autodistruzione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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Nemico (e) immaginario. Incapacità di sognare alternative e volontà di autodistruzione https://www.carmillaonline.com/2016/08/03/zombie-scenari-apocalittici-incapacita-sognare-un-altro-mondo-volonta-assistere-allautodistruzione/ Wed, 03 Aug 2016 21:30:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31153 di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti [...]]]> di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti tanto dalla delega elettorale, quanto dal giovanilistico pulviscolo dei messaggini gravitanti attorno ai “nuovi politici”) e dai mass media (che dispensano illusioni di partecipazione attraverso la presenza del pubblico in studio, telefonate in diretta, messaggini autoreferenziali via social media ecc).

Per comprendere qualcosa in più sulla realtà contemporanea può essere d’aiuto indagare la finzione. Nel saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Mimesis, 2014), la figura dello zombie e gli scenari apocalittici, frequentemente ad essa associati nelle produzioni audiovisive contemporanee, vengono indagati come manifestazioni delle angosce e delle paure occidentali.

«Se il reale non è dato bensì è da interpretare, la finzione può rivelarsi di grande aiuto per due ragioni complementari e contraddittorie. Innanzitutto […] perché, come ogni cosa, la finzione è segnata e porta su di sé l’impronta della mano che l’ha creata, essa ci dà informazioni – per seguire la metafora – su questa mano. Proprio come possiamo interpretare la psiche di un artista osservando le sue tele, così possiamo interpretare una cultura, e in seguito a poco a poco anche una società, osservando l’immaginario che essa ha prodotto. Allo stesso tempo l’oggetto della finzione – l’immaginario, a maggior ragione –, attraverso la sua natura metaforica può aiutarci a pensare alla nostra epoca poiché distante da essa. Lo zombie lo illustra perfettamente: se è figlio della nostra cultura esso è anche una figura estrema e fuori dal contesto, e sotto questo aspetto divertente, buffa, spassosa. L’estremo, essendo così distante dal nostro quotidiano, scioccando il nostro immaginario e perfino la nostra società, si offre dunque come una svolta per guardarla» (p. 109).

Nel ricostruire per sommi capi lo sviluppo della figura dello zombie l’autore parte, inevitabilmente, dalle culture africana ed haitiana, ove, attingendo dall’immaginario della schiavitù, lo zombie rimanda tanto ad un soggetto depersonalizzato, incapace di ribellarsi, quanto all’idea di resurrezione cristiana. Nel corso dell’Ottocento la figura dello zombie entra a far parte del folklore statunitense ed europeo fino a far capolino nella letteratura e nel cinema grazie ad opere come il romanzo The Magic Island (1929) di William Seabrook ed il film White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, con Bela Lugosi.

Successivamente Coulombe si sofferma sul mutamento della figura dello zombie operata dalla trilogia di Geoge A. Romero composta da Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), Dawn of the Dead (Zombi, 1978) e Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985). In questi film, che delineano una nuova figura di zombie, poi ripresa da vari registi, non siamo di fronte ad un vivente scambiato per morto ma ad un morto che pare un vivente, un “quasi-vivente”. Prende così piede l’immagine dello zombie in avanzato stato di decomposizione e «non è più l’effetto di un maleficio eseguito da uno stregone, egli è ora senza padrone e se serve come strumento di un piano, questo è segreto e oscuro» (p. 25).

Particolarmente importante nell’evoluzione romeriana dello zombie è il romanzo I Am Legend (Io sono leggenda) di Richard Matheson, pubblicato nel 1954, in cui si narra di Robert Neville, ultimo uomo sopravvissuto ad una misteriosa epidemia che ha trasformato il resto dell’umanità in vampiri. «Qui ritroviamo l’idea, ripresa da Romero, di una seconda specie che si nutre degli uomini, che nasce dall’umanità stessa e che tuttavia dimostra una natura così differente da quella umana da desiderare una propria autonomia» (p. 26). Romero struttura così film che riflettono sulle condizioni di esistenza in un mondo ormai alla deriva, ove i rapporti sociali appaiono fortemente compromessi.

