autonomi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Autonomi a sud. Storia di un’aporia militante https://www.carmillaonline.com/2022/02/24/autonomi-a-sud-storia-di-unaporia-militante/ Thu, 24 Feb 2022 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70643 di Giovanni Iozzoli

Antonio Bove – Francesco Festa (a cura di), Gli autonomi – Vol X. – L’autonomia operaia meridionale, Parte prima, Edizioni DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 320, € 20.00

In questo volume, dedicato all’autonomia operaia meridionale, il primo di una serie di tre, Francesco Festa e Antonio Bove, ricercatori militanti (cioè, non foraggiati dai soldi pubblici) offrono al lettore un’opera ricchissima in cui storia, storiografia, biografie, teorie e prassi, si intrecciano su un terreno delicatissimo, anzi inafferrabile, che si può ricondurre ad una domanda retorica: è esistita una forma specificamente meridionale dell’autonomia [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Antonio Bove – Francesco Festa (a cura di), Gli autonomi – Vol X. – L’autonomia operaia meridionale, Parte prima, Edizioni DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 320, € 20.00

In questo volume, dedicato all’autonomia operaia meridionale, il primo di una serie di tre, Francesco Festa e Antonio Bove, ricercatori militanti (cioè, non foraggiati dai soldi pubblici) offrono al lettore un’opera ricchissima in cui storia, storiografia, biografie, teorie e prassi, si intrecciano su un terreno delicatissimo, anzi inafferrabile, che si può ricondurre ad una domanda retorica: è esistita una forma specificamente meridionale dell’autonomia operaia? E in che modo questa categoria – così legata alla storia del neocapitalismo fordista padano – può essere piegata e riadattata al contesto del mezzogiorno? E farlo, è un’attribuzione legittima o una forzatura  ideologica? I due autori, attingendo a molti contributi intellettuali e/o militanti, sembrano interrogare e interrogarsi sulla liceità di tale operazione.

Partiamo, quindi, da una questione sostanziale: cos’è l’autonomia operaia meridionale? È davvero esistita? Basta definirla come l’insieme dei comportamenti operai e proletari fuori e contro le compatibilità capitalistiche e completamente indipendenti da ogni legame con il riformismo? Per provare a rispondere bisogna tracciare una «cartografia tematica» e ripensare l’idea stessa di Mezzogiorno, dell’aggressione capitalistica alle sue regioni, prendere distanza dal pietismo meridionalistico e dal marxismo storicista: la linea del progresso in ascesa con il timone retto dalla borghesia illuminata, senza la quale il Sud sarebbe ostaggio di lazzari, plebaglia e lumpenproletariat. Linea che ha segnato, per oltre cinquant’anni, l’azione politica e culturale del Pci. (pag. 9)

Il libro è la risposta a quella domanda retorica: è legittimo parlare di una autonomia operaia meridionale e tale categoria non va considerata un’appendice di quella nata nel cuore del triangolo industriale, nella misura in cui la storia economica e sociale del mezzogiorno può sottrarsi alla narrazione “storicista” del sottosviluppo cronico del nostro Sud, eternamente etichettato come ritardo, risacca e zavorra malata del processo unitario. Questione di sguardi, di punti di vista, di approccio alla lettura storica. Se il Sud smette di essere considerato una escrescenza incompiuta del processo unitario e del neocapitalismo, allora i suoi movimenti autonomi non vanno considerati una riproduzione delle lotte dell’operaio massa, bensì il bacino di creazione di figure e conflitti originali. Il sottoproletariato – fantasma e coscienza sporca del movimento operaio – esce da se stesso, dai suoi stereotipi lumpen, supera lo stigma plebeo e si presenta come proletariato diffuso, creatore di plusvalore sociale nella nuova fabbrica-metropoli. Non ritardo, quindi, ma nuova e diversa realtà che richiede nuove e diverse chiavi interpretative. Gli anni 70 dei movimenti antagonisti napoletani, raccontano proprio il processo di autovalorizzazione – l’assalto alla spesa pubblica, la riappropriazione del patrimonio abitativo, il rivendicazionismo incessante sulla linea reddito/lavoro – di questo soggetto che raramente la sinistra era riuscita a intercettare. Autonomia a sud come nuova chiave di lettura di questo sud.
Gli autori rimarcano più volte questa tesi, come un filo conduttore che deve reggere la frenesia centrifuga delle storie e dei movimenti.

Nei primi anni Settanta, i riflessi sui consumi della crisi economica e dello sviluppo caotico dei trent’anni precedenti riportano il Mezzogiorno al centro delle riflessioni del Pci e della sinistra rivoluzionaria, riabilitando la «questione meridionale». Le letture della situazione, tuttavia, sono insufficienti a chiarire gli spunti relativi alla composizione sociale, all’industrializzazione e al ruolo delle regioni meridionali nella programmazione capitalistica. Nella lettura del Pci, ma anche in settori alla sua sinistra, il Sud è visto da sempre come una «distorsione», l’elemento arretrato dello sviluppo generale, frutto di un «problema», di un «ritardo» o di una serie di «errori di programmazione». Da tale assunto emerge che, alla base, il processo di sviluppo capitalista possa intervenire per rimuovere gli agenti di freno allo «sviluppo». Una discussione, in verità, tutta interna alle logiche del capitalismo che purtroppo ancor oggi occupa gran parte dei dibattiti sul tema, partendo da due errori enormi. Uno è l’idea che il problema sia il mancato sviluppo e non la sua stessa natura, cioè la sua matrice capitalista; l’altro è la considerazione del Mezzogiorno come «tema», mentre la discussione dovrebbe, in altro senso, vertere sulle modalità del processo economico, politico, sociale e culturale che ha creato il Mezzogiorno come visione. Il capitalismo è il vero tema. (pag. 31)

L’autonomia, l’operaismo, le metropoli slabbrate e purulente del mezzogiorno, le campagne dell’entroterra, l’appennino e le terre dell’osso: se Lenin veniva portato a spasso in Inghilterra, sarebbe legittimo traslocare Panzieri a sud di Latina?
Inquadrare quella storia con le lenti dell’operaismo è un procedimento controverso. Festa e Bove restano fedeli a un metodo: leggere i cicli dell’ intervento straordinario nel mezzogiorno alla luce della sequenza sviluppo/ crisi dello Stato Piano, legando composizione di classe, conflitti, investimenti e spesa pubblica, dentro un’unica chiave di lettura. Il programma non scritto dell’autonomia operaia meridionale sta tutto dentro questo groviglio.

