autodifesa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/16/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-3/ Sun, 16 Apr 2023 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76436 di Emilio Quadrelli

Non, je ne regrette rien

Tra i molti temi che l’intervista ha evidenziato, centrale pare essere la questione della violenza e delle coeve pratiche illegali. Una illegalità che, per gli abitanti dei quartieri popolari, ha ben poco di esotico ma rappresenta la prosaica realtà vissuta quotidianamente. Di ciò si è parlato con un pugile senegalese con alle spalle una “vita di strada” piuttosto intensa. L’approdo nel Collectif, la sistematica pratica sportiva e la successiva politicizzazione lo hanno emancipato da ciò che, per gli abitanti dei quartieri poveri, appare come [...]]]> di Emilio Quadrelli

Non, je ne regrette rien

Tra i molti temi che l’intervista ha evidenziato, centrale pare essere la questione della violenza e delle coeve pratiche illegali. Una illegalità che, per gli abitanti dei quartieri popolari, ha ben poco di esotico ma rappresenta la prosaica realtà vissuta quotidianamente. Di ciò si è parlato con un pugile senegalese con alle spalle una “vita di strada” piuttosto intensa. L’approdo nel Collectif, la sistematica pratica sportiva e la successiva politicizzazione lo hanno emancipato da ciò che, per gli abitanti dei quartieri poveri, appare come un “destino” dal quale è impossibile sottrarsi. Un destino fatto di brevi “carriere criminali” le quali, il più delle volte, conducono a una esistenza fatta di carcere, tossicodipendenza e morte, oltre a una marginalizzazione pressoché assoluta. Dentro le enclave dell’esclusione sociale la guerra per il controllo del territorio, che in alcuni casi si riduce alla gestione di un solo palazzo, è tanto cruenta quanto violenta. Le micro gang che gestiscono lo spaccio sono continuamente in guerra tra loro ma non solo. Con una certa frequenza si assiste a rotture all’interno delle stesse micro gang e allo scatenamento di obbligate “rese dei conti” tra gli appartenenti mentre, nel frattempo, gli scontri con le forze dell’ordine si moltiplicano. Di tutto ciò ne parliamo con il nostro pugile senegalese C. M.

Ciao, hai ascoltato le cose sin qua dette, da te vorrei, per prima cosa, una descrizione di cosa significa vivere in uno dei “quartieri Nord”. In poche parole vorrei che tu riuscissi a descrivermi la vita sociale di questi quartieri nel modo più oggettivo possibile e, in particolare, la vita dei ragazzi.
La vita nei “quartieri Nord” non ha alcun mistero. Come tutti sanno vi è tantissima disoccupazione, molta precarietà e una enorme economia illegale, soprattutto droga. Lì ci cresci, quella è la tua vita. Lo spaccio è la principale attività, anche se qualche gang si dedica ai furti e alle rapine, il grosso è legato allo spaccio. In questa attività sono coinvolti i ragazzi sin dai 13, 14 anni perché in un “quartiere Nord” a quell’età sei già grande. Entri presto in una gang e spesso inizi anche a farti. Così entri in un circolo che ti brucia la vita. L’illegalità non è una scelta ma una via obbligata. A questo aggiungici i comportamenti dei flics con i quali sei, indipendentemente da cosa tu possa fare o non fare, continuamente in guerra. Loro si comportano come se fossero delle truppe di occupazione. Noi siamo la colonia interna, questa la nuda e cruda realtà.

Tu oltre che un pugile sei un attivista politico e sociale. Cosa puoi dire della tua esperienza, come valuti le cose che stai portando avanti?
Mi sembra che le cose che stiamo facendo con la boxe siano molto importanti, abbiamo costruito una realtà importante che ha permesso a molti, me compreso, di acquisire una identità sociale che prima non avevano. Poi è molto importante quanto stiamo facendo come precari e disoccupati anche se credo che, però, abbiamo una carenza grossa rispetto al carcere e alla attività dentro i quartieri. Dovremmo riuscire a costruire qualcosa dentro i quartieri come avevano fatto le Pantere nere. Una organizzazione che sia in grado di trasformare tutta quella rabbia – che lasciata a se stessa finisce in una guerra fratricida tra gang – in qualcosa di positivo, qualcosa che serva veramente alla nostra gente. Poi c’è il carcere e lì c’è proprio un vuoto.

Quindi, secondo te, una delle grosse mancanze è un intervento sul carcere?
A me sembra di sì. Il carcere, per la nostra realtà, non è un imprevisto ma un passaggio praticamente obbligato. Nei confronti del carcere, almeno nei confronti della massa carceraria, vi è un totale disinteresse. Eppure lì passa una fetta di classe. Credo che a noi manchi una esperienza come quella delle Pantere nere, perché penso che dal carcere potrebbero uscirne dei quadri veramente rivoluzionari che potrebbero avere grande peso e influenza per tutta la gente dei nostri quartieri.

Quanto affermato arricchisce di non poco l’insieme di questioni che fanno da sfondo alle vite dei “dannati della metropoli”. Repressione, razzismo, militarizzazione del territorio sono la cornice abituale con la quale devono confrontarsi le “masse senza volto”. Da tempo l’ordine discorsivo dominante a Marsiglia, non diversamente dalle altre metropoli europee, è governato dalle retoriche dell’ “insicurezza urbana” prodotta dall’agire fuori controllo delle nuove classi pericolose1. Ciò, per gli abitanti dei “quartieri popolari”, comporta un costante corpo a corpo con gli apparati polizieschi, un confronto che tuttavia viene affrontato in maniera del tutto impolitica dai primi. Le parole di C. C., una pugile franco algerino di 25 anni, riescono a mettere bene a fuoco tutta la politicità che la questione polizia, repressione e militarizzazione del territorio si porta appresso.

Con C., M., abbiamo parlato del carcere, della condizione illegale in cui molti di voi, almeno in certi momenti della loro vita, hanno vissuto e di come, tutto questo, comporti il dover affrontare continuamente il rapporto con la polizia. Questo problema è affrontato tra voi e, se lo è, in che maniera?
Questo è un problema enorme al quale tutte le nostre vite sono confrontate. La polizia si comporta con noi come un esercito di occupazione, è da questo che dobbiamo partire. Mi chiedi se tra noi abbiamo affrontato questo problema? Sì, lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo soprattutto tra noi donne perché siamo noi quelle che subiamo maggiormente l’oppressione poliziesca e razzista. Per prima cosa abbiamo dovuto capire noi stesse che l’essere donne e il non essere bianche ci metteva in una certa condizione, una condizione da colonizzate. In seguito abbiamo compreso che non esistevano vie di uscita individuali, ma solo collettive e che, tutto questo, voleva dire lotta e organizzazione.

Lotta e organizzazione cosa significano concretamente?
Significa, intanto, costruire dei momenti collettivi nei nostri territori, dove vederci, incontrarci, discutere, fare delle attività autogestite. Avere, insomma, delle forme di socialità interamente nostre. In questo modo è possibile rompere la gabbia dell’individualismo che ti porta o a diventare un servo e una spia dei flics o a entrare in qualche gang con l’illusione di fare soldi e diventare qualcuno. Tutto questo, però, non avrebbe alcun senso, perché lascerebbe il tempo che trova, se non ci ponessimo anche il problema dell’autodifesa. Se vogliamo che nei nostri territori le persone ci vedano come una reale via di uscita dobbiamo essere in grado di esercitare la forza. Senza un esercizio della forza diventa tutto inutile. Sicuramente è importantissimo, anzi direi che è la cosa fondamentale, avere uno spazio dove i problemi e le questioni vengono affrontati così come non è meno importante costruire dei momenti di vera e propria scuola politica, ma tutto questo ha senso solo se sei in grado di esercitare la forza. Qua i problemi sono infiniti anche se, alla fine, il principale è la mancanza di soldi. Però, nel frattempo, almeno su alcune cose è possibile intervenire. Dobbiamo imparare a combattere contro chi, dall’interno, sfrutta e umilia la propria gente. Ma qua torniamo al discorso sulla polizia. La polizia governa grazie a tutte quelle figure che, in cambio della loro impunità, permettono il controllo del territorio. Queste agiscono come spie e informatori per cui sono, a tutti gli effetti, parte attiva della dominazione. Far capire, concretamente, che questi possono essere attaccati significa far crescere fiducia e consapevolezza tra le persone. Come vedi, anche in questo caso, si torna alla questione della forza perché per poter lottare occorre, per prima cosa, liberare il proprio territorio da chi ti è nemico ed è del tutto completare della polizia.

Cosa intendi per “scuola politica”?
Come puoi immaginare, la cosa valeva anche per tutte noi, non è che tra noi fosse presente una grande cultura politica. Di conseguenza, non vi sono strumenti per comprendere il vero senso della realtà che ci circonda. L’abitudine è quella di ricondurre tutto alla propria esistenza senza saperla collegare alla sua dimensione generale. Per “scuola politica” non intendiamo delle lezioni intellettuali su questo o quello ma, a partire da un fatto concreto – la storia di uno sciopero, di una organizzazione operaia, di una lotta di liberazione, di una battaglia delle donne e così via – organizziamo delle discussioni, intorno a dei testi, attraverso cui diventa facile dimostrare come l’agire collettivo consenta di raggiungere determinati obiettivi pratici. Poi, sicuramente, c’è chi, a partire da questo, sviluppa anche interessi più approfonditi. Io, per esempio, a partire dallo studio, minimo, della rivoluzione algerina sono passata ai testi di Marx e Fanon ma credo che non vi sarei mai arrivata se non fossi stata smossa da questioni concrete. Noi abbiamo letto e imparato molto da Mao perché nelle sue cose abbiamo sempre trovato un discorso teorico legato alla soluzione di problemi concreti.

Veniamo, così, alla questione polizia e autodifesa.
Noi sappiamo benissimo che non possiamo affrontare, o almeno lo possiamo fare raramente, i flics in campo aperto. Questo è possibile farlo nei cortei e nelle manifestazioni organizzandoci in squadre in grado di portare attacchi a determinate strutture, come banche, multinazionali, luoghi simboli dello stato ma questo è, come dire, quasi routine nel senso che in quei casi il numero di persone attrezzate per fare questo è abbastanza vasto. Tutta un’altra cosa è affrontare i flics sul territorio. Anche in questo caso agire collettivamente è l’arma principale. Se, di fronte a un fermo del tutto ingiustificato o a una irruzione in una casa, non si scappa ma si scende in strada, i rapporti di forza possono cambiare perché, a quel punto, i flics si trovano in svantaggio e non possono affrontare, se non chiamando numerosi rinforzi, la situazione. A quel punto, però, la situazione diventa talmente tesa che basta un nulla per farla esplodere e così, di solito, se ne vanno. Questo atteggiamento, però, non è facile da ottenere perché c’è molta paura, una paura che, in certi momenti, si traduce in rivolta a tutto campo ma, come in tutta la nostra storia abbiamo imparato, queste rivolte sono quasi sempre dei fuochi di paglia che si lasciano alle spalle ben poco. Ciò che serve, invece, è costruire organizzazione, consapevolezza e addestramento.

Vorrei chiudere chiedendoti sia che dimensioni ha, nei vostri territori, il ciclo economico legato allo spaccio sia in che modo, se lo avete fatto, lo affrontate?
Intanto cominciamo con il dire che lo spaccio, seppure sia sicuramente una realtà grossa e importante, riguarda pur sempre una parte, sicuramente considerevole ma pur sempre una parte, degli abitanti dei quartieri. La maggioranza sono operai, precari, disoccupati i quali possono anche lavorare come spacciatori ma non sono, come dire, spacciatori di professione. Quello che vale per lo spaccio vale anche per altre attività illegali.

Scusa se ti interrompo. Vuoi dire che in realtà ciò che avviene è un passaggio, più o meno costante, tra lavoro legale e lavoro illegale?
Sì, possiamo dire che è così. Certo esistono sicuramente gruppi criminali abbastanza organizzati, ma si tratta, almeno come numeri, di realtà limitate. Poi succede che, in assenza di altro, qualcuno per un periodo lavora per questi. Fa un po’ ridere ma esiste anche una precarietà illegale. Comunque questa è la realtà. Per questo lottare per il salario garantito ha anche lo scopo di emanciparci da questa condizione che, in un modo o nell’altro, ciascuna di noi ha conosciuto. Detto questo, però, il problema resta ed è un problema grosso perché, come facilmente puoi capire, spesso spaccio significa tossicodipendenza e tutto ciò che ne deriva. Al momento siamo obbligati a convivere con questa situazione, non siamo in grado di condurre una guerra aperta contro gli spacciatori e non solo e non tanto per una questione di rapporti di forza ma perché lo spaccio è una fonte di sopravvivenza per molti. Tutto questo lo potremmo affrontare in maniera radicale e definitiva solo quando saremo in grado di avere una determinata forza ma, soprattutto, quando avremo vinto la battaglia per garantire a tutti, occupati e non, un salario vero. Il problema dello spaccio e della droga lo si risolve modificando i rapporti di forza con lo stato e il potere politico perché è lì che sta il problema. Affrontare il problema dello spaccio pensando che questo non sia un problema di rapporti di forza, quindi un problema politico, con lo stato e le istituzioni significa demandare alla République e ai suoi flics in veste di assistenti sociali, educatori e via dicendo, un problema che è proprio la République che ha creato.

Solo un ultima cosa: per quale motivo hai equiparato gli assistenti sociali, gli educatori e altre figure simili ai flics?
Perché loro sono l’altra faccia della dominazione, sono delle figure del tutto complementari il cui fine è addomesticarci. Ma noi non abbiamo bisogno di narcotici di stato ma di autonomia politica, lotta e organizzazione.

Le cose ascoltate, per molti versi, parlano da sole. Ciò che nell’insieme emerge è la dimensione “concreta” dell’essere proletario in una città come Marsiglia. La molteplicità dei temi ascoltati obbligherebbe a una serie di riflessioni e ragionamenti che esulano dai limiti che un reportage etnografico obiettivamente comporta. Gran parte dei ragionamenti e riflessioni possiamo tuttavia in parte approfondirli volgendo lo sguardo verso il Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille, il quale mostra non poche “affinità elettive” con il Collectif Boxe. In origine, precari e disoccupati, rimandavano a due realtà distinte ma che a breve giro, sulla base delle non secondarie comunanze, si sono unificate. Questo percorso lo ascoltiamo attraverso le parole di L. B., infermiera precaria di una struttura medica privata, che del Collectif è una delle principali animatrici.

