fatto altro che avvallare la realtà senza davvero cercare di coglierne l’essenza.


  1. R. Ceserani, Calvino e Gadda. Le tappe e i modi di un incontro, in «The Edimburgh Journal of Gadda Studies», Supplement no. 8, EJGS 7/2011-2017  

  2. Cit. in R. Ceserani, op. cit.  

  3. Ibidem.  

  4. Cfr: S. Corso, Gadda e Pasolini, in «The Edimburgh Journal of Gadda Studies» (EJGS 4/2004). EJGS Supplement no. 1, second edition (2004)  

  5. P. Italia, Nota al testo in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Edizioni Adelphi, Milano 2023, pp. 555-556  

  6. Si pensi a quanto analizzato negli studi di Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna (il Mulino, 1984 e 2000), Eric J. Leed, Terra di nessuno (il Mulino 1985 e 2014), Paola Tonussi, War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale (Edizioni Ares 2022), solo per fare pochi esempi. 

  7. C. E. Gadda, op. cit., pp.317-319. 

  8. A. Gibelli, Introduzione all’edizione italiana di P. Fussell, op. cit., pp. XXII-XXIII  

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Il “tesoro” dell’Internazionale Situazionista e i suoi eredi https://www.carmillaonline.com/2022/04/13/il-tesoro-dellinternazionale-situazionista-e-i-suoi-eredi/ Wed, 13 Apr 2022 20:30:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71360 di Gianfranco Marelli

Sono già trascorsi cinquanta anni da quando l’Internationale Situationniste [1957/1972] decise di interrompere la propria avventura, dal momento che l’obiettivo di presentarsi «come un’avanguardia artistica, come una ricerca sperimentale di una libera costruzione della vita quotidiana ed infine come un contributo all’articolazione teoretica e pratica di una nuova contestazione rivoluzionaria»1, sembrava ormai essere superata da una [...]]]> di Gianfranco Marelli

Sono già trascorsi cinquanta anni da quando l’Internationale Situationniste [1957/1972] decise di interrompere la propria avventura, dal momento che l’obiettivo di presentarsi «come un’avanguardia artistica, come una ricerca sperimentale di una libera costruzione della vita quotidiana ed infine come un contributo all’articolazione teoretica e pratica di una nuova contestazione rivoluzionaria»1, sembrava ormai essere superata da una realtà che aveva saputo far tesoro della critica radicale espressa dai situazionisti. Infatti, il modello di vita consumistico propagandato dalla “società dello spettacolo” – sia nella versione “diffusa” propria dei regimi capitalisti, sia nella versione “concentrata” dei regimi comunisti – aveva iniziato a riconquistare l’appeal di modernità che la contestazione giovanile della seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso aveva profondamente osteggiato, cercando soluzioni alternative, e in molti casi rivoluzionarie, allo sviluppo tecnologico raggiunto (dalla conquista dello spazio alla corsa agli armamenti nucleari) e al progresso economico e sociale conseguito dalla gran parte della popolazione dei Paesi industrialmente avanzati.

Un “tesoro” che in molti hanno finito per spartirsi in tutti i modi possibili con il fine di accrescere il proprio valore rivoluzionario, quanto la propria capacità di governare la trasformazione sociale in atto, con l’intento reciproco di guadagnarsi riconoscimenti, prebende e vantaggi di posizione. E proprio per non volere affidare il “tesoro” dell’I.S. a simili eredi, Debord decise, cinquant’anni fa, di sciogliere l’organizzazione, denunciando «l’immagine di eroi estremisti in una comunità trionfante» che i suoi presunti epigoni – i tanto disprezzati pro-situs – avevano finito per accreditarsi al fine di vantarsene, così da ridurla «in un’organizzazione rivoluzionaria utilizzabile per loro, non occupandosi affatto del progresso della rivoluzione se non nella misura in cui questo si sarebbe occupato di loro»2 .

Del resto, l’esperienza storica dei situazionisti, della loro organizzazione, della loro démarche, è sempre stata costellata da ripetuti e reiterati tentativi di annoverarla nel solco di percorsi tracciati da precedenti avanguardie artistiche, culturali, politiche, sì da trarne un lauto profitto di immagine per altri. Non a caso, infatti, dopo essere stata inizialmente ignorata, osteggiata e denigrata, l’Internationale Situationniste ha visto crescere la sua notorietà nell’olimpo delle avanguardie del secondo ‘900, al punto che oggi la teoria situazionista è ormai considerata la precorritrice di tutte le analisi più radicali nei confronti dell’infosfera, a partire dalla critica ai social media, attraverso il concetto di “spettacolare integrato”; interpretazione, questa, che ha in gran parte travisato qual è stato il “tesoro” nascosto dell’I.S., sopratutto da parte di chi – a tempo ormai scaduto – ha creduto di averlo finalmente individuato, rovistando fra un mucchio di cianfrusaglie, buone, certamente per i mercanti d’arte e per i rivoluzionari di professione, ma del tutto inutilizzabili per chi non vuole «lavorare allo spettacolo della fine di un mondo, ma alla fine del mondo dello spettacolo»3.

Certo, non fu un’impresa semplice quella compiuta dall’Internationale Situationniste nel districarsi e differenziarsi da un pensiero circoscritto e limitato all’interno del modernismo, quale orizzonte d’esperienza e percezione della realtà affermatosi nel secondo dopoguerra, dove l’invenzione del nuovo e l’intuizione della novità contraddistinsero l’azione e l’impegno delle avanguardie, vincolate tuttavia saldamente alle esigenze economico-produttive di uno sviluppo della società fondato sul valore consumistico della merce. Ogni intervento estetico, ogni opera d’arte furono, infatti, cooptate dalle esigenze del funzionalismo architettonico ed urbanistico, intento ad abbellire la crescita smodata della ricostruzione post-bellica nelle grandi metropoli, divenute il proscenio dello spettacolo sociale in cui agli artisti (in quanto specialisti di un mestiere) si affidò il ruolo di “guardiani della passività” degli individui, a fronte di una realtà che incitava alla trasformazione, al cambiamento radicale della vita quotidiana, già possibile grazie allo sviluppo stesso della società attraverso la soddisfazione di nuovi bisogni, nuovi desideri, non più indotti dal consumismo.

Il nuovo e la novità espressi in campo pittorico non rappresentarono, dunque, che uno stravagante e colorito ornamento dello spazio/tempo della società capitalista, e pertanto l’arte moderna assunse il compito di ancella del progresso tecnologico e scientifico, esaurendo la carica propulsiva e rivoluzionaria che precedentemente contraddistingueva le avanguardie estetiche. Divenne così prioritaria – per un’organizzazione accampata ai confini fra arte e politica, quale l’I.S. – una lotta senza esclusione di colpi contro il modernismo, smascherando non soltanto la vacuità e la dabbenaggine di un’arte e di una politica incapace di riconoscere il cambiamento in atto nella società del secondo dopoguerra (figuriamoci, anticiparlo!), ma denunciando pubblicamente la connivenza con il sistema dominante nel fabbricare prodotti culturali ed ideologie politiche finalizzati a decorare l’insignificante esistenza della vita quotidiana.

Ecco, dunque, la noia sofferta dai situazionisti nei confronti delle avanguardie che tentarono di riproporsi come le legittime eredi di un passato glorioso – attraverso l’appiccicaticcio utilizzo del “post” e del suo equivalente “neo” – , al punto da comprendere quanto fosse necessario ridefinirsi a partire dall’impellente urgenza di cambiare la vita e trasformare il mondo con cui le avanguardie d’inizio ‘900 si erano cimentate per condurre l’assalto al cielo contro una società disumana, alienata e infelice. Questione affatto risolta, poiché non occorreva semplicemente criticare l’azione di recupero attuata dalla società dei mercanti nei confronti di coloro che amaramente avevano ottenuto l’agognato riconoscimento artistico e politico – sottostando all’imperativo economico che tramuta ogni arte in merce e di qualsiasi merce fa un capolavoro d’arte – , quanto piuttosto ritrovare il “tesoro” nascosto che le precedenti avanguardie erano riuscite ad individuare, senza, purtroppo, esser state capaci di tramandarlo in eredità.

