autonomia di classe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Crash! Barcellona 17 agosto 2017 https://www.carmillaonline.com/2017/08/20/crash-barcellona-17-agosto-2017/ Sat, 19 Aug 2017 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39971 di Sandro Moiso

All’inizio degli anni novanta a Viareggio, durante una delle prime edizioni del “Noir in Festival”, ebbi occasione di intervistare James Ballard. Di quella video-intervista, della durata di circa un’ora, per una serie di disguidi alla fine non se ne fece nulla, ma sicuramente alcuni dei temi trattati all’epoca con il grande autore inglese sono rimasti scolpiti nella mia memoria. E i tragici avvenimenti svoltisi nei giorni scorsi a Barcellona e in Catalonia sono serviti a farmeli rammentare

In particolare alcuni riguardanti sia l’utilità o meno di scrivere ancora romanzi e racconti di fantascienza in un mondo che [...]]]> di Sandro Moiso

All’inizio degli anni novanta a Viareggio, durante una delle prime edizioni del “Noir in Festival”, ebbi occasione di intervistare James Ballard. Di quella video-intervista, della durata di circa un’ora, per una serie di disguidi alla fine non se ne fece nulla, ma sicuramente alcuni dei temi trattati all’epoca con il grande autore inglese sono rimasti scolpiti nella mia memoria.
E i tragici avvenimenti svoltisi nei giorni scorsi a Barcellona e in Catalonia sono serviti a farmeli rammentare

In particolare alcuni riguardanti sia l’utilità o meno di scrivere ancora romanzi e racconti di fantascienza in un mondo che sembra avere realizzato molti dei presupposti dei suoi autori originari e più originali, sia una delle sue opere più celebri, osannata e criticatissima allo stesso tempo, portata sullo schermo da David Cronenberg nel 1996: “Crash”.

Lo stesso Ballard, a quell’epoca si dimostrò restio a parlare di un’opera, pubblicata per la prima volta nel 1973, che egli definì, insieme all’altrettanto celebre La mostra delle atrocità, frutto di un periodo particolare della sua vita. Soltanto in seguito, nella sua autobiografia comparsa un anno prima della sua morte avvenuta nel 2009, sarebbe tornato con più dettagli e motivi di orgoglio sulla stessa.1

In quel romanzo si rivelava come la differenza che separa la curiosità per gli incidenti d’auto o le tragedie della strada dallo sguardo voyeuristico suscitato dall’erotismo e dalla pornografia sia, a tratti, tanto sottile da risultare irrilevante. In fin dei conti sempre di corpi in pose inaspettate o sorprendenti si tratta, in cui i più intimi umori dei corpi si mescolano con l’asfalto e con l’acciaio, invece che con quelli di altri corpi fatti di carne, ossa e sangue.

Nel testo si incrociavano e rimescolavano tanto la volontà di affermazione di alcuni dei suoi protagonisti, attraverso la ricerca di una morte violenta che coinvolgesse altri individui ed altri corpi, quanto la curiosità di spettatori casuali oppure recatisi appositamente sul posto per assistere all’evento.
Vaughn sognava di berline di ambasciatori schiantatisi contro autobotti inarcate, di tassì pieni di bambini festosi scontratisi frontalmente sotto le vetrine sfolgoranti di supermercati deserti.[…] Immaginava tamponamenti immani di nemici giurati, morti di esseri odiosi celebrati tra le fiamme del carburante lingueggianti nelle cunette laterali, in un ribollire di vernice sullo sfondo dello smorto sole pomeridiano di città provinciali […] Su queste collisioni, Vaughn elaborava variazioni infinite2

Mentre tutto intorno le macchine vengono circondate “da una cerchia di spettatori, i volti silenziosi fissi […] Lungo la Western Avenue si formò un ingorgo imponente, e si udì un urlio di sirene mentre gli abbaglianti della polizia lampeggiavano contro i paraurti posteriori dei veicoli fermi in coda […] La moglie del morto, sempre sostenuta dalla cintura di sicurezza, stava riprendendo i sensi. Un gruppetto di persone – un autista di camion, un soldato fuori servizio in divisa e una venditrice di gelati – stava con le mani premute contro i finestrini della sua auto, e pareva toccarle parti del corpo […] Per un istante mi parve di essere con lei, il protagonista del momento culminante di un truce dramma di teatro tecnologico improvvisato3

Una sensazione che i servizi speciali dei media trasmessi a spron battuto in occasione dell’attacco di Barcellona, o di qualsiasi altro attacco terroristico messo in atto con mezzi di fortuna spesso a quattroruote, hanno contribuito progressivamente ad ampliare. Insieme alla paura dell’imprevisto, dell’altro, del terrorista giunto ormai ad essere incarnazione assoluta del male che minaccia questa società perfetta fatta di svaghi, turismo, relax e corpi da esporre, sia vivi che morti, allo sguardo famelico del pubblico e dei media.

Un voyeurismo mediatico che, nella sua totale inconsistenza, si incrocia con il delirio autodistruttivo di una generazione cresciuta nelle periferie delle metropoli europee, che del nichilismo ha fatto la propria bandiera e che nell’atto finale, spesso annunciato, spera di trovare il significato di un’intera esistenza segnata dall’alienazione individuale, sociale ed economica.
Lo sguardo delle telecamere sui corpi stesi a terra e sulle vetture della polizia oppure sull’eliminazione e sui cadaveri degli “assalitori” eguaglia la ricerca della perfezione formale della propria morte e di quella delle anonime vittime messa in atto da ragazzi la cui età è quasi sempre compresa tra i venti e i trent’anni, se non meno come nel caso del gruppo che ha agito a Barcellona.

Un’autentica pornografia della morte che fotografa il disfacimento di unna società e di una civiltà che si vorrebbero eterne. E che tali non possono e non hanno mai potuto essere.
Un voyeurismo che dimentica la vita oppure che si accontenta di un simulacro della stessa, sia quando difende la società dello spettacolo e del consumo sia quando sceglie la via del martirio per negarla in nome di un altro ideale. Altrettanto alienante.