Tu sei una delle fondatrici del Collectif Autonome Précaires, su quali basi nasce questa esperienza?
Intanto nasce su base territoriale nel senso che la condivisione di una determinata condizione lavorativa l’abbiamo socializzata dentro il quartiere. Il nucleo originario del Collettivo nasce a Frais Vallon ma si è allargato abbastanza velocemente in altre zone e oggi siamo una realtà cittadina. La nascita territoriale è in qualche modo obbligatoria perché la precarietà rende, almeno inizialmente, praticamente impossibile organizzarsi sul posto di lavoro. Inoltre, cosa che non bisogna dimenticare, quando si parla di precarietà si parla anche di lavoro del tutto irregolare il che complica ancora più le cose. Prendere atto di una situazione collettiva è stato il primo passo per uscire da quell’individualismo a cui la condizione di precario conduce. La condizione precaria è una condizione che ti isola, che ti porta a pensare che solo tu puoi risolverti i problemi, che non esiste una condizione collettiva anzi, l’assurdo di questa condizione è che ti porta a vedere gli altri come nemici, come gente che può prendere il tuo posto e lasciarti senza lavoro. In quanto precario non hai alcuna possibilità di contrapporti, anche sulle minime cose, con il padrone. Devi accettare tutto, oppure andartene. Tieni anche presente che tanti precari hanno avuto qualche problema con la polizia e hanno precedenti penali e si ritrovano spesso con la polizia sul collo. Abbiamo costruito il Collectif per cercare di dare una risposta a questa situazione. Forse, però, prima bisogna dire un’altra cosa, il primo obiettivo che ci siamo posti è uscire dalla condizione di invisibilità sociale in cui la precarietà sociale ti obbliga. Questo ci è sembrato il problema di fondo. La condizione di precario ti relega nel mondo delle ombre, uscire da questa condizione è stato il nostro primo obiettivo. Oggi essere precario significa essere un marginale, un povero, un escluso e essere deprivati di una dimensione di classe. La stessa sinistra, basta pensare a ciò che è stato scritto in relazione alle rivolte delle banlieue, non parla mai di queste realtà come realtà di classe ma come luoghi della povertà e della marginalità. Pertanto, riacquistare una dimensione di classe, è stato il nostro primo obiettivo.

Quindi, per capirsi, la prima cosa che avete fatto è stato rovesciare le retoriche che, tanto a destra quanto a sinistra, fanno da sfondo a ciò che, nel passato, veniva chiamata questione sociale?
Esattamente. Rimettere al centro la questione di classe è stato il passaggio fondamentale per non cadere nelle trappole del sicuritarismo o del paternalismo assistenzialista che ne è l’esatto aspetto complementare. Il precario e il disoccupato sono considerati o come potenziali criminali o come soggetti da prendere in carico e disciplinare si tratta, cioè, di due forme di stigmatizzazione che deprivano il soggetto di qualunque identità. In questo modo tutta una fetta di società cessa di essere iscritta alla relazione capitale – lavoro salariato con tutto ciò che, inevitabilmente, ne consegue. Lottare come operai e proletari è stato il passaggio costruito dentro il Collectif.

Come si caratterizzano queste lotte e che tipo di strategia hanno?
Qua affrontiamo uno snodo essenziale che, secondo me, ha una valenza che va oltre la lotta in sé. Come si sa, per rimanere nell’ambito del precariato, gran parte di questa forza lavoro è impiegata in posti di lavoro non troppo numerosi, come per esempio la ristorazione o il settore turistico. Si tratta di aprire vertenze, con blocchi e picchetti, davanti a questi posti di lavoro e, al contempo, socializzare questa lotta con volantinaggi e megafonate per arrivare, in alcuni casi, a momentanei blocchi stradali. In questo modo si fa emergere l’invisibilità di questi lavoratori e si apre una vertenza. Coinvolgendo, almeno entro certi limiti, la città. Alla cosa si cerca di dare, chiaramente, la massima visibilità possibile ma anche la messa in campo di una forza rilevante. Per questo, nonostante si tratti di micro vertenze, mobilitiamo gran parte delle forze disponibili. Questo per due motivi. Per prima cosa un certo numero di persone presenti al blocco rende più sicuri i lavoratori scesi in lotta; secondo, questo modello, rompe concretamente l’isolamento in cui i lavoratori pensavano di essere. Se sei, per esempio, in dieci a lavorare in un ristorante e magari solo cinque o sei sono decisi a entrare in sciopero è normale che abbiano dei timori ma se vedono che una cinquantina di persone sono lì a sostenerli, la cosa cambia. Cambia per coloro che non hanno aderito, i quali magari cominciano a avere meno paura, cambia per il padrone che capisce che non può fare il bello e il cattivo tempo come gli pare. A ciò va aggiunto la cassa di risonanza che la lotta si porta dietro e che raggiunge anche altre situazioni le quali, a partire da ciò, possono pensare di mettersi in moto. Questo è ciò che la lotta in sé produce nell’immediato, poi vi è il resto.

Ecco, proprio questo resto sarebbe importante che venisse ben esplicitato.
Intanto c’è una considerazione che potremmo definire strategica e mi spiego. Sappiamo tutti benissimo quanto il lavoro sia frammentato e ciò, in una città come Marsiglia assume dei tratti macroscopici. L’idea, pertanto, di avere grosse lotte, se escludiamo gli scioperi generali ma quello è un altro discorso, è abbastanza difficile. Ciò che dobbiamo sforzarci di fare, questo il nostro obiettivo, è trasformare questa debolezza in forza. Se noi riempiamo la città costantemente di micro vertenze la rendiamo, di fatto, difficilmente controllabile. Sappiamo di non inventarci nulla di nuovo perché non si tratta di far altro che applicare nella metropoli imperialista attuale il principio della guerra nel deserto di Lawrence, ossia mille punture di insetto possono abbattere il rinoceronte. Alla frantumazione del lavoro dobbiamo contrapporre l’apertura di mille fronti. Mille fronti che, però, non rimangono isolati perché le vertenze non vanno viste come solo questioni sindacali ma come questioni politiche. Per questo, anche dentro la più piccola vertenza, cerchiamo di far convergere lì il maggior numero di militanti. In questo modo la vertenza diventa veicolo politico dello scontro tra le classi. Quella della separazione tra lotta politica e lotta economica, assunta in maniera rigida, è un retaggio tardo comunista che sicuramente non ci portiamo dietro. L’altro resto è dato dal giornale che stiamo provando a fare. Un giornale dei precari e dei disoccupati che metta al centro le lotte. Noi riteniamo che sia fondamentale avere un organo che amplifichi e metta in collegamento le lotte. Un giornale che esprima il punto di vista dei precari e dei disoccupati il quale diventa anche uno strumento finalizzato alla costruzione di organizzazione. Avere, chiamiamolo un “nostro giornale”, significa intanto avere una visibilità e rompere quindi le tante gabbie della marginalità ma, sopratutto, significa mettere in collegamento diverse situazioni ed esperienze. L’organizzazione non si costruisce a tavolino ma con e dentro le lotte.

A conclusione di tutto questo vorrei chiederti come siete arrivati a unificarvi con i disoccupati?
Si è trattato di un processo in gran parte scontato. La soglia tra precarietà e disoccupazione è quanto mai sottile per cui le due lotte sono molto simili. La condizione di disoccupato, e tieni presente che qua a Marsiglia è una condizione molto diffusa, è quella che conduce alle maggiori forme di marginalizzazione e criminalizzazione per cui esserci organizzati in quanto disoccupati ha voluto dire rivendicare, per prima cosa, la propria esistenza di classe una condizione che, per di più, tende a farsi tanto endemica quanto strutturale oltre che altamente funzionale all’attuale ciclo capitalista. È strutturale perché l’espulsione di forza lavoro stabilizzata è ormai un dato di fatto, funzionale perché dai disoccupati sono prelevate, volta per volta, quelle quote di forza lavoro momentaneamente necessarie per essere poi nuovamente confinate ai bordi della società. Il percorso dei precari e quello dei disoccupati, pertanto, non poteva che unificarsi. Va aggiunto, anche se questo è tutto un intervento da costruire, che la lotta dei disoccupati non può che affrontare anche la questione della militarizzazione del territorio.

In che senso?
I disoccupati sono identificati come classe pericolosa la quale è principalmente concentrata dentro determinate aree urbane le quali sono oggetto, in nome della sicurezza, di una massiccia militarizzazione del territorio. Ciò che stiamo vivendo è una guerra civile di bassa intensità condotta costantemente dallo stato imperialista nei confronti delle masse subalterne.

(3continua)


  1. Cfr.: E. Ciconte, Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi, Editore Laterza, Roma – Bari, 2022  

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Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/12/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-2/ Wed, 12 Apr 2023 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76426 di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico. Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto [...]]]> di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico.
Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto diventare un punto di incontro dei subalterni e non un ambito puramente autoreferenziale come succede alle “strutture sportive di movimento”.

Una differenza assai nota in Italia e che ha prodotto una radicale rottura tra il mondo delle “palestre popolari”, che hanno decisamente optato per un approccio “classico” all’attività sportiva, e quello radical e alternativo proprio dei “centri sociali”. Nel primo caso, come per esempio a Genova, Livorno, Roma e Palermo, si sono consolidate realtà di massa con non secondarie entrature nel tessuto operaio e proletario le quali si sono conquistate una certa fama portando alcuni atleti, nella boxe, nella muay thai e nel powerlifting a competere per titoli nazionali e internazionali mentre, nel secondo, la frequentazione non è andata oltre il ristretto numero di frequentatori abituali del “centro sociale” senza alcuna capacità di attrazione nei confronti dei mondi operai e proletari. Non è secondario rilevare come le “palestre popolari” conoscano una notevole frequentazione del proletariato immigrato il quale, all’interno di questi ambiti, ha l’opportunità di affiancare all’attività sportiva dei momenti di socialità che lo emancipano dai ghetti sociali ed esistenziali in cui è confinato un aspetto del tutto estraneo alle realtà radical e alternativa le quali, in linea di massima, sono frequentati da bianchi di classe media.

Il senso di ciò è spiegato e ben argomentato da V. L., uno degli istruttori della sala.

Intanto cominciamo con il dire che questo Collettivo nasce grazie all’iniziativa di un paio di ex pugili con una certa carriera agonistica alle spalle. Pugili che, però, oltre che atleti erano e sono comunisti. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo constatato che, per gli abitanti dei quartieri popolari, le possibilità e le occasioni di fare sport erano ridotte all’osso. Questo per tre motivi. Troppo onerosi i costi delle strutture private; percepite, e non a torto, come forma di controllo e disciplinamento coatto le poche e rare strutture pubbliche; culturalmente non proponibili le attività sportive alternative presenti nel variegato mondo della sinistra. Attività che sono svolte al di fuori delle federazioni sportive, senza sbocchi agonistici e prive di una qualunque serietà professionale e coeva disciplina atletica. Nessun proletario metterebbe piede in un posto simile perché ciò che ricerca è la possibilità di fare una attività sportiva vera nella prospettiva di poter diventare, come nel nostro caso, un pugile di valore. Con ciò abbiamo spiegato il terzo punto. Il primo è semplice poiché i costi delle nostre attività sono un quarto di quelli normalmente in uso nelle strutture commerciali. Il secondo punto è quello più importante e interessante. Possiamo dire che noi siamo un collettivo, per usare un’espressione ben nota a voi italiani, di boxe e di lotta, nel senso che non ci limitiamo ad allenare le persone e portarle ai campionati o dare la possibilità di svolgere una preparazione atletica anche a chi, per età, non andrà mai oltre a qualche round in allenamento, ma dentro la nostra sala svolgiamo anche attività politica e sindacale tanto che, proprio da qua, hanno preso forma, almeno in parte, le realtà organizzate dei precari e dei disoccupati che stanno conoscendo una certa espansione in città.

A questo punto dovresti dire qualcosa di più articolato sulla composizione di classe del collettivo e, in che misura, detta composizione riflette la realtà sociale di Marsiglia.
Marsiglia è una città dove l’indice di disoccupazione e precarietà è tra i più alti di Francia. Per molti questo dato oggettivo farebbe di Marsiglia l’elemento tanto anomalo quanto di retroguardia della società francese. Secondo noi, invece, Marsiglia racconta esattamente una storia del futuro. Disoccupazione e precarietà non sono una condizione anomala bensì la condizione in cui gran parte delle masse operaie e proletarie saranno confinate. Per questo i disoccupati non sono un’appendice della classe operaia ma sono classe operaia a tutti gli effetti. Disoccupazione e precarietà si intersecano perché il passaggio da una condizione all’altra è costante. Nel Collectif abbiamo raccolto per lo più, anche se vi sono presenti condizioni di maggiore stabilità, le tipiche espressioni di questa condizione e ciò ci ha permesso, insieme a militanti operai che provenivano da altre esperienze, di sviluppare un’attività politica e sindacale proprio a partire da queste condizioni.

Avete un qualche modello politico e organizzativo a cui fare riferimento?
Noi ci definiamo come collettivi autonomi, il che già dice molto. Come tutte le esperienze che vivono la realtà dell’oggi non possiamo certo pensare di riprodurre i modelli del passato anche se, in qualche modo, di queste esperienze teniamo conto. Non esiste una ortodossia dell’autonomia di classe, esiste l’autonomia della classe qui e ora. Se proprio vogliamo cercare un modello, noi siamo molto interessati a ciò che fa il Sicobas in Italia, soprattutto la sua sezione napoletana attraverso il “Movimento dei disoccupati 7 Novembre”. Ci ispiriamo anche al movimento americano per i 15 dollari, con il quale abbiamo dei contatti, e siamo attenti a ciò che si sta muovendo in Inghilterra sulla questione delle bollette. Infine, abbiamo un legame abbastanza stretto con esperienze similari alla nostra in Irlanda. Qua, in Francia, abbiamo legami stretti con realtà simili alla nostra a Parigi, Lione, Montpellier e Tolone. Stiamo ipotizzando di organizzare per la primavera prossima un’assemblea di tutte queste realtà, alla quale vorremo invitare anche compagni di altri Paesi, sicuramente il movimento dei disoccupati napoletani, in modo da costruire un coordinamento autonomo di realtà operaia e proletarie. Un’altra cosa che cercheremo di fare è di costruire un coordinamento nazionale delle esperienze sportive affini alla nostra. Alcuni nostri compagni, infine, lavorano anche dentro le strutture sindacali più tradizionali. In Francia i sindacati hanno perso gran parte dei loro quadri e dirigenti per cui, specialmente nelle strutture periferiche, vi sono parecchi vuoti che, in alcuni casi, siamo riusciti a riempire potendo così utilizzare una parte della logistica rimasta intatta.