Tale aspetto fu il fil rouge che fin dalla prima Conferenza organizzativa – svoltasi il 28 luglio 1957 a Cosio d’Arroscia, un piccolo comune dell’interno savonese – si dipanò e diede vita all’Internationale Situationniste: un’esperienza collettiva che, fra alti e bassi, proseguì per quindici anni, attraversando un momento storico gravido di tensioni internazionali, scatenatesi all’indomani della fine della II Guerra mondiale. Basti infatti pensare al processo di decolonizzazione nelle ex-colonie, alla cortina di ferro fra le due superpotenze con l’innalzamento del muro a Berlino, alla crisi dei missili a Cuba, al ruolo di Giovanni XXIII e all’importanza del Concilio Vaticano II, alla guerra in Vietnam, alla rivoluzione culturale in Cina,… . Questi ed altri avvenimenti scossero profondamente gli assetti nazionali, generando profonde crisi politiche sia all’interno del blocco sovietico (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia), sia in Occidente (Grecia, Italia, Francia, Stati Uniti, …), al punto da far montare un’onda di protesta generale contro il “sistema”, in quanto non più in grado di garantire pace e prosperità, ma soprattutto assicurare un futuro fulgido e radioso alle giovani generazioni, sebbene lo sviluppo scientifico e tecnologico (erano gli anni della corsa alla conquista dello Spazio) e il relativo progresso socio-economico promettessero il raggiungimento del benessere, della tranquillità e della finalmente ritrovata felicità.

Del resto gli storici, nel ricostruire l’ordito che caratterizzò l’intera trama situazionista, non poterono non constatare in quel momento una convergenza di interessi fra la sperimentazione di pittori e architetti fra i più influenti dell’avanguardia del secondo ‘900, – come Jorn e Constant, epigoni di “Surréalisme Révolutionnaire”, poi artefici del gruppo CoBrA – con la vita scapestrata e ai margini della legalità attuata dai giovani componenti dell’Internationale Lettriste (tra cui Debord, Bernstein, Wolman) nella Parigi di inizio anni ’50. Li accomunava l’intento di unire le critiche contro il funzionalismo architettonico e l’industrial design – allora all’apice della visione modernista dello spazio urbano e del vivere quotidiano scandito dal tempo della produzione/consumo della merce – a pratiche d’intervento, quali la deriva e la psicogeografia, considerate esperienze concrete per non subire passivamente un habitat urbano che ingabbia la vita dei suoi abitanti, così da teorizzare l’impellente necessità di opporsi radicalmente alla rigida pianificazione di un’esistenza chiusa fra le anguste regole della famiglia, dello studio, del lavoro, del divertimento/loisirs, che genitori, insegnanti, datori di lavoro, consideravano ambìti traguardi per raggiungere la “felicità”, il “benessere”, il “successo”.

Questa “felicità” di una vita intera, spesa nel “desiderio” compulsivo di consumare “beni” al fine di sentirsi importante e di stimato per la società, poteva mai sostituire i desideri autentici con bisogni artificiali, percepiti come bisogni senza esser mai stati desideri? O, non era finalmente arrivato il momento di rivendicare la realizzazione della vita vera, in cui il tempo di vivere non sarebbe mancato più, grazie alla costruzione di situazioni, «vale a dire la costruzione concreta di ambienti temporanei di vita, e la loro trasformazione in una qualità passionale superiore»4? E chi, se non i situazionisti, potevano boriosamente affermare di conoscere le regole principali in grado di sovvertire i rapporti reificati fra l’ambiente e i suoi abitanti attraverso la critica della vita quotidiana, inseparabile dalla costruzione di un ambiente generale, l’urbanismo unitario, «base indispensabile della costruzione delle situazioni nel gioco e nel serio di una società più libera»?5

Quasi sempre, però, tali ricostruzioni storiche finirono per avvalorare l’ipotesi che l’I.S., sebbene nascesse da istanze e problematiche presenti nelle avanguardie artistiche della seconda metà del Novecento, ben presto si liberasse di un simile ingombro per approdare ad una più lucida e critica teoria politica della società; soprattutto Raul Vaneigem – avvicinatosi all’I.S. nei primi anni ‘60 – impresse tale svolta, rimarcando che, come per l’urbanistica e l’informazione, anche le ideologie politiche e i cosiddetti rivoluzionari di professione fossero complementari nelle società capitaliste e “anticapitaliste”, in quanto organizzano il silenzio per mantenere lo status quo e trarne laute ricompense.

Ma possiamo davvero soddisfarci di una siffatta interpretazione che, così facendo, rassicura il senso dell’agire dei situazionisti ad un progressivo, maturo, ineluttabile, cammino verso la pratica rivoluzionaria attraverso la progettazione di una teoria politica che – abbandonata ogni proposizione artistica tesa alla sua realizzazione/superamento nella vita quotidiana – riscoprì la necessaria affermazione del potere (sia pure quello dei consigli) quale orizzonte per definire una nuova idea di felicità e con essa una nuova società?

Sicuramente la notorietà e la celebrità dei situazionisti sono da ascrivere agli avvenimenti che caratterizzarono il Maggio francese, in quanto seppero anticiparlo di qualche anno (il noto “Scandalo di Strasburgo” del novembre 1966), e riuscirono a prefigurarlo attraverso un’analisi critica della società contemporanea: questa risultava caratterizzata dall’alienazione prodotta da un ambiente urbano mercificato, tale da privare gli uomini delle proprie emozioni vive per organizzar loro una sopravvivenza obnubilata dal consumismo spettacolare. Tuttavia, i dodici numeri della rivista “internationale situationniste” [1958/1969], le mostre, i film e le iniziative politiche, le decine di brochure e i libri che scandirono il maturarsi del pensiero situazionista, attestano il fatto che l’obiettivo ultimo di questa organizzazione fu – da sempre – la realizzazione dell’arte in quanto immaginazione di ciò che manca, come bisogno cioè di trasformare da subito la realtà presente; dopotutto, come scrisse uno dei principali protagonisti dell’I.S., se «la moneta è l’opera d’arte trasformata in cifra, il comunismo realizzato è l’opera d’arte trasformata in totalità della vita quotidiana»6.

Un sogno? Un’utopia? O piuttosto il “tesoro” che l’Internationale Situationniste aveva saputo dissotterrare dal cumolo di macerie delle passate rivoluzioni e che, nonostante i numerosi pretendenti all’eredità, non ha ancora trovato i legittimi esecutori testamentari? Certo è che i situazionisti, e pochi altri, sono stati ad un passo dal riconoscerlo e dal provare a utilizzarlo prodigandosi in tutto ciò che allora poteva essere fatto per arricchire la rivoluzione, come avvenne durante la Comune di Parigi nel 1871, Kronstadt nel ’21, Barcellona nel ’36, Budapest nel ’56, nel Joli Mai ‘68… . Quello che in seguito accadde, purtroppo è davanti ai nostri occhi: in tanti si arricchirono, al punto che la rivoluzione è ritornata ad essere “roba per poveracci”. Ma il TESORO è ancora lì: senza padroni, né servi!


  1. Guy Debord, Les situationnistes et les nouvelles formes d’action dans la politique ou l’art, in «Destruktion af rsg-6», catalogo trilingue (danese, francese, inglese), Galerie exi, Odense (Danimarca), giugno 1963  

  2. Guy Debord, La véritable scission dans l’Internationale. Circulaire publique de l’Internationale Situationniste, Champ Libre, Paris 1972. Il testo – scritto interamente da Debord, ma cofirmato da Gianfranco Sanguinetti in «quanto membro dell’I.S. espulso dalla Francia per conto del ministero degli Interni il 27 luglio ’71, al fine di dare a questo studio storico un piacevole tocco d’attualità» – volle sostanzialmente giustificare i motivi che avevano portato allo scioglimento dell’Internationale Situationniste, precisandone il contesto storico e sociale, sottolineando la portata rivoluzionaria del movimento proletario internazionale, ma guardandosi bene dall’evidenziare la debolezza organizzativa e l’incapacità teorico-progettuale che caratterizzarono gli ultimi anni dell’esperienza situazionista.  

  3. “Il senso del deperimento dell’arte”, internationale situationniste, n.3, dicembre 1958.  