«Soltanto a livello di classe operaia si può parlare in senso specifico di processo rivoluzionario, di rivoluzione, di rottura rivoluzionaria», si diceva, ma la classe operaia, nelle metropoli e nei territori meridionali stravolti dal capitalismo della crisi non è solo quella della linea di montaggio, anzi, a Napoli e in tutto il Mezzogiorno questo paradigma non regge. L’operaismo è un punto di vista di parte, cui ha attinto – chi più, chi meno – tutta l’area dell’Autonomia operaia ed è inevitabile riflettere sui problemi che l’incontro fra la storia del Sud e questa corrente di pensiero genera. Leggendo quelle vicende dentro le loro specificità è evidente che si finisca per individuare un vulnus, un cortocircuito nel paradigma operaista le cui specificità vanno rimodulate attraverso i comportamenti e le soggettività dell’Autonomia meridionale: in particolare, rispetto alla composizione di classe di quei territori e ai processi di produzione e valorizzazione delle comunità. Detto fuori dai denti: l’operaismo è nato nel Nord Italia, davanti ai cancelli delle fabbriche del «triangolo industriale», in particolare a Mirafiori con al centro l’operaio massa, giovane meridionale «deportato» per sostenere lo sviluppo capitalistico dei gloriosi Settanta. A Sud questa linea di pensiero ha avuto la funzione di “cassetta degli attrezzi” concettuale per gruppi ristretti di intellettuali e avanguardie militanti, ma non è mai esistita una sua tradizione teorica né una sua traduzione. (pag. 11)

Questa traduzione/traslazione la opereranno i proletari nella prassi, senza porsi tante questioni epistemologiche: nel Mezzogiorno l’autonomia dell’interesse di classe e dei bisogni di massa non ha bisogno di adattarsi al “calco” operaista, ma lo reinventa, ne forza il perimetro costringendo le stesse soggettività organizzate a ridefinire se stesse in rapporto ad una movimentazione sociale ricchissima e radicale. Raccontare quel clima è difficile e necessario. E per provare a farlo, gli autori si affidano a molti contributi, di taglio e registro assai differente (per soddisfare ogni palato). Contributi di alto profilo, quali quello di Lanfranco Caminiti, che racconta della nascita di Primi Fuochi di Guerriglia, il tentativo di praticare il “diritto alla guerra” dentro l’oppressione stagnante della società meridionale e rifondare una dialettica nuova tra iniziativa armata e pratica di massa, tra soggettività autonoma e comunità/territori.

Indicare lo Stato come nemico, indirizzare contro lo Stato la sintesi dell’antagonismo al Sud, non sarebbe stato un «valore aggiunto» – accadeva già. Il fatto nuovo, a noi sembrava, era che le funzioni dello Stato si andavano dislocando dentro la società, i corpi intermedi e la distribuzione dei poteri, e una semplificazione società vs. Stato o classe vs. Stato non coglieva le modificazioni. Bisognava perciò «portare» l’antagonismo dentro la società, dentro la statualizzazione della società; cioè, dentro una dinamica, un processo, e non una struttura e le sue articolazioni. (…) Non eravamo clandestini. Con quella stessa faccia facevamo assemblee e rapine, riunioni e attentati. In guerra, d’altronde, si combatte a viso aperto. (pag. 96)

Napoli, all’inizio degli anni ’70, è comunque la quarta città industriale d’Italia. E l’Italsider e l’Alfasud vengono pienamente investite dal vento dell’autunno caldo, della stagione dei consigli e dell’autonomia dei comportamenti operai in direzione del rifiuto del lavoro salariato – non come programma o teoria, ma come prassi ed esigenza di vita. Anche qui ci si interroga retoricamente sul rapporto tra lotte di fabbrica e lotte sociali: sono i contenuti del ’69 operaio a rovesciarsi sui quartieri, o al contrario, è la maturazione delle lotte popolari sul territorio, sul terreno della riproduzione e del reddito sociale, a tenere acceso il fuoco nei reparti della produzione industriale? In ogni caso, anche a Napoli alcuni grandi stabilimenti diventeranno scuole di comunismo per una generazione di quadri operai, sempre in bilico tra sindacalismo radicale e insurrezione.
Interessante, da questo punto di vista, il recupero della storia dimenticata dell’Unione Sindacale dei Comitati di Lotta, una rete di nuclei di fabbrica – ostili al nuovo corso consiliare post-69 – e riconducibile ad una piccola formazione marxista-leninista (guidata dal non dimenticato Gustavo Herman): paradossi napoletani, per raccontare l’autonomia, nel groviglio di storie, facce e processi, devi parlare degli emme-elle…

Franco e importante, il contributo di Raffaele Paura, amatissima figura tutt’ora attiva dentro il movimento napoletano; da lui arriva un frammento relativo alla storia dei Comitati di Quartiere (l’autonomia con la a minuscola), del loro apogeo e della loro rapida decrescita. Organismi popolari, centrati sull’autoriduzione e la vertenzialità di quartiere, nei quali però una generazione di militanti dovrà fare i conti con il nodo più drammatico di quella fase storica:

Intorno al ’74 un gruppo di militanti attivi nel Comitato del quartiere Porto, sulla scia di un ragionamento interno e sulla spinta di quello che accadeva intorno, abbandona il lavoro di massa e si struttura come gruppo armato. È stata una scelta complicata e sicuramente un errore politico. Il gruppo non aveva un nome, usavamo diverse sigle anche perché nel momento in cui si diffondeva un certo innamoramento per la lotta armata noi cerchiamo di evitare la deriva avanguardista anche se questa cosa poi, di fatto, accade. Il nostro gruppo, come altre formazioni affini sparse nel Meridione, non aveva nemmeno una composizione stabile, i compagni si spostavano e attraversavano diversi ambiti del movimento e pensavamo che questo potesse evitare il distacco dalle lotte sociali. Nessuno di noi, infatti, è mai stato clandestino, anche quando eravamo latitanti continuavamo a stare nel movimento perché l’idea dell’avanguardia esterna non ci ha mai attratto. Alcuni compagni, inoltre, sono andati in galera per rapina o altri «crimini» ma erano proletari che stavano con noi e molte rapine etichettate come crimini «comuni» in realtà non lo erano, ma si trattava di azioni di compagni e proletari politicamente schierati dentro quella forte quota di «illegalità sociale» che si incrociava con quello che facevamo noi.
Nonostante la disponibilità all’uso di armi e della forza, comunque, fra tutti gli errori che abbiamo commesso non abbiamo mai avuto come obiettivo quello di colpire le persone, l’omicidio politico non è mai stato nel nostro orizzonte. L’attività era rivolta prevalentemente al controllo dei territori che le lotte sociali stavano liberando, con le campagne contro i delatori nei quartieri, e poi ad azioni come la spesa politica che non era solo l’attacco ai supermercati ma anche iniziative più eclatanti. Nel ’75, quando Sergio Romeo era ancora vivo viene bloccato a Forcella un camion che trasportava pasta e il carico viene distribuito ai proletari del quartiere. Questo era il tipo di azioni che ritenevamo centrali. Sergio in quella occasione era già nei Nap e voglio ricordare questo particolare perché nonostante le sigle di appartenenza il dato politico è che noi compagni ci riunivamo sulle azioni, non c’erano compartimentazioni stagne. In quel periodo anche gli stessi militanti dei Nap agivano in questo modo, pure perché quella organizzazione nasce dentro i movimenti, prima dell’impazzimento organizzativo che avviene quasi per necessità, dopo la morte e gli arresti di molti compagni e compagne e le fasi drammatiche che la loro organizzazione si trovò ad affrontare.(…) È anche sulla base di questi eventi che avvertiamo la spinta a costruire un gruppo che di fatto si distacca dal lavoro nei quartieri, veniamo coinvolti da quella spinta soggettiva che porta a un «gioco al rialzo», pensiamo che ormai i proletari siano pronti a reggere in autonomia le strutture territoriali e ci dedichiamo a costruire un’altra organizzazione, invece di ripensare e rilanciare il lavoro di massa. (…)
L’abbandono delle lotte sociali, comunque, anche se non era nostra intenzione c’è stato, dovendo affrontare un percorso di quel tipo che è stato un punto di non ritorno. Nella zona del centro avevamo costruito, negli anni, una struttura autorganizzata a partire dalle autoriduzioni che doveva essere funzionale alla costruzione di un contropotere territoriale. Il risultato di quella scelta, invece, è che come prima cosa viene tagliata subito la corrente elettrica a tutti. Mia mamma non mi ha mai perdona- to per quella cosa. Il nostro ruolo in quei Comitati non era secondario, anzi, nel momento in cui siamo passati alla clandestinità, consegnando il lavoro di massa e l’organizzazione in mano ai proletari che avevano fatto le lotte fino a quel momento insieme a noi è scomparso tutto e l’ esperienza dell’autoriduzione si è esaurita. Tutto quel processo, i Comitati per l’autoriduzione, la difesa del territorio, i Comitati di quartiere alla fine è andato perduto. (pag. 200)

Alfonso Natella, Franco Piperno, Francesco Caruso e Giso Amendola arricchiscono il racconto corale di una epopea che solo apparentemente ha il sapore della sconfitta o dell’occasione mancata: c’è un sedimento di memoria, di verità, di sapienza sovversiva, che riemerge carsicamente, fino a sfidare il presente davanti ai cancelli della logistica, nei territori stuprati, nelle metropoli slabbrate e violente che ci tocca attraversare.