Voi siete palesemente distanti dai vari movimenti della sinistra alternativa e antagonista. Che cosa rimproverate? Che cos’è che vi differenzia principalmente?
Direi, per semplificare, che a differenza di quella che comunemente viene definita sinistra radicale o antagonista, noi ci caratterizziamo per la nostra “centralità operaia”. Quando parliamo di “centralità operaia” non lo facciamo nel modo in cui lo fanno le varie sette comuniste ortodosse, per le quali la classe operaia è ridotta a icona fuori dal tempo e dallo spazio. “Centralità operaia”, per noi, significa partire dalla attuale composizione di classe, la quale, chiaramente, è il frutto delle trasformazioni economiche e sociali intervenute dentro il modo di produzione capitalista. “Centralità operaia”, pertanto, significa organizzare le lotte, dentro un programma comunista, di tutti quei settori operai e proletari che oggi vivono le contraddizioni maggiori della società capitalista. In una città come Marsiglia sono i precari e i disoccupati i settori sociali sui quali poggia l’attuale ciclo di accumulazione capitalista, sono questi i settori dove più alto è il tasso di estorsione di plusvalore. Questi settori, che la sociologia borghese definisce marginali e un marxismo da operetta sottoproletari, sono ormai una componente maggioritaria della classe, sono la storia del presente e non i residui del passato. Non sono i frutti indiretti della putrefazione imperialista ma i punti più avanzati della nuova organizzazione del lavoro. Questi settori sono socialmente esclusi e marginalizzati perché è esattamente questa la condizione normale nella quale la classe operaia è stata ascritta. Le lotte di questa classe sono ciò che ci interessa organizzare in una prospettiva comunista. Con ciò la differenza con quanto è definibile come sinistra radicale e antagonista appare sin troppo evidente. Quella sinistra e quei movimenti hanno come settori sociali di riferimento tutti quei corpi intermedi della società che possono vantare una sostanziale inclusione sociale, che sono estranei alla produzione di plusvalore e che, nei confronti della società presente, hanno a muovere una critica di natura prevalentemente culturale. Estremamente significativo il fatto che tutti questi movimenti eludono la questione della violenza e della forza dimenticando che, fuor di metafora, la relazione tra capitale e lavoro salariato è sempre una relazione di guerra. Una buona esemplificazione della linea di condotta di questi movimenti può essere il quartiere La Plaine: una sorta di gestione socialdemocratica dello spazio pubblico, costruita sulla precarizzazione del lavoro, fruibile a una certa tipologia di pubblico e che, nei confronti delle masse operaie e proletarie, mantiene meccanismi di esclusione e marginalizzazione del tutto in sintonia con quelli della società ufficiale.

Questo, in maniera molto sintetica, il frame entro cui si dipana l’attività del Collectif boxe. A un primo sguardo potrebbe sembrare che il Collectif sia qualcosa di “tardo operaista” oltre che l’eterna madeleine di qualcuno sempre alla ricerca del tempo perduto, ma le interviste che seguono smentiscono questa impressione. Ciò che emerge non ha nulla a che vedere con il “mondo di ieri” ma incarna il qui e ora delle determinazioni della classe, i suoi nervi tanto vivi quanto scoperti.
Il Collectif è frequentato da numerose donne, molte delle quali di origine araba, soprattutto algerine. Ciò ha fornito una buona occasione per affrontare la “questione di genere” nella sua più piena “materialità” e “concretezza”. Da tempo siamo sommersi da iniziative in “favore delle donne” o contro la violenza di genere, tanto che le dichiarazioni istituzionali in “favore e per le donne” conoscono una inflazione pari a quella seguita alla crisi del 1929, mentre le università un po’ in tutta Europa straboccano di corsi tenuti da “femministe radicali”. Tutto ciò farebbe presupporre che la “questione di genere” sia uno tra gli snodi essenziali delle agende politiche dei vari governi e, sotto tale aspetto, il governo francese sembrerebbe addirittura primeggiare. Questo, sicuramente, contiene più che un grano di verità anche se a uno sguardo minimamente attento non sfugge il prosaico fatto che queste retoriche hanno un qualche senso tra i mondi socialmente inclusi, ma risultano sostanzialmente ignote tra le donne appartenenti alle masse subalterne e marginalizzate. Un discorso che, per molti versi, vale anche per la “questione razziale” per cui essere donna e di pelle scura obbliga a fare i conti con una realtà dura, difficile e poco propensa a fare sconti. Mi è sembrato pertanto sensato provare ad affrontare, vista la disponibilità dimostratami, questi argomenti con alcune donne del Collectif.

La prima a parlare è Y. N., una ragazza algerina con alle spalle già più di venti match, con ambizioni di titolo regionale e possibile accesso ai campionati nazionali.

La prima cosa che vorrei chiederti è se e come tutto ciò che ha a che fare con il sessismo, la “questione di genere” ma anche, più in generale, con la sessualità e le sue forme, ha avuto un qualche ruolo nella storia e nelle pratiche del Collectif.
Forse, per prima cosa, occorre fare una premessa. In una attività sportiva e in questo caso il pugilato, soprattutto se praticata in forma agonistica, essere sportiva diventa la cosa fondamentale alla quale si aggiunge lo spirito di squadra per cui, ciò che conta, è essere il Collectif boxe: questa diventa la principale identità. Questo rende il contesto non immediatamente assimilabile al mondo che lo circonda. Inoltre, altro aspetto che non va trascurato, è che, nel Collectif boxe, il numero di donne pugili agoniste è molto numeroso per cui la legittimità del nostro ruolo non ha neanche troppo bisogno di essere posto in discussione. A me sembra che dentro il Collectif si sia raggiunta una sostanziale autonomia femminile la quale, questo probabilmente è l’aspetto che maggiormente ti interessa, non si limita al ring ma ha ricadute a più ampio raggio. Tutte noi viviamo dentro realtà sociali profondamente segnate dal sessismo, dal patriarcato il che, in non pochi casi, si traduce in violenza, sia fisica che psicologica. Dalla famiglia al lavoro passando per le relazioni amicali, sentimentali o semplicemente sessuali con queste cose hai continuamente a che fare. Molte di noi sono passate dentro questo tipo di esperienze. Alcune, forse le più, lo hanno vissuto in ambito lavorativo, molte in famiglia e non poche anche con il fidanzato o momentaneo compagno. La violenza fisica prevale nelle relazioni personali mentre in quelle pubbliche, come il lavoro, i gradi della violenza sono più sfumati. A tutto ciò, cosa non frequente ma neppure eccezionale, si aggiunge la violenza che puoi subire casualmente per strada o dentro un locale. Prima di ritrovarci dentro il Collectif boxe, e poter affrontare il problema collettivamente, ci pensavamo come vittime individuali mentre, attraverso la discussione, siamo giunte a una consapevolezza diversa e alla necessità di dover affrontare, rifiutando il ruolo di vittime, la questione in prima persona, senza delegare a nessuno questo compito. Solo la lotta autonoma delle donne può contrastare e ribaltare questa situazione.

Mi sembra che, su questo, vi differenziate di molto da gran parte dei movimenti femministi i quali, invece, tendono a vedere nello stato e nelle istituzioni dei validi interlocutori in termini di diritti e garanzie per le donne e, più in generale, contro ogni forma di discriminazione.
Sì, noi non abbiamo e neppure vogliamo avere nulla a che vedere con questo tipo di femminismo. L’oppressione di genere così come quella razziale e in gran parte quella di natura sessuale è frutto dello stato e del patriarcato che lo modella, non vi può essere lotta femminista se non vi è lotta contro lo stato. Il femminismo che si relaziona allo stato è il femminismo borghese ovvero quel femminismo che lascia intatte le coordinate del comando e del dominio perché vuole essere, a tutti gli effetti, parte attiva di questo dispositivo. Mi sai dire, secondo te, quanto cazzo le può fregare a una donna dei “quartieri Nord” di poter far carriera come dirigente in una multinazionale quando, nella migliore delle ipotesi, il suo orizzonte è quello di fare la barista saltuaria in un qualche locale e doversi continuamente difendere dalle manate sul culo del proprietario e dei clienti? Non credo che ci sia bisogno di dare una risposta. Per questo solo l’autorganizzazione autonoma, a tutti i livelli, può farci ottenere dei risultati. Solo un adeguato esercizio della forza può darci una serie di garanzie. La cosa è molto pratica. C’era una nostra compagna continuamente umiliata e maltrattata dal suo fidanzato. Lei aveva provato a mollarlo ma questo non lo aveva accettato. Per lui, lei era una cosa sua. Bene, un gruppo di noi è intervenuto, è questo è sparito dalla circolazione. Oppure, tanto per farti un altro esempio, in una impresa di pulizie il capo aveva provato a violentare una ragazza. Grazie alla sua reazione non vi era riuscito e così l’ha fatta licenziare. Anche in questo caso un intervento adeguato ha rimesso a posto le cose. Al potere dello stato e dei padroni, occorre contrapporre un’altra forma di potere.

Ti riferisci, a quanto capisco, a ciò che possiamo definire “autodifesa”?
Sicuramente sì, però su questo occorre essere molto chiari, e noi lo siamo. L’autodifesa non può essere uno slogan, una cosa detta tanto per dire, bensì una pratica organizzata. Questa presuppone, per prima cosa, il raggiungimento di una piena autoconsapevolezza e sicurezza di sé. Questo vuol dire essere in grado di gestire una situazione senza andare in panico. Un processo che potrebbe sembrare puramente individuale ma, al contrario, è quanto di più collettivo possa esserci. La sicurezza di sé la si raggiunge sapendo di non essere sole e quando dico non essere sole lo affermo a conti fatti. Io so che a qualunque cosa io vada incontro, questa cosa sarà assunta collettivamente e io non sarò sola. Quindi, l’autodifesa, non è un generico solidarismo ma una pratica che un determinato gruppo porta avanti. Questo è il cuore della questione. Tutto il resto segue a ruota. Pratica di autodifesa significa, per prima cosa, non percepirsi come vittima. In questo modo diventa possibile, per quanto difficile possa essere, ribaltare la situazione. In seconda battuta vi è, chiaramente, l’essere in grado, quindi avere la capacità fisica e tecnica, di affrontare una situazione. Sappiamo benissimo, però, che in molti casi tutto questo non basta. Queste sono condizioni sicuramente necessarie ma non sempre sufficienti. É a questo punto che interviene la dimensione collettiva in quanto esercizio effettivo di contro potere. E qua, per forza di cose, dobbiamo spostare il discorso sulla violenza e la sua organizzazione. Di ciò è meglio che ne parli con lei (indica la ragazza che stava seguendo l’intervista) che è la nostra comandante militare, se così la vogliamo definire.

L’intervista si sposta così su M. S., un’altra pugile del Collectif. L’intervista si mostra non solo interessante ma particolarmente densa poiché, oltre alla “questione di genere”, focalizza l’attenzione su razzismo e omofobia. A partire da ciò l’intervista apre su un insieme di questioni e scenari propri di tutto il movimento dei subalterni.

Hai ascoltato ciò che ci siamo detti. Potresti, a questo punto, spiegare meglio quanto, a grandi linee, ha detto Y. N. ?
Faccio una premessa. Oggi noi abbiamo una rete organizzata di auto difesa alla quale siamo giunte col tempo, dopo aver messo a confronto le nostre storie per scoprire così che quanto accaduto o stava accadendo a molte di noi non era una questione individuale ma, con sfaccettature diverse, le violenze subite erano il frutto di un sistema e di un modello politico e sociale dove l’oppressione di genere e il razzismo, i due aspetti vanno di pari passo, non sono una anomalia ma le basi stesse del sistema. É sulle donne, e per capirci meglio, le donne proletarie che si esercita la maggiore violenza. Se poi una donna non è bianca la violenza si moltiplica in maniera esponenziale. A ciò va aggiunta la violenza esercitata contro coloro che non rientrano nei canoni della eterosessualità. Dentro il Collectif abbiamo affrontato le varie facce di queste questioni e lo abbiamo fatto sia elaborando degli strumenti di analisi, sia organizzandoci per difenderci da tutto ciò. Sul piano dell’analisi siamo andate a riscoprire il marxismo e quindi la centralità che il modo di produzione riveste. Questo, sin da subito, ci ha differenziato molto dalle varie realtà femministe, ma anche anti razziste o legate al mondo LGTB. Ci ha fatto, cioè, ricondurre il tutto alla questione della classe e al ruolo che genere e razza hanno oggi nel definire la classe. Ciò ci ha portato a leggere il colonialismo nella contemporaneità e a vedere come questo oggi sia il modello dominante anche dentro le metropoli imperialiste. Questo significa che le forme proprie del colonialismo sono il modello oppressivo esercitato nei confronti delle masse proletarie e proletarizzate. Sessismo, patriarcato, omofobia, razzismo sono il mosaico che compongono lo stato e governano i suoi apparati. Da qui nasce l’esigenza di organizzare e praticare l’autodifesa.

Questo, concretamente, cosa significa?
Significa che per noi assumere la questione della forza è un tema centrale che non può essere eluso. Qua, soprattutto perché tu sei italiano e potresti travisare le cose, occorre essere chiari. Quando noi parliamo di forza e autodifesa, non stiamo proponendo una versione 3.0 della lotta armata. Non siamo interessate a una organizzazione che fa la guerra ma a delle pratiche organizzate che stanno dentro la guerra che ogni giorno, del tutto indifese, siamo comunque costrette a combattere anche se sarebbe meglio dire a subire. Ciò che dobbiamo diffondere è la capacità di lotta dentro tutte le situazioni che hanno a che fare con la vita concreta delle masse. Mao diceva che bisogna occuparsi dei problemi del riso e del sale, ed è esattamente questo che intendiamo come pratica di autodifesa. Dobbiamo costruire pratiche assolutamente riproducibili e che qualunque subalterno possa fare sua. In quanto gruppo di donne, di cui un certo numero lesbiche, abbiamo concentrato la nostra attenzione su persone e obiettivi che avevano avuto pratiche violente di natura sessista e omofoba nei confronti di qualche sorella ma anche in difesa di altre esterne al gruppo che avevamo saputo essere oggetto di una qualche forma di violenza. I posti di lavoro sono quelli dove la violenza, di varia natura, si manifesta costantemente. Sui posti di lavoro la violenza ha un carattere sia sessista che razzista e quindi non si focalizza unicamente sul genere. Questi sono luoghi dove più alto è il livello di discriminazione e sfruttamento oltre che essere posti dove il lavoro in nero è quanto mai diffuso. Sanzionare strutture e personale di queste situazioni rientra nelle nostre pratiche. Infine, e certamente non per ultimo, rimane il discorso legato ai comportamenti dei flics. Del razzismo e del sessismo tra questi mi sembra anche superfluo parlare. Ma i commissariati non vivono sempre notti tranquille…

Vorrei chiudere chiedendoti se, questa pratica, è pensata solo ed esclusivamente come pratica di donne oppure no.
Diciamo che, almeno all’inizio, siamo state molto rigide per cui eravamo solo ed esclusivamente donne. Questo era inevitabile perché, per prima cosa, dovevamo acquisire una consapevolezza che solo agendo in maniera separata potevamo conquistare. Non eravamo separatiste per principio ma dovevamo fare in modo che la nostra autonomia fosse tale a tutti gli effetti altrimenti avrebbe finito con il diventarne un surrogato. In seguito abbiamo allargato la nostra pratica anche ai maschi, anche perché alcuni terreni, come polizia e razzismo, non sono esplicitamente femminili. Diciamo che con i maschi abbiamo attuato un buon livello di cooperazione mantenendo tuttavia la nostra autonomia.