Un’esposizione mediatica che in entrambi i casi cerca e crea l’evento: sia che si tratti delle fasulle manifestazioni di riaffermazione della vita sulle piazze delle stragi, sia che si tratti della celebrazione on-line dei propri “martiri” e delle operazioni militari messe in atto dai giovani aspiranti suicidi. Mentre in entrambi i casi il discorso nazionalista o religioso trionfa sulla vita degli individui, ridotti a burattini disarticolati e impauriti oppure assetati di vendetta.

Fin dai suoi inizi come scrittore James Ballard aveva sempre rifiutato la fantascienza dell’outer space per concentrarsi principalmente sull’inner space, lo spazio interiore, e le autentiche catastrofi psichiche e sociali che derivano dall’incontro tra il malessere individuale e le trasformazioni fuori controllo operanti nella società e nell’ambiente che lo circondano. Narrazioni in cui nessuna verità e spiegazione può essere definitiva e il cui destino è quello di continuare ad essere modificata dai processi messi in atto dalla crisi che esplode nel momento in cui individui alienati decidono di affrontare situazioni che si riveleranno ingestibili, non sottomettendosi o ribellandosi alle stesse.

Certamente, se l’autore inglese ne avesse avuto il tempo, avrebbe arricchito il suo viaggio nello spazio interno di altre variabili. La sua non-fantascienza dopo aver parlato di un pianeta affogato, di incubi di cemento armato, di bambini che diventano terroristi sterminando le proprie famiglie benestanti, di movimenti fascisti che nascono nelle cattedrali della merce che sorgono nelle periferie londinesi, di piccoli borghesi che scelgono l’omicidio come via di fuga dalla banalità dell’esistente e di rivolte armate che scoppiano nei quartieri residenziali si sarebbe arricchita di paesaggi urbani in stato di assedio contro un nemico anonimo, imprevedibile e soprattutto interno.

Così mentre i media si accontentano di definire il nemico come islamico-radicale o fascio-islamista e di cantare la prevedibile fine dell’ISIS sul fronte militare siriano, dimenticano, o forse non immaginano neppure, che il male sia più profondo. Un male sociale che fa blindare le città e che militarizza i comportamenti quotidiani, ma che non può essere affrontato e risolto rimanendo all’interno delle stesse logiche di sfruttamento e di consumismo che l’hanno causato.

Al contrario le istituzioni internazionali si crogiolano invece nell’idea di far dimenticare tutte le proprie malefatte sventolando il vessillo dell’unità contro il terrorismo e il corrotto Rajoy può affermare che “il terrorismo è il problema più grande per l’Europa”, sviluppando narrazioni dei fatti in cui è impossibile rintracciare anche solo un filo di verità o di ricostruzione logica. Gli attentatori erano quattro, cinque, nove, dodici? Sono stati tutti eliminati oppure qualcuno è ancora in fuga? L’uomo assediato che aveva preso con sé degli ostaggi in un ristorante turco della Boqueria subito dopo l’attentato sulla Rambla è davvero esistito? E allora che fine ha fatto? Non chiedetelo, non lo sanno nemmeno gli inquirenti e gli autori delle veline mediatiche. Il cui unico interesse è quello di ridurre l’attenzione degli spettatori ad uno sguardo morboso sui fatti, visti attraverso lo spioncino del body count e del dolore dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti piuttosto che aprire una finestra sulla storia e la società per cambiare, finalmente, aria.

Ossessionati dall’idea del nemico esterno, di altra razza, religione e cultura (magari nord-africano, magrebino, arabo oppure semplicemente di origine marsigliese) i soliti commentatori, i soliti esperti, i soliti docenti universitari si stupiscono che i giovani attentatori, così determinati e quindi pericolosi, ascoltino la musica rap, bevano e possano frequentare gli stessi locali frequentati da altri giovano che poi diverranno le loro potenziali vittime. L’ossessione securitaria e di controllo imperialista nasconde alla vista ciò che è così semplice vedere: vittime e carnefici appartengono allo stesso mondo, sono sinonimi dello stesso paradigma basato sullo sviluppo ineguale. In cui periferie e metropoli non sono più distanti migliaia di chilometri, ma sorgono sullo stesso territorio. Mentre uno dei territori di origine di una parte degli attentatori, il Marocco, non è davvero così pacificato dalla monarchia ed è, allo stesso tempo, fortemente dipendente dal neo-colonialismo della Spagna e dalla sua economia.

E’ l’alienazione sociale e identitaria prodotta dalla società dei consumi e dell’estrazione del plusvalore da ogni attività umana ad essere alla base tanto della ricerca di comunità che si esprime nell’attentatore jihadista attratto dalla umma quanto dei comportamenti svagati e inconsapevoli indotti dalle pubblicità della Coca Cola e di tutti gli altri prodotti assolutamente inutili rivolte ai giovani, e meno giovani, consumatori.

Non si tratta dunque di scegliere una delle due immagini riflesse dallo stesso specchio, ma di rompere lo specchio. La difesa della civiltà occidentale e dei suoi sacri valori sembra invece prevalere nei commenti e finisce con l’esaltare comportamenti antagonisti destinati a prolungare nei decenni a venire l’autentica guerra civile in cui abbiamo iniziato da tempo a vivere. Con buona pace di chi pensa che una tale guerra possa essere vinta da qualcuno.

Posso solo ricordare che gli operai della Renault di Flins negli anni sessanta e settanta non si riconoscevano su basi etniche o religiose, ma soltanto sulle basi dell’autonomia di classe che durante le lotte dell’epoca accomunava lavoratori europei e nord-africani. La perdita di quell’identità di classe, di quella comunità di lotta, che ha marcato la vittoria del turbo-capitalismo finanziario degli ultimi decenni, ha anche segnato il divenire di una società in cui la guerra civile tra differenti gruppi, che pur le appartengono, sarà la norma. Come, purtroppo, il successivo attacco in Finlandia ha contribuito a confermare.

A meno che, come nel magnifico finale de La terra dei morti viventi del grande George Romero recentemente scomparso, gli esclusi e gli oppressi sappiano riconoscersi in quanto tali e, anche senza dover obbligatoriamente collaborare, convivere in contrasto con il loro vero ed unico nemico.