  4. Guy Debord, “Rapport sur la construction des situations …”, Parigi, Giugno 1957.  

  5. Debord-Constant, “Dichiarazione di Amsterdam”, internationale situationniste, n. 2, Dicembre 1958.  

  6. Asger Jorn, “Critica della politica economica”, Rapporti presentati all’I.S., Bruxelles, maggio 1960.  

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Il primo Kubrick tra sperimentalismo linguistico e psicanalisi junghiana https://www.carmillaonline.com/2018/08/03/il-primo-kubrick-tra-sperimentalismo-linguistico-e-psicanalisi-junghiana/ Thu, 02 Aug 2018 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47386 di Gioacchino Toni

Facendo il punto sugli studi su più recenti a proposito dell’opera di Stanley Kubrick, Ruggero Eugeni, nell’introduzione al libro di Saverio Zumbo, La trappola del testo. Sul primo Kubrick (Mimesis, 2018), individua la presenza di due filoni principali: il primo indirizzato verso studi empirici basati sui materiali preparatori ai film del regista e il secondo tendete a leggere il cineasta come parte integrante della cultura novecentesca. Se la prima tendenza, sostiene Eugeni, ha il merito di mettere in luce la complessità e la variabilità stilistica e tematica dell’autore, la seconda tende a sostituire l’idea che lo voleva un [...]]]> di Gioacchino Toni

Facendo il punto sugli studi su più recenti a proposito dell’opera di Stanley Kubrick, Ruggero Eugeni, nell’introduzione al libro di Saverio Zumbo, La trappola del testo. Sul primo Kubrick (Mimesis, 2018), individua la presenza di due filoni principali: il primo indirizzato verso studi empirici basati sui materiali preparatori ai film del regista e il secondo tendete a leggere il cineasta come parte integrante della cultura novecentesca. Se la prima tendenza, sostiene Eugeni, ha il merito di mettere in luce la complessità e la variabilità stilistica e tematica dell’autore, la seconda tende a sostituire l’idea che lo voleva un «regista splendidamente e gelidamente isolato» con «il profilo di un artista in grado di giungere a sintesi estremamente dense tanto della modernità (e talvolta della postmodernità) culturale quanto del modernismo estetico novecenteschi» (p. 7).

È proprio a questo ultimo filone che deve essere ricondotto il contributo di Saverio Zumbo che nel suo recente libro riprende il suo lavoro precedente: R. Lasagna, S. Zumbo, I film di Stanley Kubrick (Falsopiano, 1997).

Zumbo ritiene che se le primissime opere del regista risultano contraddistinte sia da uno sperimentalismo in linea con la lezione modernista votata all’autoriflessività, che da un costante riferimento alla psicanalisi junghiana, successivamente le cose cambiano e il connubio tra sperimentalismo linguistico e i modelli interpretativi proposti da Jung si allenta: così come l’inclinazione autoriflessiva della prima produzione, pur non venendo mai meno nelle opere successive, sembra via via diradarsi e perdere in incisività, anche il riferimento profondo alla psicanalisi junghiana sembra attenuarsi lasciando il posto a rimandi freudiani.

Scrive Zumbo che Il modernismo di Kubrick deriva tanto dalla sua partecipazione alle spinte neoavanguardiste dell’epoca in cui lavora che dalla sua conoscenza delle avanguardie storiche.

«Modernismo, dunque, anche nel senso, se così si può dire, più “classico” del termine. In riferimento al fenomeno che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ha attraversato le arti avendo come trait-d’union la riflessività. In letteratura, con T. S. Eliot e James Joyce come massimi teorici, oltre che esponenti di spicco, col funzionalismo in architettura, con lo “straniamento” del teatro epico brechtiano, con le sperimentazioni della musica contemporanea, con l’astrattismo nelle arti figurative. Sintomatica, nell’ambito di queste ultime (ma nel quadro di una ricognizione estetica più generale che trascende le stesse), l’elaborazione teorica di Clement Greenberg, che afferma la necessità di una riflessione, da parte di ciascuna arte, sul medium che le è proprio, sulla sua “opacità”» (p. 15).

Pertanto, il primo Kubrick andrebbe a collocarsi «tra l’onda lunga delle avanguardie storiche e la riscoperta neoavanguardistica delle stesse da parte della modernità cinematografica. Non stupisce quindi che il belga Raymond Haine […] rilevi, nell’intervistare il regista per i “Cahiers”, uno “stile d’avanguardia estremamente datato” nel Bacio dell’assassino. Il tutto da inquadrarsi, ironia della sorte, in prossimità del terremoto che il neo-brechtismo godardiano innescherà di lì a poco. È questo Kubrick che, a differenza di altri analisti, ritengo incarni lo spirito più genuino del modernismo, ovvero la sua caratteristica tendenza a demistificare e problematizzare la rappresentazione. Là dove il Kubrick “consacrato” apparirà maggiormente preoccupato della solidità del mondo diegetico. Sempre più concepito come storia, come realtà di cui penetrare il senso profondo. Sempre meno come discorso. Dal mondo del testo, se vogliamo, al testo del mondo» (pp. 15-16).

Circa l’approccio psicanalitico, sostiene Zumbo che questo «vada modulato, a secondo dei casi, in riferimento a matrici e correnti diverse, dalla psicoanalisi in senso stretto alla psicologia “del profondo” o analitica. Fear and Desire, ancora, presentando forme e tematiche che sono, a mio avviso, di indubbia derivazione junghiana, ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare l’evoluzione del mio sguardo su Kubrick. All’analisi enunciativa, che rimane tutt’oggi la più adatta allo studio delle emergenze metadiscorsive, si unirà perciò, in senso lato, la psico-analisi dei testi filmici. Non tanto perché alla prima si affianchi la seconda, ma soprattutto perché, nelle configurazioni più stimolanti, autoriflessione e “psichicità”, come mi sforzerò di mostrare, saranno “facce della stessa medaglia”, andranno di pari passo. Stando allo sguardo analitico scorgere l’una o l’altra. O preferibilmente, ritengo, entrambe ad un tempo » (pp. 13-14)

Secondo Eugeni il libro di Zumbo ha il merito di rilanciare gli studi sull’opera di Kubrick su un duplice versante: favorire un’analisi junghiana della sua opera e proporre una discussione a proposito delll’appartenenza moderna e/o modernista del cineasta. Anche se le opere posteriori a Lolita (1962) risentono maggiormente del paradigma freudiano e i riferimenti junghiani risultano scissi dalle scelte linguistiche adottate dal regista, lo studioso ritiene che il lavoro di Zumbo possa comunque favorire una rilettura dell’opera di Kubrick in chiave junghiana e ciò risulterebbe importante visto che, nonostante tutto, ritiene Eugeni, anche nel suo cinema maturo persistono elementi junghiani.

«Anzitutto è profondamente junghiano il tema della difficoltà (e spesso l’impossibilità) per l’individuo di condurre un cammino verso il sé che gli permetta di superare il riassorbimento in un inconscio e/o in una coscienza collettivi e impersonali: la collettività, in Jung come in Kubrick, incombe sul soggetto e rende precari, scivolosi, perfino profondamente dolorosi i percorsi di individuazione del sé. Parimenti junghiana è l’idea ben presente in Kubrick di una Storia pensata come patrimonio di immagini dalla esistenza sincronica e trans-temporale: immagini che possono invadere il soggetto e all’interno delle quali questi deve imparare a vivere e a orientarsi – un tema che aprirebbe peraltro una riflessione sui rapporti tra Kubrick, Jung e Aby Warburg. Proprio la figura ricorrente dell’invasione improvvisa e devastante dell’immaginario nel simbolico (per usare una terminologia lacaniana ricorrente negli studi kubrickiani) è un ulteriore elemento che lega a mio avviso Jung a Kubrick: come non pensare a Shining leggendo l’allucinazione del giovane Jung che “prevede” lo scoppio della prima guerra mondiale nell’inverno del 1913 vedendo l’Europa invasa da “sangue, sangue a fiumi”» (pp. 9-10).