Nella capitale della fluidità sociale, le formazioni dell’Autonomia organizzata – Rosso, Senza Tregua, Mco – proveranno a costruire legami solidi con l’autonomia diffusa napoletana e meridionale. Ma per tutto il decennio ’70, gli autonomi del sud non riescono a definire dei perimetri organizzativi e programmatici stabili: come se il montare dei cicli di lotta impedisse non solo le sclerotizzazioni gruppettare, ma anche qualsiasi sedimentazione virtuosa, qualsiasi passaggio che evitasse i salti e le rotture generazionali, che saranno così tipiche di questa storia e di questi territori.

Gli autonomi furono i primi a lottare contro se stessi, a provare a mettere ordine nei processi caotici che erano stati così bravi ad evocare o abitare. Ma risulta difficile ricostruire una cornice adeguata, rispetto a questa eccedenza, a questa ricchezza: tanto più nel sud Italia, e nella sua sgangherata capitale. E’ per questo che ancora oggi continuiamo a leggere libri su questa storia così presente, così irrisolta, che preme con urgenza sulla nostra intelligenza e sull’agenda dell’oggi.

Del resto, in ognuno dei nove volumi precedenti (una serie editoriale dalla longevità incredibile, per la quale non si smetterà mai di essere abbastanza grati a DeriveApprodi) il problema “ontologico” dell’autonomia operaia permane ostinato – fino alla difficoltà nella scelta della A maiuscola o minuscola, nel racconti di molti contesti. L’ A/autonomia inafferrabile, che non si fa catturare, catalogare, su cui non solo storici e saggisti continuano a sbattere la testa, ma anche tanti solerti magistrati che hanno provato attraverso centinaia di migliaia di pagine di atti istruttori a ricondurre a categorie penali quella che è stata una esplosiva complessità.

Questo libro è forse il più dinamico e “difficile” di tutta la serie, quello che esige più dedizione, quello in cui lo sforzo di contestualizzazione storico-politica è più alto. Ma anche quello che offre di più al lettore che, a seconda delle sue preferenze, troverà storie di vita ed elementi alti dibattito teorico, intrecciati nel classico bailamme mediterraneo: come nei vecchi assetti urbani napoletani, dove i bassi del piano terra convivono col piano nobile e tutti gli odori e i rumori si mescolano apparentemente senza principio.

Un libro che resterà – oltre l’orizzonte facile della memorialistica – e che siamo sicuri troverà la sua collocazione non solo nelle biblioteche di movimento, ma anche negli archivi di istituti e centri studi che non hanno abdicato alla necessità della memoria critica.

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Quella persistente memoria autonoma https://www.carmillaonline.com/2020/03/11/quella-persistente-memoria-autonoma/ Wed, 11 Mar 2020 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58542 di Giovanni Iozzoli

Giacomo e Piero Despali (a cura di Mimmo Sersante), Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, Gli autonomi – volume VI, Edizioni DeriveApprodi, Roma, 2020, pp. 260, € 19,00

È uscito il sesto volume della serie Gli autonomi – e questa è già una notizia, visto che una collana di tale persistenza, merita qualche considerazione. Il primo volume risale al lontanissimo 2007 ed è già in gestazione il numero sette. Qual è la platea che sostiene questa continuità di interesse su un terreno che potrebbe sembrare monotematico o [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Giacomo e Piero Despali (a cura di Mimmo Sersante), Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, Gli autonomi – volume VI, Edizioni DeriveApprodi, Roma, 2020, pp. 260, € 19,00

È uscito il sesto volume della serie Gli autonomi – e questa è già una notizia, visto che una collana di tale persistenza, merita qualche considerazione. Il primo volume risale al lontanissimo 2007 ed è già in gestazione il numero sette. Qual è la platea che sostiene questa continuità di interesse su un terreno che potrebbe sembrare monotematico o specialistico? Tutti over 65 che contemplano malinconicamente il loro passato pirotecnico? No, certo. Fra gli accaniti lettori di questi libri, sempre miracolosamente in equilibrio tra memorialistica e saggistica politica, esiste di sicuro una ricca eterogeneità di volti e storie, fatta anche di giovanissimi: tutta gente che si interroga sul presente e sul futuro, usando questi volumi come strumenti per aggredire i nodi del qui e ora, la battaglia politica e sociale dell’oggi, il bilancio storico del movimento antagonista come bilancio del movimento reale del conflitto in questo paese – l’autonomia “storica” come elemento di riflessione sull'”autonomia possibile”.

Giacomo e Piero Despali, sotto la guida di Mimmo Sersante, tessono il racconto appassionato e lucido di una stagione che sembra lontana anni luce, guardando il Veneto d’oggi, ridotto a suburra leghista. Ma ci raccontano (come già aveva fatto Donato Tagliapietra nel volume precedente dedicato al territorio vicentino) che anche il “loro” Veneto, quello che uscì dal turbine degli anni ’60, era il risultato di una massiccia trasformazione antropologica, maturata nell’arco di un mattino: un mondo di arretratezza arcaica, di provincialismo democristiano, che pareva immoto e immutabile, nel giro di pochi anni divenne un laboratorio di pratiche sociali rivoluzionarie, che coglievano ed esasperavano, fino a portarli al punto di rottura, gli elementi di sviluppo e modernizzazione prodotti dal boom economico e dalla scolarizzazione di massa.

Al centro della narrazione, una generazione di giovanissimi militanti, quasi tutti studenti delle scuole tecniche e professionali o lavoratori delle microfabbrichette, che si pone l’obiettivo di un insediamento reale nel corpo di classe e nel cuore di questi territori in rapida modificazione. Rompendo con il vecchio Veneto provinciale e rurale, ma anche con il quietismo piccista che spera nella lunga inerzia elettorale, per scalzare la DC. I fratelli Despali sono due giovanotti come tanti, politicizzati nelle scuole medie superiori e approdati in Potere Operaio, la sponda più radicale tra quelle disponibili. La stagione dei gruppi che sta volgendo al termine, ha comunque costituito un invaso e un dispositivo di formazione per migliaia di giovanissimi militanti. Quando Potop si scioglie, non tutti condividono questa scelta, anzi Giacomo e Piero Despali – e con loro, probabilmente la maggior parte del quadro diffuso dell’organizzazione – non ne colgono neanche bene le ragioni.

