attentati – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Preludio ad una più ampia riflessione sulla disfatta afgana e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2021/09/15/prolegomeni-ad-una-piu-approfondita-e-meditata-riflessione-sugli-attuali-fatti-afghani/ Wed, 15 Sep 2021 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68172 di Sandro Moiso

[Quelli che vengono qui riproposti, come contributo ad una necessaria riflessione sul “caos” afgano, sono due scritti, riunificati ad hoc ma destinati originariamente ad uso interno di un ristretto numero di compagni provenienti dalla comune esperienza nell’ambito della Sinistra Comunista, prodotti a caldo, immediatamente dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Quegli attentati consistettero in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, che provocarono 192 morti e 2057 feriti. A seguito di questi il governo di Luis Rodriguez Zapatero, poi [...]]]> di Sandro Moiso

[Quelli che vengono qui riproposti, come contributo ad una necessaria riflessione sul “caos” afgano, sono due scritti, riunificati ad hoc ma destinati originariamente ad uso interno di un ristretto numero di compagni provenienti dalla comune esperienza nell’ambito della Sinistra Comunista, prodotti a caldo, immediatamente dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Quegli attentati consistettero in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, che provocarono 192 morti e 2057 feriti. A seguito di questi il governo di Luis Rodriguez Zapatero, poi insediatosi nella primavera di quello stesso anno, avrebbe decretato il ritiro delle truppe spagnole dal quadrante iracheno.
L’articolo che segue risulta dunque dall’unione dei due testi appena citati, intitolati rispettivamente “Ciò che non si può dire” e “Ancora su ciò che non può essere detto”, con alcuni necessari tagli e minime variazioni oltre all’aggiunta di due note di aggiornamento. Pur riferendosi a fatti correlati alla guerra irachena è parso utile sottoporli all’attenzione dei lettori di Carmilla, anche ad anni di distanza, per riportare l’attenzione sull’autentica trasformazione antropologica e politico-culturale intervenuta in Occidente nella percezione degli avvenimenti bellici e dei conflitti sociali successivamente all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. S.M.]

Di fronte ai fatti più recenti occorre dire l’indicibile, uscire dagli schemi, guardare alla storia futura.
Le immagini tragiche delle vittime, lavoratori e studenti, devono farci riflettere, così come quelle delle manifestazioni contro la violenza e il terrorismo, il cui significato reale potrà essere soltanto quello della difesa e del mantenimento dello status quo mondiale basato sulla supremazia dell’Occidente sul resto del mondo.

Il disordine regna oggi a Madrid e, forse, domani regnerà in Europa1.
Tutti chiedono ordine e democrazia. Indistintamente. Il solco è stato scavato. La strada senza ritorno imboccata.
Non solo, come sarebbe facile pensare, da coloro che hanno colpito le stazioni di Madrid, bensì dallo stesso proletariato europeo ed occidentale più in generale.

Il proletariato o lotta o non è diceva Marx. Oggi non solo non è, non solo spera di ricavare dalla repressione degli altri popoli un proprio miserabile vantaggio, ma è soprattutto vittima del proprio essere imbelle, della assoluta mancanza della propria coscienza di sé, dell’esser venuto meno qui, in Europa, a quelli che, forse un po’ troppo retoricamente, un tempo si ritenevano i suoi compiti storici. Per questo, come le immagini tragiche dei treni carichi di pendolari dimostrano, sarà come al solito il soggetto sociale destinato a pagare il prezzo più pesante della guerra che s’è iniziata e che non ha saputo contrastare. Pagherà di più in termini di vite umane, di crisi economica, di tagli a qualsiasi tipo di libertà d’espressione, opinione, di azione sindacale.

