avanguardia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fascino antiquario dell’Utopia https://www.carmillaonline.com/2024/05/22/il-fascino-antiquario-dellutopia/ Wed, 22 May 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82492 di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti [...]]]> di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti (nell’analisi), irrealizzabili o superate nel volger di poco tempo, nonostante contenessero talvolta apprezzabili elementi di critica sociale. Così, già nel 1880, Friedrich Engels poteva sottolineare come:

In Francia [prima della Rivoluzione] tutto fu vagliato dalla critica più spietata (religione, concezione della natura, società, governo); tutto doveva giustificare la sua esistenza ante il tribunale della ragione o esser annientato. […] Tutte le forme sociali e statali fino allora esistite, tutte le concezioni tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali. […] Ora finalmente sorgeva la luce della Ragione; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati elisi dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’uguaglianza fondata sulla natura, dagli inalienabili diritti umani.
Ora noi sappiamo che tal regno della Ragione fu solo il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna fu realizzata solo come giustizia borghese; che l’uguaglianza andò a finir nell’uguaglianza borghese ante la legge; che la proprietà fu proclamata come il principale diritto umano; e che lo Stato conforme a ragione (il contratto sociale di Rousseau) si realizzò come repubblica democratica borghese (e solo così poteva realizzarsi). Come i loro predecessori, i grandi pensatori del ‘700 non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro epoca.
[…] Nella lotta contro la nobiltà, con diritto la borghesia si proclamò rappresentante delle varie classi lavoratrici di ogni tempo; eppure in ogni grande movimento borghese scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che fu l’antecessore più o meno sviluppato del proletariato moderno (la Guerra dei contadini degli anabattisti e Thomas Münzer durante la Riforma tedesca; i Livellatori durante la Gloriosa rivoluzione inglese; Babeuf durante la Prima rivoluzione francese). Tali sommosse rivoluzionarie d’una classe ancora indefinita si espressero pure teoricamente: nel ‘500 e nel ‘600, utopistiche descrizioni di regimi sociali ideali; nel ‘700 teorie già comuniste (Morelly e Mably).
[…] La prima forma della nuova dottrina fu un comunismo ascetico ricalcato su Sparta (spregiatore di tutti i godimenti della vita). Poi seguirono tre grandi utopisti: Saint-Simon; Fourier; Owen. […] Però, al loro tempo la produzione capitalistica (e con essa l’antagonismo fra borghesia & proletariato) era assai poco sviluppata. La grande industria nata in Inghilterra era ancora ignota in Francia. E solo la grande industria sviluppa quei conflitti (nonché fra classi, fra le forze produttive e le forme di scambio) che rendono necessario un mutamento del modo di produzione, l’elisione del suo carattere capitalistico. [Ma] nel 1800 i conflitti scaturiti dal nuovo ordine sociale erano solo sul nascere, così come i mezzi per risolverli.
[…] Tale situazione storica segnò i fondatori del socialismo: a produzione e lotta di classi imperfette corrisposero teorie imperfette. Finché celata nei rapporti economici arretrati, la soluzione della questione sociale doveva uscir dal cervello. La società offriva solo incongruità: eliderle toccava alla ragione pensante. Serviva inventar un nuovo e più perfetto ordine sociale ed imporlo alla società dall’esterno colla propaganda e magari con l’esempio di colonie-modello. Tali nuovi sistemi sociali erano condannati ad esser utopie: più essi erano elaborati nei loro particolari, più dovevano risultar fole.
[…] La concezione degli utopisti segnò a lungo le idee socialiste dell’800, e in parte le domina ancora. […] Il socialismo è per tutti loro l’espressione delle assolute Verità, Ragione, Giustizia. […] Ma la verità, la ragione e la giustizia assolute sono diverse per ogni caposcuola [Da ciò] poteva venir fuori solo un socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna oggi nelle menti della maggior parte degli operai socialisti francesi e inglesi; una miscela che ammette varie sfumature, che risulta dalle invettive critiche meno polemiche, da princìpi di economia e immagini della società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più, durante la discussione, sono smussati gli angoli acuti della precisione dei singoli componenti, come ciottoli levigati nel torrente. Per far del socialismo una scienza, serviva anzitutto porlo su una base reale1.

Il lettore interessato alla fantascienza a questo punto si sarà già chiesto a che dovrebbe servire una così lunga citazione, vecchia ormai di quasi centocinquant’anni, in un contesto in cui, almeno apparentemente, l’attenzione dovrebbe rivolgersi principalmente agli autori e alle correnti critiche di tale genere letterario, eppure, eppure…

E’ proprio l’efficace introduzione di German A. Duarte al volume che raccoglie gran parte dei materiali pubblicati sulla rivista «Un’ambigua utopia» (d’ora in avanti citata come UAU) a dimostrare come anche i migliori tentativi di anticipazione sociale, politica e culturale siano, in qualche modo, tutti destinati a fallire. Proprio per l’imprevedibilità dei processi storici che, pur mantenendo spesso caratteristiche unitarie all’interno di un medesimo modo di produzione, possono riformularsi, espandersi e prendere strade che gli esercizi previsionali precedenti non potevano nemmeno immaginare.

German A. Duarte, nato a Bucaramanga (Colombia) nel 1983, dopo aver frequentato la Scuola di Cinema e Nuove Tecnologie di Lione (ARFIS) si è trasferito in Italia, dove attualmente è ricercatore presso la Libera Università di Bolzano. I suoi interessi di ricerca si muovono tra il cinema, le nuove tecnologie, la fantascienza, la produzione di valore nell’era digitale. Tra le sue pubblicazioni: Fractal Narrative. About the Relationship Between Geometries and Technology and Its Impact on Narrative Spaces (Transcript, 2014), La scomparsa dell’orologio universale (Mimesis, 2009); ha curato Reading Black Mirror. Insights into Technology and the Post-media Condition (Transcript, 2021). Ha inoltre pubblicato su «Carmillaonline»: West World: la valle della disrupzione, diviso in tre parti uscite nel marzo/aprile 2023.

Per DeriveApprodi ha curato questo «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, rendendo più agile la consultazione di una rivista che, inizialmente in formato di fanzine, tra il 1977 e il 1982, in soli nove numeri, diede vita ad una riflessione sul ruolo della fantascienza nel ridefinire oppure soltanto definire un’immagine del futuro anticipatrice dei cambiamenti oppure della continuità dell’esistente e del modo di produzione di cui era espressione.

La rivista era già stata ristampata integralmente in due volumi dalle edizioni Mimesis nel 20092, ma quella attuale (che pure contiene ancora una postfazione di Spagnul in appendice) risulta di più facile consultazione, sia per la scelta di testi operata che per il fatto di non essere in “copia anastatica” come quella precedente, piuttosto difficile da consultare visto il carattere di fanzine ciclostilata dei primi numeri della stessa. Ma al di là degli aspetti puramente formali, è proprio il discorso di “indirizzo” sviluppato dal curatore a rendere interessante questa nuova edizione.

Il volume che avete tra le mani […] sofferma lo sguardo sui modi in cui l’era industriale ha immaginato l’era post-industriale al fine di contribuire a rendere intelligibili alcuni elementi di quello che abbiamo chiamato al di là della prassi. Il testo aspira a fare luce su alcuni aspetti del meccanismo che permette, in maniera collettiva, di immaginare un futuro che non è chiaramente tracciato o inserito in una serie lineare di causa-effetto. In altre parole, il testo vorrebbe esplorare quell’entità astratta che chiamiamo immaginario e i modi in cui, attraverso questo, sia possibile territorializzare un futuro non tracciato, un futuro che sembra sfuggire una sorta di sequenzialità apparente. È da lì che nasce l’interesse per le esperienze degli anni Settanta.
[…] UAU è senza dubbio una testimonianza rilevante della forma in cui i movimenti di sinistra si sono appropriati delle narrazioni popolari di questo genere con l’intenzione di «occupare l’immaginario». Eppure, occupare l’immaginario non era altro che il tentativo di immaginare il futuro; immaginare un futuro non tracciato. Bisogna ricordare che nel secolo delle ideologie l’unico tempo modificabile era il passato; il futuro era semplicemente un virtuale ormai coniugato dal presente. Lo mostrava chiaramente Orwell nel suo fondamentale 1984. Di conseguenza l’occupazione dell’immaginario sostenuta dal movimento coincideva nella pratica con una agrimensura di un nuovo immaginario che si sovrapponeva a quello che aveva prodotto l’età industriale. Inoltre, l’occupazione dell’immaginario richiedeva il completo abbandono delle ideologie novecentesche e della loro visione di progresso (da lì il desiderio di voler «distruggere la fantascienza»). Usando la fantascienza come serbatoio di immagini e di fenomeni non ancora esistenti, UAU finì per mettere in luce i limiti di tutto l’apparato teorico ereditato dal Novecento.
Infatti, il radicale materialismo storico del collettivo lo poneva di continuo di fronte all’impossibilità di capire le relazioni sociali che il nuovo contesto tecnologico iniziava a delineare3.

Sostanzialmente, attraverso i nove numeri della rivista, è possibile analizzare sia la generosità di un periodo di lotte, penetrato in profondità nell’immaginario culturale e nella critica che ne scaturiva, che i limiti di ciò che più volte, nel corso del Novecento e, talvolta, già nell’Ottocento, ha voluto definirsi come avanguardia. Termine cui proprio l’editoriale del primo numero della rivista rinviava più meno indirettamente. In quel tentativo di modificare il futuro (della società, dell’arte o dell’immaginario non importa) distruggendo il presente condiviso e il passato degli stessi fattori. Dai quali, sostanzialmente, modificandone l’ordine, non si sarebbe dovuto ottenere lo stesso risultato. Ideale che ha animato tutti i movimenti d’avanguardia, e i loro manifesti, dal Manifesto del Partito Comunista del 1848 fino al Surrealismo e alle successive neo-avanguardie, ma che ne ha segnato irriducibilmente la caducità.

Nell’Editoriale di quel primo numero, pubblicato nel dicembre del 1977 e a cui avevano collaborato Marco Abate, Giancarlo Bulgarelli, Gerardo Frizzati, Danilo Marzorati, Giugliano Spagnul, Michelangelo Milani e Vittorio Curtoni, si affermava:

Apriamo questo editoriale del primo numero di «Un’ambigua utopia», ponendoci una domanda d’obbligo. Definire cos’è la fantascienza [ma] lo diciamo già da subito, le nostre risposte a questa e ad altre domande, le nostre critiche, analisi, sono di parte. Non cerchiamo la verità assoluta, il Santo Graal. Cerchiamo di fornire una risposta di classe. Una risposta che parte dalle nostre esigenze, dalla nostra scelta di lavorare per l’una o per l’altra classe.
A seconda del proprio pensiero politico allora? Ma cosa c’entra la fantascienza con la politica? […]
Non sono le scommesse sul futuro quelle che ci interessano […] è una scommessa sull’oggi. Scienza, strumento, indagine per riappropriarci della fantasia, della creatività, del godimento. Ecco, ci siamo. Questa è la nostra verità, la verità che ci interessa. La nostra fantasia, la creatività, la spontaneità, il gioco, il piacere il godimento. Tutto questo è stato occultato, seppellito, represso dalla scienza ufficiale, che ha assunto il proprio idolo nel cosiddetto «principio di realtà».
La fantascienza è invece portavoce del «principio del piacere». In pratica i bisogni del capitale, contro i bisogni dell’uomo.
Il capitale deve, per sopravvivere e svilupparsi reprimere i veri bisogni dell’uomo, per sostituirli con i suoi bisogni (creare nuovi prodotti e creare l’esigenza di consumarli), con un modello di vita e di società a lui congeniale (la famiglia, la scuola, la caserma, il lavoro salariato ecc. ecc.).
La fantascienza è un segno di rivolta a tutto questo, è la riscossa del principio del «piacere» sul principio di «realtà».
[…] Noi non siamo dei sostenitori della SF, non siamo dei fans. Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza. Vogliamo distruggerla.
Nel senso che vogliamo rompere questo involucro questo contenitore che si chiama
fantascienza, e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro
che quello che si trova fuori.
[…] La parola fantascienza sancisce la non veridicità di quello che essa ingloba. La non realtà.
La presenza della parola fantasia, annulla l’ufficialità e pertanto la realtà della scienza. La politica è la vita e perciò la realtà. La fantascienza, essendo la non-realtà, non può quindi essere politica. Quale miglior travestimento per una politica reazionaria.
Se, ad esempio, Heinlein, Anderson, Vance e altri facessero letteratura «normale » o filosofia invece di SF o fantasy, la loro linea politica sarebbe scoperta, palese e il loro pubblico sarebbe solamente quello che già in partenza è d’accordo con loro. Con la copertura della fantascienza, e perciò della neutralità dal politico, essi possono arrivare a un pubblico ben più vasto (anche di sinistra) e propagandare la loro bieca filosofia reazionaria.
[…] E, pertanto, modelli, parametri di interpretazione della realtà, falsi bisogni, vengono introiettati e messi in grado di operare a livello inconscio.
Per i contenuti rivoluzionari o solo progressisti, invece, il discorso è l’opposto. Qualunque proposta di un mondo, di vita alternativa, è fantascientifica.Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare.
[…] Quale in concreto allora il nostro compito?
Noi crediamo che sia il ripercorrere a marcia indietro la strada che intercorre tra una ben precisa ideologia, il pensiero e l’opera di fantascienza, svelando così, da una parte, i contenuti reazionari, e dall’altra contribuendo a realizzare un’analisi scientifica sui problemi di un modo di vita alternativo, per imparare a praticare l’utopia, anziché sognarla 4.

La dichiarazione d’intenti era chiara, ma come ogni manifesto o altra iniziativa tesa a definire un canone o un modello interpretativo, in questo caso di lettura classista del “genere fantascienza”, una volta per tutte, avrebbe finito con lo scontrarsi con la realtà dei fatti. Come sottolinea ancora il curatore nelle pagine finali dell’introduzione.

Il numero nove, apparso nel secondo trimestre del 1982, segnerà la fine di questa esperienza.
[…] Si percepisce in qualche modo che il serbatoio d’immaginario della fantascienza si era ormai esaurito, come il secolo che si stava chiudendo. Come qualche anno dopo avrebbe affermato James Ballard: «Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. Ha creato la letteratura popolare più importante del XX secolo. L’immaginario fantascientifico che vediamo nel cinema, nella televisione, nelle pubblicità e così via, è l’immaginario più potente che il XX abbia creato. Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto».
Come ben sintetizza Ballard, il successo della fantascienza non è stato nel prevedere un futuro, ma nel generare il nostro presente, oltretutto un presente che il collettivo di UAU rifiutava. Allo stesso tempo, le parole di Ballard ci mostrano che l’obiettivo originale di UAU, «il voler distruggere la fantascienza» si è risolto in un fallimento5.

E questo non soltanto perché quel concetto di scientificità della previsione, già rivendicato nel testo di Engels citato in apertura, avrebbe finito col far nuovamente precipitare nell’Utopia (quindi in ciò che deve essere forzatamente superato dagli eventi e dai conflitti reali) ciò che avrebbe voluto superarla, e neppure per quanto afferma Diego Gabutti, nella seconda delle tre postfazioni, ovvero che:

A descrivere il futuro non provano neanche più le allegorie utopistiche (ma anche distopiche, è lo stesso) d’un tempo più felice, quello dei movimenti radicali e delle teorie politiche ed escatologiche ottimiste, positive. A parlarci di futuro oggi è il cyberpunk, o il ciclo dei Terminator cinematografici, dove il futuro pesa come un incubo sul presente, oppure dove uomo e macchina si fondono tra loro e a chi entra nei mondi virtuali della rete agognando sollievo dal tempo presente conviene lasciare «ogni speranza», come a Dante giunto alle porte dell’inferno. Oggi l’utopia, lungi dall’essere soltanto ambigua, come sui pianeti gemelli di Ursula Le Guin e nella ragion sociale del collettivo e della rivista che qui ricordiamo, è sprofondata in mare, al pari d’Atlantide e Mu e d’ogni altro continente perduto […] A spiegarci quanto sia oggi inimmaginabile e indescrivibile il futuro sono le versioni cinematografiche delle storie di Philip Dick, delle quali (esagerandone un po’ l’importanza) negli ultimi anni si è celebrato il culto: Blade Runner, A Scanner Darkly, Minority Report, Radio Free Abemuth.
Dal futuro, d’un tratto, si deve distogliere lo sguardo, come a Los Alamos dall’orizzonte, prima che esploda la Bomba devastratrice e che Shiva Distruttore di Mondi cominci a danzare sulle rovine del mondo6.

A superare le previsioni del collettivo di UAU sarebbero stati proprio alcuni scrittori italiani che, al contrario del nichilismo che caratterizzava secondo i suoi rappresentanti scrittori come Lino Aldani o Vittorio Curtoni, proprio a partire dagli anni in cui si chiudeva l’esperienza della rivista avrebbero saputo lanciare lo sguardo sul futuro di guerre che oggi ci ha “finalmente” raggiunto e il passato che ha contribuito a determinarlo: Sergio Altieri (meglio conosciuto come Alan D. Altieri)7 e Valerio Evangelisti8.

Il volume curato da German Duarte si rivela comunque estremamente utile per ripercorrere le tappe di un’esperienza che, per quanto superata, nasconde ancora tra le sue pagine motivi di grande interesse analitico sull’immaginario di un’epoca e allo stesso tempo godibilissime dal punto di vista letterario. Di fatto imperdibile per chiunque si interessi di critica radicale e letteratura d’anticipazione.


  1. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), versione di Leonardo Maria Battisti, novembre 2017 (qui)  

  2. A. Caronia, G. Spagnul (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, Edizione integrale, voll. I e II, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009.  

  3. G. A. Duarte, Un’Ambigua Utopia. Mappatura di un “al di là della prassi”, in G.A. Duarte, (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 10-11.  

  4. Editoriale, «Un’ambigua utopia» n.1, dicembre 1977, ora in G. A. Duarte (a cura di), op. cit. pp. 20-22.  

  5. G.A. Duarte, op. cit, p. 15.  

  6. D. Gabutti, Guardando avanti, in G. A. Duarte, op. cit., p. 473.  

  7. In particolare con i due romanzi Città oscura (Dall’Oglio, 1981) e L’occhio sotterraneo (Dall’Oglio, 1983)  

  8. In particolare con i romanzi del ciclo di Eymerich, iniziatosi con straordinario successo nel 1994 con Nicolas Eymerich, inquisitore (Urania 1241, 2/10/1994.)  

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Breve storia del cinema militante https://www.carmillaonline.com/2023/11/17/breve-storia-del-cinema-militante/ Fri, 17 Nov 2023 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79688 di Gioacchino Toni

«La storia del cinema militante è legata alla storia dei movimenti di opposizione. Dalla sua rinascita lenta (dagli inizi degli anni Sessanta alla sua fioritura nel 1968), ha riguardato, in Italia come altrove, la nuova sinistra e non la sinistra tradizionale». Così scrive Goffredo Fofi, Breve storia del cinema militante (elèuthera 2023), sottolineando come la storia del cinema militante coincida in buona parte con quella intensa “stagione dei movimenti” che ha abbracciato gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Se fino al ’68 in Francia e in Italia si hanno opere documentarie a carattere politico-sociale derivate dalla tradizione [...]]]> di Gioacchino Toni

«La storia del cinema militante è legata alla storia dei movimenti di opposizione. Dalla sua rinascita lenta (dagli inizi degli anni Sessanta alla sua fioritura nel 1968), ha riguardato, in Italia come altrove, la nuova sinistra e non la sinistra tradizionale». Così scrive Goffredo Fofi, Breve storia del cinema militante (elèuthera 2023), sottolineando come la storia del cinema militante coincida in buona parte con quella intensa “stagione dei movimenti” che ha abbracciato gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Se fino al ’68 in Francia e in Italia si hanno opere documentarie a carattere politico-sociale derivate dalla tradizione del Fronte Popolare, della Resistenza o di matrice neorealista, esiste anche «un passato del cinema militante legato ai grandi momenti di riscossa proletaria e all’emergere dei conflitti di classe in modi più radicali». Si pensi, ad esempio, alle sperimentazioni sovietiche e weimariane che hanno saputo riprendere i linguaggi dei movimenti di avanguardia. L’abbandono della vena avanguardista operata dal cinema ha comportato una sorta di “ritorno all’ordine” che lo ha visto normalizzare i suoi canoni linguistici e attenuare la sua spinta eversiva.

Una rottura che, sostiene Fofi, nella stagione dei movimenti è stata addirittura approfondita dal cinema militante salvo poche eccezioni come i francesi Jean-Luc Godard e Chris Marker, l’argentino Fernando Solanas, lo statunitense Emile de Antonio che hanno saputo fare i conti con la presenza dei mezzi di comunicazione di massa che si sono sviluppati in Germania, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti nel corso degli anni Trenta come strumenti privilegiati della manipolazione del consenso.

Quali che siano le soluzioni cui questi registi cercano di rifarsi (rifiuto o uso rovesciato dei linguaggi dei massmedia), è con i loro linguaggi e non con quelli delle minoranze artistiche rivoluzionarie (sia pure solo nelle forme) che essi perlopiù si confrontano. Più in generale, si può affermare che se di influenze definibili come “d’avanguardia” si può trattare per il miglior cinema militante dei nostri anni, esse vengono dal cinema stesso (le nouvelles vagues; il cinema-verità; il documentario televisivo; nel caso francese anche Alain Resnais).

Oltre a ricordare che vi è stato anche un cinema militante di destra – si pensi al ricorso al linguaggio cinematografico fascista, nazista e da parte del regime di Vichy in Francia –, Fofi invita a prendere atto di come dal punto di vista formale si riscontrino evidenti analogie nelle cinematografie votate all’indottrinamento al di là dei contenuti e dei messaggi di segno diverso. Linguaggi che intendono «indottrinare e non spiegare, commuovere e non far ragionare, esaltare ma non far riflettere» si ritrovano tanto in opere smaccatamente propagandiste quanto di descrizione e polemica sociale.

Sul versante italiano, tra i pochi esempi che nel corso degli anni Sessanta hanno anticipato le produzioni cinematografiche più strettamente militanti sorte attorno al ’68, Fofi ricorda Scioperi a Torino (1962) di Paolo e Carla Gobetti, con commento di Franco Fortini, ove si documenta lo sciopero alla Lancia, un episodio che contribuirà a dare il via a un nuovo e radicale ciclo di lotte operaie in Italia.