Ricordo che lo scioglimento di Potere Operaio a Rosolina l’ho vissuto in maniera negativa perché il fatto di rimanere o non rimanere in Potere Operaio, dare continuità a quell’esperienza oppure uscirne per dare forma ad altre esperienze, è stato un effettivo elemento di confusione. Per quanto mi riguarda, ero allora – parliamo del 1973 – in un gruppo di studenti, medi ed ex medi, che sul momento non aveva capito il vero motivo dello scioglimento perché la proposta di dare centralità alle assemblee autonome delle grandi fabbriche poteva solo significare che si andasse tutti a Marghera a fare lavoro esterno; e però questa cosa non c’entrava niente con la nostra esperienza territoriale. (pag. 35)

Potere Operaio si scioglie, ma la sua intelaiatura organizzativa a Padova è ancora in piedi. Nella confusione dei riferimenti nazionali e delle varie ipotesi, il “che fare”, per i giovanissimi quadri veneti, è la riconduzione dell’iniziativa politica al territorio: non un rinculo, ma una specie di intuizione strategica, che solo nel tempo troverà le parole – e l’armamentario teorico – per essere razionalizzata. I Collettivi per il potere operaio rappresentano, anche nella sigla, questa fase di superamento: si mantiene testardamente il riferimento al “potere operaio”, ma è ormai tramontata la prospettiva che basti andare a traino delle grandi fabbriche e dell’operaio massa; la ristrutturazione sociale è velocissima, cambia i territori, l’organizzazione del lavoro, gli insediamenti produttivi, la scuola; più che affidarsi alla funzione salvifica del mondo operaio, si devono ripercorrere i nessi che stanno legando tutte queste trasformazioni, leggerne gli attori sociali, coglierne le potenzialità conflittuali o ricompositive. Per fare questo c’è bisogno di una generazione di quadri – e di una organizzazione – adatta a questa fase di intensa movimentazione.

Ci ritroviamo con quanti avevano condiviso a Padova l’esperienza di Potere Operaio; l’attivo registra in verità la sua fine. Alcuni di noi, sempre più consapevoli del limite della proposta di Potere Operaio nazionale, proprio riferendosi a questa pratica politica di radicamento territoriale, decidono di razionalizzare l’intervento strutturandoci in collettivi politici fissati da specifici ambiti di lavoro. […] Il primo a formarsi è il Collettivo Padova Nord […] L’aggancio ci è offerto dall’intervento sul caro trasporti dell’anno prima del Comitato Interistituto; partendo dall’autoriduzione dell’aumento del prezzo dei biglietti e dell’abbonamento, dall’organizzazione degli scioperi e dal blocco delle corriere, avevamo costruito i Comitati di linea dei pendolari, una forma di organizzazione di fatto permanente che ci sarebbe tornata utile l’anno dopo (pag. 44)

Vertenzialità e territorio. Questa la ricetta. E poi adeguata strumentazione organizzativa: i Collettivi come struttura generale, e poi i Gruppi Sociali, i Coordinamenti operai, gli organismi studenteschi, tutto dentro il medesimo tessuto connettivo, animati da strumenti di comunicazione collettivi – vedi Radio Sherwood e più tardi il settimanale «Autonomia» – in un crescendo di legittimazione sociale che farà tremare partiti e istituzioni.
Tutta la tematica dell’operaio sociale, si dispiegherà prima nella prassi, e poi, dopo, troverà una sua sistematizzazione teorica: «Noi vi scorgemmo il nostro punto di luce nel giovane proletario, studente di un istituto professionale o tecnico, frequentatore dell’oratorio parrocchiale, prossimo a varcare le soglie di una fabbrichetta oppure, se femmina, di un laboratorio» (pag. 48)

Dopo di che abbiamo voltato pagina privilegiando fin da subito la figura dell’operaio sociale. Aggiungerei naturalmente perché anche noi ne facevamo parte per età, percorsi scolastici, forme di vita e tutto questo a prescindere dai paesi e dalle famiglie di provenienza. In più sentivamo di farne parte. Si, c’era questo comune sentire che era difficile da spiegare, forse perché non c’era nulla da spiegare; era così e basta. E’ il motivo per cui non siamo entrati in maniera significativa nelle roccaforti dell’operaio massa, nella fabbriche di tre-quattrocento operai dove era il partito a fare il bello e il cattivo tempo. In questo caso si sarebbe trattato di una scelta, che non poteva essere la nostra perché ci saremmo sentiti come pesci fuor d’acqua. Sono convinto che solo più tardi Negri comincerà a valorizzare la centralità di questa nuova composizione di classe. Da parte nostra possiamo dire di averlo proprio anticipato sul terreno della politica pratica (pag. 51)

Il dibattito sulla composizione “tecnica e politica” di classe – e quindi sull’imputazione del soggetto rivoluzionario – agiterà furiosamente tutta la sinistra rivoluzionaria e anche la stessa area dell’autonomia, sempre divisa, tra i suoi tre-quattro tronconi principali, al momento di convergere su ipotesi di ricomposizione nazionale. Così come altrettanto lacerante sarà la discussione, in quell’infuocato decennio, sulla legittimità della lotta armata e, in generale, sull’uso della forza:

L’uso della forza, traduzione sul terreno della pratica contingente della lotta armata la cui validità sul piano strategico non era messa in discussione, la commisuravamo a questo progetto di intervento territoriale e la sua legittimazione poteva venire solo dalle strutture e non da fonti autoritative esterne. Senza questa premessa, la lotta armata avrebbe potuto svilupparsi solo avvitandosi su se stessa, come di fatto avvenne con le BR dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Anche se il distinguo per chi legge oggi potrebbe suonare capzioso, per noi violenza politica ed omicidio politico non furono mai la stessa cosa. Oggi è tornata di moda l’idea che solo lo Stato è legittimato a usare la forza e che solo la violenza di Stato è quella legittima. È la rivincita postuma di Hobbes su Spinoza e di Kant su Marx. Eppure per noi era diverso; veramente da questo punto di vista siamo stati i figli di questo secolo, delle sue rivoluzioni. È alla luce della sua storia che abbiamo potuto mettere in discussione quel monopolio di Stato conservando nel contempo i nostri distinguo (pag. 53)

Uso dell’illegalità, organizzazione, spostamento dei rapporti di forza sui territori: «è stato durante il 76 che abbiamo iniziato a parlare seriamente di contropotere, che abbiamo cominciato a crederci», cioè è la pratica reale, il consenso di massa, la vittoria nelle vertenze, a darti l’idea che quella parola tante volte evocata – contropotere – stava diventando esercizio concreto e quotidiano.

Durante tutto il ’76 continuiamo il nostro radicamento in città e in provincia, sviluppiamo in maniera ancora più estesa le pratiche di programma sul salario diretto e indiretto, il Comitato Interistituto si radica ancora di più nelle scuole, cominciamo a mettere piede in alcune facoltà, sempre attraverso ex medi; oltre a Scienze Politiche cominciamo ad essere molto presenti a Psicologia e Lettere. Iscriversi non costavo un cazzo e l’università era in quegli anni veramente di massa. Evidentemente il ciclo di lotte partito nel ’67 nelle Università di mezza Italia aveva dato i suoi frutti. Nessuno ci aveva regalato niente e quello che avevamo ce l’eravamo guadagnato. Così Psicologia stava diventando per Padova quello che Sociologia era diventata per Trento: una buona facoltà di tendenza, con bravi insegnati e uno sbocco garantito soprattutto per le donne. Con Psicologia approda a Padova lo studente massa […] ora sono migliaia con una composizione omogenea molto diversa dallo studente tradizionale, espressione della borghesia di un certo tipo. Molti di noi si sentono parte della nuova composizione per cui la scelta di questa facoltà non è casuale. Siccome Psicologia e Lettere erano vicino a Piazza dei Signori, anche noi eravamo sempre lì in piazza al punto che questa era diventata la nostra piazza, il nostro centro sociale: un cocktail micidiale grazie a questa combinazione di un casino di gente con caratteristiche nuove, che esprimeva un’idea diversa di studio e del modo di stare al mondo. Avevamo trovato il nostro brodo di coltura, letteralmente. Quale studente poteva resistere al fascino dei Collettivi? (pag. 58)