In compenso parteciperà incosciente e gioioso alla nuova Union Sacrée, senza contare che nel disastro infinito che ci attende sarà sempre più facile colpire un treno, un supermercato, un cinema che non la sede di una multinazionale o una base militare.
Ad ogni colpo in compenso si sentirà più offeso dai desperados della terra e più vicino ai suoi reali aguzzini. Ma tant’è, anche la plebe di Roma cadde sotto le spade dei barbari invasori ancora rimpiangendo il pane e il circo che gli venivano offerti dagli imperatori.

E da quando la nobiltà
Iniziò il servilismo ad amare
Iniziò la nobiltà
Con i servi a degenerare

Parafrasando i “Carmina Burana” si potrebbe dire che “da quando il proletariato / iniziò il capitalismo ad amare / iniziò il proletariato / con il capitale a degenerare”.
Quando si afferma, però, che il proletariato occidentale è degenerato non si intende parlare di un processo irreversibile, from here to eternity, ma solamente ed opportunamente segnalare l’enorme distanza che separa ormai una buona parte dei lavoratori salariati non solo dalle teoria rivoluzionaria, ma anche da un modello di riferimento antimperialistico ed anti-capitalistico.

Tale distanza, prevalentemente di carattere culturale più ancor che politico, è dovuta ad una miriade di fattori che sono da individuare in una serie di apparenti garanzie che il capitale sembra aver concesso ai più; alle speranze di gioia e ricchezza che questo ha saputo alimentare anche al di fuori delle promesse riformistiche; alle illusioni basate sulla proprietà privata e sulle sue magnifiche sorti e progressive, che sono state instillate in quella che dovrebbe essere la classe nemica, un tempo per antonomasia, attraverso ogni strumento e mezzo di propaganda politica e mediatica.

Certo ciò che ha funzionato di più è stato l’aver garantito ai più la panza piena e la capa coperta, apparentemente anche alle generazioni future. Che poi si sappia che le cose non stanno esattamente così, non vuol dire che sia facilmente comprensibile dalla maggioranza dei lavoratori e dei giovani occidentali. Gli ultimi trent’anni non sono passati in maniera indolore. Le idee socialdemocratiche e la propaganda del sempre pimpante (quando si tratta di cantare le proprie lodi) capitale hanno lasciato il segno.

E’ questo un fenomeno né raro né sconosciuto: basti pensare allo sciovinismo e al conservatorismo della classe operaia americana bianca nei contesto della guerra del Vietnam. Solo che ora tale fenomeno, grazie ad un trend economico che tra scosse e riprese ha tenuto fino ad oggi lo spettro della fame lontano dalle porte della maggioranza delle famiglie, coinvolge i lavoratori di tutti i paesi più ricchi (USA, Europa Occidentale, Giappone).
Tra ferie, TV, casetta di proprietà e welfare la classe s’è ulteriormente abbruttita, ma senza percepire più quella spinta che dal dramma o dalla festa può derivare: il dramma è lontano ed è festa tutti i giorni (soprattutto in TV).

Ora alcune cose stanno sicuramente cambiando, un’era di guerra e di crisi si è aperta, ma tutto ciò è percepito ancora come un pericolo che deriva dall’esterno della compagine nazionale ed istituzionale.
Non vi è comprensione per i moti degli altri popoli, se non come timore del pericolo rappresentato dalle loro migrazioni o dal loro terrorismo.
Non vi è più contestazione dei governi esistenti che non passi attraverso la prassi democratico-parlamentare o la denuncia del mal funzionamento delle istituzioni e dei governi.

La protesta è troppo spesso forcaiola, dettata da esigenze egoistiche, per di più accecata dal timore di perdere qualche privilegio o diritto, fosse pure quello di schiacciare la maggioranza dell’umanità altra pur di mantenere macchinetta, casetta, partitella, biciclettata salutista e lavoretto.
La scomparsa di un comune linguaggio di riferimento (magari anche solo vagamente classista), di prospettive anche parzialmente collettive, di idee di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, che non si basino soltanto sulla beneficenza e sulla solidarietà di stampo cattolico, e di qualsiasi riferimento alla possibilità, anche remota, di sostituire questo modo di produzione con un altro ha fatto sì che la situazione abbia subito un processo di reale imbarbarimento.