In ambito francese il cinema militante sorto attorno al ’68 può contare su di una scena cinematografica molto vitale e innovativa già a partire dalla fine degli anni Cinquanta e contraddistinta non solo dalla nouvelle vague dei “Cahiers du cinéma” con registi come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Éric Rohmer, ma anche dalle opere di autori come Alain Resnais, Chris Marker, Agnès Varda, Alain Robbe-Grillet e Marguerite Duras.

l festival di Cannes e di Pesaro del 1968 si rivelano momenti di acceso dibattito a proposito del significato da attribuire al cinema che si vuole militante e delle forme con cui dovrebbe essere realizzato. Se in Francia il cinema militante trova le sue strade in esperienze come quelle dei cinétracts, i “film-volantino”, e nel ricorso al 16 mm per riprendere le lotte, in Italia nascono esperienze come quella del Collettivo Cinema Militante (CCM) vicino alla nuova sinistra o del gruppo dell’ANAC e dei cinegiornali liberi, attorno rispettivamente a Francesco Maselli e a Cesare Zavattini, più legati al PCI. Parallelamente a tali esperienze, intellettuali e autori come Marco Bellocchio, Lou Castel, Mario Schifano e Francesco Leonetti si prestano a supportare l’attività di qualche neonato gruppo politico realizzando però «operazioni agiografiche, colorate alla moda cinese» che, secondo Fofi, «è gran bene dimenticare» .

Il cinema militante italiano perde di autonomia prima ancora di riuscire ad affermare una sua fisionomia. La sua funzione, passata e presente, sembra essere stata soltanto quella di aver costituito un enorme archivio delle lotte di quegli anni, che aspetta ancora chi sappia utilizzarlo in grandi operazioni di sintesi, lasciando per il momento che a saccheggiarlo sia la tv. Manifestazioni, scontri, interviste; manifestazioni, scontri, interviste… Il cinema militante italiano non contiene molto d’altro, né è riuscito a filmare manifestazioni e scontri e interviste in modo diverso da quello della tv. Quando ha tentato l’inchiesta (con alcuni film di fabbrica) non è mai riuscito ad andare oltre la superficie del medio giornalismo televisivo.

In ambito francese, la diversa matrice culturale e l’esperienza cinematografica dei suoi autori, tra cui spiccano Marker e Godard, ha invece, sostiene Fofi, permesso modalità di cinema militante decisamente più interessanti. Tra le esperienze più importanti tese anche a sperimentazioni linguistiche l’autore cita quelle del godardiano “Dziga Vertov” di ispirazione “filocinese”, del markeriano “SLON” (Service de Lancement des OEuvres Nouvelles), divenuto nel 1974 ISKRA, (Image, Son, Kinescope et Réalisations Audiovisuelles), più aperto nei confronti dei sindacati e della sinistra tradizionale, del “Medvedkin”, anche in questo caso ispirato da Marker, composto da operai di Besançon attorno a Pol Cèbe e del “Dynadia” legato al Partito comunista francese.

Il cinema militante, sostiene Fofi, ha avuto senso ove, pur magari formandosi attorno a un autore centrale, ha saputo essere collettivo mantenendo una sua autonomia di ricerca rispetto ai partiti e ai partitini al di là delle vicinanze ed ove ha saputo stabilire un rapporto con i suoi destinatari rivolgendosi non solo ai “già convinti”.

Potrebbero essere definiti “militanti”, o almeno avevano l’intenzione di esserlo, anche diversi film di Werner Herzog, Pedro Pinho, Emir Kusturica, Michael Moore, opere di finzione di finzione di Paul Schrader, Scott Z. Burns, Galder Gaztelu-Urrutia e Spike Lee, o film di inchiesta di Alex Gibney, Charles Ferguson, Steven Bognar, Julia Reichert, Joshua Oppenheimer, Rithy Panh, Alice Rohrwacher, Pietro Marcello, Stefano Savona, Gianfranco Pannone e Francesco Munzi.

L’ultima parte del volume si concentra su alcuni esempi di cinema militante: Dziga Vertov; Miseria dell’immaginario e necessità dell’inchiesta; Per un cinema impietoso; Il Vietnam di Chris Marker; Solanas, Getino e il cinema didattico; Frederick Wiseman; Robert Kramer; La Woodstock di Michael Wadleigh; Ettore Scola; Bellocchio & Co.; Jean-Luc Godard.

Tra contraddizioni, ternativi maldestri o addomesticati, linguaggi troppo accondiscendenti o sperimentazioni a volte fine a sé stesse, legami sinceri o “alla moda” con movimenti di lotta, il cinema militante ha una sua storia importante che vale la pena indagare, criticare e supportare anche in vista dell’oggi e del domani.

Fermo sull’idea che ai film che si vogliono politici occorre dare un giudizio politico, Fofi ha ricostruito la storia del cinema militante con spirito altrettanto militante: «Lunga vita al cinema militante! In tutte le sue forme e se mosso da finalità che non possiamo chiamare altro che “libertarie” e “socialiste”».

 

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La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

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  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

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La pillola rossa dell’alt-right – 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/14/la-pillola-rossa-dellalt-right-2/ Fri, 14 Jul 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77740 di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva [...]]]> di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva per ciò che è accettabile; dal momento in cui il discorso viene riconosciuto come consueto e condivisibile, l’utente viene accompagnato in modo “naturale” verso lo stadio successivo ove incontrerà immagini più forti e discorsi più radicali.

Naturalmente, gli individui affiliati anche in modo informale all’alt-right sono relazionali nel senso che sono connessi a vaste infrastrutture sociali e comunità online. Ma non appartengono a un’organizzazione e nemmeno a una cellula. Infatti, questi giovani, spesso disoccupati, si ritirano intenzionalmente dalla società, abbracciando il loro nuovo isolamento sociale anziché rifuggerlo […] Le recenti violenze perpetrate dall’alt-right sono difficili da prevedere e prevenire. Il razzismo e la xenofobia degli aggressori sono stati alimentati, coltivati e incoraggiati negli ambienti più disparati della rete […] Istigando soggetti alienati attraverso una retorica basata sull’odio e l’antagonismo, l’esito non può che essere distruttivo. Le condizioni che alimentano e incentivano l’indignazione, che incitano alla violenza, che perpetuano gli stereotipi razzisti, prima o poi spingeranno un soggetto particolarmente impressionabile e psicologicamente debole a comportamenti estremi1.

Gli individui che esprimono idee vicine all’alt-right sono il più delle volte persone comuni – spesso giovani bianchi disoccupati che si isolano intenzionalmente dal resto della società – che, un passo alla volta, meme dopo meme, video dopo video, hanno maturato convinzioni che considerano corrette e lapalissiane. Pur non facendo parte di gruppi “emarginati” o “assediati”, i discorsi di molti uomini bianchi che si sono avvicinati all’alt-right sono infarciti di retorica di persecuzione e vittimismo. Stando a un recente rapporto, circa undici milioni di statunitensi si dicono persuasi che nel loro paese i bianchi siano le “vittime” ed esprimono la profonda convinzione dell’importanza della “solidarietà bianca”2. «In breve, ci sono undici milioni di americani potenzialmente ricettivi ai messaggi dell’alt-right. Considerato nel più ampio contesto della popolazione, il simpatizzante dell’alt-right è un normale radicale e un estremista mainstream»3.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto su cui può far presa la retorica dell’alt-right è un individuo disilluso e cinico che, anche quando socialmente inserito, non trova felicità nella sua quotidianità e nel sistema politico che la governa. Un individuo alla ricerca di una sua dimensione all’interno di una comunità strutturatasi nell’universo online su una specifica questione che spesso diventa la sua unica questione esistenziale, una figura che, secondo Matteo Bittanti 4, non è molto diversa da quella di tanti gamer appassionati di giochi “sparatutto in prima persona” che magari, in diversi casi, sono usciti dagli schermi per partecipare all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Oltre che poter contare su una rete di supporter influenti e su un’immensa disponibilità economica, senza le quali, è bene sottolinearlo, nessuna escalation si sarebbe potuta dare, Trump ha saputo sfruttare la cultura dell’altrnative right permettendole di contaminare l’establishment. Nell’analizzare il successo del tycoon statunitense, Alain Badiou5 ha argomentato come a suo avviso le posizioni politico-culturali di questo outsider rappresentino una sorta di “esteriorità interna” al sistema, un’esteriorità dispensatrice di false promesse portate avanti con un linguaggio roboante, violento, demagogico, irrazionale e semplicistico che non ha esitato a recuperare vecchi immaginari nazionalisti, razzisti, bigotti e sessisti, pur presentandoli, talvolta, in maniera nuova.

Come diversi analisti, anche Badiou ritiene che il successo di Trump sia stato costruito sfruttando quel senso di profonda frustrazione derivata dall’incapcità di proiettarsi nel futuro patito da larghi strati della popolazione privi, come sintetizza efficacemente Fabio Ciabatti, di «un insieme sufficientemente forte e articolato di principi condivisi in grado di fungere da mediazione tra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione, di costituire un’unione strategica globale di tutte le forme di resistenza e di azione politica»6.

La “pillola rossa” offerta dall’alt-right e la “pillola blu” dispensata dall’establishment, al di là del diverso colore, conterrebbero, in definitiva, il medesimo principio attivo volto a preservare le fondamenta basilari di un sistema che non ammette alternative a sé stesso.

Sandro Moiso individua nella retorica del “duro lavoro”, onnipresente nel discorso dell’alt-right trumpiana, uno degli elementi cardine del suo successo tra la working class statunitense.

Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo. […] Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia7.

Tutto ciò, sostiene Moiso, era già presente, per quanto in maniera meno esplicitata, in quell’establishment di cui l’universo alt-right trumpiano si dichiara nemico. Rispetto alla tranquillizzante “pillola blu” proposta dall’establishment liberal-democratico o conservatore, ciò che la “pillola rossa” alt-right trumpiana ha esplicitato è «l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo»8.

Se al fine di “smascherare” qualche personaggio o istituzione dell’establishment nel corso del tempo hanno fatto ricorso a forme di “hacktivismo moralizzatore” tanto militanti di sinistra che di destra, questi ultimi hanno saputo garantirsi una certa egemonia all’interno della chan culture. Spetta a 4chan il ruolo di apripista in tale ambito. Per dare un’idea del bacino su cui ha potuto contare la cultura di destra fattasi egemone su 4chan, basti pensare che la sezione del forum Something Awful intitolata The Anime Death Tentacle Rape Whorehouse, inaugurata nel 2003, luogo di ritrovo di tanti appassionati di anime giapponesi, ha  raggiunto circa 750 milioni di visualizzazioni mensili nel 2011.

Attraverso una prolifica produzione di meme e troll la comunità di 4chan ha dato voce a una cultura profondamente misogina di appassionati di videogame di guerra e di film come Fight Club (1999) di David Fincher e The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski, per quanto letti da una prospettiva probabilmente altra rispetto a quella degli autori. L’anonimato consentito dal sito ha certamente incoraggiato i partecipanti a esprimersi senza freni in un’escalation sempre più sguaiata in cui l’ironia e la parodia hanno finito per intersecarsi con le provocazioni, le minacce e gli insulti della destra radicale. «La troll culture di 4chan brulicava di razzismo, misoginia, deumanizzazione, pornografia disturbante e nichilismo anni prima di diventare una forza centrale dietro l’estetica e lo humor della alt-right»9.

Ad accomunare tanti frequentatori di 4chan e gli estremisti della destra più radicale è stata la comune insofferenza nei confronti del politcally correct, del femminismo, del multiculturalismo e, soprattutto, il timore che tali tendenze potessero “infettare” il loro mondo online privo di regole e dominato dall’anonimato. Il livello degli insulti e delle minacce online ha spesso preso come bersaglio le donne accusate, in definitiva, di aver condotto al declino del “maschio occidentale”. Nella preoccupazione per la mascolinità bianca e occidentale che emerge in molta web culture anonima e priva di leader, secondo Nagle, si potrebbero cogliere  la avvisaglie di un malessere occidentale che va ben al di là dello specifico.

All’espansione di politiche identitarie liberal ha fatto da contraltare il proliferare di reazioni sempre più sguaiate e incattivite portate avanti, in internet, attraverso raffiche di meme e troll virulenti fino alle minacce dirette con tanto di  pubblicazione di informazioni riservate, indirizzi compresi, dei soggetti presi di mira, soprattutto da parte dei gamer antifemministi, dunque allargando, di fatto, la sfera d’azione al di fuori degli schermi.