Per quanto riguarda l’appartenenza moderna e/o modernista del regista, continua Eugeni, anche se «l’interesse di Kubrick si sposta dalle strutture del linguaggio cinematografico e da quelle del testo filmico alle strutture del mondo e dei soggetti che lo abitano» (p. 10) sembra possibile individuare una qualche forma di continuità nella differenza.

Riprendendo l’opinione di Philippe Fraisse, espressa in Le cinéma au bord du monde. Une approche de Stanley Kubrick (Gallimard, 2010), che individua «un Kubrick in qualche modo surrealista e bretoniano», scrive Eugeni, «giungiamo a un’ipotesi ulteriore: lo spostamento di cui ci parla Zumbo dal testo al mondo è conseguente alla intuizione profonda che il mondo funziona esattamente come il testo: con i suoi rapporti liberi di forme e di forze; con i suoi giochi di rime, simmetrie, casualità, doppi e ombre; con le sue catastrofi, le sue derive e soprattutto il suo scorrere implacabile delle immagini nel tempo» (pp. 10-11).

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Estetiche del potere. Arte, artisti e quel pasticcio putrefatto di carne umana difficile da rifiutare https://www.carmillaonline.com/2016/02/11/estetiche-del-potere-arte-artisti-quel-pasticcio-putrefatto-carne-umana-difficile-rifiutare/ Wed, 10 Feb 2016 23:01:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24806 di Gioacchino Toni

paparoni arte bello buono cattivoDemetrio Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie, Milano, 2014, 417 pagine, € 26,00

“Non ci convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di carne umana che ci offrono”. Così si esprime Hugo Ball riferendosi alla Prima guerra mondiale nell’ambito della rivolta dada contro il potere e l’arte che ne ha tessuto le lodi. Al di là del riferimento specifico alla carneficina bellica, l’affermazione si presta ad una riflessione più generale circa [...]]]> di Gioacchino Toni

paparoni arte bello buono cattivoDemetrio Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie, Milano, 2014, 417 pagine, € 26,00

“Non ci convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di carne umana che ci offrono”. Così si esprime Hugo Ball riferendosi alla Prima guerra mondiale nell’ambito della rivolta dada contro il potere e l’arte che ne ha tessuto le lodi. Al di là del riferimento specifico alla carneficina bellica, l’affermazione si presta ad una riflessione più generale circa il rapporto tra arte e potere. Quante volte gli artisti si sono accomodati a mangiare, o anche solo, più discretamente, ad assaggiare, il pasticcio putrefatto offerto dal potere? Quante altre volte sono stati obbligati a farlo? In quanti casi l’arte si è rivelata complice delle maggiori nefandezze dei dominanti? La questione del rapporto tra arte e potere è vecchia quanto il mondo e se si pensa che, fino ad epoche relativamente recenti, gli artisti hanno quasi sempre lavorato su commissione, non è difficile immaginare come un certo grado di asservimento sia risultato quasi inevitabile. Certo, non sono mancate le eccezioni, o i casi in cui, persino nelle opere celebrative, sono stati inseriti elementi di critica sfruttando la natura polisemica del linguaggio artistico. Se da una parte non mancano esempi di artisti in grado di insinuare dissenso, non mancano nemmeno casi in cui, invece, anche all’interno degli ambiti artistici più innovativi dal punto di vista formale, si rilevano elementi di contiguità col potere. Questa ultima casistica viene affrontata, ad esempio, da Jean Clair, nel suo testo La responsabilité de l’artiste, Gallimard 1997 (La responsabilità dell’artista, Allemandi, 1997) ove l’autore sfata il mito dell’artista ribelle e dell’avanguardia come arte all’opposizione, rivelandone complicità, più o meno consapevoli, con il potere. Nell’ambito di tali ragionamenti si inserisce il saggio di Demetrio Paparoni che, prendendo in considerazione il periodo che va dall’inizio del Novecento fino ad oggi, si propone di indagare come la politica condizioni la vita e la produzione degli artisti.

Trattandosi di indagare il rapporto tra politica ed arte, inevitabilmente una parte rilevante della trattazione è dedicata ai totalitarismi novecenteschi a partire da come il linguaggio neoclassico si riveli il modello di riferimento tanto per l’arte propagandistica sovietica di matrice realista, quanto per l’arte nazista. Sono, ad esempio, numerose le opere che celebrano Lenin e Stalin derivate dall’esaltazione neoclassica di Napoleone operata da artisti come Jacques-Louis David ed evidenti sono, nella stessa propaganda nazionalsocialista, i riferimenti neoclassici; si pensi, ad esempio, alla statuaria di Arno Breker ed alle opere cinematografiche di Leni Riefenstahl. “Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante” (pp. 18-19).
Il saggio ricostruisce la politica artistica attuata dal regime hitleriano a partire dal divieto di esposizione per le opere d’avanguardia e dalla regolamentazione della critica d’arte obbligata a sostituire le valutazioni artistiche con resoconti descrittivi delle opere. Il rifiuto per l’arte d’avanguardia non porta certo ad un realismo crudo, tanto che la poetica della “fotografia esatta” di August Sander, testimone della realtà delle cose, viene risolutamente censurata; l’arte nazionalsocialista mira piuttosto a forme di realismo idealizzato ed il Neoclassicismo, da questo punto di vista, diviene inevitabilmente il linguaggio da cui attingere. Nel 1937 a Monaco vengono allestite, pressoché contemporaneamente, due grandi esposizioni: la mostra relativa all’Arte Degenerata e la Grande Rassegna di Arte Germanica. Nella prima esposizione, vietata ai minorenni, vengono raccolte più di seicento opere appartenenti ai principali movimenti artistici del primo Novecento e messe a confronto con disegni realizzati dai “malati di mente” al fine di mostrare le analogie. Non manca nemmeno l’intento di dimostrare che dietro all’arte degenerata si celi un grande complotto giudaico-comunista. Soltanto una parte delle opere esposte viene distrutta; i lavori più importanti vengono invece venduti all’asta a Lucerna consentendo al regime di ricavare una cifra considerevole. Ad essere mandate al rogo nel falò di Berlino del 1939 sono infatti soprattutto le opere prive di mercato internazionale.
Nel saggio viene menzionato l’insolito caso di Emil Nolde, pittore che resta fedele agli ideali nazionalsocialisti anche quando la sua produzione espressionista viene accusata di essere arte degenerata. All’ostracismo del regime nei confronti della produzione pittorica di un artista di fede nazista, fa da contraltare l’apprezzamento estetico da parte di chi “si è opposto con energia al nazismo, o lo ha subito” (p. 371), tanto che Paparoni sottolinea come “nel valutarne i dipinti e gli acquerelli si è tracciata una linea di demarcazione tra la sua arte e le sue scelte etico-politiche”.
Sicuramente al servizio del Terzo Reich è Arno Breker, celebre soprattutto per le monumentali statue realizzate per il cortile d’onore del Palazzo della Cancelleria, volte a rappresentare l’ideale ariano di bellezza. Paparoni segnala diversi punti di contatto, dal punto di vista estetico e formale, tra le opere dello scultore tedesco e quelle realizzate in Unione Sovietica da Vera Mukhina. Entrambi si confrontano con la rappresentazione della “forma umana idealizzata dai rispettivi regimi” (p. 97), naturalmente le differenti visioni ideologiche si fanno sentire: nel caso sovietico, ad essere celebrata attraverso i robusti corpi è la classe operaia ed il suo duro lavoro nei campi e nelle fabbriche, mentre nel caso nazionalsocialista i possenti corpi intendono esaltare la perfezione ariana. Breker pare davvero incarnare l’ideale estetico dei totalitarismi visto che riceve proposte di lavoro da Franco, da Stalin che, addirittura, al termine della guerra, lo invita a trasferirsi in Unione Sovietica ed, ancora, nel 1971 viene chiamato da Hassan II, re del Marocco, per la realizzazione di una statua equestre in onore del padre.

arte francia occupataNel 1941, in occasione di un’imponente mostra di Breker a Berlino, vengono invitati a presenziare diversi artisti di fama mondiale provenienti da Parigi, tra questi i pittori Maurice Vlaminck ed André Derain. Le foto della loro partenza dalla Gare de l’Est parigina insieme agli ufficiali della Wehrmacht e della successiva visita ai principali musei tedeschi, sono sfruttate ad arte dal Governo tedesco e, di pari passo, l’accusa di collaborazionismo non tarda ad arrivare nei confronti di quanti si sono prestati alla macchina della propaganda nazista.