Secondo te questa chiamiamola “linea di condotta” può trasformarsi in pratica di massa o, almeno per tutta una fase, è destinata a essere una pratica di nicchia?
Io non credo che sia questo il modo giusto di porre la domanda. Questa domanda riflette, in qualche modo, una visione tardo comunista ossia che l’azione di avanguardia detta la linea alle masse. Come se, il discorso intorno alla violenza, fosse qualcosa che sta al di fuori delle masse. In realtà le masse vivono quotidianamente dentro relazioni violente, la violenza nei “quartieri Nord” fa parte delle normali relazioni sociali. Il problema, allora, diventa come indirizzare questa violenza. Ogni giorno, in città, vi sono centinaia di episodi che rimandano a ciò ma sono episodi che, per loro natura, rimangono fini a se stessi. Si tratta di trasformare tutto ciò in programma e organizzazione non certo di spiegare alle masse che cosa sia la violenza. La stessa cosa vale per l’illegalità. Questa è una città che vive di illegalità, questo è un dato di fatto, anche in questo caso, allora, non si tratta di spiegare alle masse che cosa sia l’illegalità ma di come sottrarre questa alle logiche del profitto a cui è legata e darle uno sbocco politico. Il che non può voler dire fare semplicemente delle attestazioni di principio ma risolvere, nella prassi, i problemi posti dalle masse. Con ciò, come vedi, torniamo a Mao e ai problemi del riso e del sale. I problemi del riso e del sale dentro una metropoli imperialista del XXI secolo.

(2continua)

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Genova 2001. Una storia del presente / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/03/06/genova-2001-una-storia-del-presente-2/ Mon, 06 Mar 2023 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76104 di Emilio Quadrelli

Stato d’eccezione

Veniamo così alla prima vera e propria giornata del Contro Vertice, il 20 luglio. La dinamica reale dei fatti, nonostante la morte di Carlo Giuliani, non sembra raccontare l’esistenza, da parte delle forze dell’ordine, di una strategia pianificata anche perché in virtù della dislocazione logistica delle manifestazioni non si mostrava realistica una pianificazione dell’attacco a tutto tondo. Troppe le manifestazioni e gli appuntamenti in giro per la città per poter pensare di trattarli come poi è avvenuto il 21. Diciamo che il 20 può essere considerato [...]]]> di Emilio Quadrelli

Stato d’eccezione

Veniamo così alla prima vera e propria giornata del Contro Vertice, il 20 luglio. La dinamica reale dei fatti, nonostante la morte di Carlo Giuliani, non sembra raccontare l’esistenza, da parte delle forze dell’ordine, di una strategia pianificata anche perché in virtù della dislocazione logistica delle manifestazioni non si mostrava realistica una pianificazione dell’attacco a tutto tondo. Troppe le manifestazioni e gli appuntamenti in giro per la città per poter pensare di trattarli come poi è avvenuto il 21. Diciamo che il 20 può essere considerato un prologo di quanto accaduto il giorno dopo ma un prologo che sicuramente ha avuto esiti contraddittori. Va rilevato infatti che, contrariamente a quanto per lo più raccontato dalla pubblicistica inerente ai fatti genovesi tutta incentrata sulla vittimizzazione del movimento, nel corso del 20 in non pochi casi non secondari spezzoni del movimento sono stati in grado di ribaltare i pronostici ovvero respingere gli attacchi delle forze dell’ordine, contrattaccare e colpire gli obiettivi che si erano prefissati. Il bilancio del 20, pertanto, non è così lineare e mostra come, a conti fatti, lo spazio metropolitano più che delle forze dell’ordine sia amico degli insorti. Ciò che sembra importante rilevare è come la giornata del 20, parafrasando Engels, abbia posto all’ordine del giorno una “nuova scienza delle barricate”1 in grado di scompaginare gli assetti militari delle forze dell’ordine. Volendo studiare, sul piano del “pensiero strategico”, quanto andato in scena il 20 luglio si potrebbe asserire che la tattica messa in campo da una parte neppure minimale dei manifestanti è stata una sorta di rivisitazione in chiave metropolitana della teoria militare di Mao e Sun Tsu2.

Quattro aspetti, in particolare, sembrano legarsi a ciò. Il primo, che assume una valenza strategica, consiste nel rovesciare completamente il frame in cui il nemico vorrebbe ascriverti ovvero prendere l’iniziativa anziché subirla quindi attaccare invece che difendersi. In questo modo, da un lato si assesta un colpo mortale di tipo cognitivo ancora prima che militare al nemico, il quale scende in campo per aggredire e non prende minimamente in considerazione l’ipotesi di essere esso stesso quello attaccato, dall’altro lo si obbliga a rincorrere in continuazione l’azione dell’avversario obbligandolo a improvvisare e impedendogli di ragionare strategicamente. Non è un caso che coloro i quali si sono mossi in una logica difensiva, anche provando a combattere, il 20 luglio siano stati massacrati. In seconda battuta l’utilizzo del territorio come risorsa. Palesemente gran parte dei gruppi che si sono battuti si sono “armati” utilizzando le cospicue risorse che la metropoli è per forza di cose costretta a fornire. Ciò ha finito con il ridicolizzare, più che le forze dell’ordine in quanto tali, l’organizzazione ipertecnologica della quale queste si fanno vanto poiché una strumentazione minima ha messo in crisi autentici Robocop e tutti i gadget a questi annessi. Il terzo elemento è stato dato dall’apparire dove le forze di polizia non se lo aspettavano, quindi agire velocemente evitando o limitando al massimo lo scontro diretto. Questa è una tattica classica del maoismo che si porta appresso un duplice effetto: colpire in piena sicurezza l’obiettivo ma, soprattutto, demoralizzare e frustare l’umore del nemico che si ritrova, di fatto, continuamente sotto scacco. Anche il quarto aspetto deve molto al maoismo. Chiunque presente nella giornata del 20 ha potuto facilmente constatare come i gruppi offensivi agissero più come plotoni che come armata ovvero marciavano divisi per colpire uniti. Il 20 il grosso dei feriti e dei prigionieri c’è stato proprio tra coloro che marciavano nei panni dell’armata la quale, in caso di attacco, avrebbe costituito la massa d’urto contro la quale le forze nemiche si sarebbero infrante. Gli esiti arcinoti degli eventi hanno dimostrato quanto irrealistica si mostrasse detta scelta strategica. A fronte dello strapotere tecnologico delle forze dell’ordine ogni anche coraggioso tentativo di difesa si è velocemente trasformato in una rotta senza capo né coda. Tutto ciò ha fatto sì che, nonostante la brutalità messa in campo e la pratica della tortura già in atto nei confronti dei prigionieri, la giornata del 20 possa essere archiviata come una giornata nella quale, per il comando internazionale del capitale molti conti sembravano non tornare. Significativo il fatto che di ciò praticamente non si parli, mentre centrale diventa il sottolineare il tratto repressivo della giornata e questo non tanto per colpevolizzare le forze dell’ordine bensì per cancellare dalla memoria l’idea stessa che lottare e vincere è possibile. Non per caso coloro i quali si sono battuti con successo sono stati bollati come provocatori, infiltrati, fascisti e via dicendo del resto è almeno da Piazza Statuto3 che questo ritornello, più ossessivo di un tormentone estivo, viene ripetuto.

Passiamo così alla fatidica data del 21 luglio. Questa è la giornata chiave del G8 genovese. Gli eventi sono di una linearità e semplicità sconcertante. Il calendario del Contro Vertice prevedeva un solo e unico appuntamento, un corteo che doveva partire dalla zona Foce4 e quindi attraversare un certo numero di vie cittadine. Nonostante quanto accaduto il giorno, non solo e soltanto in relazione alla morte di Carlo Giuliani, ma per il modo decisamente belligerante mostrato dalle forze dell’ordine, gli organizzatori ufficiali della manifestazione (ovvero il Genoa Social Forum) non adottarono nessun accorgimento di autodifesa anzi si adoperarono non poco per far sì che il corteo fosse del tutto “disarmato”. Se, per quanto in maniera grottesca, organizzarono una qualche forma di Servizio d’Ordine questo aveva il compito di isolare i “cattivi” e i “provocatori” dalla parte sana dei manifestanti. Un comportamento non così incomprensibile visto che la sera prima, di fronte al cadavere ancora caldo di Carlo Giuliani, i vertici del Genoa Social Forum si affrettarono a bollare Carlo come un “punkabbestia tossico” che nulla aveva a che vedere con la gran parte dei manifestanti. Palesemente per la dirigenza del Genoa Social Forum il problema non erano le forze dell’ordine, anche se sarebbe più sensato dire che il loro problema non era il comando internazionale del capitale poiché, in fondo, le forze dell’ordine non erano altro che il braccio militare di un cervello politico, bensì tutta quella componente dei manifestanti che il giorno prima aveva dimostrato di saper mettere i bastoni tra le ruote ai disegni del potere politico.

Il Genoa Social Forum si poneva dunque l’obiettivo di pacificare il corteo e, all’occorrenza, reprimere ogni pratica di attacco. Questo lo scenario nel quale precipitano circa 350.000 persone (questa la stima approssimativa dei partecipanti al corteo del 21) che intorno alle 15 iniziano a muoversi da Corso Italia verso Piazza Rossetti. Nelle prime 10/15 fila è concentrato il gotha del Genoa Social Forum distanziato di una ventina di metri dal resto dei manifestanti, metri che, col senno di poi, mostreranno di avere più che una ragione. Dal canto loro le forze dell’ordine, oltre a quelle tenute in riserva nelle immediate vicinanze del corteo, sono massicciamente dislocate di fronte al corteo formando un angolo retto tra Corso Italia e Piazza Rossetti dove, cioè, secondo il percorso concordato doveva svoltare e dirigersi il corteo. Altre forze visibili non sembrano essercene a parte alcuni elicotteri che svolazzano, però abbastanza alti, sul corteo. Repentinamente la testa del corteo, pressoché in solitudine, parte e, pochi metri dopo, svolta verso Piazza Rossetti mettendosi, apparentemente, in salvo. A quel punto, senza alcun motivo, tutte le forze dell’ordine schierate iniziano a sparare lacrimogeni, gli elicotteri si abbassano e anche da questi iniziano a essere sparati i candelotti mentre, come per magia, dai tetti delle case circostanti si materializzano non pochi tiratori che iniziano a fare il tiro al bersaglio contro il corteo. Questo, del tutto impreparato, sbanda paurosamente e fugge assumendo, per forza di cose, una forma goffa e scomposta. A quel punto il lancio di lacrimogeni si affievolisce e partono le cariche. Una quota di manifestanti cerca rifugio buttandosi sulle spiagge sottostanti e, a conti fatti, risulterà una delle peggiori soluzioni. Nessuno aveva fatto sicuramente caso ai gommoni che stazionavano sul mare o, se li avevano notati, pensavano che fossero i soliti gommoni che in estate pullulano nel mare cittadino. Su questi, però, non c’erano bagnanti ma forze dell’ordine le quali, appena iniziate le cariche, avevano fatto prua verso le spiagge pronte allo sbarco. Così, chi pensò di salvarsi sulle spiagge, si trovò chiuso a monte dalle cariche e a mare dalle truppe appena sbarcate. Questi saranno i primi a essere massacrati, catturati e torturati.
Il resto della giornata è un continuum di quanto appena raccontato. La Diaz5 sarà la classica ciliegina sulla torta che ben si coniuga con il prelievo e arresto dei feriti dentro gli ospedali, i lacrimogeni sparati contro le ambulanze e il sistematico pestaggio e arresto di chiunque non fosse in grado di correre abbastanza veloce. Anche se qualche forma di resistenza è stata tentata questa non ha avuto, e neppure poteva avere, alcuna incidenza sull’andamento della battaglia. Questa non poteva che essere persa in partenza poiché il modo stesso in cui la manifestazione era stata pensata e organizzata consegnava i manifestanti al nemico. Si potrebbe andare avanti ore a raccontare episodi della giornata il che, però, non modificherebbe di una virgola quanto sinteticamente descritto. La giornata del 21 vede il trionfo del Vertice nei confronti del Contro Vertice e questo è quanto.

Giunti a questo punto appare sensato provare a trarre qualche indicazione da quanto andato in scena. A molti, o almeno a quelli che per età anagrafica provenivano dagli anni Settanta, le prime cose che vennero in mente furono le immagini del golpe cileno. Una comparazione sulla quale si può ampiamente concordare poiché, nei nostri mondi, scenari simili non si erano mai visti e tanto meno dati neppure nel corso degli anni Settanta dove, per quanto di bassa intensità, l’Italia è stata attraversata dalla guerra civile. Il confronto con il Cile è quanto mai azzeccato ma non tanto per le forme di repressione riscontrate ma per ciò che queste ratificano nel rapporto tra classi dominanti e masse subalterne. A conti fatti, quanto osservato a Genova, in assoluto non è per nulla una novità, ma lo è se consideriamo il perimetro dell’Europa Occidentale e, più in generale, dell’Occidente nel suo insieme. Ciò che è andato in scena a Genova può essere considerato esattamente come la cifra della globalizzazione un’asserzione che, in prima battuta, può apparire come una boutade ma che, a uno sguardo minimamente attento, si mostra densa di non poco realismo. Ciò che è andato in scena nel corso delle giornate genovesi non testimonia niente altro che due cose: la fine della legittimità 6 storico–politica delle masse subalterne e, come diretta conseguenza di ciò, il venir meno di ogni forma di mediazione tra comando internazionale del capitale e quote sempre più alte di subalterni anche nei nostri mondi. In altre parole quel “patto socialdemocratico”7 che aveva caratterizzato il secondo dopo guerra dell’Europa Occidentale e, pur se con sfumature non secondarie, il mondo Occidentale è venuto meno. Nel momento in cui il mondo si è fatto uno a farsi egemone come modello di governo delle masse subalterne, attraverso un processo a cascata, non sono stati i diritti e le garanzie presenti in Occidente bensì le forme di dominio proprie di ciò che comunemente veniva definito Terzo mondo. A farsi egemone è stato un modello tipico del mondo coloniale dove, notoriamente, alle masse è riconosciuta voce ma non linguaggio8.
Con ciò viene meno il riconoscimento della dimensione politica dei subalterni la cui dimensione assume sempre più quella della “massa senza volto” e quindi deprivata di ogni spazio di mediazione politica e sociale9.

La topica colossale coltivata dalle organizzazioni del Genoa Social Forum è stata proprio quella di non aver letto l’oggettività di questo passaggio e aver tentato, su scala globale, la riattivazione di un “patto socialdemocratico” che il potere politico, però, non ha più nelle corde. Le giornate del G8 genovese hanno posto fine a un malinteso che il Genoa Social Forum ha coltivato, in maniera obiettivamente autistica, sino all’ultimo. Genova non ha significato la fine di tutto, la pietra tombale sul Movimento o il venir meno di ogni forma di resistenza e contrapposizione bensì l’inizio di una nuova fase del conflitto. Il G8 genovese ha sicuramente chiuso il capitolo del Novecento il che non vuol dire che abbia azzerato le contraddizioni del capitalismo e dell’imperialismo, semmai le ha amplificate. In questi venti anni abbiamo assistito a tutto tranne che a una qualche forma di pacificazione sia perché le tensioni interimperialiste hanno fatto precipitare il mondo in una guerra permanente dagli esiti incerti, sia perché movimenti di massa non secondari hanno e stanno scuotendo alla base gran parte delle certezze che l’era globale pensava di portarsi appresso. In tale ottica, allora, le ceneri del G8 sparse ai quattro venti non hanno nulla di funereo ma, con molto più realismo, appaiono come semi dell’Angelus Novus.

