A/traverso – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A/traverso (a suo modo) una pratica dell’obiettivo https://www.carmillaonline.com/2017/05/12/38008/ Thu, 11 May 2017 22:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38008 di Gioacchino Toni

cover_Chiurchiù_La rivoluzione_è_finita_Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00

«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine. Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_Chiurchiù_La rivoluzione_è_finita_Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00

«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine.
Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere la gente a lavorare»

“Piccolo gruppo in moltiplicazione”, “A/traverso”, maggio 1975

La rivista nacque nel 1975, dall’eredità della controcultura e dell’operaismo degli anni Sessanta, ma al contempo si presentò come il simbolo di uno scarto nel mondo antagonista della sinistra extraparlamentare di allora. Una frattura sghemba, obliqua e anche ambigua, proprio come quella della barra che spaccava il titolo a metà e che si insinuava nel mezzo delle cose. La proposta era quella di mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio, di rideterminare l’ordine del reale utilizzando la scrittura […]
“A/traverso” è un oggetto alieno, oltre che per le sue fattezze anticipatrici delle fanzine punk, anche e soprattutto per il modo in cui, nelle sue pagine forma e contenuti si influenzano a vicenda, andando a costituire un messaggio che riesce sempre a travalicare la semplice trasmissione dell’informazione. È come se fosse in atto un instancabile tentativo di evasione, una costante, ostinata (e inattuale) spinta centripeta volta alla dissoluzione delle norme imposte dal discorso dell’ordine (pp. 5-7).

Nelle intenzioni di Luca Chiurchiù, autore del lavoro recentemente edito da Derive Approdi, il libro non vuole “tradurre” e “spiegare” i testi apparsi sulla rivista bolognese, quanto piuttosto capire se e quanto

i progetti della rivista abbiano trovato un vero riscontro, o meglio, se e fin dove essi siano stati capaci di promuovere il cambiamento che si prefissavano di operare in ambito espressivo e, per suo tramite, in ambito politico. Sconvolgere e rifondare il linguaggio per sconvolgere e rifondare la vita, scoprendo le sue infinite possibilità di libertà e di liberazione dal destino impostoci dall’alto del potere. Questo è stato il principale, utopico e impossibile obiettivo di “A/traverso” (p. 7).

L’analisi della rivista bolognese proposta da Chiurchiù prende il via dai debiti che essa palesa nei confronti delle esperienze delle avanguardie artistiche di inizio Novecento tanto per l’importanza assegnata da esse alla pubblicazione di riviste quanto per il loro aver rivoluzionato il periodico

affrancandolo per la prima volta dal suo specifico fine comunicativo. La rivista si è così trasformata in un supporto dove poter portare fino alle estreme conseguenze la loro sperimentazione programmatica. Da semplice contenitore, neutro e impersonale, essa è stata elevata a oggetto d’arte da plasmare e colorare, smembrare e riassemblare in continuazione. […] Le avanguardie hanno stravolto il periodico dall’interno, spodestando l’informazione dal suo ruolo di fulcro, mettendo in secondo piano il significato. […] La sovversione della gerarchia segnica, il rovesciamento e la confusione tra significante e significato sono le cifre identitarie di questi fogli (pp. 10-11).

Se da un certo punto di vista queste sperimentazioni di rottura nei confronti del linguaggio della stampa borghese, hanno permesso alle avanguardie storiche di infrangere il confine tra arte e vita, dall’altro hanno comportato un allontanamento delle riviste dal lettore. É da questo stallo che alcune esperienze maturate in quella sorta di “lungo Sessantotto”, protrattosi dalla fine degli anni Sessanta al termine dei Settanta, sono ripartite ricorrendo a modalità produttive e distributive autonome rispetto al sistema dominante. Si parla a tal proposito di “esoeditoria” indicando con tale neologismo, introdotto ad inizio anni Settanta, quelle esperienze editoriali autoprodotte circolanti negli ambienti politici ed artistici di movimento.

Chiurchiù passa dunque in rassegna alcune riviste che ritiene, in qualche modo, si possano collocare a monte dell’esperienza di “A/traverso”. “Quaderni rossi”, “Classe operaia”, “Contropiano”, “Quaderni Piacentini”, per fare alcuni esempi, vengono annoverate dallo studioso tra le esperienze editoriali espressione di “un luogo autonomo” di elaborazione politica al di fuori del circuito politico istituzionale.