Risulta difficile convenire con Paparoni nel suo sminuire la portata del lavoro di Leni Riefenstahl. Nel saggio, al fine di ribaltare la testi di chi vede la grandezza della cineasta oscurata dalla sua fede nazista, si sostiene che, al contrario, nella sua produzione non sono ravvisabili valori artistici e che la sua notorietà è conseguenza “dell’enorme macchina propagandistica messa in moto dal regime per sostenerla” (p. 75). Pare limitativo affermare, come fa l’autore, che le sue opere non abbiano inciso sul cinema del dopoguerra; sono diversi gli esempi hollywoodiani da cui emergono riferimenti alle opere della cineasta tedesca. Lo studioso paragona la produzione di Rodčenko con quella della Riefenstahl sostenendo che la grandezza del primo è dovuta alla sua finalità di “dare vita a un linguaggio nuovo per scompigliare le carte” (p. 84), mentre la produzione della seconda si limita a voler “mettere ogni cosa al suo posto” (p. 84). Continuando col confronto, Paparoni sostiene che per quanto “le immagini dei ginnasti o delle parate militari di Riefenstahl e quelle di Rodčenko sembrano in alcuni casi assomigliarsi, esse rispondono a valori estetici diametralmente opposti” (p. 84). Non si vede perché questo confronto tra poetiche dovrebbe obbligatoriamente voler dire grandezza di uno ed, addirittura, inconsistenza dell’altra; non per forza un’estetica volta “all’ordine” deve essere sintomo di mancanza di valore estetico e di inferiorità rispetto ad un’estetica volta a “scompaginare le carte”. Tante volte il pendolo della storia dell’arte ha oscillato tra ordine e disordine, tra classicismo ed anticlassicismo, alternando momenti di innovazione radicale a ritorni all’ordine ma, non per questo, esteticamente parlando, al di là delle inevitabili preferenze personali, un’opzione deve per forza di cose negare valore all’altra. Nel suo stroncare la cineasta tedesca, Paparoni premette di esprimere un parere meramente estetico affrancandosi da ogni pregiudizio ideologico-politico, nella convinzione che si debbano analizzare le “qualità formali dell’opera al di là del fatto che essa promuova valori negativi o positivi” (p. 75). A supporto di tale impostazione l’autore cita l’esempio di come si possa tranquillamente attribuire un giudizio positivo all’opera di Nolde a prescindere dall’ideologia filonazista del pittore. Nonostante la premessa, resta l’impressione che comunque, nel caso della Riefenstahl, il pregiudizio ideologico continui ad incidere sul giudizio estetico. [Sull’argomento si rimanda allo scritto “Estetiche del potere. Sport e propaganda. Olympia di Leni Riefensthal” pubblicato su Carmilla]

Il passato nazionalsocialista continua a pesare sulla produzione artistica tedesca contemporanea e sul dibattito che ne scaturisce. A tal proposito, Paparoni, dedica spazio anche ad Anselm Kiefer, artista intento ad indagare l’identità problematica del popolo tedesco attraverso un viaggio a ritroso nella cultura germanica, tra i suoi miti ed eroi tradizionali, senza tralasciare l’universo nazionalsocialista, nella convinzione che non si possa tacere su nessuna parte del passato. Sull’operato dell’artista, quando tocca tali questioni, sostiene lo studioso, si scatenano inevitabilmente polemiche, così come “ogni qualvolta si torna ad analizzare le relazioni fra la Storia del popolo tedesco, il Romanticismo e la cultura espressa dal nazionalsocialismo” (p. 136). In particolare nel saggio vengono affrontate le polemiche suscitate in Germania dalla mostra, a cui prende parte lo stesso Kiefer, “De l’Allemagne, 1800-1939. De Friedrich à Beckmann”, tenuta a Parigi, al Louvre, nel 2013.
Se in ambito tedesco il passato nazista ha continuato ad essere problematizzato a livello culturale fino ai giorni nostri, in ambito italiano i conti col passato fascista per certi versi sono stati più all’insegna della rimozione; il più delle volte si è preferito non affrontare la questione, soprattutto evitando di interrogarsi circa gli elementi di continuità della politica culturale del dopoguerra con quella del regime. In ambito artistico si è preferito limitarsi a condannare all’oblio gli artisti maggiormente compromessi col fascismo e con essi la loro produzione. Soltanto sul finire degli anni ’70 in Italia cade il più o meno tacito ostracismo nei confronti di artisti direttamente legati al regime, come Sironi, e ciò avviene quando si afferma una generazione di giovani artisti che decide di attingere dal linguaggio artistico del passato ed, in particolare, dalle proposte del primo Novecento.

Nella Russia della Rivoluzione, l’ampia libertà espressiva goduta dagli artisti si interrompe soprattutto a partire dalla metà degli anni ’30, quando il Realismo socialista conquista il monopolio della scena obbligando di fatto l’arte ad esprimere “verità oggettive” contro ogni “soggettivismo”. L’arte d’avanguardia viene accusata di “formalismo”; il suo interesse per la forma e per il linguaggio viene ritenuto in contrasto con la “funzione rivoluzionaria dell’arte”. Anche negli anni della destalinizzazione di Chruščëv, la posizione ufficiale nei confronti dell’arte non cambia; viene infatti ribadito che “la vocazione delle arti sovietiche deve riflettere con sincerità la vita, ispirare il popolo nella costruzione del comunismo e instillare negli uomini i sentimenti più belli ed elevati e un profondo senso della bellezza”(pp. 169-171). Paparoni sottolinea come, paradossalmente, gli artisti sovietici che, dagli anni ’70, si sono trasferiti in Occidente per poter realizzare opere sperimentali, si sono trovati proiettati in un contesto in cui l’avanguardia pare avere perso la sua carica innovatrice e trasgressiva. Soltanto con la fine dell’Unione Sovietica il Realismo socialista cessa di essere imposto quale unica modalità artistica ma la produzione culturale russa si trova a fare i conti con una Chiesa ortodossa particolarmente attiva nella sua battaglia contro tutte le manifestazioni artistiche, e non, considerate blasfeme o contro la morale. Celebre l’attacco, nel 2003, di un commando di attivisti cristiani ortodossi, poi prosciolti da un tribunale evidentemente asservito all’asse di potere politico-clericale che domina il paese, ad una mostra moscovita incentrata sul ruolo dei simboli religiosi nella società contemporanea votata al consumismo. A proposito dell’attuale situazione russa, scrive Paparoni: “Questi fatti sembrano dimostrare che per via dei condizionamenti della Chiesa ortodossa sulla politica, e della politica sull’arte, in Russia l’avanguardia ha ragione di continuare a esistere. Lo testimonia l’inquietudine trasgressiva e iconoclasta serpeggiante, la voglia di rivalsa degli artisti su un sistema che una volta imponeva il Realismo socialista e che oggi impone dietro pressioni della Chiesa ortodossa regole considerate repressive” (p. 181).
Il saggio dedica uno spazio importante anche al burrascoso rapporto tra arte e potere politico nella Cina contemporanea, per certi versi la situazione cinese non è così differente da quella russa. Confrontando tutto ciò con quanto avviene negli Stati uniti od in Europa, l’autore sottolinea che mentre in Russia ed in Cina le azioni provocatorie degli artisti tendono ad avere, il più delle volte, finalità di denuncia sociale o politica, in Occidente, invece, si ricorre frequentemente allo scandalo come stratagemma per conquistare l’attenzione ed accrescere la fama ed il successo economico.