(Fine)


  1. Cfr. F. Engels, La questione militare e la classe operaia, Edizioni del Maquis, Milano 1977.  

  2. Mao Tse Tung, Problemi della guerra e della strategia, Casa editrice in lingue estere, Pechino 1968; Sun Tsu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano 2018.  

  3. D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Torino, Luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979; C. Bolognini, I giorni della rivolta. Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2018.  

  4. Zona immediatamente adiacente a Corso Italia situata in prossimità della zona Fiera e che può considerarsi come il luogo di balneazione del centro città.  

  5. Su questi eventi si possono, tra i molti, vedere: S. Mammano, Assalto alla Diaz. Stampa Alternativa, Roma 2009; A. Mantovani, Diaz. Processo alla polizia, Edizioni Fandango, Roma 2011; L. Guadagnucci, Noi della Diaz, Editrice Berti, Milano 2003.  

  6. Abbiamo provato a discutere e argomentate l’insieme di queste tematiche nei saggi raccolti in G. Bausano, E. Quadrelli, Classe, partito, guerra, Gwynplaine Edizioni, Camerano (AN) 2014.  

  7. Cfr. Thomas H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, a cura di S. Mezzadra, Editore Laterza, Roma – Bari 2002.  

  8. Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi 1995.  

  9. Ho provato a descrivere e argomentare questa condizione all’interno delle metropoli europei attraverso alcuni lavori di inchiesta in seguito alle “rivolte della banlieue” si veda, in particolare, Militanti politici di base. Banlieuesards e politica, in M. Callari Galli, (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007.  

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Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del [...]]]> di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del capitale nazionale e internazionale.

Si tratta della guerra esplosa nel Nagorno Karabakh, apparentemente tra le forze azere e armene ma, sostanzialmente, in nome dell’espansione del novello impero turco verso Oriente e del controllo militare, politico ed economico di una delle zone cerniera comprese tra il Medio Oriente e l’Asia centrale: il Caucaso. Ma non solo, poiché, l’opuscolo edito da Tabor mette bene in luce che:

nonostante lo scenario sia contraddittorio e intricato, nonostante non ci siano i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ciò nonostante la posta in gioco è chiara e inequivocabile. Due ragioni si affrontano sul campo: da una parte (quella azera e turca) c’è il diritto di uno Stato nazione
all’integrità del proprio territorio e all’imposizione dei propri confini; dall’altra (quella armena) c’è il diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa di un popolo che resiste a secoli di oppressione e di tentativi di genocidio1.

Poco dopo aver conseguito la propria indipendenza nazionale, all’inizio degli anni Novanta, il popolo armeno riuscì a conquistare anche l’indipendenza de facto dell’Artsakh, o Nagorno Karabakh, enclave armena montanara incastrata dentro i confini dell’Azerbaijan.
Oggi, dopo trent’anni, fomentato e sostenuto dall’espansionismo turco, l’Azerbaijan ha scatenato una nuova guerra di aggressione che, oltre a migliaia di morti e di sfollati, ha gettato le basi di una nuova pulizia etnica ai danni del popolo armeno, costantemente minacciato di genocidio. Così, mentre l’“Occidente” mostra la sua totale irrilevanza, la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin – come già in Siria e in Libia – si spartiscono le rispettive aree di influenza in quella vera e propria “linea di faglia” tra imperi che tornano a essere i monti del Caucaso.

Naturalmente, per comprendere a fondo le ragioni di questo conflitto e di questa resistenza all’oppressione che motiva il popolo armeno, occorre fare un excursus, per quanto breve, nella storia plurimillenaria di un territorio e di un popolo che passa attraverso la formazione ed espansione dell’impero ottomano, la sua dissoluzione con la prima guerra mondiale, lo scontro tra quell’impero e quello zarista sulla frontiera del Caucaso, le trasformazioni avvenute con le conseguenze della rivoluzione bolscevica e di quella nazionalista dei Giovani Turchi di Kemal Atatürk, i maneggi di Stalin per conservare il controllo della regione creando conflitti territoriali tra gli abitanti dello stesso e, infine, gli interessi legati oggi allo sviluppo delle vie del gas e del petrolio che vedono, per ora, Erdogan e Putin sostanzialmente alleati in gran parte dello scacchiere mediorientale e nordafricano, mentre l’Occidente è costretto ad assistere, anch’esso soltanto per ora, a ciò che avviene a causa delle proprie divisioni e della propria fame di gas e combustibili fossili.

Senza dimenticare che anche l’italietta entra indirettamente nel gioco, grazie agli accordi per il TAP, mentre la società turca Yildirim si è di recente assicurata il controllo del porto di Taranto in nome del controllo di quella Patria Blu con il cui nome la Turchia di Erdogan definisce tutto il quadrante del Mediterraneo orientale (e forse non solo).

Al centro, naturalmente, rimane il tema del genocidio del popolo armeno portato avanti a più riprese dall’impero ottomano prima e dallo stato turco poi, tra il 1870 e la fine della prima guerra mondiale, che ha visto non solo milioni di armeni cadere a causa delle iniziative militari e repressive, oltre che oppressive turche, ma anche costretti ad emigrare a causa delle stesse. Un “olocausto minore” avvenuto nell’Asia Minore che coinvolse in quanto vittime anche gli assiri e i greci dell’ Anatolia e del Ponto, soprattutto tra il 1914 e il 1923. Genocidio che per alcuni autori è possibile additare tra quelli ispiratori della Shoa proprio a causa del coinvolgimento o almeno dell’assenso dato allo stesso dagli alleati tedeschi2.

Una lotta infine che per svolgimento e ruoli non può che rinviare a quella del popolo curdo e, soprattutto, al Rojava. In un crocevia dove gli inteeressi di Russia e Turchia incrociano quelli dell’Iran e anche di Israele, visto soprattutto l’appoggio militare dato dalle armi israeliane all’azione turca sotto forma di droni killer. Una questione lunga e complessa, ma non per questo meno chiara, che questo saggio, apparso, in due puntate e in versione leggermente ridotta, su «Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna» (nei numeri 58 e 59, autunno e inverno 2020-2021), aiuterà il lettore a comprendere ancor meglio.

N. B.

Per eventuali contatti e per ordinare delle copie:

tabor@autistici.org – www.edizionitabor.it


  1. Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, p.4  

  2. Si veda in tal senso: Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, edizione italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2003, in particolare pp. 279-330  

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L’autodifesa come soggettivazione dell’oppresso https://www.carmillaonline.com/2020/08/14/lautodifesa-come-soggettivazione-delloppresso/ Thu, 13 Aug 2020 22:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61768 di Fabio Ciabatti

Elsa Dorlin, Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, 2020, pp. 304, € 19.

Il fuoco ha appena avvolto la stazione di polizia di Minneapolis in cui lavoravano gli sbirri assassini di George Floyd. Immediatamente si infiamma anche il dibattito: un coro di voci gracchianti si leva per condannare la violenza pur pretendendo, allo stesso tempo, di sostenere le ragioni della protesta. Ma è possibile mantenere il piede in due scarpe in modo così pilatesco? In fin dei conti anche il non violento Martin Luther King sapeva che il riot è il [...]]]> di Fabio Ciabatti

Elsa Dorlin, Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, 2020, pp. 304, € 19.

Il fuoco ha appena avvolto la stazione di polizia di Minneapolis in cui lavoravano gli sbirri assassini di George Floyd. Immediatamente si infiamma anche il dibattito: un coro di voci gracchianti si leva per condannare la violenza pur pretendendo, allo stesso tempo, di sostenere le ragioni della protesta. Ma è possibile mantenere il piede in due scarpe in modo così pilatesco? In fin dei conti anche il non violento Martin Luther King sapeva che il riot è il linguaggio di chi non è ascoltato.
C’è però qualcosa di più che si può dire. E lo possiamo fare utilizzando un libro della femminista francese Elsa Dorlin, da poco tradotto in Italia, Difendersi. Una filosofia della violenza. Secondo l’autrice una linea di demarcazione storica oppone i corpi “degni di essere difesi” a coloro che rimangono esposti alla violenza del potere dominante e alle minacce di una minoranza con il diritto permanente di usare impunemente le armi. Ciò pone la questione dell’uso della violenza per la difesa di ogni movimento di liberazione. Una violenza, è questo il punto, che è un momento essenziale per la politicizzazione degli oppressi. Di più, la soggettività del dominato si può costituire solo imparando a difendersi. Prima non esiste. 

Se il soggetto moderno è stato definito attraverso la sua capacità di difendersi, questa capacità di autodifesa è anche diventata un criterio utilizzato per distinguere i veri soggetti dagli altri, quelli che sono condannati a una “soggettivazione infelice”. Questi ultimi, infatti, più si difendono dalla violenza subita più diventano “indifesi o indifendibili”: indifesi perché incorrono nella reazione cruenta e sproporzionata di chi ha il monopolio legittimo della violenza; indifendibili perché ogni azione tesa alla preservazione di sé viene a priori interpretata come un’azione aggressiva, espressione di violenza “pura”.
Questi corpi vulnerabili, sostiene l’autrice, possono riscattarsi esclusivamente impossessandosi di tattiche difensive; attraverso, cioè, l’autodifesa propriamente detta, che è cosa opposta alla legittima difesa, giuridicamente intesa. Esiste pertanto una storia sepolta delle “etiche marziali di sé” che hanno attraversato i movimenti di liberazione.

Vediamo alcuni esempi tratti dal libro di Dorlin. Poiché gli schiavi africani deportati nel nuovo mondo non possono portare alcun oggetto atto ad offendere, possono prepararsi alla lotta solo attraverso danze i cui movimenti simulano le mosse di un  combattimento. In questo modo si manifesta la dinamica di uno scontro differito che si imprime nel corpo del colonizzato: un corpo in costante tensione, pronto a scattare appena si presenti l’occasione della rivincita, e per questo costretto nell’immediato, per immaginare una reazione, a rifugiarsi in una temporalità onirica. A partire da ciò si dispiega un processo di liberazione che, dovendo passare per una forma di sensualità scatenata, risulta inesorabilmente violento.
Con il secondo esempio giungiamo in Inghilterra ai primi del ‘900. Le suffragette inglesi si impadroniscono delle forme di combattimento personale che uniscono tecniche occidentali e orientali. Abbiamo a che fare con un tipo di combattimento che si basa su un principio di economicità in quanto gioca sulla sorpresa suscitata dalla reazione di soggetti presuntamente inermi e in quanto  ribalta sull’aggressore, che si presuppone fisicamente più potente, la sua forza. Non si tratta soltanto di affrontare la polizia e dunque di utilizzare uno strumento per raggiungere un fine, l’uguaglianza. L’autodifesa è un processo continuo di incorporazione e di realizzazione dell’uguaglianza. E’ una forma di politicizzazione dei corpi senza mediazione e senza delega che modifica i corpi stessi e il loro rapporto con il mondo.
Il terzo esempio è forse quello più noto. Le Black Panthers fanno dell’autodifesa armata una vera e propria bandiera per quanto adottino una strategia ultralegalista e rigidamente difensiva. L’autodifesa ostentata fa emergere una semiologia dei corpi militanti in lotta giocata sul fatto che ci sarà una reazione inesorabile a ogni colpo subìto, che ci si approprierà con la forza dei diritti negati. Il codice di abbigliamento (armi e basco nero) incarna un tipo di mascolinità in grado di trasmettere una potenza generatrice di orgoglio alla minoranza nera oppressa e un impulso potente di consapevolezza politica per chi ha da difendere solo un noi che è nulla e nulla possiede senza la prassi dell’autodifesa.

Si potrebbe obiettare che tutto ciò fa parte del passato oppure che non riguarda l’occidente democratico. Ma questa obiezione non tiene conto delle ripetute rivolte causate dalla brutalità delle forze dell’ordine in Francia, nel Regno Unito e soprattutto negli Stati Uniti. Torniamo dunque, insieme all’autrice, negli USA per notare come nella storia di questo Paese c’è un filo rosso che parte dal regime schiavistico e arriva fino ai nostri giorni. Una storia iniziata con la costituzione delle milizie difensive che, durante il periodo della colonizzazione, si appropriano di competenze giudiziarie e poliziesche, basandosi sul diritto all’autodifesa armata di ogni singolo cittadino. Nasce così il fenomeno del vigilantismo che finisce  per istituzionalizzarsi accanto al sistema giuridico, in nome della difesa di una minoranza coloniale bianca.
I vigilanti, o giustizieri, rifiutano ogni principio di equità e di presunzione di innocenza. Il loro compito è dare la caccia a chi è a priori colpevole, a chi appartiene alla categoria dei “nemici naturali”. Per difendersi contro il crimine è a priori legittima qualsiasi violenza, anche il linciaggio, pratica che viene incoraggiata dalla complicità dell’istituzione giudiziaria.
Veri e propri eredi del vigilantismo, i dipartimenti di polizia statunitensi applicano un doppio standard: uno esplicito, rispettoso delle regole dello stato di diritto, l’altro, appena dissimulato, modellato sulla prassi dei giustizieri. Questo secondo standard, negli USA come nel resto del mondo, sembra prendere sempre più piede come testimonia la progressiva militarizzazione di corpi di polizia (p. es. con l’utilizzo di armamenti da guerra e l’arruolamento di ex soldati) o la diffusione del modello securitario israeliano che, con una logica prettamente coloniale, presuppone la sfera civile quale spazio di violenza e pericolo permanente. 

L’applicazione di questa logica bellica all’ambito interno rimanda al fatto che il diritto di difendere la propria vita, nel soggetto moderno, è inestricabilmente legato a quello di difendere la proprietà. Se l’autodifesa è legittima solo per l’individuo proprietario, un capitalismo che, nella sua fase neoliberista, si basa sempre più su meccanismi di accumulazione tramite spoliazione sembra destinato a estendere il novero dei soggetti privati di qualsiasi diritto di proteggere la propria vita.
Dorlin mette a nudo il potente intreccio storico del classismo con il sessismo e il razzismo nella costituzione dei dispositivi moderni di dominio, concentrandosi sulle donne, sui neri, sugli ebrei (quelli che erano minacciati dalla violenza dei pogrom o dei nazisti, perché con la costituzione dello stato di Israele la situazione si ribalta). Ma i “corpi disarmati, violentabili” possono essere costruiti anche attraverso una logica meramente classista, come ci racconta, per esempio, D. Hunter nel suo Chav. Solidarietà coatta, parlando dei corpi dei proletari inglesi intrisi di connotazione di classe, svalorizzati in quanto privi di capitale e per questo passibili di essere comprati, venduti, imprigionati, picchiati, violentati (l’autore è comunque molto attento nel denunciare il patriarcato e il suprematismo bianco che aggravano pesantemente l’oppressione di una parte consistente della working class).