(Si rammenta a tutti i lettori che la responsabilità per le opinioni contenute nel testo è da attribuire esclusivamente all’autore e non alla redazione di Carmilla nel suo insieme – S.M. )


  1. James G. Ballard, I miracoli della vita, Feltrinelli 2009  

  2. James G. Ballard, Crash, Rizzoli 1990, pp. 10-11  

  3. Ballard, op.cit., pp. 19-20  

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L’autonomia di classe…innanzitutto! https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/ Mon, 16 May 2016 20:24:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30537 di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il [...]]]> di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il lettore non si troverà davanti ad un testo di “Storia” del Partito Comunista Italiano, ma piuttosto ad un’opera militante tesa ad aiutare l’opposizione di classe ad uscire, soprattutto all’epoca della sua redazione, dall’impasse troppo spesso rappresentata dalla separazione tra una sinistra istituzionale, ormai interamente rivolta ad un’attività di tipo parlamentare ed amministrativo, e una sinistra extra-parlamentare, presunta rivoluzionaria, che della prima non faceva altro che ricalcare i passi.

Il testo di Montaldi quindi si distanziava per impostazione sia dalla monumentale e canonica Storia dello stesso partito che a partire dal 1967 e fino al 1975 la casa editrice Einaudi era andata pubblicando per opera di Paolo Spriano, sia dalla più “eretica”, ma pur sempre tradizionale per impianto, storia pubblicata in un primo tempo, subito dopo la crisi ungherese e l’avvio del processo di “destalinizzazione”, nel 1957 da Giorgio Galli (poi rivista e ampliata nel 19762 ).

Purtroppo l’opera di Montaldi, che aveva avuto una lunghissima e tormentata gestazione, veniva già all’epoca pubblicata postuma, poiché l’autore, nato nel 1929 a Cremona, era drammaticamente scomparso un anno prima nelle acque del fiume Roia, presso il confine italo-francese. Da questo fatto derivava, forse, una struttura del testo divisa in 82 capitoli privi di titoli che aiutassero il lettore ad individuare velocemente gli argomenti e gli eventi trattati nelle sua pagine. L’edizione attuale, però, ha supplito a questa “carenza” con un ricchissimo indice analitico. Cui, sempre nella stessa vanno aggiunti un importante carteggio tra l’autore e vari corrispondenti proprio sul lavoro fatto in preparazione del testo ed una più che ampia ed esaustiva bibliografia oltre che un sostanziale ampliamento dell’apparato di note già presente nella prima edizione.

L’opera veniva così a chiudere, forzatamente, il percorso di un intellettuale militante che dopo essere entrato nel PCI nel 1944 lo aveva abbandonato appena due anni dopo, sull’onda dell’espulsione dalla sezione cremonese del partito di quella componente internazionalista, legata ancora a Amadeo Bordiga, che avrebbe voluto spronare il proletariato a portare a compimento, armi alla mano, il processo “rivoluzionario” iniziatosi con la Resistenza.

Questa esperienza in giovane età aveva contribuito a spingere l’autore verso una ricerca militante e politica che nel volgere di pochi anni lo avrebbero portato a produrre una discreta mole di articoli e saggi destinati a segnare in maniera esemplare il rinnovamento del discorso sull’interpretazione da dare dei comportamenti e dell’azione politica e sindacale determinata dall’autonomia di classe e sull’inchiesta operaia (che egli contribuì a rinnovare sensibilmente dal punto di vista metodologico).3

Una metodologia che da un lato lo avrebbe avvicinato a Gianni Bosio nel campo della storia orale, mentre dall’altro lo avrebbe portato a dare vita a quella che sarebbe poi stata successivamente meglio definita da Romano Alquati come “conricerca”. Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette»”.

Montaldi non voleva essere inquadrato in una parrocchia politica. Forse non voleva nemmeno essere considerato un intellettuale. Usava gli spazi disponibili (libri, giornali, riviste, dibattiti) per portare avanti e affinare la sua ricerca e la sua visione dell’azione di classe, proprio come pensava che il proletariato avrebbe saputo fare, in piena autonomia, senza il bisogno di qualcuno che lo guidasse o che ne raccontasse la storia dall’esterno. L’autonoma azione politica doveva infatti preludere anche ad una autonoma ricostruzione della propria storia, non mediata da altri interessi che non fossero quelli della liberazione dalla servitù salariale e capitalistica.

Tali presupposti e tale metodo sono presenti, per forza di cose, anche nel “Saggio”, dove nelle parti più indirizzate alla critica ideologica delle posizioni assunte dal Partito attraverso lo stalinismo e il togliattismo l’autore si basa principalmente su documenti e testi della tradizione e della storiografia comunista “di vertice”, mentre in quelle destinate all’esplorazione delle possibilità insite nell’utilizzo, o nel ribaltamento, proletario dello strumento “partito” utilizza principalmente testimonianze dirette o materiali prodotti dalla “base” e dai suoi movimenti spontanei.

L’obiettivo del saggio di Montaldi sembra dovere e volere coincidere con quello della ripresa delle lotte che dal 1968 in avanti avevano rivitalizzato la classe operaia e il proletariato nel suo insieme. E l’autore lo sintetizza proprio nelle pagine finali del testo: “Una classe operaia che ha vissuto in modo dialettico il rapporto con il partito della burocrazia, saprà certamente condizionarlo e liberarsi dalla sua ipoteca fallimentare. La profonda secessione che si è verificata dal ’68 in avanti racchiude entro di sé il rifiuto di un passato che è stato anche di alienazione […] Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo. Nella fabbrica e nella società certe premesse sono già state poste […] Il lungo lavoro della Direzione del PCI non è mai riuscito a stringere in uno schema di comodo la lotta di classe. Non si è tratto unicamente, come nel vecchio PSI, di una crescente influenza del sistema sul partito; con il PCI si è trattato, dal 1944, di un patto nazionale in rapporto con gli altri patti, tra gli Stati maggiori e i blocchi mondiali, a togliere indipendenza e autonomi a al proletariato” (pag. 346)

Nella interpretazione dell’autore in quella funzione contro-rivoluzionario Togliattismo e stalinismo avevano cercato di stringere, non sempre riuscendoci, in un abbraccio mortale la classe, cercando di impedirle qualsiasi autonomia di azione, tanto da far dire a Nicola Gallerano, nella nota introduttiva alla prima edizione, riportata anche nell’attuale, che il memoriale di Yalta, autentico testamento politico di Togliatti, “appare a Montaldi come il punto di arrivo e il suggello di tutta la storia politica del dirigente italiano, esempio di coerenza stalinista «strategica» proprio nel momento in cui è costretto a negarne più decisamente il corollario «tattico» (la dipendenza dall’URSS). Si comprende allora il senso del lavoro sul PC italiano e sulla figura di Togliatti, il dirigente che ne ha segnato di più profondamente il ruolo politico. «Stalinismo cosciente», «nazionale e statale» è quello di Togliatti; e la «continuità», la «staticità», anche, di Togliatti […] consiste nel suo discorrere da «statista», di «Paesi e nazioni, non di classi»” (pag.405)