Le produzioni audiovisive più recenti, pur mantenendo l’idea di castigo divino come giudizio morale sulla civiltà occidentale «metteranno in scena una modalità di trasmissione più in linea con i timori che animavano gli anni ’70 e soprattutto ’80: ormai si diventerà zombie solo dopo essere stati morsi da un individuo infetto o semplicemente attraverso il sangue. Così lo zombie, questo morto tornato alla vita, costituirà un’inquietante metafora dell’affetto da AIDS, considerato un vivo che tuttavia è condannato alla morte e al contagio del suo prossimo» (p. 29). La figura dello zombie perde così la sua connotazione fantastica per incarnare «la metafora di un’inquietudine rispetto a una nuova immagine di morte – l’AIDS – e il timore legato alle ricerche sulla biotecnologia» (p. 30) dando immagine, inoltre, al turbamento contemporaneo rispetto al senso della morte.

Il cinema zombie «incarna la sconfitta dell’Occidente fino alla sua autodistruzione. Un male prodotto dall’Occidente che dà vita a creature subumane si rivela in grado di decimare la popolazione del pianeta» (p. 30) e gli esseri umani che si trovano a fronteggiare il pericolo zombie dimostrano il peggio di sé mostrandosi del tutto incapaci di andare al di là del loro cinico individualismo.

La prossimità tra uomo e zombie impone interrogativi circa i limiti della condizione umana e la possibilità dello statuto umano di decadere. Siamo al tempo stesso attratti ed inquietati dallo zombie perché non sappiamo cosa sta dietro al silenzio della sua coscienza. Quando lo zombie non è attivo nell’aggredire l’uomo, si mostra a quest’ultimo in uno stato di apatia che richiama facilmente l’immagine di un individuo gravemente traumatizzato, la figura del sopravvissuto ad un disastro che “si fa zombie”, “assente da se stesso”, come se l’enormità del trauma avesse «fatto vacillare ciò che ci rende umani: la nostra capacità di pensare» (p. 48). Dunque, lo zombie ci inquieta nel suo stato apatico in quanto evoca una condizione dell’uomo possibile, seppur rara.

A partire da tali ragionamenti Coulombe si chiede: «Siamo sicuri che lo zombie rappresenti la figura dell’eccezione? Questa perdita della nostra capacità di pensare è necessariamente il frutto di un incidente? Si tratta sempre di qualcosa di raro e irrimediabile? Osservando la nostra società un po’ più attentamente si nota che il “traumatizzato” sembra incarnare non soltanto un incidentato ma molti soggetti che sono vittime della modernità e della sua crudele logica della performance. Bisogna dunque pensare al dramma non come a un evento singolare e contingente, bensì come alla corrosione progressiva del carattere prodotta dal ritmo dell’Occidente stesso. Lo zombie non è la figura dell’eccezione ma incarna più ampiamente un frammento della nostra condizione contemporanea nella quale la maggior parte di noi potrebbe, in un momento o nell’altro, identificarsi» (pp. 49-50).

Walter Benjamin (Sur quelques thèmes baudelairiens), riprendendo le analisi freudiane relative al trauma, analizza lo shock causato non tanto dalla brutalità dell’attentato terroristico o della guerra, ma dalla successione di molteplici shock quotidiani che finiscono col turbare la soggettività dell’individuo rendendolo sempre più insensibile al mondo e refrattario a nuove esperienze. «Lo shock della modernità non produce gli zombie da un giorno all’altro. Nel cuore della modernità risiede tuttavia qualcosa di simile al divenire-zombie, per riprendere il linguaggio deleuziano. L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51).

L’aggressività e la violenza dello zombie tradiscono invece un’altra inquietudine contemporanea, cioè che «sotto la facciata della nostra civiltà batte il cuore di una bestia sanguinaria. Noi saremmo fondamentalmente dei mostri» (p. 53). Nei film sugli zombie si narra infatti la storia di un’epidemia che porta a galla la brutalità celata sotto alla facciata della nostra civiltà. «Questi film mostrano una concezione cinica e oscura della psiche, una concezione che comunque non hanno inventato: lo zombie evoca un certo tipo di ritorno allo stato di natura» (p. 54). Chiaramente lo “stato di natura” è un espediente filosofico utilizzato al fine di immaginare il comportamento umano in caso di abolizione delle regole e delle convenzioni sociali ma, fa notare lo studioso, «se in Hobbes, come negli altri teorici dello stato di natura, una tale condizione non corrispondeva a uno stato storico ma a un’ipotesi teorica, i media contemporanei non hanno colto questa sfumatura. Questi ultimi pensano allo stato di natura come alla chiave di lettura e al punto di fuga della violenza contemporanea» (p. 55).