Decenni di egemonia incontrastata (almeno in Occidente) della borghesia ha intensificato un processo ben descritto da Dorlin. Il potere risparmia ai soggetti dominanti la fatica di conoscere l’altro e permette loro di concentrarsi su se stessi, riproducendo le condizioni materiali del proprio dominio. All’opposto, ai dominati è richiesta una continua attenzione nei confronti dei loro oppressori che produce un’approfondita conoscenza dell’altro. In questa conoscenza, però, è l’oggetto osservato a dominare a discapito del soggetto che, nel continuo sforzo di decifrarlo, diviene dimentico di sé e della propria potenza di agire.
Chi domina, dunque, deve andare a sbattere contro la resistenza attiva dell’oppresso. Inutile chiedergli con gentilezza una maggiore considerazione. Chi è oppresso deve ritrovare la propria capacità di agire sull’oppressore. E’ quantomeno ingenuo meravigliarsi del fatto che moltitudini di sfruttati americani (soprattutto neri, ma non solo) abbiano dovuto fare fuoco e fiamme prima di poter finalmente urlare “I can breath”.

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Tutta mia la città: appunti dalla mobilitazione di Centocelle https://www.carmillaonline.com/2019/12/21/tutta-mia-la-citta-appunti-dalla-mobilitazione-di-centocelle/ Sat, 21 Dec 2019 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56513 a cura di Azione Antifascista Roma Est

[Si è deciso di ripubblicare qui un intervento relativo ai fatti ed alla mobilitazione di Centocelle a partire dai roghi dei locali, in particolare della libreria La pecora elettrica e del Baraka Bistrot, che hanno posto il quartiere romano sotto i riflettori della stampa nazionale. Pur essendo passata la prima ondata di attenzione per gli avvenimenti specifici, ci sembra interessante riportare un documento che costituisce più un’analisi politica che una narrazione degli eventi e che, proprio per tale motivo, può rappresentare un utile strumento di riflessione metodologica e tattica per gli odierni movimenti [...]]]> a cura di Azione Antifascista Roma Est

[Si è deciso di ripubblicare qui un intervento relativo ai fatti ed alla mobilitazione di Centocelle a partire dai roghi dei locali, in particolare della libreria La pecora elettrica e del Baraka Bistrot, che hanno posto il quartiere romano sotto i riflettori della stampa nazionale. Pur essendo passata la prima ondata di attenzione per gli avvenimenti specifici, ci sembra interessante riportare un documento che costituisce più un’analisi politica che una narrazione degli eventi e che, proprio per tale motivo, può rappresentare un utile strumento di riflessione metodologica e tattica per gli odierni movimenti di resistenza e organizzazione sui territori.]

Quello che sta accadendo a Centocelle da alcune settimane ha colto tutti di sorpresa, dai tg nazionali ai politici improvvisamente vicini alla popolazione, dagli abitanti fino a noi militanti di zona e non solo.
Certo l’idea di un quartiere sotto l’attacco del fuoco di un nemico dai contorni sfumati lascia ampio margine a scoop, fantasticherie, dichiarazioni stampa e sussurri da bar. Ma ancora di più si vede che è attrattiva la capacità di un territorio di fornire risposte forti e determinate, quando si trova a reagire ad una palese aggressione alla sua incolumità. Due cortei, convocai nell’arco di tempi strettissimi, con una partecipazione non solo estremamente numerosa (circa duemila persone al primo appuntamento, circa cinquemila al secondo) ma anche variegata, meritano evidentemente di essere analizzati.
Noi siamo stati tra i primi a lanciare la mobilitazione e tra i primi a restarne sorpresi, non lo diciamo qui per arrogarci un qualche merito, ma crediamo utile condividere quanto abbiamo visto, sperimentato e colto come indicazioni da questa serie di eventi, che travalicano di molto la questione strettamente contingente dei locali incendiati producendo di fatto un’eccedenza. Quello che segue non è allora la nostra agiografia di una mobilitazione di cui stiamo ancora capendo i contorni, ma dei piccoli spunti che, almeno per noi, sono grandi lezioni di politica.

Cerca gli amici
Il nostro quartiere è un grosso quadrilatero con una lunga storia operaia e resistenziale, borgata popolare, covo di rivoltosi e banditi d’ogni risma, che tutt’ora, nonostante le trasformazioni urbane, vanta una radicata presenza di collettivi, spazi sociali, comitati, associazioni e reti organizzative. Uno dei primi percorsi che abbiamo intrapreso tempo fa, da gruppo politico antifascista quale siamo, è stato tessere un legame tra tutte le realtà che ci erano più vicine. Con esse è nata una rete antifascista territoriale, che ci ha permesso di stare sulle piazze e sviluppare una serie di iniziative sociali, nonché di ridare vita allo storico corteo del 25 aprile; abbiamo sopperito alla mancanza di forze di ciascuno unendoci come e quando possibile, a partire da un’analisi comune ma soprattutto da una condivisione di un metodo e di alcune pratiche. Lo abbiamo fatto mettendo da parte quell’attitudine movimentista, a guardare gli altri con sospetto, come fossero la concorrenza sleale della propria bottega, facendo un passo indietro davanti a differenze ideologiche spesso stridenti e scrollandoci di dosso, non senza fatica, la pretesa di stare sempre nei nostri panni rigettando quelli altrui.
Si dirà che una rete così eterogenea e centrata sull’antifascismo è poca roba, che non ha la possibilità di andare granché lontano o darsi chissà quale progettualità e forse è anche vero. Ma possiamo dire, ora con assoluta certezza, che mettere a valore (e non da parte) le diversità, partire dai limiti e intavolare ambiti di discorso franchi e costruttivi è un metodo che paga, che aumenta le capacità e che sedimenta una forza comune spendibile secondo le diverse occasioni o necessità.
Senza questa tensione a fare rete, non ci sentiamo sicuri di dire che l’appello alla piazza, fatto dalla mattina alla sera sull’onda dell’emergenza, avrebbe avuto lo stesso effetto; né crediamo che sarebbe stato possibile mantenere una relazione dopo l’accaduto con tutte le persone che abbiamo incontrato. Un conto è fare rete tra piccoli gruppi antifascisti, o connettere le realtà militanti presenti nello stesso quadrante della città; altro conto è riuscire a interagire con realtà territoriali, che agiscono su vari temi, anche molto diverse da noi e tra loro, come il comitato dei cittadini per la cura del parco, l’associazione dei commercianti o i genitori che si organizzano per occuparsi a vicenda ed in comune dei loro figli. Si tratta di esperienze organizzative diverse che per noi, però, rappresentano in egual modo ambiti di sperimentazione di quello, che durante i vari festival antifascisti fatti in giro per l’Italia dall’ anno scorso, abbiamo chiamato “antifascismo sociale”.

Esci dal guscio
Se ci siamo trovati spiazzati la sera del 6 novembre quando Piazza dei Mirti era strapiena di gente prima ancora dell’orario dato per il concentramento, figuratevi quando ci siamo trovati dopo il rogo del Baraka, a due giorni dalla prima Passeggiata, davanti ad una platea di abitanti che, non solo rifiutava compatta l’uso delle forze dell’ordine come soluzione del problema, ma si autoconvocava per il giorno successivo in un centro sociale, in cui molti non erano nemmeno mai stati (e questo a prescindere, di fatto, dalla stessa componente militante), per capire come portare avanti una mobilitazione a difesa della propria comunità.
Duecento persone di domenica pomeriggio hanno deciso di impiegare il loro giorno di riposo per stare oltre tre ore a parlare con degli sconosciuti di come fare fronte comune ad una minaccia concreta. Ne sono emerse posizioni differenti, idee contrastanti, visioni del mondo e del quartiere che difficilmente si sarebbero parlate altrove. Ma il vero dato comune uscito fuori, oltre le rivendicazioni particolari e l’ovvia attenzione verso quanto accaduto nei giorni precedenti, è stato il netto bisogno di confrontarsi: ciò che si coglieva in quell’assise era la volontà di ciascuno di uscire dal proprio guscio, di parlare con altri simili, di sentirsi parte di una comunità, di curare un aspetto della vita che è quello collettivo. Lo diciamo senza retorica: il bisogno esistenziale di sentirsi parte di qualcosa è molto più materiale e concreto di quanto possiamo credere. Ma come è possibile che da un giorno all’altro si siano spezzati il meccanismo della riserva indiana che vede i militanti rinchiusi nei propri spazi e nelle proprie certezze e l’indifferenza metropolitana che vede ognuno per sé e Dio per tutti? Come è accaduto che ci si sia trovati a discutere di negozi minacciati dalla malavita, di parchi sporchi e non illuminati, di centri sociali sotto sgombero e di riuscire a trovarsi d’accordo? Vero è che l’emergenza fa la famiglia ma, anche rispetto alle emergenze è bene assumere un comune atteggiamento ed una comune inclinazione: mettersi in ascolto, porsi in sintonia, ricercare un linguaggio comune senza imporre il proprio, mettersi in relazione con il territorio e con i bisogni condivisi di chi lo abita come noi. Insomma, scendere dal piedistallo prendendo parte e sentendosi parte, seppur da una chiara prospettiva di parte. Evidentemente, nello sforzo di fare rete e smussare gli spigoli di ciascuno, ci siamo educati (probabilmente anche in modo inconsapevole) ad avere un approccio laico alle cose della vita, a prendere ciò che il presente ci offre con minor ideologia e maggior pragmatismo. Avremmo potuto ignorare il bisogno di sicurezza classificandolo come istanza reazionaria, l’esigenza di parchi puliti e illuminazione catalogandola come velleità cittadinista, avremmo potuto misconoscere le indicazioni che il contesto presentava e tirare dritto per la nostra strada fatta di granitiche certezze e formule comode. Siamo riusciti invece a fare un passo indietro rispetto a noi stessi, mettendo da parte le nostre tipiche formule discorsive, le meccaniche di movimento, le posture da veterani del conflitto sociale e ci siamo posti all’ascolto, alla ricerca di un rapporto osmotico col territorio prendendo ogni spunto per quello che era: la legittima istanza di chi abita e vive il quartiere di Centocelle. Le persone che erano in piazza nelle due Passeggiate e che si sono sedute nelle assemblee di questi giorni hanno a cuore il loro quartiere e la loro comunità, è all’interno di questi elementi che esistono mondi interi: dagli spazi sociali sotto sgombero ai consultori chiusi, dalle vertenze lavorative ai parchetti puliti, dagli asili nido che mancano, ai migranti additati come capro espiatorio di tutti i mali del mondo, alla gentrificazione e giù fino ai commercianti in rosso. Abbiamo qui un inventario di lotte avviate o potenziali che aspettano di essere amplificate da un discorso comune ed ognuna di queste è in grado, in potenza, di innescare una reazione a catena una volta costruita una cornice di mutuo riconoscimento e una volta sviluppato un metodo di mutuo appoggio.
Come antifascisti, per essere un po’ più chiari, se avessimo parlato in assemblea di fascismo sistemico o di come il sovranismo stia prendendo piede nel mondo, avremmo trovato davanti una platea di sbadigli e occhi che roteano nervosamente cercando la via di fuga. Abbiamo capito infatti che non sempre il nostro punto di vista, se non declinato a partire dalle istanze sociali reali e dai bisogni materiali effettivi, riesce ad essere messo a fuoco. Parlando invece di un quartiere da difendere, di una comunità resistente da costruire, di un territorio da sottrarre alla militarizzazione, alla paranoia securitaria o alle passerelle elettorali piuttosto che alle ronde dei fascisti ci siamo messi in sintonia con molti altri.
Non siamo dei geni, non abbiamo avuto e non abbiamo tuttora la ricetta vincente, ma abbiamo dialogato con tante persone tutte diverse tra loro e da noi, quelle che spesso e volentieri ci sembrano così lontane, scoprendo che invece ci si intendeva perfettamente.

Drizza le orecchie
Possiamo dirlo, nell’epoca dell’indifferenza, l’ascolto è una virtù rivoluzionaria. E la frase ha più significati (escluso quello morale e cristiano che non ci interessa). Anzitutto combattere contro un nemico invisibile, come lo si chiama sui giornali adesso, impone una maggiore consapevolezza, non di meno, trovarsi di fronte ad una mobilitazione che giunge inaspettata rende imprescindibile sviluppare un’idea minimamente strategica. Usciti da una prima fase emergenziale non possiamo limitarci alle nostre ipotesi, quando diciamo che dobbiamo entrare in rapporto osmotico col territorio ed ascoltare le indicazioni che offre, questo intendiamo: dai nostri spazi e dalle nostre condizioni di vita non possiamo dare per scontato tutto ciò di cui ha bisogno un territorio, né le dinamiche peculiari che ne determinano le evoluzioni. Possiamo conoscerne il funzionamento generale e coglierne le necessità generali, ma non riusciremo mai ad operare un’azione capillare ed efficace se non mettiamo in moto l’intelligenza collettiva che raccoglie insieme i vissuti, le competenze e le conoscenze dirette di una molteplicità di attori che vivono e animano il contesto di riferimento. Tutti i frammenti che possiamo cogliere alla rinfusa sulla strada vanno messi a sistema in un caleidoscopio capace di offrire una visione stratificata e multiforme del campo d’azione.
Se questo si fa raccogliendo e ascoltando, un ulteriore passaggio si impone come necessario e conseguente: la centralità dell’inchiesta e del suo metodo diventano imprescindibili nel momento in cui si vogliano trasformare, secondo un ordine di priorità condiviso, i bisogni in un processo di lotte territoriali, in cui il piano dell’aggregazione viene spingendosi sul bordo della conflittualità sociale. L’utilità di un’inchiesta territoriale del resto, per noi, non è solo quella di sviluppare una capacità di cogliere la complessità del presente, quanto più quella di saper anticipare i processi, le tendenze e le trasformazioni in atto per uscire dalla dinamica emergenziale e resistenziale riuscendo invece a prevenire ed agire tempestivamente il reale.
Una comunità resistente deve sviluppare la capacità di individuare i suoi bisogni e di metterli a sistema, di comprendere qual’è lo spettro di indizi, quali sono i macroprocessi in atto che determinano una situazione specifica, quali le esigenze che emergono come prioritarie e come provare a soddisfarle, quali sono i suoi amici, quali i potenziali nemici, quali i metodi, i linguaggi, gli obbiettivi, ma soprattutto quali i mezzi e gli strumenti di cui si dota per raggiungerli.
È solo nella capacità di ascoltare e cogliere senza pregiudiziale ideologica ciò che il presente offre come campo di battaglia, che si possono operare fratture rispetto alla dilagante pacificazione sociale e aprire alle possibilità di trasformazione antagonista, senza paura di fallire o uscire dal nostro seminato. È necessario mettersi nelle condizioni di praticare l’impensabile, di essere dove nessuno si aspettava di trovarci e di farlo in maniera inedita ed anche spregiudicata se necessario.