Secondo Nagle a diffondere la misoginia – come del resto il razzismo, la transfobia ecc. – presente in internet nelle pieghe del corpo sociale, più che le frange radicali dell’alt-right sarebbe stata la sua componente maggioritaria, la cosiddetta alt-light, grazie a personaggi come Milo Yiannopoulos, molto popolare su Twitter e su diversi blog, Mike Cernovich, autore di una celebre guida all’essertività maschile, e una schiera di produttori di meme (Pepe the Frog ecc.) mossi, più che da una visione politica precisa, dalla propensione al politicamente scorretto fine a sé stesso.

Sebbene si tenda ad associare la cultura della trasgressione alla sua manifestazione negli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito di quella rivoluzione sessuale che ha nei fatti minato alle fondamenta la famiglia tradizionale, di per sé, sostiene Angela Nagle, la trasgressione si è storicamente mostrata «ideologicamente flessibile, politicamente intercambiabile e moralmente neutr[a]» tanto da poter «caratterizzare la misoginia tanto quanto la liberazione sessuale»10.

Figure di spicco delle battaglie culturali condotte dalla destra trumpiana come Milo Yiannopoulos e Allum Bokhari nel tratteggiare il pantheon intellettuale dell’alternative right citano personalità quali: Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918); H.L. Mencken, avverso al New Deal e promotore di una critica nietzschiana alla religione e alla democrazia rappresentativa; Julius Evola, soprattutto per la sua esaltazione dei valori tradizionali maschilisti; Samuel Francis, paleoconservatore avverso al neoconservatorismo capitalista. Anche la Nouvelle Droite francese rientra nell’eterogeneo pacchetto di influencer a cui guarda l’alt-right statunitense.

Durante gli anni della presidenza Obama, sostiene Nagle, i millenial liberal dotati di buon livello culturale non hanno approfittato dello spazio offerto dai nuovi media dopo il declino dei quotidiani e delle televisioni generaliste, tradizionali luoghi di dibattito politico. Si sono limitati a riempire le piattaforme di contenuti melensi, pieni di sentimenti edulcorati ritenendoli sia attrattivi che utili a costruire identità politica.

Affetto da miopia o da sprezzante disinteresse e snobismo, l’universo liberal non ha saputo/voluto vedere come nel frattempo l’alt-right stesse costruendo un impero mediatico online alternativo e stratificato capace di intercettare «adolescenti che creavano meme ironici e pubblicavano online contenuti contrari all’etichetta comportamentale di Internet formavano un esercito di riserva di produttori di contenuti, composti perlopiù di immagini in stile manga e anime spesso utilizzati in un contesto di umorismo nero»11.

Un esercito facilmente convocabile da parte di celebrità della destra alternativa online come Milo Yiannopoulos, Andrew Breitbart, Cathy Young, Mike Cernovich, Alex Jones, Richard Spencer, ecc. Un mileu di personalità decisamente eterogeneo per quanto accomunato dal livore nei confronti della politica e del giornalismo tradizionali che, dopo l’elezione di Trump, evento che ha ulteriormente rafforzato la loro notorietà mediatica, in molti casi ha dato luogo, come prevedibile, ad esasperate lotte intestine.

La metafora della “pillola rossa” ha permesso tanto ai misogini quanto ai razzisti di raccontare come si sono “risvegliati” «dall’ingannevole prigione mentale del pensiero liberal»12. L’alt-right ha un ruolo di primo piano nella cosiddetta  “maschiosfera”, ambito egemonizzato dalla misoginia di individui in preda a forme di risentimento nei confronti delle donne, come nel caso di quanti si dichiarano soggetti al “celibato involontario” o denunciano le preferenze delle donne per i “maschi alfa” su quelli “beta”. «Sotto i vessilli del “movimento degli uomini” negli Stati Uniti si sono riuniti gruppi di diverso orientamento, da quelli cristiani come i Promise Keepers al movimento mitopoietico del poeta Robet Bly, impegnato nella ricerca dell’autenticità maschilista persa in una società moderna femminilizzata e atomizzata»13.

Tra le figure più note della galassia in cui misoginia e razzismo si mescolano vi è sicuramente James C. Weidmann (“Roissy in DC”) autore di proclami in cui miscela psicologia evoluzionista, antifemminismo e difesa della razza bianca dicendosi convinto che il “declino della civiltà bianca” derivi dall’immigrazione, dalla mescolanza razziale e dalla scarsa attività procreativa delle donne bianche “fuorviate dal femminismo”. Secondo Weidmann, tale declino potrebbe essere invertito attraverso la “restaurazione del patriarcato” e la “deportazione di chi non è bianco”.

Il sito Vox Day, oltre a vedere nel femminismo una minaccia per la civiltà occidentale, palesa la sua contrarietà al concetto di “stupro nel matrimonio” ritenendolo “un attacco all’istituto del matrimonio, al concetto di legge oggettiva e, di fatto, al fondamento stesso della civiltà umana”. Il movimento separatista di uomini eterosessuali Men Going Their Own Way (MGTOW) rifiuta “relazioni romantiche” con donne per protestare contro la cultura che le invita alla realizzazione personale e all’indipendenza. Tra i personaggi più in vista a cui si rifà il movimento vi è lo scrittore maschilista e suprematista bianco Francis Roger Devlin, nemico della “morale elastica” e della “confusione dei ruoli”.

Secondo Nagle molti giovani statunitensi sono attratti dalla galassia dell’estrema destra per il suo denunciare la rivoluzione sessuale come causa delle unioni matrimoniali sempre meno durature e per il suo aver posto fine ai vincoli del matrimonio non appena scemato il rapporto d’amore sgravando i coniugi dal tradizionale obbligo di sacrificarsi per la famiglia. Il prolungarsi indefinito dello stato di irresponsabilità adolescenziale avrebbe dunque condotto a una gerarchia sessuale in cui le donne, rotti i vincoli di monogamia, si concederebbero quasi esclusivamente ai maschi al vertice della piramide sociale condannando tanti altri al celibato involontario.

L’ostilità viscerale degli uomini nei confronti delle donne presente sul web sembra spesso mossa da un senso di rivalsa nei loro confronti. «Sono proprio i giovani uomini con difficoltà relazionali con l’altro sesso e che hanno sperimentato il rifiuto a riempire spazi come Incel, la sezione di Reddit dedicata al celibato involontario, nella quale cercano consigli o soltanto la possibilità di esprimere la propria frustrazione»14. La rabbia che cova tra i livelli inferiori della “gerarchia sessuale”, ossia i maschi che si sentono scarsaemnte desiderati dalle donne, è tale da esplodere, in taluni casi, in maniera estrema.

Alla maschiosfera appartengono anche i Proud Boys, fondati da Gavin McInnes, che si rifanno alla dottrina “No Wanks” e che indicano tra i loro principi guida: «governo minimo, massima fedeltà, opposizione alla correttezza politica, diritto a detenere armi, guerra alle droghe, confini chiusi, opposizione alla masturbazione, culto dell’imprenditorialità e culto delle casalinghe»15. McInnes ha più volte affermato di aver derivato alcune linee di condotta dalla scena hardcore statunitense degli anni Ottanta; non a caso le stesse produzioni grafiche dei Proud Boys riprendono la pratica do-it-yourself degli ambienti punk-hardcore.

L’eterogeneo universo dell’alternative right statunitense si contraddistingue anche per la presenza di una serie di teorie del complotto proliferate e cresciute online poi, in taluni casi, uscite dagli schermi fino a raggiungere il manistream16.

I teorici del complotto lavorano sullo stupore, sulla fascinazione, sui punti di vista inconsueti. Nel fare questo, intercettano e soddisfano bisogni autentici: nelle nostre vite abbiamo bisogno di sorpresa, meraviglia, nuove angolature da cui guardare il mondo e sentirci diversi. I teorici del complotto forniscono tutto ciò e fanno sentire speciali i loro seguaci. Non a caso usano la metafora della “pillola rossa” tratta dal film Matrix: prendere la pillola rossa significa scoprire la verità sul complotto e vedere finalmente la griglia nascosta della realtà»17.

[continua]


La pillola rossa dell’alt-right completo: Parte 1 – Parte 2  – Parte 3


  1. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 158-159. 

  2. Cfr. George Hawley, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018. 

  3. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 161. 

  4. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmila] 

  5. Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2018. 

  6. Fabio Ciabatti, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018. 

  7. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017. 

  8. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), op. cit. 

  9. Ivi, p. 149. 

  10. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 53. 

  11. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 66. 

  12. Ivi, p. 126. 

  13. Ivi, p. 125. 

  14. Ivi, p. 139. 

  15. Ivi, p. 135. 

  16. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018. 

  17. Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, op. cit. 

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Brek, l’antieroe maoista (a modo suo) https://www.carmillaonline.com/2021/04/27/brek-lantieroe-maoista-a-modo-suo/ Tue, 27 Apr 2021 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65948 di Gioacchino Toni

Grazie alla collana Quaderni della Fondazione Echaurren Salaris, edita da Postmedia books, torna alla luce, in un’edizione a tiratura limitata, I viaggi di Brek di Gastone Novelli, una graphic novel, pubblicata la prima volta nel 1967 dalle edizioni veneziane di Bruno Alfieri e riproposta l’anno successivo sulle pagine della rivista d’arte contemporanea “Metro”. Nella nuova edizione, curata da Raffaella Perna in collaborazione con l’Archivio Gastone Novelli, le venticinque tavole che compongono la pubblicazione sono accompagnate da una puntuale ricostruzione della fortuna critica dell’opera e del contesto culturale entro cui si è mosso uno dei protagonisti della scena artistica [...]]]> di Gioacchino Toni

Grazie alla collana Quaderni della Fondazione Echaurren Salaris, edita da Postmedia books, torna alla luce, in un’edizione a tiratura limitata, I viaggi di Brek di Gastone Novelli, una graphic novel, pubblicata la prima volta nel 1967 dalle edizioni veneziane di Bruno Alfieri e riproposta l’anno successivo sulle pagine della rivista d’arte contemporanea “Metro”. Nella nuova edizione, curata da Raffaella Perna in collaborazione con l’Archivio Gastone Novelli, le venticinque tavole che compongono la pubblicazione sono accompagnate da una puntuale ricostruzione della fortuna critica dell’opera e del contesto culturale entro cui si è mosso uno dei protagonisti della scena artistica italiana più innovativa degli anni Cinquanta e Sessanta dando vita a una personale ed originale sperimentazione sui legami tra immagine, segno e linguaggio collaborando attivamente con gli scrittori della neoavanguardia italiana.

«Il fumetto è per Novelli un fertile terreno di sperimentazione, in cui convergono le sue riflessioni sul linguaggio, sugli incroci fra pittura e scrittura, l’esperienza nel teatro sperimentale e l’interesse per le nuove istanze espresse dalla cultura beat: guardare da vicino alla struttura, alla storia e al contesto entro cui il libro ha visto la luce offre dunque un punto di osservazione privilegiato per approfondire aspetti ancora poco indagati del lavoro dell’artista». È con tali premesse che Raffaella Perna indaga i motivi che spingono Novelli ad accostarsi al linguaggio del fumetto ponendo un occhio di riguardo a come l’esperienza de I viaggi di Brek, all’epoca scarsamente presa in considerazione dalla critica, si rapporti con la ricerca grafica e pittorica dell’artista.