piccola-filosofia-dello-zombieCoulombe, riprendendo alcune riflessioni di Giorgio Agamben (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita), sottolinea come lo zombie, perdendo la coscienza, si trovi a perdere ogni forma di bios, dunque di statuto umano, avvicinandosi alla figura dell’homo sacer greco, dunque per molti protagonisti umani dei film può non essere un problema uccidere lo zombie in quanto la sua esistenza è ritenuta indegna. «Se lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile» (p. 58). Dunque, secondo lo studioso, «La gioia e l’inquietudine dei film di zombie sono basate proprio sul fatto che essi replicano l’equivoco di questo statuto tanto quanto le sue conseguenze. Recandoci nei cinema assistiamo alla storia di persone che uccidono coloro la cui vita è ormai indegna di essere vissuta; giocando ai videogiochi ci carichiamo perfino del “lavoro sporco”. In qualche modo il nostro è uno sfogo ultimo poiché le nostre pulsioni aggressive e omicide hanno trovato la loro liberazione su una creatura passiva ma pericolosa, la cui morte e tortura non costituiscono più un crimine» (pp. 58-59).

«Se lo zombie è una figura grottesca, buffa e divertente, esso è anche sintomatico dei dubbi nei confronti dei limiti di ciò che è proprio dell’uomo: il pensiero. Un tale dubbio sulla coscienza […] comporta più profondamente un dubbio sociale rispetto al ruolo di questa coscienza, anche un dubbio che porta a chiedersi che cosa voglia dire essere cittadino. Non abbiamo il mostro che meritiamo ma quello che temiamo. La coscienza ha così espulso il suo incubo: lo zombie. Avendo ormai ribaltato il cogito cartesiano, il fatto di riflettere non sembra più stabilire nulla di determinante né utile. L’ordine del mondo – quello del liberalismo economico, quello dell’urgenza – è ormai senza guida, le sue necessità sono cieche. Questo nuovo ordine non accorda più alcun ruolo alla coscienza intesa come momento di introspezione che permette un’etica singolare e personale, un distacco dal mondo per pensarne la coerenza. Il mondo sembra ora più che mai una macchina ben oliata in cui le modifiche e le riflessioni sul suo senso – direzione e significato combinati – non sembrano più necessarie. Lo zombie è la figura di un’assenza e il fatto che noi possiamo riconoscerci in lui dice molto sulla contingenza del pensiero e in senso lato sul suo ruolo nella nostra società» (pp. 60-61).

Nelle società occidentali contemporanee la morte è celata, nascosta, e lo zombie incarna la morte di cui non si è più in grado di parlare. «La finzione si sostituisce a ciò che la nostra cultura non sa più mostrarci» (p. 72). Nella cultura occidentale ormai da tempo votata al “controllo del corpo”, si sostiene nel saggio, «il morto-vivente costituisce, nella sua stessa carne, un ritorno del represso: rappresenta un corpo abietto, squarciato, impuro. Lo zombie mostra la lenta degradazione dei corpi e delle cose mettendola in scena, una degradazione che la nostra cultura cerca di nascondere fuori dal campo del visibile. Lo zombie è la vendetta dell’informe. Se la morte è l’ultimo tabù della società occidentale, esso insiste per mostrarlo e per sottolineare metaforicamente la rivincita della morte sul vivente» (p. 19). È come se la parte nascosta dell’uomo, attraverso gli zombie, fosse resa improvvisamente visibile a spettatori desiderosi di assistere a rappresentazioni ripugnanti.

Nel mondo contemporaneo tendente al controllo del corpo, lo zombie rappresenta allora «un ritorno a un’animalità primitiva, ma anche al godimento che questo ritorno del rimosso procura. L’abiezione rimanda dunque a una dialettica in cui affetti, disgusto e godimento si uniscono: il godimento dello zombie e il disgusto negli spettatori; il disgusto del godimento dello zombie per lo spettatore e il godimento attraverso il disgusto nel morto-vivente» (pp. 75-76). Ed il ritorno del rimosso sotto forma di finzione grottesca, secondo lo studioso, induce lo spettatore alla risata di alleggerimento.