La violenza permea la vita della maggioranza delle famiglie, trasuda nei comportamenti sociali, nei rapporti tra individui e trionfa in quelli tra istituzioni e cittadini2, ma è vietato parlarne in termini politici: tutti sono diventati pacifisti e non violenti.
La sinistra democratica e quella sedicente antagonistica fanno poi a gara nel rimuovere il discorso sulla violenza, nel denunciarlo come il peggiore degli obbrobri, relegandolo tutt’al più ad un passato mitizzato, mistificato e neutralizzato (più o meno lontano: la resistenza, gli anni settanta) come un’icona da esporre durante la settimana santa.
In compenso i valori borghesi della tranquillità, della sicurezza, dell’ordine diventano autentici imperativi categorici.

Le stesse manifestazioni contro la guerra, lo stesso voto (di protesta?) spagnolo degli ultimi giorni avvengono non in difesa del diritto degli altri popoli di giungere ad una propria autodeterminazione nazionale né, tanto meno, per affermare che l’unico nemico che si ha è quello che ogni proletariato ha in casa propria, bensì piuttosto che la guerra e il disordine tocchino anche noi, ledano il nostro diritto alla vita e al benessere. Si protesta non per le sofferenze degli altri, ma soltanto per salvare i nostri ragazzi, a scuola o in divisa.

Tutto ciò pesa come un macigno non sui rivoluzionari, che di fatto non possono nemmeno accampare il diritto ad esistere, ma sulla possibilità di una ripresa classista delle lotte a carattere sindacale e/o internazionale. Non del tutto e per sempre, ma certo per un lungo periodo che solo un tracollo violento della potenza dominante potrebbe abbreviare.

Anche questo però senza reali certezze di sviluppo delle tematiche classiste nel seno del proletariato internazionale, poiché se da un lato quello occidentale si è allontanato da temi che dovrebbero essergli più cari ancora del proprio essere (Marx e Engels dicevano a proposito del proletariato inglese e della questione irlandese che un proletariato che non sa difendere i diritti degli altri popoli non sa e non può difendere neanche sé stesso) e quindi non sa più in qualunque modo appoggiare e consigliare i fratelli d’altro colore, dall’altro i proletari dei paesi oppressi, i dannati della terra, i contadini dei paesi in via di sviluppo o ancora soggiogati dall’imperialismo, non trovando sostegno e risposte nel seno delle metropoli, hanno rivolto la loro fede e le loro speranze verso altre bandiere e altre modalità organizzative.

Per questo si può dire che un proletariato (quello occidentale) che non riesce più a percepire la propria alterità rispetto al capitale è condannato a divenire vittime di sé stesso.
Di fronte ai dannati della terra i proletari occidentali non sono più altro che cittadini occidentali cui viene riconosciuto il diritto di morire come nemici tout-court.
E’ evidente l’imbarbarimento che tutto ciò provoca, la regressione politica a livello nazionale ed internazionale che ne è contemporaneamente causa e conseguenza, e non basteranno poche frasi fatte o slogan a superare questo stallo storico.

Quando tempo addietro si insisteva sulla necessità di intervenire nei movimenti post-Seattle, lo si faceva nella speranza che uno spiraglio si fosse aperto e che permettesse un minimo di propaganda antimperialista, ma Genova ha schiantato tutto: ha separato il grano dalla pula, i buoni dai cattivi. Da un lato oggi abbiamo i teorici del commercio equo e solidale o i vari forum passerella per leaderini e dall’altro una nebulosa variegata di giovani enragés che pencolano tra la galassia dei centri sociali antagonisti, spesso ancora troppo lontani tra di loro a causa di divisioni causate da frattaglie ideologiche che sarebbe bene superare, e l’iniziativa individuale votata alla disfatta. Motivo per cui non esiste più un mare comune in cui sperare di nuotare, ma soltanto una palude piuttosto inquinata e asfittica.