Il ruolo della politica nel panorama artistico occidentale è analizzato dal testo soprattutto in riferimento alla situazione nordamericana negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Sin da inizio Novecento, in ambito statunitense, il governo ed influenti fondazioni private comprendono l’importanza di una politica culturale volta a definire e celebrare l’identità culturale del paese anche se permane il timore, da parte dei settori più conservatori, ben da prima del maccartismo, di trovarsi di fronte ad un ambiente culturale profondamente segnato da infiltrazioni comuniste. La caccia alle streghe guidata da McCarthy porta ad un vero e proprio ostracismo nei confronti dell’arte europea d’avanguardia, accusata di contenere “il germe della sovversione”. A tal proposito, il senatore repubblicano del Missouri, George Dondero, nel 1949, intervenendo al Congresso, così si esprime: “dadaismo, futurismo, costruttivismo, suprematismo, cubismo, espressionismo, surrealismo e astrattismo. Tutti questi ‘ismi’ sono di origine straniera e non dovrebbero davvero trovare posto nell’arte americana. Sebbene non tutti siano mezzi di protesta sociale o politica, sono però tutti strumenti e armi di distruzione. (…) Il Cubismo mira a distruggere attraverso il disordine progettato. Il Futurismo mira a distruggere attraverso il mito della macchina (…) Il Dadaismo mira a distruggere attraverso il ridicolo. L’Espressionismo mira a distruggere scimmiottando il primitivo e il folle (…) L’Astrattismo mira a distruggere suscitando accessi di follia. Il Surrealismo mira a distruggere negando la ragione (…) Gli artisti degli ‘ismi’ cambiano la propria designazione con la stessa rapidità e prontezza delle organizzazioni del fronte comunista” (p. 42). Da qui la necessità di sostenere un’arte sinceramente americana, non influenzata dalla produzione europea. Nel saggio, oltre ad essere sottolineato come il discorso del senatore del Missouri ricalchi le tesi sull’arte degenerata espresse dal nazionalsocialismo, viene evidenziata anche la contraddittorietà statunitense nel suo volere da una parte una sorta di arte autoctona, valorizzante l’identità nazionale, mentre dall’altra, al fine di legittimare a livello mondiale una produzione artistica di un paese “culturalmente giovane”, auspica l’arrivo negli Stati uniti di opere europee al fine di mostrare come le due tradizioni siano accomunate da un “unico destino culturale”. L’arte europea viene ad essere da una parte rifiutata in quanto portatrice del germe sovversivo e dall’altra ritenuta necessaria al fine di legittimare quella nordamericana. Sul finire degli anni ’40, l’offensiva repressiva si concentra soprattutto sull’industria cinematografica hollywoodiana, ritenuta, per la sua capacità di raggiungere un pubblico vasto, ben più pericolosa rispetto all’ambito strettamente artistico.
Paparoni ricostruisce come il passaggio del testimone, non certo volontario, dalla Francia agli Stati uniti, per quanto riguarda la scena artistica occidentale, avvenga grazie alla coeva politica egemonica statunitense del dopoguerra. In particolare viene affrontato il rapporto arte/politica a proposito dell’arte astratta americana che, secondo Kozloff, viene utilizzata agevolmente dalla propaganda proprio perché apparentemente priva di contenuti espliciti o definiti. Inoltre, in quanto privo di contenuti narrativi, l’Espressionismo astratto, secondo Paparoni, può essere investito da un forte supporto teorico. Resta da verificare, secondo l’autore, l’incidenza della politica statunitense del dopoguerra a livello di ricaduta estetica sulle opere del periodo.
Se è pur vero che il bacino d’utenza delle mostre dell’Espressionismo astratto è tutto sommato risibile al fine di incidere sull’immaginario popolare americano ed internazionale, le ingenti cifre investite direttamente dalla Cia al fine di sostenere il movimento fanno pensare ad un obiettivo di più lunga prospettiva: esporre in Europa le opere dell’Espressionismo astratto americano significa prima di tutto agire sulla formazione e sulle preferenze culturali dei giovani europei. Nel primo dopoguerra, continua lo studioso, gli Stati uniti lavorano sulla capacità dell’arte di creare ed imporre nuovi modelli estetici affiancando il Piano Marshall nel suo obiettivo di colonizzazione europea.

banksy41Avvicinandoci ai giorni nostri, contestualmente alla rivoluzione telematica, sostiene l’autore, buona parte dell’arte occidentale pare aver rinunciato alla tensione etica che invece ha caratterizzato le avanguardie del passato, di queste l’arte più recente pare aver mantenuto i linguaggi ma non l’impianto ideologico. “Questo significa che l’artista contemporaneo non riesce a proporre un sistema linguistico che abbia l’ambizione di cambiare la società, preferendo concentrarsi su come far proprie le strategie di consenso e le logiche del profitto che costituiscono l’ossatura di quello stesso sistema borghese cui le avanguardie storiche erano ostili” (p. 12). L’attualità, pertanto, risulta dominata da quell’ideologia di mercato che si propone come pensiero unico e, sostiene Paparoni, “creare le proprie opere rimanendo indifferente alle logiche di mercato diviene così per l’artista una sorta di impegno socio-politico, sia che egli faccia arte per l’arte, sia che consideri il proprio lavoro filosofia politica, sia che affronti temi esistenziali o puramente linguistici. Nel nuovo millennio, l’impossibilità di rimanere estranei alle logiche generate dall’ideologia di mercato dell’era post-ideologica pone nuove questioni etiche cui l’artista non si può sottrarre, come non vi si può sottrarre la critica che, laddove svolga il ruolo di cassa di risonanza delle esigenze del mercato nega il suo ruolo, che è quello di far riflettere sul valore estetico e sociale dell’arte” (p. 374). L’atto d’accusa nei confronti dell’arte contemporanea ha sicuramente ragion d’essere ma senza dimenticare che anche nelle avanguardie del passato non sono mancati casi in cui al linguaggio eversivo non ha corrisposto una sostanza ed una volontà di critica altrettanto radicale, con diversi artisti volti più alla ricerca del successo e del profitto che non a fustigare il potere.

Tornando alle parole del tedesco Hugo Ball citate in apertura, non sono pochi gli artisti che, nel corso dei secoli, si sono accomodati ad assaggiare il pasticcio putrefatto offerto dal potere, sicuramente in diversi casi sono stati costretti a farlo, in altri si sono rivelati complici delle peggiori nefandezze dei dominanti ma non mancano nemmeno casi in cui, in punta di piedi o in maniera eclatante, l’arte ha avuto il coraggio di rifiutarsi, di contrastare e di denunciare. Come sempre, ad ognuno il compito di scegliere da che parte stare.

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Barricate di carta. La critica cinematografica conflittuale attorno al ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/11/20/barricate-di-carta-la-critica-cinematografica-conflittuale-attorno-al-68/ Thu, 19 Nov 2015 23:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25697 di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc. “Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. [...]]]> di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc.
“Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. Il primo numero della pubblicazione romana “Cinema&Film” è dell’autunno-inverno 1966 e, sin da subito, è palese come i giovani critici intendano: applicare al cinema un approccio linguistico strutturalista; analizzare soltanto i film che desiderano supportare; porsi a difesa di un “cinema altro” ed, in alcuni casi,  passare dall’atto della critica scritta a quello del “misurarsi con la realtà del costruire immagini e immaginario, del fare insomma cinema con e nei film”. La pubblicazione della rivista romana termina all’inizio degli anni ’70. “Ombre rosse” nasce, invece, a Torino nel 1967 con una forte connotazione politica che ha come riferimenti le lotte studentesche ed operaie del periodo. In questo caso il film viene esplicitamente concepito come “prodotto ideologico dell’industria culturale” ed oltre a trattate le opere supportate vengono affrontati anche i film che si intendono contestare da posizioni ideologiche ben precise. Ad inizio anni ’70 la rivista torinese si trasforma divenendo una testata politico-militante.