La ricostruzione di Perna dimostra come l’interesse per il linguaggio delle bandes dessinées si sviluppi in Novelli di pari passo all’attenzione che presta alla cultura dei mass media e ai rapporti che intrattiene con alcuni dei protagonisti dei Novissimi e del Gruppo 63. La studiosa fa risalire l’avvicinamento al fumetto di Novelli già sul finire degli anni Cinquanta, quando l’artista abbandonate le forme astratte-geometriche, entra a contatto con gli ambienti dell’avanguardia storica parigina ed inizia a cimentarsi in maniera del tutto personale con la pittura informale inserendo nei densi impasti materici traccie grafiche che «sembrano sul punto di aggregarsi i scrittura». Sono anni in cui in Italia il mondo culturale guarda al fumetto con scarso interesse. In Italia occorrerà avvicinarsi alla metà degli anni Sessanta, grazie soprattutto ad Umberto Eco, affinché gli ambienti accademici inizino a prestare attenzione al mondo della comunicazione di massa e degli stessi fumetti.

L’interesse di Novelli per l’impaginazione narrativa del fumetto si manifesta già in apertura degli anni Sessanta quando inizia ad articolare lo spazio delle sue opere ricorrendo a riquadri e caselle. Scrive Perna che a fronte del disinteresse per il fumetto mostrato dagli ambienti culturali italiani dell’epoca, alcuni importanti esponenti della scena artistica del tempo, come Fabio Mauri e lo stesso Gastone Novelli, sembrano invece guardare ad esso come a una forma espressiva in grado di offrire notevole libertà d’azione. Entrambi gli artisti passano dall’esperienza del gruppo Crack formatosi nel 1960 attorno alla figura del critico d’arte, oltre che poeta e traduttore, Cesare Vivaldi. Il gruppo – che vanta la presenza anche di Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gino Marotta, Achille Perilli, Mimmo Rotella e Giulio Turcato – inizia ad abbandonare la stagione informale guardando con interesse al mondo della nascente civiltà dei consumi e dei mass media.

Nel 1964 Novelli, rompendo gli indugi, anziché limitarsi a derivare dall’universo dei fumetti semplici suggestioni compositive, decide di confrontarsi direttamente con esso realizzando alcuni cartoon. Sono gli anni in cui l’artista inizia a strutturare rapporti importanti con esponenti dei Novisismi e del Gruppo 63. Per quest’ultimo realizza la copertina del celebre volume pubblicato da Feltrinelli nel 1964 inserendo i nomi dei protagonisti all’interno di segni grafici che ricordano i baloon. A proposito di sodalizi importanti, Perna ricorda come spetti a Gillo Drofles aver colto l’importanza del lavoro in equipe di Gastone Novelli e Alfredo Giuliani nell’ambito del teatro sperimentale e in quello del fumetto.

Venendo a I viaggi di Brek, Perna sottolinea come, oltre a riferimenti all’orizzonte libertario beat e al neoliberty della grafica underground, dal punto di vista iconografico risultino evidenti i richiami al suo dipinto Il viaggio di Grog esposto la prima volta nel 1966, a sua volta palesemente debitore nei confronti dei cartoon dell’americano Johnny Hart. Il personaggi di Heart e di Novelli, scrive Perna, «sono stilisticamente vicini, entrambi chiamano in causa un immaginario mostruoso e grottesco, simbolo di devianza e alterità, che negli anni Settanta tornerà in primo piano nelle rappresentazioni del Movimento del ‘77, soprattutto nella tetralogia creata da Pablo Echaurren su “Lotta Continua” e su fanzine come “Osak?!” (1977) o “Di/versi” (1977). Sconfinando, da pittore, nel campo dei fumetti Echaurren è tra i pochi artisti italiani della generazione successiva a quella di Novelli a operare in entrambi gli ambiti senza censure, mescolando fonti popolari e fonti alte, provenienti in special modo dalla storia della pittura e della letteratura d’avanguardia».

Le affinità tra i personaggi di Novelli e quelli di Hart non sono però soltanto di ordine formale; dall’americano Novelli «riprende anche lo spirito lieve e ironico», scrive Perna, «e soprattutto la capacità di raccontare con sguardo critico l’alienazione di rapporti umani nella civiltà del consumo attraverso l’invenzione di luoghi e personaggi, come per l’appunto Grog, che costituiscono un “altrove” dal punto di vista dello spazio, del tempo e in special modo del comportamento».

Una delle poche recensioni uscite a ridosso della produzione della graphic novel di Novelli è firmata da Gianni Emilio Simonetti sulle pagine della rivista d’arte contemporanea “B°t”, autore che, sottolinea Perna, «coglie la struttura teleologica del volume, dove è l’ultima tavola [l’unica colorata di rosso] a dare il senso alla narrazione: dopo lo scontro con il razzismo e il consumismo americani, dopo l’insuccesso dei viaggi interplanetari e il fallimento della psicanalisi, Brek abbraccia le massime di Mao Tse-tung».

Tra il 1967 e il 1968 sono frequenti i riferimenti di Novelli alla Rivoluzione Culturale cinese. All’avvicinamento al maoismo l’artista affianca la convinzione della necessità di una radicale messa in discussione delle forme tradizionali del linguaggio. «È dunque nel disegno stesso di Brek, nella sua deformità e goffaggine, che va rintracciata» – scrive Perna – «la rottura dei canoni visivi operata da Novelli. Brek è l’antieroe per eccellenza: anche quando sposa le tesi del Presidente Mao e brandisce in aria con veemenza il Libretto rosso, lo fa con quel suo corpo buffo e peloso che contraddice la retorica maoista e soprattutto sovverte i modelli fisici e simbolici dei supereroi a fumetti».

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Amadeo Bordiga e la passione del comunismo https://www.carmillaonline.com/2021/04/07/amadeo-bordiga-e-la-passione-del-comunismo/ Wed, 07 Apr 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65638 di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

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di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

Per questo motivo la figura di Amadeo Bordiga ha pagato due volte la sua irriducibile opposizione sia al capitalismo trionfante successivo alla seconda guerra imperialista e mondiale che al “marxismo” deviato e corrotto, spacciato come teoria della classe operaia, prodotto dagli stalinisti e dai loro successivi epigoni. Una figura, quella del primo segretario del Partito Comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921, rimossa per lunghi anni dalla storia dello stesso partito e mal riproposta, allo stesso tempo, dai suoi seguaci della seconda metà del ‘900 che alternativamente si sono dedicati alla riproposizione acritica, se non mitica, delle sue scelte e idee politiche oppure, in tempi più recenti, ad un autentico tiro al piccione nei suoi confronti, in una sorta di rivolta contro un padre con cui, troppo spesso, non si son fatti davvero i conti storicizzandone ruolo e personalità.

Motivo per cui giunge gradita, per chiunque non voglia vivere soltanto di miti e foscoliane illusioni oppure di menzogne, la presentazione di Bordiga proposta da Pietro Basso per le Edizioni Punto Rosso. Certo le 150 pagine e i dieci succinti capitoli in cui l’autore riassume gli aspetti principali dell’azione e della riflessione politica del comunista italiano costituiscono uno spazio ristretto per racchiudere un’esperienza che ha spaziato dal Partito Socialista, incrostato di opportunismo e massoneria, della Seconda Internazionale, alla Rivoluzione russa e alla nascita della Terza Internazionale e dei partiti comunisti, fino alla degenerazione staliniana di tutto ciò e alla necessità di riflettere su un modo diverso di intendere l’organizzazione e la teoria comunista, ma si può comunque dire che è un buon inizio.

Basta infatti dare una rapida scorsa alle pagine dedicate alla bibliografia su Amadeo Bordiga, poste alla fine del volume, per comprendere quanto siano state poche le opere a lui dedicate, soprattutto se si pensa al gran numero di quelle dedicate a Gramsci o, ancor peggio, a Togliatti e ai dirigenti del partito stalinizzato. Ma si sa, la pubblicità è l’anima del commercio e anche la corporazione degli storici, a parte alcune rarissime occasioni, si è adeguata, sia per intrinseca convinzione ideologica che per opportunistica necessità di vendita del proprio prodotto, favorendo una leggenda gramsciana che è servita, in realtà, troppo spesso a giustificare la storia di un partito che, dopo aver espulso a sua insaputa Bordiga nel 1929, ha congelato la memoria del comunista sardo relegandola ad un’esperienza carceraria sulla quale, in realtà, ci sarebbe ancora molto da dire e scrivere1.

Pietro Basso ha pubblicato saggi e libri sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobia, le lotte del proletariato, tradotti in molte lingue. Nel 2020 ha curato per l’editore Brill la prima antologia di scritti di Bordiga in lingua inglese, The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), e scritto la voce Bordiga nel Routledge Handbook of Marxism and Post-marxism (2021). Collabora inoltre alla rivista «Il cuneo rosso» e al blog «Il pungolo rosso».

Proprio dall’introduzione al testo contenente la traduzione in inglese degli scritti del comunista napoletano è tratto il testo appena pubblicato in Italia, che si caratterizza per l’obiettività con cui è presentata l’opera (teorico-politica) dello stesso.
Come afferma lo stesso Basso nell’introduzione:

Questo scritto è una presentazione molto sintetica di Amadeo Bordiga. Del militante, organizzatore e propagandista politico di primissimo rango, quale fu nella prima fase della sua battaglia comunista (1912-1926); e del “restauratore” di alcuni aspetti della teoria marxista in contrapposizione al capitalismo e allo stalinismo trionfanti, quale fu in una seconda fase del suo impegno (1945-1966). Si tratta di due periodi storici pressoché agli antipodi. In quanto il primo vide esplodere, per entro la “grande guerra”, il più ardito assalto al cielo mai compiuto dal proletariato, mentre il secondo ha celebrato il pieno rilancio del capitalismo, dopo un trentennio di catastrofi, attraverso l’inaudita espansione mondiale dei rapporti sociali mercantili e monetari e dei connaturati valori culturali.
[…] Come si vedrà questa non è un’apologia bordighista di Bordiga. Perché il bilancio di questa grande esperienza è, necessariamente, in chiaroscuro2.

Il tentativo di Basso è quello di sottolineare come Bordiga abbia sempre operato in quanto militante più che come intellettuale, stravolgendo già in questo modo quella concezione tipicamente borghese dell’”intellettuale impegnato” oppure quella gramsciana dell’intellettuale “organico”.
Circolo Carlo Marx di Napoli, Federazione giovanile socialista, frazione intransigente rivoluzionaria, frazione comunista astensionista, Pcd’I-sezione italiana della Terza Internazionale, Partito comunista internazionalista e, infine, Partito comunista internazionale-Programma Comunista, sono stati i momenti che hanno segnato il suo percorso politico, organizzativo e teorico.

Bordiga, militante delle rivoluzioni a venire verrebbe da dire, non ha mai rinunciato all’integrità politica in nome del successo o dell’affermazione personale, anche se questo ha portato con sé due aspetti antitetici di cui Basso sa tenere conto.
L’ostinata difesa della radicalità della Rivoluzione e dell’azione e della teoria che devono per forza di cose accompagnarla gli ha permesso, anche nei periodi di quasi totale isolamento, di rinnovare, ancor più che restaurare soltanto come vorrebbero gli epigoni, il pensiero del movimento di classe rivoluzionario, trasmettendo ai posteri alcuni insegnamenti che nel ritorno della Grande Crisi, economica e pandemica e certamente portatrice di enormi disastri e guerre, odierna potrebbero rivelarsi estremamente utili se non addirittura dirimenti per i movimenti attuali di contestazione e negazione dell’ordinamento socio-politico attuale.
Cosa che ha fatto sì che la sua damnatio memoriae non cessasse mai di operare.