Cogli l’occasione
Sapevamo benissimo, la mattina del rogo alla Pecora Elettrica, che si sarebbe scatenata una querelle di giornalisti, di politicanti, tuttologi, opinionisti e fascisti. E sapevamo che se non facevamo qualche cosa il discorso securitario avrebbe preso il sopravvento e ci avrebbe travolto con tutto il suo stuolo di cacce al “negro”, di ronde antispacciatori, di polizia e militari, di coprifuoco e telecamere. Del resto, un minimo di conoscenza del territorio, dei sentimenti e delle pulsioni latenti, della popolarità di cui godono alcune istanze reazionarie (si pensi al successo di Lega e Fratelli di Italia nel V Municipio alle ultime elezioni) anche nel quartiere di Centocelle, ci hanno permesso di giocare di anticipo. Si imponeva la necessità di difendere il nostro quartiere da quest’esondazione sempre più frequente di fascismo diffuso e sistemico. Si imponeva la necessità di riflettere e di agire quella temporalità che ci viene imposta dai ritmi frenetici della contemporaneità occidentale, in cui oltre a subire un quotidiano bombardamento mediatico sui fatti di cronaca, veniamo spesso sovrastati dagli eventi rispetto ai quali abbiamo difficoltà ad esprimerci e a prender parte. Agire in maniera efficace a partire da problemi sociali richiede, però, un certo tempismo e una certa puntualità dell’azione rispetto al sorgere di determinate questioni. Abbiamo allora chiamato a raccolta per una Passeggiata di Autodifesa, piuttosto che ad un corteo di solidarietà o altro, e lo abbiamo fatto in modo spontaneo e naturale di fronte alle telecamere, in giro per i bar e sulle chat di zona. Ci è venuto quasi automatico chiamare così la nostra modalità di stare in piazza, perché era di questo che sentivamo il bisogno come rete territoriale, ma questo sapevamo che era anche il bisogno delle persone intorno a noi.
Proprio per un approccio laico alle cose, abbiamo intuito (e non certo da soli né per primi) che quello della sicurezza è ormai un bisogno assodato, per quanto sia sicuramente un bisogno indotto o quantomeno amplificato dalla retorica politica e dalle campagne di isteria di massa dei media mainstrem. Inutile starci a dire quanto sia reazionario come discorso, di come sia il cavallo di battaglia della peggior destra e lo sdoganamento della guerra ai poveri. Tutto vero, ma è anche vero che il bisogno di sentirsi sicuri fa parte non solo della specie umana, ma di qualsiasi animale con un minimo di istinto di sopravvivenza e se il nemico ne ha fatta la sua bandiera ovunque, forse è bene levargliela di mano o quantomeno rendergli difficile usarla.
Nel camminare per strada dietro lo striscione Combatti la Paura, Difendi il Quartiere ci siamo attirati gli strali dei benpensanti che ci hanno dipinto come sceriffi allo sbaraglio, la critica di quella parte di movimento che vede l’autodifesa come una pratica contraddittoria e stridente rispetto ad una certa ideologia. In molti, tra cui anche gli amici, ci hanno guardato come si fa con un incorreggibile nipote che ripete l’ennesimo errore senza mai ascoltare i buoni consigli. Ma per noi, che ragionavamo su questo tema ormai da tempo insieme a molte realtà del territorio e ad altre diffuse in tante città italiane, si è trattato di agire per riempire uno di quei tanti vuoti politici a cui sono abbandonate le istanze sociali. Perché il vuoto quando non è organizzato, è sempre reazionario e viene colmato dal nemico. E dietro quello striscione c’era un intero quartiere, in tutte le sue più insospettabili componenti. Non abbiamo seguito nessun copione rodato ma evidentemente un’intuizione che, elaborata nel tempo ma agita tempestivamente, ha saputo incidere sulla percezione della realtà.
Siamo stati spregiudicati e abbiamo, volenti o nolenti, sparigliato le carte in tavola. Chi si aspettava di trovarsi una marcia per la pace e la solidarietà o, al contrario, una fiaccolata per la sicurezza e la segregazione, è rimasto deluso o allibito.
Tramite la difesa del quartiere abbiamo fatto capire molto chiaramente che non è accettabile, non solo che le vite di chi ci lavora o ci abita vengano messe a repentaglio da attività criminali di qualsiasi natura, ma anche che i processi di speculazione e messa a profitto incontrollata dei territori sul libero mercato e parimenti la militarizzazione delle strade, non siano soluzioni ma problemi enormi da cui difendersi. Centocelle è un quartiere con un suo tessuto popolare vivo e pulsante, è molto di più che una piazza di spaccio o una zona di struscio come dicono in tanti.
È quella dimensione comunitaria e resistente che vogliamo curare, proteggere e far crescere. Per questo diciamo che la sicurezza del territorio la fanno gli abitanti che lo vivono e si organizzano, che l’unica sicurezza possibile è la vivibilità di un territorio dove gli abitanti decidono del loro destino, dove non abita la paura e dove lo Stato piuttosto che proporre posti di blocco dovrebbe rispondere ai bisogni e alle necessità di chi lo abita. Ed avevamo ragione, perché se le istituzioni hanno risposto a questa chiara e diffusa presa di posizione blindando il quartiere e facendolo sembrare una zona di guerra con pattuglie e blocchi ovunque, gli abitanti hanno risposto puntualmente per strada e nei tavoli istituzionali che non è questo che ci interessa, che l’unica soluzione possibile è la costruzione di territori a dimensione umana. Non solo, di fronte alla sordità, all’incompetenza o ai tentennamenti dei rappresentanti delle istituzioni, si è reso evidente e lampante a tutti che l’unico modo per interagire ed ottenere risultati è la mobilitazione ad oltranza, la costruzione in autonomia di comunità resistenti in grado di determinare le scelte di campo.
Sempre in modo poco ortodosso abbiamo rotto un altro dei nostri grandi tabù da compagni, il rapporto con la stampa.
Ci siamo sovraesposti ai riflettori dei media mainstream in maniera forse spudorata ma consapevole. Di fronte all’imponenza della mobilitazione e all’attenzione mediatica, abbiamo colto la possibilità di inquinare il discorso mainstream ed imporre, per quanto possibile, la nostra narrazione al grande pubblico. Se in altri tempi avremmo cacciato i giornalisti dal corteo o ci saremmo limitati a guardarli male, questa volta ci siamo messi a favor di telecamera e l’abbiamo fatto in modo che sui giornali e nei tg si fosse costretti a guardare uno slogan di parte, a sentire le nostre voci e la nostra lettura della realtà. La televisione ha dovuto mostrare le bandiere rosso nere in testa ai cortei ammettendo, un po’ mestamente, che erano gli spazi sociali e gli antifascisti ad aver accolto la mobilitazione del territorio. Potevano parlare solo di pusher e polizia, sono stati costretti a parlare anche di comunità resistenti e tutta la penisola ha dovuto ascoltare e vedere quanto accaduto dalla prospettiva di chi lo ha veramente vissuto e non solo da quella distorta di chi vuole manipolare la realtà per imporgli il suo significato. La costruzione di immaginari vincenti passa anche e soprattutto attraverso la capacità di egemonizzare il discorso pubblico e che né Salvini né la Meloni, o chi per loro, abbiano speso una sola parola sulla situazione è indicativo dell’importanza della narrazione.
Del resto, viviamo un’epoca in cui l’immagine, la rappresentazione e la propaganda mediatica da strumenti del fare politica sono divenuti la politica stessa. E’ un dato di fatto con cui dobbiamo fare i conti. Tutto ciò che facciamo, perde forza ed efficacia se non siamo in grado di raccontarlo come vogliamo e crediamo noi. La propaganda tramite l’azione ci rende vulnerabili alla narrazione del nemico, l’assenza di propaganda ci rende invisibili. L’azione, la sua messa a sistema e la capacità di narrarla autonomamente, sono elementi basilari per la costruzione di una prassi efficace.
Dinnanzi alle precipitazioni del presente ci sono poche discussioni da fare, è necessario cogliere le occasioni appena si danno, occupare tutti gli spazi disponibili e imporre una narrazione di parte. Si è agito sempre nell’ottica di costruire una forma di resistenza a partire da un atteggiamento inclusivo, volto alla condivisione e all’ascolto. Non abbiamo seguito alcuna regola e forse ne abbiamo infrante alcune, ma…

Guarda lontano
È d’obbligo, in ultima istanza, comprendere che, oltre l’emergenza imposta ed affrontata, diventa ora fondamentale cogliere gli aspetti generali e macroscopici del discorso e delineare le traiettorie future.
Quello che è accaduto in questi giorni non è che una precipitazione assai grave e visibile di un processo di trasformazione che sta investendo Centocelle, ma che ci parla di una tecnica di governo dei territori riproposta in Occidente ormai su scala globale, non di meno, ci indica ciò che potenzialmente si agita in seno ad una comunità in divenire orfana di prospettive ed orizzonti riconoscibili.
Da quartiere popolare periferico come tanti, con l’inaugurazione della metropolitana e la più generale riqualificazione del quadrante est della metropoli, Centocelle ha visto modificare la sua geografia e il suo tessuto sociale molto velocemente: le principali piazze sono state completamente ristrutturate; nuove e più attrattive attività sono nate sul territorio, dai franchising ai fast food più commerciali, alla proliferazione di locali e boutique per la movida o lo shopping “alternativi”; una popolazione giovanile fatta di studenti e lavoratori precari si è trasferita a convivere con la popolazione autoctona dopo che i quartieri di San Lorenzo e Pigneto hanno subito una gentrificazione tale da rendersi sempre più elitari ed inaccessibili. Centocelle è oggi un quartiere in piena crescita e questo, oltre offrire possibilità di sopravvivenza e socialità a molti, attrae le avide attenzioni di affaristi, imprenditori e speculatori di ogni risma.
Dal canto suo, l’amministrazione cittadina (non solo Cinque Stelle) ha assunto una certa idea di “riqualificazione” dei quartieri come politica di governo e gestione della città. Ha favorito un modello gestionale tutto volto ad incentivare l’iniziativa economica privata, trascurando quasi del tutto le istanze ed i bisogni sociali di chi i territori li abita, così sventrando interi quartieri, trasformati in centri commerciali a cielo aperto, ed alimentando macroscopiche periferie sempre più amorfe e deprimenti, prive di spazi e riferimenti per la vita collettiva.
Si aggiunga a ciò che tutte queste trasformazioni avvengono all’insegna dell’ideologia del decoro, della lotta al degrado, traducendosi in una continua e pervicace militarizzazione dei territori che inonda le strade di forze armate acuendo una spirale di bisogni inevasi, tensioni interrazziali portate alle stelle, intimidazioni, stigmatizzazioni, espulsione e repressione di quei soggetti spinti sempre più al margine della società. Così, si approfondiscono in ogni territorio quelle micro-fratture che si fanno sempre più violente, fino a diventare una sorta di guerra civile a bassa intensità.
Crediamo che la risposta popolare che si è prodotta in queste settimane, sia non solo una dimostrazione di solidarietà attiva a coloro che hanno subito personalmente degli attacchi materiali ed intimidatori, ma che abbia aperto un vaso di Pandora che ha sprigionato energie rimaste a lungo compresse. Energie che si concretizzano, ora, nella volontà di organizzarsi assieme per far fronte alle comuni necessità. È chiaro a chi è sceso in strada, che il problema non è solo la malavita, ma la speculazione su questa città, l’amministrazione che la veicola, lo Stato che non offre soluzioni ma pattuglie e passerelle pubblicitarie, la distruzione delle comunità locali a favore del profitto di grandi ed oscuri interessi. C’è ora il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di costruire delle comunità che abbiano la possibilità di contare davvero e poter fare la differenza all’interno del proprio contesto. Si è vista la forza che è in grado di catalizzare su di sé una mobilitazione reale e sentita.
Non è un caso che dalla mobilitazione emergenziale ed emotiva, nata a partire dai roghi, è nata una Libera Assemblea dalla composizione ampia ed eterogenea. Un ambito di discussione e di organizzazione che vede uniti assieme abitanti, lavoratori, ristoratori, militanti, genitori e tanto altro. L’idea dell’autodifesa ha evidentemente coinciso con la possibilità di organizzarsi per poter decidere sul territorio e sulle proprie vite, quindi, con un’idea di autodeterminazione. La libera assemblea di Centocelle è pertanto un ambito che può crescere, radicarsi ed essere potente, solo finché ogni anima che lo compone avrà spazio per muoversi come più gli è congeniale. Se rimane, cioè, un luogo in cui sperimentare, condividere e contaminarsi a partire dalle specificità di ciascuno, mettendo in comune capacità organizzative e saperi militanti. Un contesto, per noi, da attraversare con lo stesso atteggiamento inclusivo, di condivisione e di ascolto proposto finora, che si ponga in un rapporto osmotico con i diversi bisogni e le diverse istanze di chi lo attraversa. Un ambito di relazioni che è necessario difendere da speculazioni varie, tutte volte a capitalizzare politicamente una comunità che viene, in senso elettorale e non.
Da parte nostra intendiamo attraversare questo spazio dalla nostra prospettiva di parte, muovendoci dentro ed attorno ad essa per costruire una comunità resistente che sappia essere determinante all’interno del processo di trasformazione che interessa il quartiere, a partire dai bisogni condivisi di chi lo abita. Una comunità resistente che sappia sviluppare un metodo, un linguaggio ed un immaginario comune per individuare con chiarezza i propri obiettivi e, ancora, rispetto a questi che sappia elaborare una “tattica di lotta multiforme”: ossia la capacità di esprimersi ed agire direttamente sui problemi che il presente impone, senza escludere aprioristicamente o ideologicamente alcun tipo di pratica, tenendo in considerazione invece le differenti sensibilità di cui si compone. Una comunità resistente che abbia la capacità di mettersi in relazione con altre comunità locali in lotta e che sappia concepire tutti i conflitti particolari come parte di una lotta complessiva entro cui riconoscersi e da cui trarre forza.

Combatti la paura, difendi il quartiere!

p.s. A tutti quei compagni che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e con cui abbiamo avuto la fortuna di ragionare e riflettere negli ultimi tempi. Consapevoli che senza di voi, senza i ragionamenti e le esperienze con voi condivise non avremmo avuto la stessa capacità, forza e determinazione per affrontare questo particolare momento e soprattutto di provare a resistere al buio e superare la notte. Nella speranza che arrivi il giorno in cui godersi l’aurora insieme…Grazie!