Ecco allora rivelarsi tutta l’importanza della ricostruzione militante della politica comunista in Italia dal 1919 al 1970, validissima ancora oggi per comprendere come l’attuale Partito della Nazione finisca col coronare, e non tradire, lo spirito di un partito che dalla “svolta di Salerno” in poi non ha perseguito altro che il disarmo dell’autonomia di classe e la difesa degli interessi del capitale nazionale e sovranazionale. La cui la traiettoria, che avrebbe poi portato fino a Renzi e al suo PD, era già tutta compresa in quel giudizio e in quella prospettiva.

Un testo che se rivelava agli occhi dei lettori dell’epoca della sua prima uscita, tra cui mi annovero volentieri, la lotta all’ultimo sangue che si era svolta tra classe e stalinismo nell’URSS, anche con episodi di durissima resistenza operaia allo stakanovismo, e fuori dai suoi confini (dalla Spagna del ’36 all’Ungheria del ’56 e oltre), oggi si rivela ancora enormemente utile per una riflessione non solo sul divenire del rapporto tra classe e partito, ma anche sull’inutilità e la pericolosità di strutture politico-organizzative che tendano a rinchiudere le contraddizioni di classe in un ambito puramente parlamentare ed amministrativo.

Riflessione che accompagnò e costituì, quasi sempre, la base dell’irrequietezza politica e di tutto il lavoro di ricerca di Danilo Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e da Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia. Uno studioso militante tutto da riscoprire a partire, magari, proprio da questo fondamentale testo.

montaldi-feltrinelli N.B.
Per approfondire ulteriormente il discorso sulla figura di Montaldi (ritratto nella fotografia pubblicata qui a lato, è il primo da sinistra, con Giangiacomo Feltrinelli durante un dibattito a Cremona) si consigliano ancora i seguenti testi:

Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, a cura di Luigi Parente, La Città del Sole, 1988, Napoli

Enzo Campelli, Note sulla sociologia di Danilo Montaldi. Alle origini di una proposta metodologica (in La Critica Sociologica n. 49, 1979)

Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli (1977)


  1. Edizioni Quaderni Piacentini, Piacenza 1976 (allora stampata in circa quattrocento copie)  

  2. Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani 1976  

  3. Si vedano: Franco Alasia-Danilo Montaldi ( a cura di), Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli prima edizione 1960, seconda accresciuta 1975; D.Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi 1961; D.Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971; D.Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Savelli1975; D.Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, in Ombre Rosse n° 13, Savelli 1976; D.Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952 – 1975, Edito per conto dell’Associazione culturale Centro d’iniziativa Luca Rossi – Milano – dalla Cooperativa Colibrì, 1994  

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Disastro colposo https://www.carmillaonline.com/2014/11/12/disastro-colposo/ Tue, 11 Nov 2014 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18631 di Sandro Moiso

debito 1Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00

E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto. Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi. Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.

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di Sandro Moiso

debito 1Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00

E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto.
Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi.
Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.

Un percorso segnato da una serie di rapine e truffe ai danni dei lavoratori che sono sempre state segnate dalla scusa della necessità e che hanno abituato, nell’arco di trent’anni, le vecchie e le nuove generazioni a ragionare in termini di debito, spread, necessità. In termini di colpa e di spreco.
Favorendo l’abbandono di qualsiasi capacità critica generale al modo di produzione capitalistico, di qualsiasi visione olistica della società moderna. Dove il particulare di Guicciardini trionfa ancora sul generale di Machiavelli. O, se preferite, di Marx.

Un percorso che inizia nel 1981 con il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, voluto dall’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e controfirmato dall’allora Governatore dell’Istituto Carlo Azeglio Ciampi. Manovra che liberava l’Istituto dal precedente obbligo di acquistare i titoli del tesoro, emessi con un tasso di interesse stabilito dallo Stato ed inferiore al tasso di inflazione, rimasti eventualmente invenduti e lasciava quindi i titoli “liberi” di fluttuare nel mercato finanziario. Liberi perciò di vedere crescere il tasso di interesse pagato dallo stato sugli stessi per favorire gli appetiti della speculazione finanziaria.

Questa è, forse, la prima chiave di lettura per comprendere la travolgente crescita del debito pubblico italiano che, pur vedendo sempre in attivo il bilancio tra PIL e spesa ordinaria per i servizi forniti dallo Stato, ha visto questo crescere dal 58,9% nel suo rapporto col PIL nel 1982 al 110,2% del 1994 e poi ancora al 133,8% previsto per il 2014-2015 (forse fin troppo ottimisticamente avendo già raggiunto il 132,7% nel 2013).

Dal 1981 dunque lo Stato italiano si “costringe” ad andare dagli usurai per finanziare il proprio debito che, detto soltanto di passaggio, avrebbe successivamente mediamente rappresentato un costo molto inferiore ed una percentuale molto inferiore del PIl se non fosse stato costantemente e mostruosamente accresciuto dall’aumento degli interessi pagati sui titoli.

Su una scala temporale più ampia, riportata con una tabella a pagina 17 del testo, si può anche notare come il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano passi dal 38% circa del 1960 al 120% del 1992. Con un passaggio al 60% circa alla fine degli anni settanta (dovuto evidentemente alle conquiste sociali ottenute dal ciclo di lotta degli anni sessanta e settanta) per poi raddoppiare a partire proprio dal 1981 a seguito della “libera” fluttuazione dei titoli sul mercato dei capitali.

Anche se tra il 1994 e il 2008 il debito è tornato a decrescere fino al 100%, dal 2008, anno della crisi, è tornato a crescere fino ai dati attuali nonostante l’opera costante di tagli della spesa (scuola, sanità, pensioni) messa in atto almeno fin dalla riforma Dini del 1995. E proprio su questo ritorno della crescita del debito si è giunti in Parlamento, nel 2011, all’approvazione dell’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione con il parere favorevole di tutti, ripeto tutti, i partiti dell’arco costituzionale con 464 parlamentari favorevoli e 11 astenuti su 475 (nessun contrario naturalmente).