Se la realtà padovana non consente l’intervento sull’operaio massa, i Coordinamenti operai saranno comunque uno strumento di ricomposizione tra la classe operaia diffusa dei piccoli laboratori e i disoccupati prodotti dal processo di crisi/ristrutturazione iniziato nella prima metà dei settanta. La lotta agli straordinari, diventa tematica centrale, per tenere al centro delle pratiche la parola d’ordine “lavorare tutti lavorare meno” e in prospettiva il rifiuto del lavoro salariato, come critica all’immolazione del tempo di vita al moloch della produzione e all’etica lavorista, così radicata in quelle terre.

per noi lo straordinario, ogni sabato, in una situazione di forte disoccupazione, doveva essere combattuto ovunque, e non solo nelle medie e grandi fabbriche, attraverso la ronda. La ronda era una forma di lotta che coinvolgeva soprattutto i disoccupati; andava davanti la fabbrica, anche con gli operai della fabbrica, per bloccare lo straordinario. A ben vedere, per i disoccupati era la sola forma di lotta possibile, quella che restituiva loro dignità perché permetteva di lottare per i loro interessi. (pag. 66)

Mentre i ritmi della lotta di classe in Italia subiscono drastiche accelerazioni, si riflette con serietà sulla necessità di non lasciarsi intrappolare da ideologie territorialiste: c’è bisogno di un orizzonte nazionale complessivo per trasformare i conflitti diffusi in programma comunista.
Il tema dell’Autonomia Operaia Organizzata – il nodo, in ultima analisi, del partito –, tra il ’76 e il ’77 diventa sempre più stringente; per i collettivi veneti significa rafforzare l’asse con gli organismi milanesi di «Rosso», stabilendo la nuova realtà organizzativa, anche mediante un significativo cambio della testata del giornale:

A sancire la nuova casa comune sarà «Rosso per il potere operaio» il cui primo numero è del novembre 1977, che non a caso apre sul tema dell’Organizzazione nazionale dell’Autonomia. […] Da parte nostra volevamo che i nostri interlocutori intanto condividessero l’idea che il nuovo ciclo di movimento fosse finalmente promosso e organizzato dall’Autonomia; in secondo luogo, che l’organizzazione ventilata fosse legata ad alcuni punti, in primis il radicamento territoriale a garanzia dell’effettiva consistenza di quanti si fossero dichiarati d’accordo col progetto. […] Da questo punto di vista eravamo interessati a parlare solo con chi era espressione di un percorso proprio, radicato, reale e grosso. […] Una prima risposta è stata quindi quella di un patto federativo tra realtà organizzate e radicate sul piano territoriale, capaci di rappresentare in termini qualitativi e quantitativi forme reali di ricomposizione di classe. (pag. 92)

I tempi incalzano, esaltanti e feroci. I veneti attraversano e si lasciano attraversare dal movimento del ’77, intensificando ancora di più il processo di maturazione organizzativo. Dietro l’angolo, però, c’è già il 1978, l’anno del sequestro Moro e di un ulteriore scompaginamento di qualsiasi illusione di un ordinato e progressivo accumulo di forza dell’autonomia operaia. Rammenta Piero Despali:

Anch’io ricordo bene che come militante dei collettivi veneti non mi sfuggì la portata di quell’operazione militare. Nonostante che del ’77 non avessero capito un cazzo, che fossero ancora legati alla grande fabbrica già ristrutturata e che si fossero mossi in assoluta autonomia imponendoci dall’alto la loro decisione, pensai che questa volta era diverso, e che a fare la differenza era proprio la potenza militare espressa in via Fani; questa stessa potenza – era il mio timore – avrebbe potuto funzionare come un ipoteca del loro progetto politico rispetto a tutto. A maggior ragione l’urgenza di aprire una battaglia politica per contrastarla. […] La nostra risposta era obbligata e non bastava dire che il nostro nemico era lo Stato. Dovevamo rispondere anche alle Br affrontando di petto taluni aspetti della nostra proposta alternativa, in primis quello dell’Organizzazione che non c’era. Se prima di Moro i tempi che avevamo preso in considerazione erano più o meno lunghi, adesso bisognava accelerare. È in questa ottica che va letto l’articolo di Toni sul partito dell’Autonomia nel numero di «Rosso per il potere operaio» di Maggio. Si tratta di un accorato appello a mettere mano al Partito. (pagg. 98-99)

Molto lucida la lettura degli effetti del dopo Moro e della “geometrica potenza” di via Fani dentro al movimento: nasce la categoria politico-sociologica della tifoseria.

Il tifoso è quello che si affascina, che non ragiona più sugli effetti perché non ha il problema di andare il giorno dopo a costruire qualcosa di politicamente utile, ragiona in forma astratta […] Dietro la sua ombra puoi scorgere in controluce quello che smanetta al computer, parla di tutto, se ne sta a casa sua, non ha alcun rapporto con la realtà. (pag. 103)

I Collettivi intanto, sperimentano livelli sempre più alti di illegalità, fino ad arrivare alla “critica delle armi”. Questi passaggi sono però tutti interni ai livelli organizzativi, alle campagne, alle scadenze di movimento, e non giungeranno mai all’uso dell’omicidio come “propaganda armata”. Le “notti dei fuochi” con la riappropriazione manu militari di pezzi di territorio e il sanzionamento di massa di precisi obiettivi politici, resteranno esempi importanti nel panorama nazionale.

Si arriva così al 1979, alla stagione del sette aprile – e alle inchieste successive, con la pesca “a strascico” praticata con larghezza dagli inquirenti dentro al movimento. Il teorema Calogero postula l’esistenza di un’assurda cupola unitaria che ha eterodiretto tutti i fermenti rivoluzionari in Italia, dal ’69 ad allora. La costruzione giuridica manicomiale giungerà all’indicazione di Negri come telefonista delle BR.

Piero Despali si farà 13 anni da latitante. Giacomo sei anni in carcere. Con loro tanti altri quadri e militanti. Con malinconica franchezza, i due narratori ricordano che più delle provocazioni calogeriane, ebbe un effetto lacerante la tragedia di Thiene – tre giovani militanti dei collettivi uccisi dall’esplosione accidentale di un ordigno che doveva servire nella campagna di risposta agli arresti del 7 aprile, con il tragico corollario del suicidio in carcere di un quarto militante, Lorenzo Bortoli, due mesi dopo. Il decennio Settanta si chiude nelle condizioni di massima durezza immaginabili.