Con il primo operaismo si sviluppa la pratica della “con-ricerca”, ossia dell’inchiesta nella quale le esperienze personali degli operai e le loro testimonianze dirette diventano parte integrante della comprensione “dal di dentro” dei processi di produzione e di sfruttamento. Seppur strutturate su un linguaggio ancora tutto intellettuale, e chiuse in un circuito distributivo ristretto, queste pratiche innovative di analisi in presa diretta […] trovarono seguito e sviluppo nelle riviste degli anni a venire, in favore di un sempre maggior interesse nei riguardi della soggettività operaia (p. 15).

Negli anni Settanta la soggettività del “qui ed ora” tende a sostituirsi in molti casi all’utopia di una società da trasformarsi in data a venire e le pubblicazioni periodiche provano a dare spazio in presa diretta a settori del proletariato giovanile. L’esperienza di “A/traverso” e di Radio Alice, secondo l’autore, rientrano in tale dinamica di riappropriazione della parola.

a_traverso___3446Non vengono tralasciate dallo studioso le riviste sorte attorno alla metà degli anni Sessanta nell’ambiente beat milanese come “Mondo Beat” e “Pianeta Fresco”, capaci di dar voce ad un immaginario altrimenti celato o distorto dalla stampa ufficiale. La rivista “Quindici” del Gruppo 63 viene invece indicata come esempio importante volto a rinnovare la scena letterario-culturale italiana altrimenti piegata – ed attardata – attorno ai canoni neorealisti cari al Pci.

Le pubblicazioni di Potere operaio e Lotta continua rappresentano una trasformazione importante all’interno dell’editoria della sinistra radicale. In particolare “Lotta Continua” viene indicata come esempio di sperimentazione e di rinnovamento linguistico teso tanto a rendere il linguaggio politico accessibile a larghi strati sociali, quanto ad assolvere ad una funzione di controinformazione in opposizione al monopolio informativo del potere. Nell’ambito delle esperienze editoriali alternative, il saggio affronta anche la parabola della rivista milanese “Re Nudo”, nata nel 1970, esempio di pubblicazione tesa al superamento della scissione tra politico e privato.

Da una parte, dunque, si fanno strada le voci delle nuove generazioni, sempre più insistenti riguardo i loro bisogni individuali e privati, in un processo simile a quello che si sarebbe concretizzato nella sezione epistolare di “Lotta Continua”. Dall’altra, in maniera opposta, trovano spazio nelle pagine di “Re Nudo” anche i primi comunicati delle Brigate rosse (p. 29).

Dopo aver ricostruito il panorama editoriale del periodo, Chiurchiù ripercorre la nascita e lo sviluppo nel corso degli anni Settanta di quell’autonomia operaia diffusa – entro la quale deve essere collocata l’esperienza del collettivo bolognese – ed il dilagare a livello sociale di fenomeni di “pratica dell’obiettivo”. Il bisogno di “autorappresentazione” di esperienze specifiche di lotta conduce non di rado alla creazione di pubblicazioni sostanzialmente autoreferenziali, volte non più a raggiungere il numero più alto possibile di lettori ma ad esprimere un’urgenza di comunicare con i “propri simili”.

“L’erba voglio”, “Rosso” e “A/traverso” rappresentano, secondo l’autore, alcune importanti novità nel panorama delle pubblicazioni degli anni Settanta. Della prima di queste pubblicazioni, che non appartiene all’area autonoma anche per motivi cronologici, viene messa in evidenza la capacità di dare spazio ad una pluralità di voci derivanti da ambiti decisamente differenziati. Del periodico milanese “Rosso” viene evidenziata la modalità comunicativa decisamente diretta e rude.

Chiurchiù giunge così, dopo una panoramica sull’editoria alternativa e sul mondo politico della sinistra radiale, ad affrontare la storia della pubblicazione bolognese “A/traverso” i cui animatori «si propongono di operare mediante il linguaggio, di trasformare il reale attraverso una pratica scrittoria liberata e liberante da qualsiasi schema preordinato. La prassi da testuale vuole farsi concreta, politica e quindi rivoluzionaria» (p. 39).

Se la maggior parte degli studi sistematici sulla rivista si sono concentrati quasi esclusivamente sul versante artistico/letterario, il saggio di Chiurchiù intende invece, e qua sta la vera novità proposta dal volume, di

riservare un’attenzione particolare ai fatti che segnano anche la vita della rivista bolognese, la modificano, le fanno prendere una determinata direzione durante il corso dei suoi numeri. Questo giornale è uno dei testimoni alternativi di ciò che accade in Italia nella seconda metà degli anni Settanta, ed è necessario inserire la sua analisi in un contesto storico il più possibile ben definito. La ricostruzione storiografica procederà quindi di pari passo con lo studio degli aspetti più innovativi, quelli legati all’anima avanguardistica del progetto, alla sua inedita concezione della pratica scrittoria e dei mezzi comunicativi, alla sua lettura semiotica del mondo e del potere. A fare da filo conduttore saranno le diverse tematiche in campo estetico e politico affrontate dal giornale e il loro sviluppo nel succedersi degli anni di pubblicazione (p. 41).