Ma tornando alla prima chiave di lettura, si può vedere, come afferma lo stesso Ferrero, che: “il debito pubblico ha cominciato a crescere su se stesso, a gonfiarsi per il solo fatto di pagare tassi di interesse da usura” (pag. 22). Proprio perché, non determinandone più il prezzo, lo Stato si obbligava a pagare un interesse alto determinato dall’avidità dei calcoli dei partecipanti all’asta. Così quell’aumento dello spread, quel differenziale di interesse tra i titoli italiani e tedeschi con cui si aprono e chiudono tutti i notiziari televisivi, che ha abituato i cittadini e i lavoratori a vedere nelle spese a loro favore una colpa, una sorta di vero e proprio peccato originale è, in realtà, frutto di una strategia ben pianificata di rapina ai danni degli stessi e di progressivo abbassamento del costo del lavoro (anche differito).

Truffa che, come dice ancora Ferrero: “cominciata con la lira, è continuata con l’euro e la Bce” (pag. 33). Ma che non ha costituito l’unico fattore di impoverimento dei lavoratori a vantaggio del capitale finanziario e degli imprenditori. Infatti il 10 luglio 1992 il governo Amato diede vita ad una manovra correttiva da 30.000 miliardi di vecchie lire (poco meno di 15 miliardi di euro attuali). In un clima tesissimo, in cui alla fortissima speculazione finanziaria in atto si era aggiunto, il 19 luglio, l’attentato di via D’Amelio a Palermo (per caso vi ricorda qualcosa?), il governo abolì la scala mobile, che fino a quel punto aveva garantito ai lavoratori l’adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Con un’intesa firmata con i tre sindacati confederali, Cgil , Cisl e Uil La sera del 31 luglio.

Non bastava: “il 13 settembre Amato svalutò la lira del 20-25%. Non essendoci più la scala mobile la svalutazione si scaricò interamente sugli stipendi dei lavoratori, riducendo progressivamente il potere d’acquisto dei salari. Nell’autunno poi […] Amato inaugurò la serie delle finanziarie (così si chiamava allora la legge di stabilità) «lacrime e sangue». Venne così varata la manovra da 93.000 miliardi di lire, pari al 5,8% del PIL, la più importante correzione dei conti mai realizzata fino ad allora (43.500 miliardi di tagli, 42.500 di nuove entrate , 7000 di dismissioni) […] Il costo della svalutazione venne quindi pagato dai lavoratori in termini di riduzione del salario reale, mentre i vantaggi dati dalla svalutazione alle esportazioni finirono totalmente in tasca ai padroni, che aumentarono significativamente i margini di profitto” (pag.39)

Non a caso Ferrero, come il sottoscritto, non è affatto convinto che l’uscita dall’euro, così come indicato da 5 Stelle, Lega e anche qualche area dell’antagonismo sociale, potrebbe contribuire a risollevare le condizioni dei lavoratori e dei cittadini italiani. Anzi, proprio questa proposta dimostra come ormai anche l’opposizione sia di fatto “programmata” ovvero coerente con la mentalità imperante basata sull’accettazione dello spread e della riduzione della spesa sociale come punto di non ritorno (in cui voci come capitale, saggio di profitto, lotta di classe, crisi capitalistica, plusvalore e sfruttamento sono ormai messe all’indice). Infatti chi oggi si sforza di dimostrare che per gli Italiani l’Euro è una moneta straniera, dovrebbe avere l’onestà di ricordare, come fa lo stesso Ferrero, che a partire dal 1981 “già la lira era una moneta straniera” per i lavoratori.

Ma la marcia non si arresta qui.
Nell’anno successivo, il 1993, il 23 luglio, il sindacato firmò l’accordo sulla concertazione che inchiodava le richieste salariali all’inflazione programmata, che era sempre più bassa di quella reale. In questo si stabilì che l’abbassamento salariale ottenuto nel 1992 non sarebbe più stato recuperato e sarebbe proseguito negli anni. Nel ’94, infine, il ministro del primo governo Berlusconi, Lamberto Dini formulò una controriforma delle pensioni che scatenò un’ondata di contestazioni e contribuì alla caduta del governo. L’anno successivo però, con il pieno appoggio dell’allora Partito Democratico, Dini divenne premier e scodellò la sua zuppa: introdusse il sistema contributivo nel calcolo delle pensioni e pose le condizioni per costruire un sistema basato su pensioni da fame per tutti coloro che nel 1995 avevano meno di 18 anni di contributi pensionistici” (pag. 41). Agganciandolo, lo ricordo qui per gli effetti che potrebbe avere nei prossimi anni in un trend di PIL negativo, alla crescita del prodotto nazionale lordo per l’eventuale rivalutazione dell’importo percepito.

Tra stangata di Amato e «riforma delle pensioni» di Dini, avvenne una pesantissima riduzione della spesa sociale e quindi della spesa pubblica: il bilancio dello Stato consolidò l’avanzo primario e il deficit continuò a prodursi ogni anno, unicamente a causa degli interssi usurai pagati dallo Stato agli speculatori […] La morale della fiaba è quindi la seguente: nel 1981 il governo italiano decide di far esplodere il Debito pubblico trasferendo risorse alla speculazione nazionale e internazionale. Questo produce due effetti: uno economico e uno politico.
Quello economico è che gli alti tassi di interesse arricchiscono i ricchi, gli speculatori e le grandi aziende che, in quegli anni, guadagnavano di più dagli investimenti in Bot che dalle attività industriali propriamente dette […] Quello politico è che il gonfiarsi del debito pubblico diventa il principale strumento utilizzato dai governi per giustificare la necessità del taglio della spesa pubblica
” (pp. 41-44).