Per i narratori di stato il dato storico effettivo è irrilevante […] la sola aspirazione razionale che può nutrire la classe lavoratrice è quella di moderare un po’ gli effetti più estremi del meccanismo capitalistico. Altro non può. E se osa andare oltre? […] il contraccolpo sarà durissimo. Non solo per gli audaci. Lo sarà per tutti i proletari e perfino per l’intera società. Perché – parla Mauro3 per i suoi simili – «la fascinazione febbrile di un pensiero continuamente teso a ricostruire il mondo» non può che metter capo a «modellistica politica» tanto grandiosa quanto «ingenua, che proietterà nel futuro la tentazione tragica della comunità perfetta». Niente fascinazioni. Niente pensieri grandiosi. Niente modelli utopistici. Niente sogni di comunità perfette – salvo quelli da incubo, dell’industria 4.0 e del transumanesimo robotico […] Al lavoro, disciplinati! E vi passeranno i grilli per la testa. « La sinistra, o è riformista o perde». Solo questo è possibile4.

Ma le questioni poste da Bordiga non sono di dettaglio e non si possono facilmente rimuovere così come alcuni avrebbero voluto: «la sua battaglia contro le illusioni seminate dal riformismo, il suo anti-militarismo rigorosamente disfattista verso la “patria” borghese, la sua denuncia del cretinismo parlamentare» insieme alla sua capacità di «estrarre e mettere in luce la dimensione anti-produttivistica ed ecologica del marxismo […] che ne esalta l’antagonismo col capitalismo stramaturo che, nella sua folle ricerca di nuove fonti di produzione del plusvalore, si caratterizza più che mai per una feroce fame di catastrofe e di rovina»5.

Certo, a fronte di questa riscoperta del radicalismo ed attualità della proposta bordighiana rimangono le ombre. Ombre legate ad una concezione tattica semplificata fino all’osso e ad una concezione organizzativa di tipo partitico che spesso, e soprattutto nell’interpretazione ed applicazione di troppi epigoni, porta a rigide derive settaristiche. Costringendo il discorso in un alveo talvolta ermetico ed autoreferenziale (soprattutto nelle infinite polemiche e diatribe che hanno caratterizzato le separazioni, divisioni e scontri tra le differenti correnti “bordighiste”, già ben prima della sua morte avvenuta nel 1970).

Uomo d’altri tempi, per formazione, cultura ed esperienza Bordiga non comprese assolutamente la novità costituita dai movimenti del ’68, cui dedicò l’ultimo suo scritto pubblicato in vita sul «Programma Comunista». D’altra parte non avendo compreso la grande trasformazione sociale avvenuta con l’avvento della riforma della scuola media unica, Bordiga poteva rammentare soltanto le mobilitazioni a favore del primo conflitto mondiale portato avanti, all’epoca, da uno studentame che costituiva una sorta di jeunesse dorée borghese, mentre i figli dei proletari dovevano accontentarsi di seguire le orme dei padri (e delle madri) in fabbrica.

Certe estremizzazioni poi del suo pensiero, dopo il secondo conflitto mondiale, furono anche il prodotto di due altri fattori. In primo luogo una salutare reazione all’impostazione marxista-leninista che da lì a poco si sarebbe trasferita anche in tanti gruppi della cosiddetta “nuova sinistra”. E che si sarebbe trasferito ben presto (probabilmente con Bordiga ancora vivente) anche nella Sinistra Comunista sotto forma di culto del capo. Un culto della personalità cui il vecchio e irriducibile comunista si era da sempre opposto, fin dalla morte di Lenin e dall’avvento dello stalinismo, e che avrebbe osteggiato in ogni modo fino a quella rivendicazione di un totale anonimato autoriale, che invece avrebbe permesso, in seguito, ai vari manipoli di seguaci di fregiarsi degli stessi meriti, spesso senza avere davvero fatte proprie le sue posizioni.

L’altro fattore è da attribuire alla solitudine in cui Bordiga operò per lunghi periodi della sua vita e anche alla sfiducia che lo stesso nutrì nella formazione di uno strumento “partito” di cui non vedeva ancora le necessarie condizioni di sviluppo. Trascinatovi quasi per i capelli, finì col definire rigide norme destinate ad una sorta di “autodifesa” da quella sovracrescita di militanti poco preparati e dalle poche e confuse idee che aveva finito col caratterizzare i “partiti di massa” di origine stalinista, fascista o democratica.

Era ben chiaro a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nella testa del nostro (e un po’ tutta la sua opera di quegli anni lo dimostra) il disastro storico, politico, ideologico ed umano rappresentato dallo stalinismo come vero distruttore del movimento di classe internazionale. Oggi affermare ciò può essere scontato, ma credo che fosse cosa ben diversa vivere sulla propria pelle, in diretta per così dire, e nella propria testa il fallimento rappresentato dallo stalinismo per il movimento di classe e per gli uomini che avevano legato il proprio destino a quello della rivoluzione bolscevica e ai suoi strascichi nei primi trent’anni del secolo. Sicuramente, al confronto, fascismo e nazismo avevano costituito un problema minore, una conseguenza di quel fallimento, non certo una causa.

Per tutti questi motivi Bordiga, con il suo modo di pensare, operare e interpretare il marxismo, proprio come suggerisce Pietro Basso, va inquadrato sul piano storico e, quindi, anche umano ovvero soggettivo. Bordiga uomo storico intanto e non vate, gigante, maestro di misteri o condottiero rivoluzionario. E’ accademico ricordare tutto ciò ? No, soprattutto se questo ci può aiutare a capire alcuni “svarioni” ed alcune salutari anticipazioni egualmente espresse dal suo pensiero.

A settanta e più anni, nelle riunioni sulla conoscenza e la filosofia6, riprese la polemica anti-culturalista che lo aveva già caratterizzato in gioventù e lo fece con foga e passione, perché sapeva bene che proprio i deliri della “cultura proletaria” erano stati una delle armi retoriche dello stalinismo in patria e fuori.
Così pure la freddezza della ragione così vicina al calcolo politico (padre di ogni opportunismo) e l’esaltazione positivistica e trionfalistica della scienza (madre di ogni tradimento della teoria rivoluzionaria) lo spinsero ad allontanarsi da due capisaldi del pensiero borghese otto e novecentesco che si erano inseriti come un tarlo nella teoria comunista fino a stravolgerla, in nome, appunto, di nuove fasulle conquiste (la polemica sulla corsa allo spazio era prima di tutto, ancora una volta, una polemica antistalinista) sia nel campo della conoscenza e del rapporto uomo-natura che in quello dei rapporti di classe.

Bordiga restituiva l’intuizione, la religione e l’arte alle categorie della conoscenza; recuperando così anche la possessione7 ovvero la manifestazione negli uomini, sia presi individualmente che collettivamente, di forze e potenze che li trascinano, li dominano e li soggiogano ancor prima che essi possano pienamente comprenderle.

Ad esempio il comunismo, che a sua volta è figlio di necessità storiche, di potenze materiali che agiscono sulla società e sui singoli provocando di volta in volta una metamorfosi del sociale e delle forme della conoscenza (oltre che delle forme di lotta e di organizzazione). Solo dopo un impatto violento sugli uomini e sulle classi queste forze possono essere “formalizzate”, ridotte a teoria. Motivo per cui anche in Marx si parla del demone del comunismo ed è interessante constatare come per gli antichi greci (ovvero prima dell’età classica e della sistemazione dei canoni), in Omero per esempio, la parola daímones servisse indifferentemente a parlare degli dei come dei demoni.

L’intuizione, così vicina all’istinto, deve spesso guidare il rivoluzionario anticipandone le sistemazioni teoriche che seguiranno: l’esempio degli scritti giovanili di Marx (di cui non a caso Bordiga si stava occupando al tempo delle riunioni in questione) che anticipano gli scritti della maturità potrebbero costituire un esempio di ciò. Ma anche la spontanea sollevazione o ribellione delle classi formate o in formazione (ancora non a caso vengono recuperati i luddisti nel corso delle stesse riunioni) anticipa la teoria e le teorie che spiegano e accompagnano la lotta di classe.

L’arte segue un po’ lo stesso percorso poiché l’artista esprime più di quello che lui stesso vorrebbe, sia perché il suo prodotto non è mai individuale e soggettivo, sia perché spesso tende ad anticipare ciò che già è nell’aria (in questo caso anticipare sta anche per annunciare e si può annunciare solo ciò che già è deciso ovvero che già esiste anche se la moltitudine sembra ancora non esserne a conoscenza). D’altra parte il termine avanguardia, tra ‘800 e ‘900 non si è prestato forse all’uso sia politico che artistico? Nell’accezione bordighiana dell’arte (colta sempre nel momento in cui accompagna le grandi trasformazioni della società) quest’ultima non è forse sempre precorritrice di ciò che sta per avvenire?

Infine la religione: prima forma di conoscenza “teorica” del mondo e al contempo anticipatrice delle leggi destinate a governare le prime società di classe. Manifestazione dell’umano che si dà un proprio divenire, collegandolo a cicli più grandi della stessa forma sociale che l’ha prodotta. Manifestazione essa stessa di quelle potenze, di quelle forze che l’uomo subisce e allo stesso tempo cerca di spiegare e dominare. Perché insistere, come fa Bordiga, su questo aspetto della conoscenza umana, se non per rivoltarla contro gli stessi “atei” borghesi che hanno fatto del capitale, dello sviluppo e del progresso tecnico la propria nuova e disumana religione?

La domande da porsi quindi riguardano non tanto dove, quando, come e perché comincia la deriva bordighista, ma piuttosto, come il provocatorio e nuovo discorso bordighiano abbia fallito nell’incontrare quei movimenti che da lì a pochi anni, Bordiga ancora vivente, avrebbero cominciato a porsi problemi analoghi e come, allo stesso tempo, quelle affermazioni si siano trasformate nella caricatura di sé stesse nella spesso inconcludente e settaria pratica bordighista.

Ma, come al solito nel testo bordighiano, ci sono “intuizioni” che travalicano la miseria del momento (riunioni in cui bisognava chiedere insistentemente ai compagni presenti di non allontanarsi in massa e ridurre i macigni in salsicce) e degli epigoni.
Intanto la modestia dell’uomo: ne sono prova non solo gli scherzosi richiami ai disattenti, ma, soprattutto, il diniego di fronte a quei lavori “futuri” che si ritenevano importantissimi (sulla scienza e la conoscenza, sulla società futura, etc.), ma che allo stesso tempo si ritenevano al di sopra delle proprie forze intellettuali sia individuali che collettive. Per Bordiga nulla poteva esser dato per scontato a livello di conoscenza: tutto era, almeno fino all’affermarsi di una società comunista, in divenire. E spesso non vi erano nemmeno giganti sulle cui spalle poter salire. Tutto rimaneva nella dimensione degli uomini, per grandi che questi potessero essere, poiché gli “dei” si manifestano soltanto come forze dominanti e gli eroi esistono per quanto durano i cicli rivoluzionari. La polemica sul battilocchi ne è l’esempio più concreto e saldo.

Nel vecchio Bordiga, comunque, trionfava sempre la preoccupazione anti-staliniana e così sarebbe stato destinato a fermarsi sull’orlo di una nuova fase della lotta di classe, incapace di mettere pienamente a fuoco quegli elementi di novità compresi nel ruolo dei popoli non occidentali nella ripresa della stessa e allo stesso tempo quelli non “operaistici” già presenti nel corpo principale dei testi della Sinistra. Così, mentre all’inizio del secolo un certo spontaneismo aveva permesso al gruppo dei giovani socialisti, e poi del Soviet, di emanciparsi dai dettami della socialdemocrazia legata alla Seconda Internazionale, sul finire degli anni sessanta Bordiga preferisce chiudersi all’interno di una ferrea (e dannosa quando non ridicola) disciplina di partito che finirà con lo scimmiottare il bolscevismo più deleterio di marca stalinista. Quasi come se a forza di fissare o di lottare con il mostro avesse finito con l’assorbirne le caratteristiche peggiori.