La stagione di caccia di Calogero sarà lunga e fagociterà storie, vite, militanza in tutta Italia, come una schiacciasassi. Gli ultimi processi si concluderanno alla fine degli anni ’80. Gli autonomi veneti si ritroveranno in carcere a confrontarsi con due passaggi, anche umanamente, laceranti: da una parte l’egemonia delle BR che cercano di trasformare il carcere in un proprio fronte di organizzazione; dall’altro lo sviluppo del movimento della dissociazione, tanto più lacerante e pericoloso, perché coinvolgente nomi che avevano rappresentato molto nella storia dell’autonomia.
Tra questi settori e i giudici inizia un dialogo, che diventerà sempre più gravido di conseguenze:

Se vuoi, e per semplificare al massimo, mentre per noi restava valido l’assunto comunista dello “Stato si abbatte e non si cambia”, per loro, invece, da nemico assoluto lo Stato diventava un soggetto con cui potevi tranquillamente dialogare, il che comportava la messa in mora di ogni forma di lotta armata finalizzata per l’appunto alla sua distruzione. È il motivo per cui questi stessi compagni pensavano di poter spiegare al giudice – istruttore, inquirente o giudicante, poco importa – le buone ragioni dell’Autonomia contrapposte alle cattive ragioni delle BR. Ritenevano di poter convincere i giudici della loro diversità che pensavano abissale per cui, a partire da queste considerazioni, il trattamento conseguente avrebbe dovuto essere diversificato (pag. 144)

Avviato il dialogo con i magistrati “illuminati”, elaborati alcuni documenti politici che dovevano fare da spartiacque, iniziò la formazione delle “aree omogenee” dentro le carceri. Il processo della dissociazione era pienamente avviato e si concluderà con la legge 34 del 1987.

Ma io, e con me gli altri compagni dei Collettivi, da chi avrei dovuto dissociarmi? Noi avevamo sempre dato battaglia ai compagni delle BR condannandone le degenerazioni nel mentre si davano, ma la nostra era una battaglia politica, mentre questa della dissociazione, di politico non aveva nulla perché a condurre il gioco era lo Stato, quello Stato che i compagni, che la dissociazione avevano promosso, dicevano di aver sempre combattuto. Noi la battaglia processuale l’abbiamo condotta avendo sempre di mira le lotte fuori dal carcere. Questi compagni avevano preferito l’autoreferenzialità, vestendo i panni di un ceto politico separato, con il «Il Manifesto» come megafono e il dialogo con le istituzioni come il loro impegno precipuo. Comunque sia, il mondo carcerario si dividerà presto nei due emisferi dei dissociati e degli irriducibili, per cui il dilemma di stare con gli uni o con gli altri sarà il rovello di chi, preso atto che tertium non datur, si trovava costretto a navigare, come dice il poeta, in acque perigliose e a guardarsi le spalle dagli uni e dagli altri […] Chi eravamo? Non potendo ricondurre la mia esistenza di carcerato al concetto di dissociato, pentito, irriducibile brigatista, per quanto mi riguarda avevo optato per il sintagma nominale “prigioniero politico comunista” (pagg. 145-146)

Sono anni di rotture umane, di disgregazione di una comunità politica e carceraria che per lungo tempo segnerà le vite di chi attraversò quelle esperienze laceranti. La storia dei Collettivi finisce più o meno in questa temperie infuocata. Nasce il Movimento Comunista Veneto (articolazione territoriale di una proposta nazionale mai decollata) e anche la narrazione dei due fratelli protagonisti della storia, si interrompe, non senza qualche necessario elemento di bilancio.

I Collettivi Politici Veneti per il potere operaio, saranno l’organizzazione autonoma più radicata e persistente della storia, insieme ai Comitati autonomi romani: ma con un agire da partito – una tendenza al partito, potremmo dire – più evidente e coerente. I mitici “padovani” erano sempre additati come esempio da seguire nel rigore organizzativo; non si trattava di fissazione organizzativistica, ma di metodo: tutta la produzione di autovalorizzazione proletaria, doveva “costituirsi” in un livello strutturato di contropotere, darsi una forma, una visibilità; e l’autonomia operaia organizzata era lo sforzo interno, a questi movimenti, per elevare l’antagonismo sociale in prospettiva comunista. I collettivi politici – tra mobilità delle forme e sapienti funzioni di accentramento – furono lo strumento utile a svolgere quel ruolo in quella fase.

Solo la forza dell’insediamento e la continuità del metodo, permisero all’autonomia operaia veneta di sopravvivere e ritrovarsi, ancora in piedi, nel decennio successivo. Tra i fallimenti nazionali, lo scompaginamento prodotto dalle inchieste e dalla galera, le grandi sconfitte sociali, solo un organizzazione solida poteva sopravvivere a questo tsunami e, sia pur piena di cerotti e stampelle, l’autonomia veneta resse. Sono ancora disponibili in rete le bellissime immagini amatoriali della manifestazione cittadina a Padova, convocata per l’assassinio di Pietro Greco, nella primavera del 1985. Fu l’occasione della rottura del “coprifuoco” imposto alle manifestazioni di piazza a Padova, fin dall’aprile 1979. Si vedono molti ragazzi e ragazze, in quelle immagini un po’ sgranate, che rivendicano il nome di quel loro fratello maggiore che non conobbero, ammazzato come un cane in un agguato sbirresco – ragazzi che non avevano conosciuto gli anni ’70 ma che avevano scelto di essere lì, in piazza, a raccogliere quelle bandiere, a rivendicare una memoria, a guardare al futuro. Calogero era stato sconfitto.

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St. Pauli e dintorni. Storie tra la Hafenstrasse ed il Millerntor https://www.carmillaonline.com/2015/06/25/st-pauli-e-dintorni-storie-tra-la-hafenstrasse-ed-il-millerntor/ Thu, 25 Jun 2015 21:15:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23446 di Gioacchino Toni

st.pauli siamo noiMarco Petroni, St. Pauli siamo noi. Pirati, punk e autonomi allo stadio e nelle strade di Amburgo, Derive e Approdi, Roma, 2015, 221 pagine, € 17,00

Il saggio narra storie di resistenze, ribellioni, solidarietà, rivolte, contraddizioni e pratiche dell’obiettivo a ridosso del porto di Amburgo, sullo sfondo delle trasformazioni e delle conflittualità tedesche. Dopo aver attraversato le grandi lotte dei portuali di fine Ottocento, l’ascesa al potere e la dittatura del nazismo, la tragedia della guerra, le speculazioni edilizie e la ristrutturazione produttiva, il declino ed il [...]]]> di Gioacchino Toni

st.pauli siamo noiMarco Petroni, St. Pauli siamo noi. Pirati, punk e autonomi allo stadio e nelle strade di Amburgo, Derive e Approdi, Roma, 2015, 221 pagine, € 17,00

Il saggio narra storie di resistenze, ribellioni, solidarietà, rivolte, contraddizioni e pratiche dell’obiettivo a ridosso del porto di Amburgo, sullo sfondo delle trasformazioni e delle conflittualità tedesche. Dopo aver attraversato le grandi lotte dei portuali di fine Ottocento, l’ascesa al potere e la dittatura del nazismo, la tragedia della guerra, le speculazioni edilizie e la ristrutturazione produttiva, il declino ed il degrado della zona in mano alla malavita, la rinascita del quartiere, racconta Petroni, si deve, ad inizio anni ’80, ad una nuova composizione sociale e politica: “A St. Pauli, all’ombra del porto di Amburgo, simbolo secolare delle lotte del proletariato tedesco, autonomi, militanti politici, antifascisti, ecologisti, punk e tifosi di calcio attraverso una stagione di lotte, a tratti durissime, seppero dar vita a un nuovo modello sociale rivoluzionario”.