C&Fn1Secondo Alfredo Rossi risulta interessante confrontare le modalità contemporanee di “pensare il cinema” con “quell’assunzione di moralità leggendaria, talvolta derisoria ma tumultuosa e vera” di “Cinema&Film” e di “Ombre rosse” e, da tale confronto, emerge in tutta evidenza lo “scollamento tra il pensare-cinema, il dire-cinema” di allora e “l’odierno parlare-cinema e consumare-cinema”. Ad essere scomparsa, continua Rossi, è “l’urgenza del giudicare in un ambito dichiarato di posizionamento ideologico, selettivo, rabbioso, talvolta euforico, comunque innovativo, un fenomeno complesso come quello del cinema”. A tutto ciò sembra essersi sostituito “un appiattimento benevolente, in funzione accademica, neutra, di tipo storicistico o di gusto, nel render conto di un reale, vecchio e nuovo, di nessun interesse”. Non vi è traccia nell’attualità di quel voler “essere di parte” presente nelle due riviste degli anni ’60.
La critica cinematografica portata avanti dalle due testate, pur derivata dall’amore per il cinema ed i film, finisce spesso per parlare anche di altro, ricorrendo all’oggetto film “come segno o sintomo di altro”, studiandone “il meccanismo specifico di effetto di credenza, di prodotto industriale, in senso marxista e adorniano, per superare, appunto, la relazione acritica d’oggetto”. Ormai, sostiene Rossi, si è compiuto quel “tragitto di accreditamento culturale e artistico del cinema nel suo tutto, attraverso un processo di sussunzione estetica cui consegue che il film venga, comunque, sublimato in valore-cinema, appartenendo tecnicamente a quella universitas, e come tale speso nella catena di mercato delle idee, in un circuito che va dall’asseveratore dei valori, il critico, al consumatore finale, lo spettatore cinefilo, anello ultimo e debole del nuovo infantilismo del vedere”. Oggigiorno ha conquistato la scena “l’ideologia del film come valore per il solo fatto di essere, di esistere quale cosa cinematografica, e di poter esser catalogabile come tale in un tessuto ideologico e immaginario appagato”.

Emiliano Morreale, nel suo intervento, ricorda come le due riviste nascano quando è ormai finita la Nouvelle Vague francese, Hollywood mostra di patire la crisi economica e l’esordio in Italia di Bellocchio e Bertolucci, più che aprire un ciclo, sembra chiudere una stagione. Morreale invita i lettori più giovani, che non hanno vissuto il clima degli anni ’60 in cui si è data l’esperienza delle due testate, a notare quanto all’epoca si vedesse nel cinema davvero una possibilità di crescita umana ed uno strumento di miglioramento sociale.

Jacopo Chessa puntualizza come con l’espressione “critica militante”, in Italia, venga designato quell’ambito di critica “non accademica e nemmeno quotidianista” che, prestando particolare attenzione alla produzione contemporanea, privilegia l’approfondimento alla divulgazione. In generale il fatto di esercitare una critica militante non vuole per forza di cose dire essere militanti dal punto di vista politico ma, sostiene Chessa, a partire dalla fine degli anni ’60, la maggior parte della critica militante è militante anche politicamente. “Se il PCI aveva una sua cultura ufficiale, dei cineasti da sostenere, delle riviste dove farlo e una casa di produzione di riferimento, l’Unitelefilm, i militanti alla sua sinistra erano obbligati a inventare un nuovo approccio e un nuovo linguaggio che fossero, realmente, ‘rivoluzionari’”.
Le riviste “Ombre rosse” e “Cinema&Film” si trovano innanzitutto a dover individuare “quali film sostenere per il loro valore politico”, come vengano trattate le questioni politiche nei film, come affrontare, a livello di critica, tali opere ed, infine, come rapportarsi nei confronti del “cinema militante”. A proposito del rapporto tra critica e militanza, nel n.7-8 del 1969 la redazione di “Cinema&Film” così sintetizza le differenze con “Ombre rosse”: “Noi facciamo una rivista di cinema che, qualche volta, parla incautamente di politica e loro una rivista politica che, spesso, parla di cinema”. “Ombre rosse”, nell’articolo “Cultura al servizio della rivoluzione”, steso a diretto contatto con il movimento studentesco torinese, dichiara sulle sue pagine come il cinema che intende porsi al servizio della rivoluzione debba contribuire a cambiare il mondo.

C&Fn2Con tutte le sue contraddizioni, la cinematografia hollywoodiana è, in genere, supportata da entrambe le riviste. È pur vero che “Cinema&Film” dedica gli approfondimenti ai grandi autori come Rossellini, Godard e Straub o, in diverse occasioni, al “nuovo cinema italiano”, ma, sostiene Chessa, “avendo sempre negli occhi la lezione dei grandi maestri americani” come Hawks, Walsh, Ford, Chaplin, Welles ecc. “Cinema&Film” dedica molto spazio al “New American Cinema”, mentre “Ombre rosse”, pur occupandosi di questo fenomeno, opta, a partire dal quinto numero, per la cinematografia del Terzo mondo, soprattutto latinoamericana, individuando in essa “un modello da imitare nella definizione di un cinema d’intervento che non si rassegni alla piatta illustrazione dei fatti o alla propaganda, sia pure rivoluzionaria”.
“Ombre rosse” si pone come “avanguardia teorica di un cinema politico che si vorrebbe allo stesso tempo militante e rivolto alle masse, alla ricerca di una norma rivoluzionaria”. “Cinema&Film”, come cinema politico, privilegia, invece, “quello che si manifesta come tale sul piano del linguaggio”; ad essere enfatizzata è la rivoluzione formale che si manifesta in alcune pellicole, pertanto il discorso tende ad essere centrato su “eccezioni” al cinema tradizionale portate da autori come Godard, Rocha, Bene ed, in generale, dal “New American Cinema”. La “questione del linguaggio e del suo rapporto con il politico”, sul finire degli anni ’60, è fonte di riflessione e discussione; come conciliare una volontà contenutistica rivoluzionaria con il mantenimento della “lingua dei padroni”, e di “modalità comunicative, figurative, espressive imposte dal capitale”? La ricerca di un cinema diverso sia dal punto di vista linguistico che politico, finisce, inevitabilmente, con la critica del suo processo di produzione. “Cinema&Film”, sostiene Jacopo Chessa, pare più critica nei confronti “del cinema in mano agli ‘autodidatti’, ai collettivi studenteschi o politici che spesso si limitano a registrare delle situazioni”, “Ombre rosse” sembra, invece, aprirsi maggiormente a tali esperienze anche se il conseguimento di “un cinema veramente militante” pare restare più un’ambizione che non un’esperienza realmente conseguita.

L’intervento di Adriano Aprà ricostruisce la nascita della rivista romana a partire dall’uscita di un gruppo di giovani critici da “Filmcritica” e ricorda come il titolo della testata “Cinema&Film” (“C&F” come acronimo), nel suo legare i due termini senza spazi intermedi, corrisponde allo spirito del gruppo che ha dato vita alla rivista: “l’astratto (cinema) non disgiunto dal concreto (film), la teoria strettamente legata alla pratica”. Il comitato direttivo originario risulta composto, oltre che dallo stesso Adriano Aprà, in veste di direttore responsabile, da Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli e Stefano Roncoroni. Nel corso della breve vita della rivista, alcuni dei critici della prima ora abbandonano e si aggiungono nuovi collaboratori come Franco Ferrini, Gianni Menon, Piero Spila, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Alfredo Rossi e Paquito Del Bosco.
Per farsi un’idea degli interessi di “Cinema&Film”, Aprà invita a passare in rassegna le immagini pubblicate in copertina e controcopertina: n. 1: Rossellini/Pasolini; n. 2: Chaplin/Godard; n. 3: Bertolucci/Bellocchio; n. 4: Welles/ Ferreri; n. 5-6: Straub-Huillet/Ponzi; n. 7-8: mosaico di nove giovani registi italiani/mosaico di foto tratte dai loro film; n. 9: Chaplin/Bene; n. 10: Hitchcock/Oshima; n. 11-12: Dreyer/Buñuel. Informazioni circa le preferenze dei critici di “C&F” si possono ricavare anche dall’elenco dei cineasti a cui viene chiesto di partecipare alla stesura delle classifiche dei migliori film: Amico, Bargellini, Bellocchio, Bertolucci, Brunatto, Cottafavi, Del Monte, Ferreri, Orsini, Pasolini, Rocha, i Taviani. Inoltre, tra gli altri autori amati dalla rivista romana, Aprà ricorda Ingmar Bergman, John Ford, Jerry Lewis, Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Stanley Kubrick, Jacques Tati, Claude Chabrol e Glauber Rocha. Diverse anche le interviste pubblicate, tra le tante vale la pena citare quelle a: Dušan Makavejev, Robert Kramer, Ferreri, Jean Rouch, Straub, Bergman, Ponzi, Gianni Amico, Gian Vittorio Baldi, Bertolucci, Olmi, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, Glauber Rocha, Gustavo Dahl e Carmelo Bene. Se tali elenchi testimoniano la “tendenza cinefila” del gruppo, il racconto di Aprà prosegue nel ricostruire “la tendenza teorica” della rivista. In questo caso la semiologia ha un ruolo importante, sono infatti stati pubblicati testi di Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Roman Jakobson e Christian Metz, oltre che scritti di (e su) Ejzenštejn, Dziga Vertov, Erwin Panofsky, Emilio Garroni, Theodor W. Adorno, Roger Munier. Adriano Aprà, a proposito della teoria, tiene a sottolineare che, per quanto lo riguarda, è stata intesa come “strumento per l’analisi dei film”, dunque “una teoria immediatamente da applicare alle opere”.
Nel suo intervento, Luigi Faccini, ricorda le riflessioni del gruppo di “C&F” a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare negli articoli al fine di indagare le scelte stilistiche dei cineasti. Ed è proprio a partire dall’analisi delle scelte stilistiche dagli autori che diversi critici iniziano a studiare regia.