Un pericolo che, infine, si rischia di correre è quello di scambiare la difesa delle posizioni di rendita acquisite da alcuni settori delle classi medie come obiettivo (libertà e diritti individuali) di lotte passibili di conseguenze interessanti. Ma non è ancora giunto il momento della rovina delle mezze classi di cui si parlava in altri testi3 e così si rischierebbe soltanto di contaminare il ben poco che rimane (in termine di significato delle lotte) con richieste giustizialiste e piccolo borghesi spacciate come rivendicazioni per un ancora inesistente conflitto sociale allargato.

(Lettere ai compagni, primavera 2004)


  1. Come avrebbero confermato successivamente i due attentati di Parigi, alla redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio e al Bataclan il 13 novembre, del 2015 e quelli di Barcellona del 17 agosto 2017 – NdA successiva alla prima stesura dell’articolo 

  2. Si legga a tal proposito il bel libro di Michel Warschawski, A precipizio (Bollati Boringhieri, Torino 2004), nel quale l’autore, vecchio comunista internazionalista ebreo, descrive la deriva violenta della società israeliana degli ultimi decenni  

  3. Come la crisi del 2008 e quella successiva e attuale legata alle ristrutturazioni socio-economiche riconducibili alle conseguenze dell’epidemia emergenziale da Covid-19 hanno invece successivamente avviato – NdA successiva alla prima stesura del testo.  

]]> Complicità e silenzi. Perché non si ribellano al terrore? https://www.carmillaonline.com/2017/08/27/complicita-silenzi-perche-non-si-ribellano-al-terrore/ Sat, 26 Aug 2017 22:02:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40183 di Giovanni Iozzoli

Dopo ogni strage, si ripete purtroppo il medesimo scenario: ci si aspetta l’indignazione, la rivolta morale, perlomeno la dissociazione dagli stragisti, ma le comunità tacciono, imbarazzate, assuefatte, forse complici. Ci piacerebbe vedere la gente scendere in piazza, respingere le tesi farneticanti degli assassini, denunciare pubblicamente gli strateghi del terrore, invece niente: silenzio a Berlino, a Parigi, a Roma, come in tutte le grandi città europee. Intanto gli attacchi criminali contro gli innocenti si susseguono da anni, lasciando una lunga scia di lutti e distruzione.

Per capire le ragioni di questi silenzi, siamo scesi in strada, nei mercati rionali, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Dopo ogni strage, si ripete purtroppo il medesimo scenario: ci si aspetta l’indignazione, la rivolta morale, perlomeno la dissociazione dagli stragisti, ma le comunità tacciono, imbarazzate, assuefatte, forse complici. Ci piacerebbe vedere la gente scendere in piazza, respingere le tesi farneticanti degli assassini, denunciare pubblicamente gli strateghi del terrore, invece niente: silenzio a Berlino, a Parigi, a Roma, come in tutte le grandi città europee. Intanto gli attacchi criminali contro gli innocenti si susseguono da anni, lasciando una lunga scia di lutti e distruzione.

Per capire le ragioni di questi silenzi, siamo scesi in strada, nei mercati rionali, alle fermate dei bus, dentro i piccoli negozi, per intervistare direttamente le persone, quelle che vivono sulla loro pelle questa bruciante contraddizione: godere delle libertà e dei privilegi della democrazia e allo stesso tempo condividere cultura, valori e fede degli assassini. Sentiamole, queste voci angosciate. E interroghiamoci insieme a loro.