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Domanda: quand’è che un bambino non è un bambino? https://www.carmillaonline.com/2018/04/05/domanda-quande-un-bambino-non-un-bambino/ Wed, 04 Apr 2018 22:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44651 di Sandro Moiso

Mumia Abu-Jamal, Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere, a cura di Giacomo Marchetti, Mimesis 2018, pp.224, € 18,00

La risposta fornita da Mumia Abu-Jamal alla domanda è: “quando è un bambino nero” e forse in questi giorni verrebbe anche da dire “quando è un bambino palestinese”, ma l’affermazione, che è contenuta a conclusione del saggio “Tamir Rice of Cleveland”, scritto dal militante Black Panther nell’ottobre 2015 in occasione dell’omicidio per mano delle forze del dis/ordine di un dodicenne afro-americano che ‘brandiva’ un’arma giocattolo in un parco cittadino, può essere utile per dare la [...]]]> di Sandro Moiso

Mumia Abu-Jamal, Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere, a cura di Giacomo Marchetti, Mimesis 2018, pp.224, € 18,00

La risposta fornita da Mumia Abu-Jamal alla domanda è: “quando è un bambino nero” e forse in questi giorni verrebbe anche da dire “quando è un bambino palestinese”, ma l’affermazione, che è contenuta a conclusione del saggio “Tamir Rice of Cleveland”, scritto dal militante Black Panther nell’ottobre 2015 in occasione dell’omicidio per mano delle forze del dis/ordine di un dodicenne afro-americano che ‘brandiva’ un’arma giocattolo in un parco cittadino, può essere utile per dare la cifra di ciò che ha smosso l’animo di decine o centinaia di migliaia di afro-americani, oltre che dello stesso Mumia, anche in anni recenti.

E’ proprio a partire da considerazioni come quella appena esposta che diventa utile e necessaria la lettura del testo la cui recente pubblicazione è stata curata da Giacomo Marchetti, già distintosi, tra le altre cose, per la precedente traduzione e cura, insieme a Nora Gattiglia, dell’autobiografia di David Gilbert, militante dei Weathermen e del Black Liberation Army: “Amore e Lotta” (Mimesis 2016). Anche in questo caso Marchetti antepone al testo una dettagliata introduzione in cui il lettore potrà trovare una ricostruzione dell’esperienza come rivoluzionario e come pubblicista di Mumia Abu-Jamal, una delle voci più autentiche e sofferte dell’America di oggi e di ieri. Un autentico storico e cronista “dal basso” che potrebbe già essere definito tout court, come qualcuno ha già fatto, la voce dell’America.

Non solo dal basso, ma dal fondo del ventre della bestia, ossia da quelle carceri americane in cui l’autore è stato rinchiuso fin dal 1981 come autore dell’omicidio di un agente di polizia. Con questa accusa, mai provata con certezza e a dispetto della dichiarazione di estraneità al fatto sostenuta dall’imputato, Mumia fu condannato a morte e per questo rinchiuso nel braccio della morte per più di vent’anni, in cui oggi non è più detenuto poiché la sua condanna è stata trasformata in ergastolo a vita.

Wesley Cook, nome con il quale è stato battezzato alla sua nascita nella Philadelphia degli anni ’50, entrò giovanissimo nell’organizzazione del Black Panther Party e si mise da subito in mostra per il suo coraggio e per la sua indomita volontà nel perseguire, come giornalista, la verità dei fatti.
Nonostante le condizioni di isolamento e i maltrattamenti, paragonabili a quelli messi poi in pratica ad Abu Ghraib e Guantanamo, l’operazione di annichilimento della sua personalità e delle sue convinzioni politiche non è mai, neppure parzialmente riuscita e la sua opera di cronista della condizione afro-americana, sia in carcere che all’esterno, sta ancora lì a dimostrarlo.

Come afferma Marchetti nella sua introduzione:

“Negli Stati Uniti vive il 5% dell’intera popolazione mondiale, ma viene detenuto il 25% della popolazione incarcerata dell’intero pianeta – 2 milioni e mezzo di persone – di cui l’8,5% si trova in carceri private.
Di questi 2,5 milioni di detenuti, ben 900.000 sono costretti a lavorare in modo gratuito o per 15-20 centesimi l’ora, talvolta anche per dodici ore consecutive al giorno. Soprattutto negli ultimi anni, in cui i bilanci statali si sono ridotti, le carceri hanno lanciato nuovi programmi di lavoro sia all’interno che all’esterno.
Il lavoro in carcere è un ottimo affare per le grandi multinazionali, che possono sfruttare manodopera a bassissimo costo, ad esempio per assemblare prodotti per Walmart, confezionare il caffè per Starbucks, cucire vestiti per Victoria’s Secret o svolgere attività di call-center per compagnie telefoniche come AT&T. Pagare 20 cent all’ora invece che 5 dollari o non pagare affatto i lavoratori è un business appetibile sia per i governi che per le corporations, che annualmente ricavano dall’industria carceraria un volume di affari pari a 2 miliardi di dollari.
L’incarcerazione di massa e il lavoro pressoché gratuito nelle carceri hanno fatto assumere alla condizione detentiva un volto non dissimile dalla vecchia schiavitù”.1

Cosa che non tradisce affatto il tredicesimo emendamento della costituzione americana che recita così: La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.

Il testo oggi tradotto da Giacomo Marchetti e Marco Pellegrini è stato pubblicato inizialmente nel 2008 dalla South End Press e ricostruisce non soltanto i passaggi e i percorsi della vita dell’autore come militante rivoluzionario, ma anche il percorso di resistenza e lotta (spesso armata) che la componente afro-americana della società nord-americana ha dovuto condurre per la propria sopravvivenza e la difesa della propria dignità fin dagli albori del forzato trasferimento dei suoi componenti dall’Africa ai territori dei futuri, e attuali, Stati Uniti.

Come afferma ancora il curatore:

“Un grande merito di We Want Freedom è quello di collocare la storia delle Black Panther all’interno di un ciclo storico di resistenza che inizia con la riduzione in schiavitù dei Neri africani ma non si esaurisce con la dissoluzione del “Partito” nella sua forma unitaria, dopo le sue molteplici scissioni”.2

All’interno di queste vicende mi sembra particolarmente importante sottolineare e segnalare i primi due capitoli, in cui viene ricostruita la lotta degli afro-americani in un’ottica che un mai sufficientemente sopito democraticimo di maniera e non-violento ha spesso evitato di sottolineare: quella della resistenza armata e violenta contro il potere e le violenze degli oppressori .

Per diradare ogni possibile dubbio Mumia Abu-Jamal afferma:

“Per decenni, studiosi e storici hanno ignorato il BPP. Nel contesto della lotta e della resistenza dei neri non era il benvenuto, veniva considerato una sorta di figliastro.
Le onorificenze della lotta dei neri nel XX secolo sono andate tutte ai veterani del movimento dei diritti civili, simboleggiato dal martire Martin Luther King, accettato dalle élite bianche e nere. Il messaggio di perdono cristiano del Dott. King e la sua dottrina del “porgi l’altra guancia” tran¬quillizzavano la psiche dei bianchi. Per gli americani abituati al comfort, il Dott. King era soprattutto sicuro. Il BPP era l’antitesi del Dott. King.
Il Partito non era un movimento per i diritti civili. Non porgeva l’altra guancia. Era fortemente laico. Non predicava la non-violenza, ma praticava il diritto umano all’autodifesa. Aveva un orientamento socialista e rivendicava (dopo un plebiscito nazionale e un voto) la creazione di uno Stato-nazione nero, separato, rivoluzionario e socialista. Non tranquillizza¬va gli americani bianchi.
Per gli studiosi e gli storici della fine del XX secolo, il BPP rappresentava un’anomalia, non un discendente storico di una linea estremamente lunga di combattenti della resistenza nera. La storia degli africani in America è una storia di profonda resistenza, di tentativi di governo nero indipendente, di autodifesa, di rivolta armata, di aspre battaglie per la libertà. È la storia della resistenza contro l’in¬cessante incubo della “democrazia” della Herrenvolk (razza dominante) americana […]Le origini della resistenza possono essere ricondotte al 1526, quando da una nave spagnola carica di schiavi africani in catene ancorata nell’odierno South Carolina fuggirono quasi un centinaio di uomini. Questi uccisero molti schiavisti e fuggirono nelle dense foreste vergini per unirsi agli abo¬rigeni locali, vivendo liberamente come la loro razza non avrebbe potuto fare per i successivi 400 anni”.3

Gli episodi di questa resistenza costellano la storia degli Stati Uniti dalle loro origini e per i due secoli precedenti, fino ai nostri giorni. Insieme a questi episodi, però, si manifesta spesso non solo la volontà di liberare la popolazione afro-americana, ma anche una sorta di solidarietà con le popolazioni aborigene e, nonostante tutto, pure con gli strati più marginali della popolazione bianca.
Sotto questo punto di vista può essere d’esempio la storia della lunga guerra condotta dall’esercito degli Stati Uniti contro le tribù Seminole della Florida.

“Molti africani vissero liberi tra i Seminole, facendo da interpreti o guerrieri e alcuni divennero perfino capi. La libertà dei neri fu il motivo dell’allontanamento dei Seminole dalla nazione Creek e della formazione della tribù. Il trattato di Colerain del 1796 includeva un impegno per i Creek di restituire i fuggitivi neri ai proprietari, che però non vincolava i Creek che vivevano a nord del confine della Florida e i Seminole che vive¬vano a Sud dello stesso confine, i quali non si sentirono mai vincolati dal patto e questo li allontanò per sempre dai loro simili del Nord. Studiosi del calibro di J.Leitch Wright Jr. definiscono i popoli di questa regione col termine di Muscogulges, in parte perché parlavano la lingua Muskogee. Egli nota che il termine Creek è un termine inglese utilizzato per indicare i popoli che abitavano le regioni rivierasche del Sud-Est. Ana¬logamente, il termine Seminole è un appellativo spagnolo che deriva dalla parola cimarron, un termine ispanico-americano per fuggitivo.
Wright narra che gli “indiani neri” ebbero un ruolo cruciale nel rendere il territorio Muscogulge, o Seminole, un luogo di attiva resistenza per la libertà dei neri […]Molti americani conoscono la storia delle guerre “indiane”, ma pochi sanno che le battaglie più dure si combatterono nelle tre guerre contro i Seminole e che queste guerre furono combattute essenzialmente per la liberazione dei neri. Gli africani che combatterono dalla parte dei Seminole furono talmente tanti che il generale USA Thomas Jesup scrisse: «Questa, siatene certi, è una guerra contro i negri, non contro gli indiani»”.4

Nel 1851 l’ignobile Fugiti¬ve Slave Act (FSA) del 1850, che minacciava le vite e la libertà di tutti i neri, schiavi o “liberi”, sarebbe stata alla base della resistenza di Christiana, in Pennsylvania in cui l’azione di William ed Eliza Parker, coraggiosi combattenti e promotori dell’autodifesa armata dei neri fuggiaschi, ebbe all’epoca un esplosivo impatto politico e sociale.

“Ai primi di settembre del 1851 Edward Gorsuch, uno schiavista del Ma¬ryland, appoggiato da familiari, amici e un Marshal degli Stati Uniti, colpì il villaggio di Christiana, in Pennsylvania, per ricatturare molti schiavi fuggiti. Sfortunatamente per lui, le sue prede si erano stabilite in una comunità organizzata e armata che non aveva alcuna intenzione di permettere che i propri membri tornassero in catene.[…] I nove bianchi armati furono affrontati da cinque neri armati; quando Di¬ckinson disse al padre di lasciare perdere e tornare con cento uomini armati, William Parker gli rispose di portarne anche cinquecento. “Per prenderci vivi ci vorranno tutti gli uomini di Lancaster”. Eliza Parker poi chiamò gli altri del gruppo di difesa suonando un corno e lo US Marshal le sparò, mancandola. Il suono richiamò circa quarantacinque altri neri e contadini bianchi, quaccheri, armati. Eliza non solo chiamò aiuto, ma sostenne anche che bisognava resistere quando alcuni in casa vacillavano. Il marito più tardi scrisse che Eliza “afferrò una falce da granturco, simile a un machete, e dichiarò che avrebbe tagliato la testa a chi avesse tentato di arrendersi”. Parker raccontò anche i dettagli della sua lotta col testardo Gorsuch, che aveva evidentemente scelto la «colazione all’inferno»”.5

L’elenco degli episodi di resistenza e lotta, anche vittoriosa, contro l’oppressione razziale e padronale è lungo e non si può qui nemmeno riassumere. Basti sottolineare che sarà la rivolta di Watts, sobborgo di Los Angeles, nel 1965 a far esplodere ancora il problema delle disuguaglianze sociali, economiche razziali negli Stati Uniti e a rendere evidente ai giovani afro-americani come Bobby Seale e Huey Newton la necessità di auto-organizzazione politica e militare delle comunità nere e a rendere successivamente possibile la nascita del Black Panther Party e la sua rapida diffusione a partire dalla Costa occidentale a tutti gli altri stati dell’Unione.

Certo tale sviluppo politico non poteva essere disgiunto da quella guerra in Estremo Oriente in cui i soldati di origine afro-americana erano usati come carne da macello e, proprio per questo motivo, finivano col solidarizzare con i vietnamiti e uccidere, più spesso di quanto si racconti, i loro propri superiori in grado bianchi. Dando vita ad una solidarietà internazionalista che avrebbe poi contraddistinto nel tempo il Black Panther Party.

Le pattuglie armate del partito cominciarono a girare per le strade dei quartieri neri e delle città, a fare controinformazione e contro-indagini sull’operato violento della polizia e giunsero ad occupare simbolicamente il parlamento dello stato della California a Sacramento. Tutto questo era reso possibile non solo dalla solidarietà di chi sosteneva l’azione del partito e dei suoi rappresentanti, ma anche dal fatto che in California il possesso di armi era tutelato dalla legge dello Stato e le armi potevano essere portate in pubblico, purché non fossero nascoste. Come avrebbe in seguito affermato Bobby Seale: “Mostrammo al popolo che eravamo pronti a morire per loro”.

Prima ancora della nascita dell’organizzazione del BPP, nell’agosto del 1965 la rivolta di Watts aveva mandato in fumo 200 milioni di dollari di proprietà ma, anche se 35 persone erano morte sotto il fuoco della polizia, non era esplosa nel vuoto. Nel 1964 e 1965 rivolte violente erano scoppiate in ogni parte della nazione, mentre nel solo 1967 (ve la ricordate l’”estate dell’amore”?) il National Advisory Committee on Urban Disorders ne contò centoventitre, più o meno gravi. Circa ottantatre persone furono uccise con armi da fuoco, la maggior parte a Newark e Detroit. Il Comitato notò che “la maggioranza schiacciante delle persone uccise o ferite erano civili negri”.

Il recensore si ferma qui per lasciare al lettore la possibilità di continuare una lettura sorprendente sotto molti punti di vista. Soltanto una riflessione è ancora d’obbligo in chiusura: tenendo conto che la NRA (National Rifle Association) soltanto durante il governo repubblicano di Ronald Reagan si dichiarò favorevole ad una riduzione della diffusione delle armi negli Stati Uniti, per il timore di un ulteriore allargamento delle organizzazioni militanti nere, la questione delle armi riguarda soltanto la loro diffusione oppure chi le porta e perché?

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto» (Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America)


  1. Vogliamo la libertà, pag. 19  

  2. op.cit. pag. 20  

  3. Mumia Abu-Jamal, Gli inizi del Black Panther Party e la storia da cui è nato, in op.cit. pp. 41-42  

  4. op.cit. pp.51-52  

  5. pp. 59-60  

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