E’ chiaro che tutto ciò che è avvenuto poi dall’esplodere della crisi nel 2008 non è altro che la conseguenza, economica (riduzione dei consumi) e politica (accelerazione dei processi autoritari di controllo della spesa e delle leggi fondamentali) di ciò che fin da allora era stato impostato. Compresa la crescita illusoria di quell’italietta del popolo dei Bot che ha visto in Berlusconi la sua vera rappresentazione politica, ma che non teneva conto che la maggior parte dei profitti della speculazione sui titoli non finiva nelle tasche dei piccoli e piccolissimi risparmiatori ma in quelle delle mafie finanziarie, politiche, imprenditoriali e criminali. Non a caso furono quelli gli anni in cui ogni tanto qualche imprenditore del Nord veniva arrestato mentre cercava di abbreviare i tempi del ciclo di rotazione del capitale attraverso il finanziamento del traffico di droga.

Ferrero sottolinea bene tutto ciò e si spinge anche oltre, fino ai pericoli per le democrazie e le condizioni dei lavoratori rappresentato dalla possibile e ormai prossima firma del TTIP (Transatlantic Trade Investment Partnership), un accordo destinato alla costruzione di un mercato unico per merci, investimenti e servizi tra Europa e Nord America. Con aspetti molto simili al NAFTA (North American Free Trade Agreement) e le cui conseguenze sul piano internazionale sono ormai ben anticipate dall’attuale scontro politico, economico e militare per e sull’Ucraina.

Un libro concreto come si diceva all’inizio, lontano dalle fumisterie ideologiche nella lettura della crisi e delle sue origini ed è proprio per questo che lascia perplessi, molto, quel 20% che prima ho lasciato in disparte e che tratta delle possibili ricette per affrontarla.

Cita Seneca in apertura, e non solo, l’autore: “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. E’ vero e dovrebbe essere un assunto fondamentale per chiunque oggi voglia ancora cimentarsi con i problemi posti dalla crisi del capitalismo, dalla lotta di classe e dagli strumenti per uscire verso una società finalmente affrancata dalla schiavitù salariale.
Ma qui entra anche in gioco il fatto che Paolo Ferrero si trovi ad essere l’attuale segretario di Rifondazione Comunista e che, pertanto, non sappia rinunciare agli schemi parlamentari e riformistici in cui si è formato ed è cresciuto.

Tornare a suggerire la possibilità di cambiare i trattati europei o la ripresa di una spesa statale di tipo keynesiano dimentica, infatti, due fattori di non poco conto.
Il primo, e meno importante, è che la spesa keynesiana ha continuato ad esserci, solo che si è indirizzata verso una specie di keynesismo alla rovescia indirizzato alle attività bancarie, come ben dimostra Vincenzo Ruggiero in un suo recente testo,1 poiché compito del keynesismo non è mai stato quello di migliorare le condizioni dei lavoratori ma solamente quello di mantenere in vita il capitale nei momenti di sua maggiore difficoltà.

Il secondo fattore è di ordine storico e politico e dimostra, come il pensiero rivoluzionario ha sempre sostenuto, la fallacità delle ipotesi riformistiche e sindacaliste nella conduzione della lotta di classe sul lungo periodo. Basta guardare alle date riportate fedelmente da Ferrero: l’offensiva sferrata dal capitale contro il lavoro, sotto forma di politiche neo-liberiste (reganiane, tatceriane o semplicemente italiane che si vogliano) inizia proprio all’apice di quel ciclo rivendicativo di lotte che avevano caratterizzato gli anni sessanta e settanta. Ma anche nel momento in cui gli effetti della caduta tendenziale del saggio di profitto, della crisi petrolifera e del ciclo vittorioso delle lotte anti-coloniali (dal Vietnam all’Africa) cominciavano a far sentire pesantemente i loro effetti sulle tasche degli imprenditori e dei finanzieri.

Se fino a qualche anno prima gli operai avevano potuto inneggiare alla lotta di classe e all’internazionalismo pur riportando a casa vittorie salariali e di garanzia di spesa in servizi da parte dello Stato che avevano la loro origine anche nei sovra-profitti realizzati nello sfruttamento del Terzo Mondo, dopo il 1975 non sarebbe più stato così.
Non si può spingere indietro l’orologio della storia, non si può tornare a quell’epoca e la cronaca di ogni giorno ce lo ricorda con dovizia di mezzi.

La grande imprenditoria italiana, come ben dimostrano i casi della FIAT o della Indesit, ha di fatto scelto di mollare gli ormeggi ovvero di non investire più in Italia (né altrove) nel settore industriale. Si è scoperta “finanziaria”, sperando così di aumentare i propri profitti attraverso i giochi spericolati sul mercato azionario e finanziario suggeriti dalla maggiori banche. Con i risultati disastrosi che possiamo ben vedere nelle cronache economiche di ogni giorno.

Un’imprenditoria che ha dimenticato anche la lezione liberale di Adam Smith che sosteneva che è soltanto il lavoro a creare la ricchezza (idea da cui Marx trasse il suo rovesciamento teorico e politico dei meccanismi dell’accumulazione e dello sfruttamento capitalistico) e che si è convinta che sia la speculazione selvaggia sui titoli a creare ciò di cui avrebbe più bisogno: plusvalore, ricchezza reale.
Poiché il film “Prendi i soldi e scappa” era già stato realizzato da Woody Allen, a partire dagli anni ottanta la “grande” borghesia italiana ha messo in scena la commedia “Disinvesti, svendi e scappa” ed è facile credere che non abbia alcuna intenzione di tornare sui propri passi, così come sembrano implorare i sindacati confederali e tutta la sinistra istituzionalista.

Il capitale occidentale ruba ai suoi cittadini per due motivi precisi: mantenere i propri profitti e ridurre i costi del lavoro a livelli cinesi, indiani, turchi o peggio. Si potrebbe dire, parafrasando lo stesso Ferrero: ”E’ la concorrenza bellezza!”. Ma la risposta non può essere costituita dal rimpianto di ciò che è stato e non sarà più. Piuttosto il movimento di classe, riprendendo la sua autonomia dovrà approfittare delle nuove condizioni venutesi a creare.

Sì, perché, alla faccia delle sparate dell’attuale presidente del consiglio e del suo ministro del lavoro, la vera contraddizione del modo di produzione capitalistico è stata, è e sarà sempre quella tra capitale e lavoro. E quella contraddizione è diventata oggi, in Europa, insanabile.
Quindi, se da un lato occorrerà ritornare all’analisi della crisi e delle ristrutturazioni sociali ed economiche come risultato della caduta tendenziale del saggio di profitto, insita come un baco divoratore nel modo di produzione capitalistico, dall’altro occorrerà aver ben chiaro che nel momento stesso in cui il capitale oltre a trovar dei limiti nelle sue stesse leggi li trova anche nei suoi confini e nei parlamenti nazionali o, ancora negli stessi partiti istituzionali, non dovrà essere il movimento antagonista o la lotta di classe a rivendicare, come alla fine sembra fare lo stesso Ferrero, un ennesimo ritorno al passato.