Ecco Carlini Mario, 66 anni, dall’aspetto mite di pensionato:

Lo so, ci dovremmo ribellare, dovremmo prendere le distanze ma, mi creda, non è facile. Sappiamo che i nostri governi, direttamente o meno, stanno scaricando migliaia di tonnellate di bombe su povera gente innocente; quando vedo le rovine che abbiamo provocato in medio oriente mi scappa da piangere; sono un nonno, penso a quei bambini sotto le macerie; dovremmo esigere dai nostri governi che smettano, ma come possiamo fare?

Ma perché c’è questa reticenza, perché è così difficile opporsi al terrorismo?

Risponde Ceruso Alfio, impiegato comunale, 49 anni; mentre parla, al bar, mantiene la testa bassa e si guarda intorno circospetto:

Lo sappiamo che i ”nostri” stanno facendo da 15 anni stragi orribili; ma qua non è più come una volta, c’è un clima di intolleranza, bisogna stare attenti a come si parla; io odio i terroristi, Bush, Obama, ora Trump e giù fino agli scagnozzi di casa nostra; odio i militari, odio i loro droni di morte, ma non possiamo contrastare queste cose più grandi di noi, i media raccontano che siamo in guerra e loro, gli assassini, si sentono più legittimati a colpire.

Si indigna Cuomo Raffaele, 71 anni, al rinnovarsi periodico delle accuse di connivenza:

Che dovremmo fare? Un miliardo di occidentali dovrebbero scendere in piazza ad ogni strage in Medioriente? Se un pazzo in America lancia un drone su una moschea in Afghanistan, io devo scendere in piazza e dissociarmi? Siamo stanchi di queste criminalizzazioni. Non tutti gli occidentali sono assassini. Lo so, lo so che abbiamo contribuito ad ammazzare centinaia di migliaia di persone, tra Iraq, Siria, Libia; lo so che sono “i nostri”, quelli che distruggono le nazioni, finanziano le stragi, lucrano sui morti. Ma perché devo sentirmi in colpa, per la violenza di una piccola minoranza? Non siamo tutti marines, non siamo tutti ministri, non siamo tutti produttori di armi. Abbiamo la nostra vita, non facciamo male a nessuno. Certo, quelli che uccidono sono cristiani, lo ammetto. Ma solo pro forma, perché sono stati battezzati. Magari qualcuno la domenica andrà pure in chiesa, va bene, ma non hanno capito nulla del messaggio evangelico, altrimenti non farebbero quei massacri. La Bibbia può essere manipolata a proprio piacimento, gli americani lo fanno spesso. Anche Hitler aveva fatto scrivere Dio è con noi sui mitra. È sempre la solita storia. Usano la religione per colpire i nemici.

Certo, non tutte le posizioni sono così chiare. Esiste un’area grigia di incertezza, che magari prelude al fiancheggiamento. Io stesso ho sentito qualche giovane radicalizzato giustificare i bombardamenti e persino l’invasione di un paese sovrano “se necessari a difendere i valori occidentali”. Posizioni minoritarie, estremiste, certo. Ma quanto realmente diffuse nell’opinione pubblica?

In proposito la signora Ferioli, parrucchiera, è tranchant:

Dovremmo dire basta, scioperare, bloccare le strade, imporre il ritiro dei nostri soldati da ogni teatro di guerra, smettere di finanziare guerre civili e terroristi, dovremmo uscire dalla Nato che è una macchina di morte. Abbiamo tanto sangue sulla nostra coscienza. Ma facciamo capire al mondo che non siamo tutti così. Certo, è difficile che una persona della mia età, sente di una strage in Yemen o in Iraq e si mette a manifestare contro il terrorismo imperialista. Ma i giovani? I giovani vanno educati a ribellarsi. Anche perché sono le prime vittime di questo clima di odio. Spesso, la mancanza di lavoro li porta ad arruolarsi, magari diventano militari e si ritrovano in qualche missione all’estero senza sapere neanche perché; li attirano con la prospettiva dei facili guadagni; gli riempiono la testa di messaggi sbagliati, parlano di crociate, di lotta alla barbarie, dell’esportare la democrazia. Tutti slogan per accalappiare i ragazzi, i più deboli ci cascano: ma mi creda, le comunità occidentali non sono schierate dalla parte della guerra e di chi la fomenta; noi occidentali vogliamo la pace e un mondo più giusto; non saranno un manipolo di assassini a compromettere i nostri valori e la nostra antica civiltà. E lo scriva, una volta per tutte: siamo stanchi che i musulmani ci chiedano di giustificarci ad ogni strage.