“Da sempre, l’area dove oggi si estende St. Pauli è stata la casa per gli ultimi della società, per quelli che svolgevano lavori duri, per gli indesiderati, per coloro che venivano cacciati dalla città (…) Prostitute, forestieri, senzatetto, appestati, contrabbandieri e rivoluzionari non erano graditi al rigido mondo anseatico di Amburgo, ma a St. Pauli, dove il potere ha sempre messo alla prova lo spirito di resistenza della sua popolazione, erano di casa”. Le vicende narrate da Petroni partono dalla grande trasformazione della zona del porto della città di Amburgo avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento che determina una netta separazione della città su base classista. All’interno degli strati più poveri della popolazione, inoltre, l’azione politica socialdemocratica, focalizzandosi sulle sole componenti operaie più qualificate, abbandona a se stessa quell’ampia area di lavoratori occasionali e/o dequalificati che in tante città rappresenta una componente non certo irrilevante. In molti casi, sono proprio questi lavoratori appartenenti a quella feccia disdegnata dalle organizzazioni operaie tradizionali, a porsi alla testa delle mobilitazioni, come avviene nel grande sciopero del 1896, che vede in azione, ad Amburgo, per un paio di mesi, ben 15000 portuali. La colpevole miopia socialdemocratica, tuttavia, rappresenta forse il suo difetto minore, visto il ruolo avuto da tale organizzazione politica, poco dopo, nella repressione delle istanze rivoluzionare spartachiste.
Riprendendo gli studi di Sergio Bologna, l’autore ricostruisce alcuni momenti di resistenza proletaria all’avanzata nazista nella battaglia per il controllo delle osterie di Amburgo, che rappresentano uno spazio di cultura politica operaia. La radicalità dello scontro è testimoniata dai numeri: nel solo 1931 restano a terra un’ottantina di nazisti ed un centinaio di comunisti. L’andata al potere di Hitler determina un violentissimo livello di repressione nei confronti degli oppositori; nel solo luglio del 1933, nella città di Amburgo, vengono arrestati 2400 comunisti. Nonostante tutto, nel 1941-42 sono in piedi cellule di resistenza in una trentina di grandi fabbriche amburghesi, soprattutto nei quartieri navali di St. Pauli ed Altona.
La situazione di Amburgo alla fine del Secondo conflitto mondiale è tragicamente sintetizzabile da alcuni dati: i bombardamenti della Raf radono al suolo il 75% della superficie edificata e l’80% del porto, il numero di morti ammonta a 35000 esseri umani. Nel giro di un decennio il sistema produttivo tedesco riesce a rimettersi in piedi e ad ammodernarsi tanto che Amburgo diviene l’emblema della capacità di ripresa teutonica. Nel dopoguerra la zona a luci rosse di St. Pauli diviene una sorta di calamita turistica per i tedeschi delle zone limitrofe e per i militari britannici stanziati nel nord della Germania. Nei primi decenni del dopoguerra una parte importante dell’economia di St. Pauli gravita attorno al commercio del sesso a cui si aggiungono, ben presto, lo spaccio di droga ed il traffico di armi. Con gli anni ’80, diviene sempre più evidente come le cose stiano cambiando nelle grandi città industriali e, nello specifico, nella zona del porto di Amburgo. Speculazioni edilizie, disoccupazione determinata dai processi di modernizzazione delle attività portuali e della cantieristica, causano lo smembramento del tessuto sociale locale: “la conflittualità di quel proletariato che aveva animato a suon di rivolte, insurrezioni e resistenze la prima metà del secolo sembrava smarrita (…) negli anni Settanta regnavano incontrastate criminalità organizzata, prostituzione e droga (…) dilagavano il disagio, la disperazione e la povertà (…) La lunga caduta del quartiere verso gli inferi terminò con il flagello dell’aids”. La diffusione del virus finisce col determinare anche la crisi dell’economia gravitante attorno al sesso. Nei primi anni ’80 St. Pauli rappresenta uno dei luoghi più malfamati della Germania occidentale, abitato soprattutto da immigrati sulla soglia di povertà.

1980-hafenstrasseLa rinascita politica e sociale del quartiere, nei primi anni ’80, secondo la ricostruzione proposta dall’autore, si sviluppa attorno a due luoghi ben precisi: la via del porto, la Hafenstrasse, e lo stadio Millerntor. Per comprendere la composizione dei giovani militanti che occupano i palazzi sulla Hafenstrasse, occorre ricostruire la provenienza di queste pratiche di illegalità politica. L’autore individua la genesi di tali comportamenti nella raffica di scioperi selvaggi che, nei primi anni ’70, attraversa le fabbriche tedesche. Tale ondata di mobilitazione sancisce la fine dell’epoca dell’etica del lavoro dell’operaio specializzato. “Dinanzi allo sviluppo delle macchine e della produzione, l’estraneità operaia si fece sovversione e trovò nella lotta al lavoro e nelle attività di sabotaggio la sue espressione. Opponendosi a qualsiasi forma di gerarchia nella fabbrica così come nel partito, i giovani operai risultarono incompatibili con qualsiasi ‘morale produttiva’ e maturarono una nuova ‘coscienza di classe’ che li portò a negare la loro stessa vita: volevano lottare per un nuovo modello di socialità e per soddisfare i propri bisogni. Era il ‘rifiuto del lavoro’”. Ben presto questo tipo di la conflittualità si è esteso fuori dai cancelli delle fabbriche investendo il territorio. Le lotte antinucleari rappresentano un ambito di mobilitazione importante per i movimenti tedeschi a cui si aggiunge la questione abitativa. È da questa tradizione di conflittualità diffusa, di ostilità nei confronti del lavoro e di pratica dell’obiettivo che derivano le pratiche dei giovani autonomen tedeschi che, nei primi anni ’80, insieme ad anarchici, punk, emarginati, immigrati e settori di lumpenproletariat occupano alcuni palazzi di fronte al porto lungo la Hafenstrasse. Ciò che avviene ad Amburgo non è certo un fatto isolato, i primi anni ’80 vedono in Germania un imponente ondata di occupazioni; solo a Berlino, tra il 1980 ed il 1981, si contano 160 edifici occupati.
Il libro ricostruisce dettagliatamente diverse ondate di resistenza attuata dal quartiere del porto in difesa delle occupazione dei palazzi in Hafenstrasse; ronde, scontri, barricate, cortei, mobilitazioni solidali. In tutti questi episodi l’autore non manca mai di evidenziare come alle capacità di tenere la piazza e di difendere lo spazio si associ sempre l’aspetto comunitario; la solidarietà risulta essere in tutte queste vicende una componente importante per la tenuta del quartiere. Solidarietà che nel corso degli anni oltrepassa i confini nazionali per assumere una dimensione europea. “Hafenstrasse resiste” riecheggia negli anni ’80 anche sulle riviste radicali e sui muri di tante città europee.

rote_floraA cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 la situazione di St. Pauli conosce un nuovo momento turbolento determinato dall’offensiva della speculazione edilizia e dalle politiche locali. In questo periodo, nei pressi di Altona, dall’occupazione di un vecchio teatro in procinto di essere trasformato in attività commerciale, nasce l’esperienza di un nuovo spazio sociale denominato “Rote Flora”, destinato a smuovere le acque del quartiere. Ad inizio degli anni ’90 la situazione torna a farsi pesante anche nell’Hafenstrasse, la cui sopravvivenza è messa, ancora una volta, a rischio. Nuovamente si apre un periodo di confronto serrato con le autorità e le forze di polizia.