La sola azione parlamentare, non accompagnata dalla lotta di classe, ha dimostrato la sua inutilità per i lavoratori; le nazioni li hanno oppressi e traditi mettendoli gli uni contro gli altri e l’Europa unita non si è rivelata quella un tempo auspicata da Altiero Spinelli o dallo stesso Lev Trotskij.2 Rivendicarli ancora come strumenti potrebbe rivelarsi anti-storico, riducendo il ciclo delle lotte di classe ad una sorta di gioco dell’oca in cui i movimenti continuano andare avanti e indietro tra le stesse caselle.

Partiti riformisti e sindacati confederali (tutti!) hanno contribuito a rafforzare più che a combattere il capitalismo. Consociativismo e concertazione hanno ingabbiato i lavoratori per decenni, riportandoli alle attuali condizioni ottocentesche di lavoro e sfruttamento. Ancora una volta viene alla mente Leopardi. “Qui mira e qui ti specchia / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami”.3

Ma qui occorre che mi fermi per non trascendere i limiti della recensione, limitandomi a ribadire che il testo risulta essere, comunque, una lettura stimolante e utile per la riflessione politica attuale, anche in contraddizione con le tesi finali esposte dall’autore.


  1. Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia, Feltrinelli 2013, pp. 252, euro 20,00  

  2. vedasi “Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa” in L.D. Trockij, Europa e America, Celuc Libri, Milano 1980  

  3. Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 52-58  

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Il movimento anarchico italiano dal 1943 al 1968 https://www.carmillaonline.com/2014/10/09/movimento-anarchico-italiano-dal-1943-1968/ Wed, 08 Oct 2014 22:10:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17960 di Sandro Moiso

anarchiciPasquale Iuso, GLI ANARCHICI NELL’ETA’ REPUBBLICANA. Dalla Resistenza agli anni della contestazione 1943-1968, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 240, Euro 18,00

Il testo di Pasquale Iuso prosegue l’opera di rigorosa ricostruzione della storia del movimento anarchico italiano avviata da molti anni dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa, che, con i suoi 40.000 libri e i 5.000 periodici depositati nella sua emeroteca oltre alla grandissima mole di materiale documentario (volantini, manifesti, lettere, fotografie, striscioni e bandiere) ivi contenuto, costituisce di fatto uno dei più importanti centri di documentazione per la storia del movimento operaio presenti in Italia.

Rigore [...]]]> di Sandro Moiso

anarchiciPasquale Iuso, GLI ANARCHICI NELL’ETA’ REPUBBLICANA. Dalla Resistenza agli anni della contestazione 1943-1968, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 240, Euro 18,00

Il testo di Pasquale Iuso prosegue l’opera di rigorosa ricostruzione della storia del movimento anarchico italiano avviata da molti anni dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa, che, con i suoi 40.000 libri e i 5.000 periodici depositati nella sua emeroteca oltre alla grandissima mole di materiale documentario (volantini, manifesti, lettere, fotografie, striscioni e bandiere) ivi contenuto, costituisce di fatto uno dei più importanti centri di documentazione per la storia del movimento operaio presenti in Italia.

Rigore che spesso è costato alla BFS più di una critica all’interno dello stesso ambiente anarchico, poiché rigore non sempre fa rima con fervore come una storiografia più schierata, molte volte in ambito antagonista, vorrebbe. Ma il suo stesso definirsi “biblioteca di studi sociali e storia contemporanea” indica già da solo lo sforzo di travalicare i limiti dell’autoreferenzialità politica. Autoreferenzialità che, troppe volte insieme all’eccessivo fervore o alla passione intransigente, ha finito col falsare, anche involontariamente, la ricostruzione della storia del movimento operaio dando vita ad agiografie oppure a rimozioni che di solito non hanno giovato alla conoscenza delle forme organizzative e di lotta assunte dalla lotta di classe e dei problemi teorici e politici che sempre l’hanno accompagnata nel passato. Soprattutto recente.

Sono 25 anni importanti quelli presi in considerazione dall’autore, docente di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Teramo. Compresi tra due avvenimenti estremamente significativi per la storia del movimento operaio italiano: la caduta del fascismo sul finire del secondo conflitto mondiale e la ripresa dell’azione autonoma di classe alla fine degli anni sessanta. Eventi che, in entrambi i casi, videro una straordinaria mobilitazione giovanile, operaia e civile. Spesso non immediatamente compresi nella loro complessità né da coloro che li vissero in prima persona né, tanto meno, da coloro che cercarono di interpretarli alla luce delle esperienze organizzative e politiche precedenti.

Venticinque anni di storia caratterizzati soprattutto dalla crisi di un movimento, quello anarchico, che si ritrovò ad operare in un contesto politico, sociale ed economico profondamente cambiato rispetto a quello in cui aveva potuto maggiormente esprimere la propria forza e la coerenza delle proprie idee e formulazioni teoriche. Infatti il periodo compreso tra l’inizio del ‘900 e la guerra civile spagnola, nonostante l’avvento del fascismo e del totalitarismo, aveva visto un quadro sociale e politico molto differente da quello successivo al secondo conflitto mondiale.

Un quadro mutato dal punto di vista politico con l’avvento dei grandi partiti di massa la cui finalità oggettiva non era più costituita dal rovesciamento dell’esistente, ma, nonostante le promesse e le roboanti dichiarazioni, dalla sua piena e corresponsabile continuazione.
Motivo per cui il movimento operaio sul finire del secondo conflitto mondiale non aveva più dato vita ad insurrezioni e rivoluzioni, come sul finire del primo, ma a movimenti di difesa nazionale ispirati dalla scelta staliniana di “collaborare” con l’imperialismo americano per poter poi ampliare l’influenza sovietica in Europa.