Finiva così col perdere quell’attenzione per la metamorfosi necessaria del mondo e delle forme di lotta e di organizzazione (quindi delle tattiche e delle parole d’ordine) che avevano caratterizzato la parte più viva del suo discorso.
Per i fessi e i settari rimasero gli invarianti, il dogmatismo, la ferrea “rosa delle eventualità tattiche”, i sacri testi, ma non il metodo, quello stesso che aveva permesso a Marx di riconoscere la grandezza della Comune nonostante la direzione anarchica e populista della stessa, a Lenin di superare con un gigantesco colpo d’ala i pantani della Seconda Internazionale e a Bordiga di riconoscere il carattere capitalistico della Russia Sovietica e il carattere rivoluzionario delle lotte dei popoli colorati e ancora l’importanza della religione, dell’intuizione e dell’arte ovvero della passione nei processi cognitivi umani.

Sono personalmente convinto che da quel metodo i rivoluzionari debbano continuamente ripartire, in una sorta di fatica di Sisifo cui soltanto la fine dell’odiato sistema di classe potrà metter fine. Ogni scorciatoia, ogni certezza definitiva, ogni imbecille speranza nella forza del dogma o di un partito che per ora non c’è, ci è definitivamente preclusa, mentre la lettura proposta da Basso può costituire un primo e significativo passo in direzione di questa riscoperta della parte più vivace e attuale del pensiero del vecchio comunista; tralasciando quelle incongrue polemiche in cui i suoi seguaci od ex continuano a razzolare nel tentativo di spiegarne, sminuirne o ingigantirne le responsabilità, vere o presunte, nei confronti delle sconfitte subite dalla rivoluzione8. Incapaci anche di comprendere la sostanza delle sue Lezioni delle controrivoluzioni e, forse, ancor meno quanto affermò Rosa Luxemburg, all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista di Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»9.


  1. Sull’argomento si vedano, almeno: Chiara Daniele (a cura di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999 e qui  

  2. P. Basso, Lezioni per l’oggi in Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, p. 7  

  3. Il riferimento è a Ezio Mauro e alla sua ricostruzione della nascita del Pcd’I, La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, Milano 2021 – N.d. R.  

  4. P. Basso, op. cit., pp. 5-6  

  5. ibidem, pp. 9-10  

  6. Si veda in proposito: Critica della filosofia. Cinque testi inediti di Amadeo Bordiga, «N+1», n° 15-16, giugno-settembre 2004  

  7. «Quando si parla di possessione, il primo passo falso è quello di credere che si tratti di un fenomeno estremo, esotico e comunque torbido.[…] Per i Greci, la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi che la nominano.[…] Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei – questa mirabile costruzione che solo l’ingenuità dei moderni ha potuto giudicare rudimentale -, è attraversata da un capo all’altro dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme e profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo.[…] E ogni metamorfosi era [è] un’acquisizione di conoscenza. Certo, non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo.» in Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, 2005, pp.26 –28  

  8. Un po’ come se oggi si continuasse a discutere del fatto che nel 1917, poco prima dell’esplodere della rivoluzione russa, Lenin, all’epoca in esilio, si soffermasse di più sul Partito socialdemocratico svedese e le sue vicende piuttosto che su quanto stava per avvenire in Russia. Si veda la lettera di Lenin ad Alessandra Kollontaj del 5 marzo 1917 cit. in Michael Voslensky, Nomenklatura. La classe dominante in Unione Sovietica, Longanesi & C., Milano 1980, p. 94  

  9. Rosa Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi , Torino 1975, p.680  

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Pratiche di controcultura – Avanguardia di massa, indiani metropolitani e dintorni https://www.carmillaonline.com/2018/11/13/pratiche-di-controcultura-avanguardia-di-massa-indiani-metropolitani-e-dintorni/ Tue, 13 Nov 2018 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49492 di Gioacchino Toni

Maurizio Calvesi, Avanguardia di massa. Compaiono gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2018, pp. 102, €12,60

«Gli esiti ulteriori delle avanguardie non sono ipotizzabili che in una direzione di massa e politicamente incidente, e, piaccia o no, le ultime [sono venute], con il loro neoavanguardismo tra manieristico e goliardico e tuttavia sperimentato in una corretta ipotesi antiprofessionale e intersoggettiva da quegli sciagurati degli indiani metropolitani» Maurizio Calvesi

A distanza di quarant’anni dalla sua prima pubblicazione nel 1978 torna in libreria, grazie a Postmedia Books, il volume in cui Maurizio Calvesi ragionava, “in diretta con gli eventi”, sul processo [...]]]> di Gioacchino Toni

Maurizio Calvesi, Avanguardia di massa. Compaiono gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2018, pp. 102, €12,60

«Gli esiti ulteriori delle avanguardie non sono ipotizzabili che in una direzione di massa e politicamente incidente, e, piaccia o no, le ultime [sono venute], con il loro neoavanguardismo tra manieristico e goliardico e tuttavia sperimentato in una corretta ipotesi antiprofessionale e intersoggettiva da quegli sciagurati degli indiani metropolitani» Maurizio Calvesi

A distanza di quarant’anni dalla sua prima pubblicazione nel 1978 torna in libreria, grazie a Postmedia Books, il volume in cui Maurizio Calvesi ragionava, “in diretta con gli eventi”, sul processo di appropriazione e riuso dei linguaggi dell’avanguardia da parte di gruppi giovanili a ridosso del ’77. La nuova edizione di Avanguardie di massa, che ai saggi contenuti nell’originaria aggiunge altro materiale di Calvesi, rappresenta il primo volume della collana Quaderni della Fondazione Echaurren Salaris che, oltre alla gestione di una tra le principali collezioni esistenti di pubblicazioni futuriste e di materiali legati alla controcultura italiana, è attiva nella promozione di studi e pubblicazioni incentrati su tali argomenti. La collana, diretta da Raffaella Perna, intende promuovere e diffondere lo studio dell’arte e della cultura visiva del XX e XXI secolo attraverso la pubblicazione di materiali di approfondimento della storia delle prime e seconde avanguardie del Novecento e, soprattutto, della controcultura italiana e internazionale.

In una serie di scritti stesi a ridosso dell’esplosione del ’77, e raccolti in Avanguardia di massa, Calvesi riflette sul recupero e sul riutilizzo dei linguaggi delle prime e delle seconde avanguardie novecentesche da parte dei gruppi giovanili sul finire degli anni Settanta. Collage, détournement ed happening diventano pratiche di sovversione del linguaggio egemonico e con esso strumenti dell’azione politica con cui una parte importante del movimento del ’77 sferra il suo attacco all’immaginario dominante. Si può dire che in quel roboante scorcio di anni Settanta la sperimentazione artistica sia davvero fuoriuscita dagli atelier di un’avanguardia ristretta divenendo patrimonio condiviso da quella moltitudine di studenti, giovani lavoratori precari e proletari scolarizzati che compone il movimento del ’77. L’avanguardia si è fatta di massa.

«Diversamente da altri intellettuali italiani che in quel momento prendono in esame il fenomeno», scrive Raffaella Perna nella Postfazione alla nuova edizione di Avanguardie di massa, «la prospettiva adottata da Calvesi è quella dello storico dell’arte, attento più agli esiti espressivi e linguistici che all’ideologia promossa dai gruppi antagonisti» (p. 92). Da accademico individua puntualmente i richiami alle avanguardie novecentesche e da critico militante analizza attentamente le modalità di riappropriazione e quelle con cui cui vengono agiti nel presente. Perna ricorda come lo studioso in un volume del 1970 dedicato al Futurismo – Calvesi fu sicuramente tra i primi nel dopoguerra ad intraprendere una sua rivalutazione critica – avesse già individuato in quel movimento d’avanguardia una fonte per le contestazioni del ’68 cogliendo i punti di contatto «nel disprezzo dell’accademismo e delle istituzioni, nell’apologia della gioventù, nell’antiriformismo, nel vitalismo e nel rifiuto dell’arte romantico-borghese» (p. 92). L’aver saputo individuare gli elementi di continuità tra prime e seconde avanguardie novecentesche, continua Perna, ha sicuramente permesso allo studioso di guardare senza pregiudizi alle esperienze creative portate sulla scena dagli indiani metropolitani.

I ragionamenti di Calvesi partono dal confronto tra l’inaugurazione nel febbraio del 1977 del Centre George Pompidou a Parigi e la comparsa degli indiani metropolitani visti come due aspetti complementari di massificazione della cultura: se nel primo caso, secondo lo studioso, è possibile individuare un esempio di nuovo consumismo culturale, nel secondo è ravvisabile una modalità di consumo da intendersi come distruzione permanente.
È a partire da tale riflessione che Calvesi giunge ad indagare i legami tra le esperienze di contestazione degli anni Settanta e le pratiche delle avanguardie artistiche. «Attraverso un confronto serrato tra i proclami del Dada, del Surrealismo e soprattutto del Futurismo e gli slogan del ’77, Calvesi propone una genealogia che servirà da modello per le successive letture dedicate al rapporto tra avanguardia e movimento, la cui eco si riflette ancor oggi sugli studi recenti, in molti dei quali l’esperienza futurista è riconosciuta come una fonte importante per la cosiddetta al creativa del movimento» (p. 93).

In questa nuova edizione di Avanguardie di massa è riportato un intervento steso da Calvesi nel 1998, vent’anni dopo i sui scritti “in diretta” di fine anni Settanta. A distanza di due decenni lo studioso, riflettendo “a freddo” su quegli anni turbolenti, riconosce a Pablo Echaurren un ruolo cruciale nella creazione dell’immaginario visivo del ’77. Dopo aver compreso “a caldo” «i risvolti e le implicazioni critiche della prima “avanguardia di massa”», sostiene Perna, occorre riconoscere a Calvesi il merito di aver «gettato le basi per la sua storicizzazione» (p. 94).


Su Carmilla:

Pablo Echaurren, il movimento del ’77, gli indiani metropolitani e la “massificazione dell’avanguardia”

Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

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Pablo Echaurren, il movimento del ’77, gli indiani metropolitani e la “massificazione dell’avanguardia” https://www.carmillaonline.com/2016/10/11/pablo-echaurren-movimento-del-77-gli-indiani-metropolitani-la-massificazione-dellavanguardia/ Tue, 11 Oct 2016 21:30:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30706 di Gioacchino Toni

collettivo_rizoma_1977Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

Il saggio di Raffaella Perna su Pablo Echaurren si inserisce all’interno di un certo interesse critico che da qualche tempo indaga il rapporto tra arte e politica nell’Italia degli anni Settanta.

Sul finire del 1968 la rivista “Carta Bianca” presenta un numero intitolato “Contestazione estetica e pratica politica”, in cui viene indagato il rapporto tra i fenomeni di contestazione sociale e le nuove direttrici artistiche indirizzate a smaterializzare il feticcio-opera in favore di pratiche di comportamento tese a [...]]]> di Gioacchino Toni

collettivo_rizoma_1977Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

Il saggio di Raffaella Perna su Pablo Echaurren si inserisce all’interno di un certo interesse critico che da qualche tempo indaga il rapporto tra arte e politica nell’Italia degli anni Settanta.

Sul finire del 1968 la rivista “Carta Bianca” presenta un numero intitolato “Contestazione estetica e pratica politica”, in cui viene indagato il rapporto tra i fenomeni di contestazione sociale e le nuove direttrici artistiche indirizzate a smaterializzare il feticcio-opera in favore di pratiche di comportamento tese a far coincidere spazio della rappresentazione e spazio del vissuto quotidiano.