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Le sinergie pericolose https://www.carmillaonline.com/2016/07/27/i-parassiti-dellimmaginario/ Tue, 26 Jul 2016 22:03:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32214 di Mauro Baldrati

alienSei pagine. E il richiamo in prima. È lo spazio che è stato riservato, in uno dei maggiori quotidiani nazionali, al “caso” dei terroristi fai-da-te, o, più fascinosamente, i “lupi solitari”, che uccidono in varie parti del mondo prima di essere uccisi o di farsi saltare in aria. E la televisione ci va giù ancora più dura: lunghi servizi, con dovizia di particolari, interviste a esperti, reportages, gli immancabili dibattiti. E immagini, soprattutto immagini: foto, filmati dei guerriglieri che sollevano gli ak 47 (“le teste di stracci” li [...]]]> di Mauro Baldrati

alienSei pagine. E il richiamo in prima. È lo spazio che è stato riservato, in uno dei maggiori quotidiani nazionali, al “caso” dei terroristi fai-da-te, o, più fascinosamente, i “lupi solitari”, che uccidono in varie parti del mondo prima di essere uccisi o di farsi saltare in aria. E la televisione ci va giù ancora più dura: lunghi servizi, con dovizia di particolari, interviste a esperti, reportages, gli immancabili dibattiti. E immagini, soprattutto immagini: foto, filmati dei guerriglieri che sollevano gli ak 47 (“le teste di stracci” li chiama Alan Altieri in uno dei suoi romanzi apocalittici). E ritratti dei ragazzi (quasi sempre giovanissimi) che imbracciano un mitra, o un coltello, forse sognando di decapitare qualcuno perché, ci informano i soliti media, le liste d’attesa dell’Isis sono piene di aspiranti tagliatori di teste. Si riportano frasi a effetto dei video che gli stessi diffondono sui social, come quel ragazzo di 17 anni che voleva “scannare” tutti i tedeschi, o l’omicida-suicida di Monaco, 18 anni, in cerca, pare, di riscatto e di gloria.

L’episodio di Nizza ha particolarmente stimolato le menti febbricitanti dei giornalisti, dei ragazzi solitari che sognano la catarsi finale, in un bagno di sangue, e dei manager della multinazionale della morte.

Perché quella del terrore è un’impresa efficiente, un conglomerato che possiede tutti i moderni requisiti aziendali: ha dei finanziatori, degli sponsor, un’organizzazione che si decentra a seconda della necessità, dei reclutatori, dei corsi di formazione, una struttura finanziaria.

Se a qualcuno, sentendo parlare di “azienda” che produce terrore e morte, viene un sorriso amaro pensando a un macabro scherzo, invitiamo a considerare la seguente, semplice riflessione: la morte – l’omicidio – non è un semplice incidente ma è prevista nelle strategie aziendali. Spesso come effetto collaterale, ma anche come elemento strutturale della produzione. Gli AD e i direttori di molte imprese erano perfettamente a conoscenza, da decenni, degli effetti cancerogeni dell’amianto, eppure hanno continuato a sottoporre i lavoratori alle polveri, con premeditazione. Il risultato è davanti a tutti: ogni anno in Italia muoiono dalle 3 alle 4000 persone per l’amianto. Qualcuno, dopo lunghissimi processi, subisce una specie di condanna, che tuttavia non sconterà mai. Quanti attentati sono necessari per raggiungere questo dato? Ma non è finita. La delocalizzazione di molte imprese italiane, oltre a causare un grave danno al nostro/loro paese, creando disoccupazione, povertà e disperazione, genera sfruttamento nei paesi ospiti, e morti: sul lavoro, per la prevenzione inesistente, per le condizioni, le malattie. Tutti ricordiamo come a Dacca il crollo di un capannone ha causato la morte di 380 operai tessili. Poi ci sono i morti per incidenti sul lavoro, in Italia circa tre al giorno.