Una scelta che, esattamente come durante l’esperienza spagnola, aveva non solo diviso il movimento anarchico, ma, più in generala, tutto il movimento operaio tra chi voleva ancora privilegiare innanzitutto la lotta di classe anti-capitalista ed antimperialista e chi invece intendeva fare di necessità “virtù” ed affiancarsi a quello che sembrava rappresentare il male minore tra i molossi in lotta.

Una scelta che, dalla fase resistenziale e del CLN in avanti, avrebbe diviso profondamente e, forse, irrimediabilmente il movimento anarchico italiano; lungo una linea di faglia che correrà all’inizio tra Nord ancora occupato dalle forze nazi-fasciste e Sud già “liberato” dagli alleati occidentali e, successivamente, tra coloro che intenderanno tener conto dei cambiamenti intervenuti adattando la propaganda e l’azione anarchica ai nuovi tempi e coloro che, invece, continueranno imperterriti a difendere la tradizione, si potrebbe dire epistemologica, del movimento stesso.

La frattura tra le due pratiche c’era già stata nei fatti , tra i gruppi che avevano da un lato appoggiato la resistenza armata a fianco, e talvolta all’interno, dei comitati di liberazione nazionale e quelli che, già sottoposti al regime di sorveglianza anglo-americano, non coglievano alcuna differenza tra il regime dittatoriale fascista e l’organizzazione della futura “democrazia” occidentale. In ogni caso erano stati i fatti concreti a spingere i rappresentanti del movimento in una direzione piuttosto che nell’altra e questo lo si può cogliere bene nelle pagine del testo.

Sono anni, quelli che vanno dal ’43 alla metà degli anni cinquanta ricchi di iniziative tese a riunire e riorganizzare il movimento anarchico. Congressi, giornali, fogli volanti, convegni segnano un periodo in cui lo spirito di rinnovamento caratterizza significativamente il tentativo di riaggregare politicamente e sindacalmente l’anarchismo italiano.

Anni in cui emergono figure nuove ed importanti, come quella di Pier Carlo Masini, con il suo tentativo di ricollegare almeno una parte del movimento all’altro grande sconfitto di quegli anni: quello della Sinistra comunista italiana. Con la formazione successiva di raggruppamenti ed esperienze editoriali che daranno poi in seguito vita a nuove realtà di ricerca storica e di organizzazione politica.

Esperienze, comunque e sempre, minoritarie se paragonate, sia in ambito anarchico che in quello comunista, a quelle degli anni precedenti la guerra civile spagnola, che di fatto sembra davvero aver costituito la linea di confine tra l’organizzazione politica, verrebbe forse da dire anche la “mentalità”, del primo novecento e quella della seconda metà del secolo. Metà del secolo che inizia proprio con i processi di Mosca e l’eliminazione dell’opposizione di classe all’interno dei partiti comunisti e con la divisione in campo anarchico tra chi intendeva partecipare al Governo repubblicano di Madrid e chi si oppose a tale “anarchismo di governo”.

Paradossalmente, quella seconda metà del secolo sarà messa in crisi, nuovamente, soltanto dai movimenti reali e spontanei che sorgeranno a partire dagli anni sessanta e in particolare con quelli compresi tra il 1968 e il 1977, in cui prenderà il sopravvento una nuova generazione di militanti che cercherà, spesso anche inconsciamente, di ricucire la necessità storica immediata con la tradizione di pensiero dell’anarchismo. Generazione che dovrà fare i conti anche con una criminalizzazione feroce e che avrà, per modo di dire, il suo “battesimo del fuoco” da Piazza Fontana in avanti.

Pasquale Iuso si mantiene in rigoroso equilibrio nell’analizzare le posizioni politiche ed ideologiche assunte dal Movimento Anarchico nel corso del quarto di secolo affrontato. Con una ricchezza di materiali tratti da atti di convegni, articoli, lettere ed interventi che denotano una ricerca precisa e meticolosa, ma che fa risentire a tratti il testo di un eccesso di accademismo e fa sentire la mancanza di un’analisi dell’altro elemento che caratterizzò la trasformazione del movimento operaio durante quegli anni: il cambiamento intervenuto nella composizione di classe.

Composizione di classe che mutando non poteva non avere conseguenze anche sulla mentalità e sui comportamenti dei lavoratori. Infatti, da un movimento composto perlopiù da operai di mestiere e piccoli artigiani, spesso orgogliosi del proprio lavoro e, talvolta, della loro indipendenza economica e politica, si era giunti a vedere come protagonisti delle lotte dei lavoratori sempre più massificati e dequalificati che, dopo un’iniziale fiducia nei regimi o nei partiti di massa, avrebbero preso coscienza della propria autonomia politica attraverso il rifiuto del lavoro e del regime salariale tout court.

Il fallimento o meno della proposta politica anarchica, e più in generale della critica radicale dell’esistente, è quindi da collegarsi, più che alle scelte di carattere derivativo operato in ambito ideologico e programmatico ai fattori oggettivi, tanto socio-economici quanto storico-politici, che di volta in volta ne hanno determinato il percorso e i salti, in avanti o all’indietro, avvenuti di volta in volta.

Ma con questo, più che un eventuale mancanza del testo, si segnala quello che è il problema reale che si presenta quasi sempre nell’analisi delle esperienze di lotta e di organizzazione di stampo rivoluzionario. Esperienze che, quando sono reali, sono accompagnate sempre da formulazioni tattiche e programmatiche “nuove”, risultanti dalla dialettica tra la memoria delle esperienze e delle sconfitte passate e le novità intervenute nella composizione di classe e nella dinamica degli elementi politico-economici che danno vita al modello sociale capitalistico e/o alla sua crisi.

Così, come forse è accaduto ad una parte del movimento analizzato nel testo, uno sguardo eccessivamente rivolto al passato è talvolta dovuto alla mancanza di una prospettiva futura e di una sua possibile ed immediata materializzazione nelle contraddizioni del presente. E può capitare, come già si segnalava all’inizio, che l’esaltazione di un passato ritenuto, a torto o a ragione, “glorioso” sostituisca l’analisi rigorosa per non dover fare i conti con la mancanza di prospettive per il presente.

L’opera di Iuso si pone pertanto come una necessaria lettura non solo per coloro che siano interessati alla storia del movimento anarchico, ma per chiunque sia interessato a ripercorrere le contraddizioni, le difficoltà e le scelte del movimento operaio italiano soprattutto dal punto di vista ideologico e tattico.

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