Lo zombie, con il suo corpo squarciato, “aperto”, privo di individualità ed in perenne trasformazione, è una figura che ribalta i valori della cultura occidentale contemporanea. «La risata, l’ordine capovolto del mondo, la morte temporanea: l’universo dello zombie sembra portare a compimento il progetto carnevalesco. È quindi facile interpretare questo genere cinematografico come rivoluzionario e sovversivo, come del resto molti hanno già fatto. Tuttavia a questo cinema manca ancora una parte essenziale dell’organizzazione carnevalesca: la sua capacità di offrire un “futuro migliore” e un mondo basato sulla negazione dell’ordine stabilito. Il rovesciamento dei valori dello zombie non propone luoghi di emancipazione per la classe popolare […] ma la vittoria di una nuova specie debole e alienata; il carnevale non è sognato per l’uomo ma per una creatura che ha avuto la meglio su di lui. Non si tratta di qualcosa di innocente. Il grottesco dello zombie diventa ancora il sintomo non solo del rifiuto della morte e della carne nella nostra cultura, ma anche della nostra incapacità di sognare un futuro alternativo per l’uomo» (p. 80).

Dunque, secondo Coulombe, quel che si manifesta nella figura dello zombie è una volontà di rovesciamento delle costrizioni sociali del tutto priva di progettualità. «Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia» (p. 81). Da tale incapacità di sognare un altro mondo, si ripiega, dando sfogo ad una certa pulsione di morte, sulla volontà di assistere, almeno, alla distruzione del mondo occidentale.

In diversi film apocalittici o di zombie, la macchina da presa indugia su strade ed edifici da cui è improvvisamente scomparso l’essere umano. A partire da tali immagini di città abbandonata, Coulombe struttura un interessante confronto con il senso di sublime delle rovine romantiche. Se, in questo ultimo caso, il sublime risulta malinconico in quanto fondato «sull’incolmabile distanza che separa il viaggiatore dalle civiltà che costruirono questi monumenti, di cui restano ormai solo le rovine» (p. 91), dunque si tratta di un sentimento del sublime determinato dalla forza del tempo, nel caso delle città post apocalittiche abbandonate il sublime pare piuttosto fondarsi sulla contraddizione tra una realtà urbana generalmente caotica e frenetica e la città improvvisamente priva di esseri umani, silenziosa e statica. «Assistiamo allora a un fallimento dell’immaginazione, incapace di figurarsi che cosa abbia potuto fermare una tale dinamica. L’effetto di questa distruzione è sublime perché è invisibile, e per questo impossibile da collocare, da limitare, da inquadrare» (pp. 92-93).

Se le rovine romantiche lasciano intravedere la scomparsa di una civiltà, di cui, appunto, restano solo le rovine, le “rovine” post-apocalittiche cinematografiche, in questo caso, “mostrano” la sparizione dell’essere umano. «L’assenza è un concetto di grande portata poetica poiché non richiama il nulla o un vuoto, ma una mancanza. Una persona in lutto ce lo saprebbe dire, il defunto è ancora presente ovunque […] In questo caso è necessario pensare all’assenza come a una presenza negativa […] Queste città abbandonate sono malinconiche perché piene di tutti gli individui assenti che indicano, in negativo, il movimento abituale della città» (p. 91).

Buona parte dei film di zombie, pur mantenendo un alone di mistero circa le cause di questa improvvisa assenza umana nelle città e del dilagare dell’epidemia, tendono ad insinuare l’idea che le responsabilità della scomparsa degli uomini siano del tutto umane e non per forza di cosa generate da qualche maldestro esperimento scientifico. La scomparsa dell’essere umano è genericamente una “punizione meritata” dall’uomo e non per questo o quello sconfinamento particolare; è un’intera civiltà chiamata in causa.

Lo studioso sottolinea come, da qualche tempo, la cultura occidentale risulti attraversata, anche grazie ai mass media, da pensieri apocalittici. Tali pensieri attingono «tanto dai grandi drammi del ventesimo secolo quanto dalla sensazione, provata dal soggetto, di essere ormai impotente di fronte alle logiche capitalistiche che lo dominano e che distruggono progressivamente l’ambiente» (p. 94).