Nel corso degli anni Settanta non solo si susseguono diverse esposizioni che riflettono sul rapporto tra produzione artistica ed impegno politico ma anche il ruolo della critica viene messo in discussione. Le prospettive entro cui viene affrontato il rapporto arte/politica nel corso del decennio indagato da Perna sono molteplici: «gli artisti si interrogano sulle relazioni tra linguaggio, potere e ideologia […]; pongono in luce la distorsione dell’informazione e gli effetti del condizionamento mediatico […]; denunciano le disparità di genere e abbracciano il pensiero e la pratica femminista […]; inventano nuovi modelli di socializzazione e riappropriazione dello spazio urbano […]; danno vita a collettivi e spazi autogestiti e anti-istituzionali […]; collaborano con gruppi politici, sino al rifiuto radicale del sistema dell’arte a favore della militanza» (p. 8).

Il saggio qui preso in esame si concentra non tanto sui fenomeni di politicizzazione che toccano il mondo dell’arte e della critica, quanto piuttosto sul «fenomeno di recupero e riuso delle strategie artistiche della prima e della seconda avanguardia da parte dei gruppi antagonisti legati al movimento del ’77» (p. 10). Raffaella Perna si concentra su quel processo di “massificazione dell’avanguardia” che vede il movimento appropriarsi di pratiche proprie delle avanguardie, come il détournement, il collage, l’happening al fine di sottrarsi dai, e contestare i, linguaggi dominanti.

«La sperimentazione artistica fuoriesce dal laboratorio ristretto dell’avanguardia per divenire patrimonio condiviso dalla massa di studenti, giovani lavoratori precari e proletari scolarizzati che compone il movimento. Questo libro intende riflettere su tale fenomeno, concentrandosi in particolare sulla vicenda artistica di Pablo Echaurren colta negli anni tra i 1970 e il 1977: verranno presi in esame i legami dell’artista con la sinistra antagonista e la sua attività militante, che si traducono in centinaia di immagini e illustrazioni – spesso presentati in forma anonima e collettiva – su quotidiani, riviste e volantini legati al movimento del ’77» (p. 10).

echaurren_perna_coverDopo una prima fase (1970-1976) contraddistinta da esposizioni in gallerie e musei, a partire dal 1977 Echaurren, convinto che l’arte debba essere un mezzo e non un fine, abbandona il circuito artistico preferendo mettere la sua creatività al servizio dei movimenti antagonisti. I primi rapporti tra l’artista e l’ambito politico del movimento si danno ben prima dell’abbandono del circuito artistico ufficiale; risalgono al 1973 le prime illustrazioni per “Lotta Continua” ed al 1976 le tante copertine realizzate soprattutto per l’editore Savelli.

Tra le tante esperienze editoriali che hanno voluto e saputo coniugare le istanze politiche rivoluzionarie con il rinnovamento dei linguaggi, Perna, tra le altre, cita: “A/traverso”, “Zut”, “Oask?!”, “Abat/jour”, “Wow”, “Viola”, L’occulto”, “Il complotto di Zurgo”. In particolare l’esperienza bolognese di “A/traverso” (dal 1975) può essere indicata come come modello di ispirazione poi ripreso da tante altre testate.

Il rinnovamento comunicativo proposto attraverso il collage, la commistione tra scritte a stampa ed a mano, i giochi di parole ecc., utilizzati da “A/traverso”, sembrano derivare dalla rielaborazione delle avanguardie e dalle neoavanguardie artistiche, dal Dada al Surrealismo, dall’Internazionale Situazionista al Gruppo 63. A differenza di quanto accadde per le avanguardie storiche di inizio Novecento, il linguaggio del movimento del ’77 proviene realmente “dal basso”, dall’interno della società, almeno di una sua parte, in fermento, e pertanto risulta comprensibile anche a chi non è necessariamente colto.

É in tale contesto di massificazione dell’avanguardia che Maurizio Calvesi, da una prospettiva storico-artistica, sviluppa il concetto di Avanguardia di massa (1978) avventurandosi nella messa in relazione dell’apertura del Centre George Pompidou a Parigi (esempio di nuovo consumismo culturale) e la comparsa degli indiani metropolitani (modalità di consumo da intendersi come distruzione permanente), come due aspetti complementari di massificazione della cultura.

Se il rapporto tra movimento ed avanguardie storiche è stato rilevato prontamente dalla critica (ad esempio da Umberto Eco), il legame con l’Internazionale Situazionista, sostiene Perna, non è stato colto immediatamente. «Anche l’idea del “superamento dell’arte”, concepito da Debord come il fine ultimo dell’esperienza delle avanguardie, viene riassorbito dall’ala creativa del movimento del ’77. In tale contesto si inquadra la storia di Pablo Echaurren: in questo momento, infatti, egli abbandona il sistema artistico ufficiale, rifiutando i concetti di originalità e i valori connessi all’autorialità a favore di una pratica artistica collettiva, che si fonde con e si discioglie nella militanza politica» (p. 33).

Pablo-Echaurren-Basta-con-i-padroni-con-questa-brutta-razza-1973A partire dal 1970 la poetica Echaurren, sicuramente influenzata dall’amicizia con Gianfranco Baruchello, è caratterizzata da opere “impaginate a quadratini” ove si alternano piccole immagini dal sapore fiabesco di stampo fumettistico. Alla particolare composizione di tali opere, che determina una fruizione frammentata e discontinua, si aggiungono titolazioni stranianti in quanto spesso non immediatamente riconducibili alle immagini.

Il 1973 segna l’inizio della collaborazione di Echaurren con la Galleria Schwarz di Milano ed a tale periodo risalgono anche i primi simboli politici inseriti nelle opere in maniera volutamente scanzonata. «Echaurren crea uno spazio frammentario, in cui le singole immagini assumono il ruolo di tasselli di un puzzle, combinandosi tra loro sena un ordine gerarchico. L’artista usa infatti un montaggio paratattico, creando un campionario di simboli politici in cui tutte le immagini hanno lo stesso peso specifico, senza che una prevalga sull’altra» (p. 40).

Anche le illustrazioni realizzate tra il 1973 ed il 1974 per il quotidiano “Lotta Continua” ripropongono la struttura a quadratini (in tale periodo il soggetto delle immagini tendono a riferirsi al contenuto dell’articolo) collocata il più delle volte in maniera orizzontale a fondo pagina. Rispetto alle opere che ancora realizza per musei e gallerie, sottolinea Perna, le immagini realizzate per il quotidiano risultano semplificate e più didascaliche.

L’impaginazione a quadratini torna pure nelle copertine realizzate, a partire dal 1976, per diversi editori. A tal proposito Perna cita, ad esempio, la copertina per il libro di Nanni Balestrini, La violenza illustrata (Einaudi, 1976). Nel corso dello stesso anno, Balestrini “ricambia il favore” scrivendo il testo per la personale di Echaurren alla Galleria Valsecchi di Milano.

Sempre nel 1976 inizia anche la collaborazione tra l’artista e l’editore Svelli per il quale realizza numerose copertine come, ad esempio, Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, in cui si alternano simboli politici a particolari anatomici femminili. Nei riquadri della copertina compare anche la figura del “maiale alato” che, secondo Claudia Salaris, “ben sintetizza la condizione della sinistra giovanile di quel tempo, sospesa tra utopia e libido”. Una versione del maiale alato disegnata nel 1977 viene utilizzata nelle locandine del film Porci con le ali di Paolo Pietrangeli.

Il 1977 segna per Echaurren, come detto, l’abbandono del mondo dell’arte e l’inizio di un lavoro stabile per la redazione di “Lotta Continua”. A questo periodo risale il suo legame con il variegato mondo degli indiani metropolitani e l’iconografia dei nativi americani non manca di comparire su numerose sue produzioni grafiche alternando immagini in cui inserisce slogan politici del movimento a citazioni derivate dalla storia dell’arte. Perna segnala come Echaurren non manchi né di prendere le distanze dalla dilagante rappresentazione stereotipata dell’indianità, né di mettere in guardia il movimento degli indiani metropolitani dal rischio di un suo riassorbimento come fenomeno di moda da parte del sistema.

Se le illustrazioni realizzate nel 1973 per “Lotta Continua” mirano ad una lettura immediata, anche perché spesso risultano riferite al contenuto dell’articolo, la nuova stagione presenta un cambio di poetica; ora le immagini tendono a liberarsi dai dettami contenutistici degli articoli dando vita ad un mondo di mostriciattoli, animaletti e figure ibride dal sapore surrealista. «Il carattere ironico e scanzonato di queste immagini assume forme e toni più sofisticati e stranianti in alcune illustrazioni in cui l’artista associa le immagini del fumetto a testi legati alle sperimentazioni d’avanguardia» (p. 58).

La commistione tra “alto” e “basso” presente nelle sue illustrazioni ben «si coniuga all’uso del falso e del détournement nella rubrica “Dietro lo specchio”, realizzata in coppia con Gabbiadelli, pubblicata su “Lotta Continua” tra il 15 luglio e il 2 agosto del 1977. Il titolo richiama l’idea del “linguaggio al di là dello specchio” espressa da “A/traverso” nell’articolo Informazioni false che producono eventi veri (febbraio 1977), in cui il collettivo bolognese sosteneva la necessità di appropriarsi dei modelli di comunicazione degli organi di potere per sovvertirli dall’interno, senza limitarsi, come aveva fatto sin lì la controinformazione, a smascherare la faziosità della stampa ufficiale» (p. 59).

In tale contesto, il ricorso al falso ed al sabotaggio diventa centrale nella poetica di Echaurren, come risulta evidente nelle riviste e sui fogli con cui collabora. Perna cita in particolare la collaborazione dell’artista con “Oask?!”, giornale legato al mondo degli indiani metropolitani romani, caratterizzato da un collage di testi che alternano scrittura a macchina ed a mano e risultano impaginati in maniera discontinua e zigzagante.

air bologna 77Come detto, Echaurren ed il movimento del ’77 attingono a piene mani dalle fenomeno Dada e, in particolare, l’artista concentra la sua attenzione sull’opera di Marcel Duchamp a cui viene introdotto dal padre (Roberto Sebastian Matta), dall’amico Gianfranco Baruchello e da Schwarz. L’artista realizza nel 1977 una serie di disegni e dipinti su carta in cui riprende Duchamp «deviandone il senso attraverso l’uso di slogan e nonsense desunti dal linguaggio “metropolitano”.

Echaurren recupera gli aspetti di trasformazione del linguaggio […] e lo humour propri dell’opera di Duchamp, rielaborandoli alla luce delle idee e delle istanze espresse dalla contestazione politica» (p. 78).

Dunque, secondo Perna, «Duchamp diventa la fonte principale alla quale attingono Echaurren e più in generale il movimento […] non solo perché Duchamp ha messo in discussione l’ordine del linguaggio, ma anche perché si è sottratto alle logiche di valorizzazione economica dell’opera e, coerentemente con la lettura di Maurizio Lazzarato, ha concepito il “rifiuto del lavoro” (anche artistico) e l’azione oziosa come strade che aprono nuove possibilità di senso, capaci di produrre altre soggettività e modi diversi di “abitare il tempo”.

Per Echaurren l’esempio di Duchamp deve essere recuperato in chiave anticapitalista per far sì che l’arte si dispieghi nell’esistenza quotidiana, e che all’idea di opera come invenzione e produzione individuali subentri il concetto di creatività diffusa e collettiva» (p. 78).

Nel saggio è inserito anche lo scritto di Pablo Echaurren “Dov’è Oask?!…” tratto da AA.VV. (a cura di), Lingue & Linguaggi. Gli indiani metropolitani. Storie, documenti, testi, immagini (Derive Approdi, 1997).

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