La Prima metà degli anni ’90 è caratterizzata soprattutto da rigurgiti neonazisti. I gruppi di estrema destra, forti anche del proselitismo fatto nelle curve degli stadi e tra i giovani disoccupati, soprattutto nell’ex Germania Est, danno luogo ad una drammatica serie di attacchi nei confronti dei rifugiati e di chi non è considerato degno di esser detto tedesco. L’episodio, tristemente, più famoso è sicuramente quello di Rostock, ove, nell’agosto del 1992, nel sobborgo di Lichtenhagen, centinaia di giovani neonazisti, attraverso il lancio di molotov, incendiano indisturbati uno stabile ove alloggiano rifugiati vietnamiti tra gli applausi della popolazione locale e lo sguardo benevolo delle forze di polizia. L’anno successivo si scopre dai verbali di un commissario di polizia l’esistenza di un accordo tra i neonazisti e la polizia ove si concorda un “non intervento” delle forze dell’ordine durante l’assalto. In tale contesto nascono diversi gruppi di antifascismo militante, come gli “Autonomen Antifa”, che si richiamano all’esperienza di autodifesa del periodo weimariano, e si struttura anche un coordinamento antifascista nazionale denominato l’Antifaschistische aktion/Bundeswite organisation (Aa/Bo).

FC St. Pauli - SV Werder BremenL’altro polo attorno al quale si sviluppa la turbolenta comunità di St. Pauli è rappresentato dallo stadio Millerntor. Per comprendere la portata delle novità che caratterizzano la “particolare tifoseria” locale, Petroni ricostruisce a grandi tappe la trasformazione del calcio tedesco a partire dagli anni ’70, quando gli stadi in Germania non sono particolarmente colpiti da fenomeni violenti; la composizione operaia caratterizza i settori popolari degli impianti e, dal punto di vista identificativo, la componente più calda è identificabile dal gilet di jeans pieno di patch con i simboli della squadra tifata. Si tratta di una tifoseria priva di una vera e propria inclinazione politica pur non mancando di manifestare atteggiamenti machisti, omofobi e xenofobi. Il 1982 è l’anno della svolta per le curve tedesche: iniziano ad essere presenti in molti stadi gruppi di bonehead dichiaratamente di estrema destra, bandiere e saluti nazisti ed una massiccia dose di violenza. Quando è di scena la nazionale, soprattutto in trasferta all’estero, si creano temporanee alleanze tra gruppi di estrema destra pur appartenenti a tifoserie tradizionalmente nemiche. “La retorica dell’estrema destra, che mostrava un’immagine semplice della realtà con dei nemici ben chiari che andavano dall’immigrato al comunista, dall’ebreo all’omosessuale, aveva creato un contesto di violenza generalizzata e una miriade di partiti e gruppuscoli”. In diverse occasioni, a margine della partita, gruppi organizzati di tifosi neonazisti tentano di dare l’assalto a locali, centri ricreativi od abitazioni nemiche, come nei quartieri di Kreuzberg, a Berlino, o St. Pauli, ad Amburgo.

st_pauli_antifaLa storia della piccola ed anonima squadra di calcio del St. Pauli Fc, a partire dai primi anni ’80, inizia ad intrecciarsi con i movimenti che popolano il quartiere. Il testo evodenzia come la presenza di attivisti sulle gradinate non derivi da una pianificazione di intervento politico ma abbia un’origine spontanea; lo stadio Millerntor è al centro del quartiere ed inevitabilmente inizia ad essere frequentato anche dalla galassia alternativa che abita la zona. La tifoseria storica della squadra, tradizionalmente apolitica e composta da lavoratori portuali e da gruppi di Kutten, inizia ad essere affiancata, nel corso della stagione calcistica 1986/87, dalla presenza sulle gradinate di un centinaio di giovani alternativi ben individuabili dai capelli colorati abbinati al nero di felpe e giubbotti in pelle. Tale presenza inizia ad attrarre parecchi giovani anche per la convivialità e la dose massiccia d’umorismo che caratterizza i loro slogan derivati dal mondo politico e trasformati ironicamente ad uso calcistico: “Mai più fascismo! Mai più guerra! Mai più 3. Liga!”. La bandiera pirata, il Jolly Roger, diviene, ad un certo punto, l’icona simbolo dell’avvenuto legame tra squatter, punk e tifoseria del St. Pauli. Nel testo vengono ricostruite puntualmente le trasformazioni del mondo calcistico tedesco e come la particolare tifoseria del St. Pauli cerchi di dar vita a modalità differenti di vivere il calcio, tra socialità ed impegno politico. I tifosi locali non solo sono in prima linea nella costruzione di una rete di contrasto, sia culturale che militante, al dilagare del neonazismo, del razzismo, del sessismo e dell’omofobia nelle curve, ma non mancano di intervenire anche contro la trasformazione sempre più mercificata del calcio ed l’espulsione economica delle componenti più popolari dagli stadi (politica inaugurata dall’Inghilterra thatcheriana). Gli anni ’90 si sono caratterizzati per l’infiltrazione neonazista nelle curve, soprattutto nelle tifoserie di Rostock, Dresda, Lipsia ma anche nella tifoseria della più blasonata squadra di Amburgo (HSV – Hamburger Sports-Verein).
Dalla metà degli anni ’90, la componente più politicamente schierata della tifoseria del St. Pauli deve confrontarsi con un generale processo di commercializzazione giunto a toccare anche la piccola formazione amburghese. La società inizia a “mettere a profitto” l’etichetta di “squadra alternativa” giungendo, nel 2000, ad assorbire come logo, al fianco della porta di Amburgo, il Jolly Roger, ormai diventato simbolo della tifoseria. Il teschio con le tibie incrociate, introdotto sulle gradinate del Millerntor dai punk e dagli alternativi nei primi anni ’80, diviene un brand commerciale. Alcune componenti del tifo iniziano ad abbandonare la squadra decidendo di seguire una vicina formazione meno celebre, l’Altona 93, altri propendono per cercare di mantenere in vita il vecchio modo di concepire il calcio come fenomeno sociale opponendosi alla mercificazione. Nel 2011 va in scena la protesta “socialromantica”: all’interno dello stadio, all’entrata in campo delle squadre, l’intera tifoseria sventola bandiere rosse con teschi neri ed espone lo striscione: “Bring Back St. Pauli”. “Migliaia di tifosi hanno personalmente cucito e disegnato la propria bandiera con un teschio diverso da quello ufficiale che hanno chiamato Jolly Rouge” e, dopo la partita, danno vita all’immancabile corteo lungo le vie del quartiere, invitando al boicottaggio dei consumi all’interno dello stadio e delle aziende che sponsorizzano la società. Quella moltitudine di teschi neri su sfondo rosso rappresenta la riappropriazione dell’emblema da parte dei tifosi: si tratta di qualcosa che non appartiene a nessuno ma al tempo stesso a tutti, dunque non può essere messo in commercio.

Rote-FloraNella parte finale del libro, fanno capolino questioni legate alla stretta attualità. Nel 2013 si intrecciano nel quartiere ribelle alcune spinose vertenze. L’arrivo ad Amburgo, dall’Italia, di 350 profughi africani sbarcati nel 2011 a Lampedusa, porta alla costituzione, in loro difesa, del gruppo “Lampedusa in Hamburg” e viene rilanciata la campagna “Nessuno è illegale”. Il contenzioso riguarda la concessione del diritto di asilo collettivo e non individuale, come vorrebbero le autorità. “We are here to stay”, diventa la parola d’ordine che riecheggia ovunque nel quartiere ed, ovviamente, allo stadio. Altre questioni che toccano St. Pauli riguardano la minaccia di sgombero del palazzo Esso-Häuser che ospita circa un centinaio di famiglie e dello spazio Rote Flora.

Il testo di Petroni ha il merito di ricostruire un lungo percorso di lotte sociali e di conflittualità di fronte al porto di Amburgo. Sicuramente lo fa da una prospettiva parziale, resta il fatto che le storie narrate da questo testo difficilmente potranno essere cancellate definitivamente e senza colpo ferire. È la storia di St. Pauli a suggerirlo.

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