ombre-rosse-nr.6Goffredo Fofi, invece, nel ricostruire il clima degli anni ’60, entro cui nascono le due riviste, si riferisce a quel periodo come “l’ultima epoca davvero vitale delle arti, quella della presa di parola di una generazione irrequieta che rifiutava i diktat delle ‘scuole’ consolidate ‘di destra’ o ‘di sinistra’ – in Italia, del corporativismo romano-centrico, dei bavosi residui zavattiniani, degli ottusi ideologismi aristarchiani (e togliattiani), delle tranquille degustazioni borghesi, di un angusto cattolicesimo non scosso, in cinema, dall’’aggiornamento’ conciliare. Una generazione che voleva dire la sua, mettersi in gioco, entrare in lizza. Non solo i registi, anche i critici. Ma mentre i primi si erano mossi per tempo, approfittando del boom e della funzione civile e di massa che il cinema continuava a svolgere, i secondi si dimostravano molto più lenti, i giovani imbarazzati da vecchi invadenti e ricattatori. Fu sulla scia di quel che accadeva a Parigi – e per opera di giovani italiani che la Parigi della Nouvelle Vague e dei ‘Cahiers’ oppure di ‘Positif’ (e di ‘Les Temps Modernes’, ‘Esprit’, ‘Le nouvel observateur’) frequentavano assiduamente, chi direttamente e chi semplicemente divorando le loro pagine – che nacquero ‘Cinema&Film’ e ‘Ombre rosse’”. Fofi sottolinea come entrambe le riviste possono essere definite militanti, seppur pur in maniera diversa: “Cinema&Film” “ancorata al cinema e nella speranza-illusione di creare un movimento di nuovi registi (ne vennero, ma assai deboli) e incidere dal centro del mini-impero cinematografico della capitale, della centralità romana”, mentre “Ombre rosse” la descrive come “inserita in una battaglia culturale di più ampio raggio”, all’interno di un dibattito che vede nell’intervento politico “lo sbocco delle ricerche e tensioni culturali”. Con il ’68 tutto si intensifica e tutto si trova a gravitare attorno ad un movimento che mette “la politica al primo posto”.

Gianni Volpi evidenzia come la visione del ruolo del cinema dei giovani critici di “Ombre rosse”, si trovi, sin da subito, a cercare punti fermi nei francofortesi, nelle avanguardie, in Brecht, nel surrealismo, in Majakovskij, ed in generale nel clima culturale degli anni ’30. L’aspetto critico che sicuramente contraddistingue “Ombre rosse”, non deve sminuire l’attenzione rivolta dalla rivista “ai valori di linguaggio (e ad altri linguaggi: vedi il fumetto con le tavole-recensione disegnate appositamente da Buonfino o Crepax o Ballesta, o il romanzesco dei generi bassi)”.

ombre-rosse-nr.7 Volpi sostiene che le due testate nascono dall’insoddisfazione per la cultura cinematografica dominante e che, in entrambi i casi, il tentativo è quello “di porsi come interlocutori reali di alcuni autori, seppure diversi per ciascuna delle due riviste”, cioè di confrontarsi con chi praticamente realizza film. Tra gli autori amati da “Ombre rosse” ricorda Welles, Buñuel, Lang e Losey, definiti all’epoca come “i grandi della negazione”, capaci di “negare il mondo così com’è” e di “proporre forme e visioni in grado di scavare oltre la superficie”. Poi, ancora, la rivista indaga il cinema di Bresson, “espressione di un cattolicesimo come linguaggio e non come posizione”, alcuni autori della Nouvelle Vague, Rocha, Guerra, Solanas, il “Cinema nôvo” brasiliano, quello latino-americano, il cinema cubano, vietnamita ecc., senza dimenticare l’interesse per il “cinema militante”. Ad essere amati sono anche gli autori della “crisi del sogno americano” come Penn, Cassavetes, Jerry Lewis, poi, più tardi, Kazan e Robert Kramer. A parte i casi di Bellocchio e Ferreri, il cinema italiano, a causa di quella che Volpi definisce la sua “medietà”, viene invece sostanzialmente rifiutato dal gruppo di “Ombre rosse”.

La sezione antologica di Barricate di carta, per quanto concerne gli scritti di “C&F”, riproduce, in maniera parziale o integrale: “Editoriale” n. 1 Testo redazionale – “Godard à part, la bande des autres…” di Luigi Faccini – “Editoriale” n. 2 Testo redazionale – “Riflessione prima sui metalinguaggi critici” di Luigi Faccini; “Due o tre cose su Roberto Rossellini” di Maurizio Ponzi – “Immagine autoritaria e immagine trascendente” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 4 Testo redazionale – “Verso un cinema di risposte?” – “Editoriale” n. 5-6 Testo redazionale – “Cinema con le mani sporche” di Adriano Aprà – “Un totale equilibrio incarnato” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 7-8 Testo redazionale – “Nosferatu ’70: una sinfonia del disordine”di Enzo Ungari – “Appunti su una teoria del film permanente” di Piero Spila – Jack e il principe Hal poi Henry V” di Maurizio Ponzi – “I migliori rivoluzionari del 1968” di Maurizio Ponzi – “Le cadavre exquis del cinema rivoluzionario”di Piero Spila – “Sogni rubati” di Alfredo Rossi – “West by Northwest” di Franco Ferrini – “Introduzione all’arcipelago Hitchcock” di Enzo Ungari – “Editoriale” n. 11-12 Testo redazionale – “Dreyer: artificio, spazio, luce” di Adriano Aprà.
Per quanto concerne, invece, gli scritti di “Ombre rosse”, sono riprodotti, in maniera parziale o integrale: “Way Down East” di Goffredo Fofi – “A film politico giudizio politico” a cura di Paolo Bertetto, Goffredo Fofi, Massimo Negarville, Vittorio Rieser, Gianfranco Torri, Gianni Volpi – “Per una veridica filmografia del verace” di Saverio Esposito – Marco Bellocchio: Vento dell’est. Intervista su La Cina è vicina” a cura di Goffredo Fofi – “La negazione assoluta di Bresson” di Gianni Volpi – “Autunno senza Cheyenne. Ford e Missione in Manciuria” di Piero Arlorio – “Segni di riscontro su una vecchiaia felice” di Goffredo Fofi – “I verdi prati di Oxbridge. ‘incidente di Joseph Losey” di Gianni Volpi – “Ganster Story” di Juan Ballesta – “Cul de sac” di Guido Crepax – “Cultura al servizio della rivoluzione” Testo redazionale – “Godard uno e due. Masculin Féminin, Week-end” di Gianni Volpi e Paolo Bertetto – “Il cinema e il movimento studentesco” di Massimo Negarville – “Il cinema come fucile. Intervista a Fernando Solanas” a cura di Gianni Volpi, Piero Arlorio, Goffredo Fofi e Gianfranco Torri – “La prigione cristiana. Nazarin, La via lattea” si Goffredo Fofi – “Andremo a Thaiti. Dillinger è morto” di Gianni Volpi – “Alla ricerca del positivo” di Goffredo Fofi – “Cronaca del Cronopio: critica e intervento” di Goffredo Fofi.

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