Ma il conglomerato della morte, come tutte le grandi aziende, ha un altro importante requisito: la pubblicità e il marketing. Sfruttando internet veicola filmati autoprodotti che rappresentano decapitazioni, torture, e omelie deliranti dei predicatori della strage. Tutte immagini che fanno il giro del mondo, suscitando orrore, ma anche voyeurismo macabro, nonché una preziosa esaltazione di menti disturbate, giovani sparsi per il pianeta che accumulano rabbia, frustrazione, odio, per la loro condizione di emarginati in un mondo che considerano ostile. Giovani che cercano di raggiungere i centri di addestramento, per combattere come “soldati” di una guerra senza fine, alcuni diventando kamikaze ansiosi di assassinare decine di persone prima di farsi saltare in aria o di essere abbattuti. Una “sindrome di imitazione” che si traduce in una sorta di riscatto finale preparato con cura, con l’ausilio di psicologi-predicatori che usano la religione per introdurre nelle loro menti un Pensiero Unico che prevede lo sterminio di tutti gli “impuri” .

Perché è forse questo l’aspetto più interessante dell’attività del conglomerato della morte: la natura e l’intensità del marketing. Non ha eguali in nessuna parte del mondo. Nessuna grande multinazionale può competere col suo marketing. Ha una straordinaria potenza dirompente, e una diffusione capillare che tutti gli altri operatori ammirano. E invidiano, perché ha una caratteristica unica: è completamente gratuito. I titolari delle aziende – di qualsiasi produzione si occupino – spendono milioni di euro o di dollari per pagine pubblicitarie, o spot di pochi secondi. Invece questi assassini specializzati hanno sei pagine di giornale e servizi di ore e ore sulle maggiori televisioni. Gratis. Sempre. Così dei giovani che si identificano coi loro coetanei ritratti con le armi in mano, sono pronti a diventare dei “lupi solitari” che possono aggredire qualcuno sull’autobus, in treno, al mercato, al grido di Allah Akbar! Oppure senza una caratterizzazione religiosa precisa, come il ragazzo che ha ucciso nove persone a Monaco. E i manager della strage sono pronti a farne “cosa loro”, capitalizzandone l’operato, anche se non li hanno mai sentiti nominare. Generano comunque senso di minaccia, ansia, terrore, che è la materia prima della produzione aziendale. Soprattutto è manovalanza gratuita, che deriva da un marketing gigantesco, persuasivo, altrettanto gratuito.

Sia chiaro, noi qui non sosteniamo che un attentato che causa decine o centinaia di vittime debba essere ignorato. Ma un conto è la notizia, l’analisi dei retroscena, forse delle cause, un altro è la sua continua, ossessiva spettacolarizzazione, indugiando su dettagli che si giustificano solo con la propagazione di un gossip mortifero che ha l’unico fine di stimolare le menti già scosse dei lettori/spettatori. Per non parlare della generalizzazione sbrigativa, con lo scopo di far rientrare il tutto in un plot sperimentato, per cui l’assassino di Monaco, nel frenetico “real” delle cronache televisive, era un “arabo”, invece l’eredità iraniana non è araba, ma scita (mentre come tutti sanno la matrice del terrore è wahhabita sunnita).

Insomma, è nata una formidabile alleanza tra due conglomerati, quello della morte e quello dei media, che porta enormi profitti a entrambi.

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