Coulombe sottolinea come sebbene la sensazione di vivere in un’epoca di declino non sia certo una novità, la contemporaneità sembra però aggiunge nuovi aspetti a questo sentimento di degradazione morale. Tra questi l’autore sottolinea «la nostra recente capacità di distruggere il pianeta e la crescita interrotta dalle disuguaglianze sociali nell’occidente come nell’economia mondiale» (p. 95).

Pur consapevole della distruzione del pianeta in atto, l’individuo contemporaneo non sembra disposto ad intervenire. «Perché, se il mondo è al limite della distruzione, tentare di costruire qualcosa, di investirci? Il relativismo che ha conquistato l’occidente rende difficile qualunque azione fondata sui valori che superano il puro interesse personale o la frustrazione […] il pessimismo contemporaneo sembra ancora più sinistro poiché può contare su un sentimento generale di malessere nel nostro rapporto con gli altri […] Questa inquietudine e questo pessimismo finiscono per annebbiare le temporalità e ci lasciano l’impressione che non solo sarebbe troppo tardi per rimediare ma che siamo già in uno scenario post apocalittico: […] Da qui il sentimento, che progressivamente conquista le coscienze e i media, di un ritorno allo stato di natura che renda necessario l’egoismo, un incentrarsi su di sé e sulla semplice sopravvivenza» (p. 97).

Dunque, come sanno bene soprattutto i migranti che tentano di mettere piede nelle città occidentali sempre più fortificate, «ogni sconosciuto è un potenziale nemico, ogni amico è in potenza morto vivente, non restano che i membri della propria famiglia ai quali aggrapparsi» (p. 98).

Gli audiovisivi che ci raccontano di zombie ci mostrano come nel momento in cui si è costretti a lottare per la sopravvivenza, ciascuno finisce col decidere quel che è giusto per se stesso sentendosi in diritto di farsi giudice unico. «La civiltà distrutta sullo schermo, anche se distrutta da un’orda di morti viventi, ci ricorda questo pianeta morente evocato da numerosi discorsi ambientalisti, o questo pianeta sovrappopolato che non riesce a nutrire tutti gli abitanti. I film di zombie mettono in scena la fine del mondo di cui ci minacciano i media, mostrano il precipizio al bordo del quale ci troviamo. E anche la caduta. È stupefacente quanto questa caduta figurata ci tranquillizzi. Da una parte essa evoca una punizione percepita come meritata – i media ci rimproverano. Eppure, allo stesso tempo, desiderando la punizione di cui è minacciato, l’uomo rientra in possesso di un certo controllo sul proprio destino, anche solo per assistere alla perdita di quest’ultimo. Questa logica ha un nome: pessimismo» (p. 100).

TWD_987Coulombe indica come di fronte all’opprimente senso di impotenza, l’uomo tenti di sfuggire ad essa prendendo una posizione simbolica capace di restituire un qualsiasi ascendente, anche solo in maniera sacrificale; la pulsione di morte sarebbe allora causata dalla volontà di ritrovare un briciolo di controllo sulle cose che ci stanno attorno; «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte non semplicemente, comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica ecc… – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato» (p. 103).

I film di zombie «ci divertono perché dipingono una civiltà distrutta da nemici grotteschi. Di fronte all’ambiguità del mondo, di fronte all’incertezza del nostro futuro, di fronte a un’ondata di sentimento di colpevolezza mentre pensiamo alle sorti del pianeta, il cinema zombie ci intrattiene e ci rassicura. Non c’è più quel senso di colpa, non c’è più quella paura: per due ore lo spettatore osserva queste rappresentazioni con un sorriso appena accennato, vedere l’annientamento del mondo causa una piccola vertigine e un senso di conforto» (p. 106).

Secondo Coulombe «Abbiamo bisogno dell’aiuto della finzione per sopportare la nostra condizione di uomini» (pp. 107-108) e, verrebbe da aggiungere alla luce dell’attualità, quando la finzione non basta a lenire la disperazione, in assenza di capacità di sognare un mondo diverso, possono generarsi mostri reali. Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, l’incapacità di sognare alternative non è da meno.

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