Il “piccolo gruppo in moltiplicazione” da cui nasce la rivista si colloca, come detto, all’interno di quella magmatica area dell’autonomia diffusa che, in quel di Bologna, si trova a fare i conti direttamente con la gestione del potere da parte del Pci. Nata nel 1975, presentandosi come supplemento a “Rosso”, la testata ha un’uscita estremamente irregolare e, secondo l’analisi proposta dal saggio, è nel 1979, in seguito agli eventi repressivi del 7 aprile calogeriano, che l’attività della rivista va pian piano spegnendosi. Sebbene il “periodo eroico” resti quello compreso tra il 1975 ed il 1979, l’ultimo numero esce nell’estate del 1981, salvo poi riapparire qualche tempo dopo sotto diverso formato prolungando la pubblicazione fino al 1988 a cui si deve, inoltre, aggiungere un’appendice in forma di piccoli quaderni in concomitanza all’esplosione del movimento studentesco della Pantera nel 1990.

La veste grafica ed il linguaggio di “A/traverso” riprendono sperimentazioni delle avanguardie di inizio Novecento, la tecnica del cut up e le fanzine punk anglosassoni. La scritta “A/traverso”, composta da Claudio Cappi, che assembla lettere ritagliate da testate giornalistiche come “L’Unità”, “il manifesto”, “Lotta Continua” e “Rosso”, ha nella barra divisoria diagonale l’elemento di maggior interesse come ha ben evidenziato Claudia Salaris nel suo libro Il movimento del Settantasette (1997); con essa, attraverso essa, viene scardinato il discorso a senso unico, si sabota l’univocità del linguaggio ufficiale. Per certi versi si apre il discorso in direzione polisemica rifiutando la grigia e servile monosemia propria del linguaggio strettamente funzionale.

Nel solco del rifiuto del lavoro praticato in fabbrica e fuori da essa da parte di quel proletariato giovanile reso/resosi estraneo al ciclo produttivo, l’innovazione tecnologica portata nelle fabbriche al fine di piegare la ribellione operaia, secondo il gruppo bolognese, sull’onda di un certo operaismo che recupera il Marx dei Grundrisse, può essere rovesciata al fine di limitare il più possibile il tempo in cui si resta confinati in fabbrica trasformando il (falso) tempo libero in libertà reale. Lavorare tutti ma lavorare poco, anzi pochissimo e magari lentamente.

Lavorare con lentezza / Senza fare alcuno sforzo / Chi è veloce si fa male / E finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto / e si può morire presto / Lavorare con lentezza / senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, / quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, / pausa pausa ritmo lento (Lavorare con lentezza, 1974, Enzo Del Re)

Secondo Chiurchiù il linguaggio di “A/traverso” insiste sulla necessità di «rilevare il meccanismo di espropriazione che il sistema compie nei confronti della produzione testuale e sovvertirlo, rimpossessarsi di ciò che ci viene tolto ogni volta in cui crediamo di comunicare […] Il mondo in cui viviamo è costruito su segni e simulacri, e il modo linguistico e logico con cui pensiamo è il solo modo con cui possiamo (ci è dato di) leggere (ma non scrivere) la realtà» (p. 87). É alla ricerca di un’alternativa a ciò che si impegna la rivista.

Nel 1976 il sottotitolo della testata si trasforma; da «giornale dell’autonomia» a «giornale PER l’autonomia» e ciò potrebbe essere letto, a parere di chi scrive, come l’intenzione di praticare l’obiettivo della liberazione del linguaggio, l’intenzione della rivista di farsi agente di autonomia e non portavoce di un’esigenza. «Distruggere il linguaggio codificato è dunque un modo per restituire parola al rimosso e a quei bisogni materiali che le istituzioni della politica stanno contraffacendo e mettendo da parte affinché non destabilizzino l’ordine delle cose» (p. 91). Un editoriale del 1976 è intitolato “Leggere nella merda”, riprendendo l’invito di Antonin Artuad di “leggere nella merda”, in tutto ciò che il sistema nasconde nell’emarginazione attraverso strutture come i manicomi, la scuola e la famiglia. La scrittura trasversale che intende praticare la rivista pare voler indagare ciò che la ragione capitalistica rifiuta in quanto contraddittorio; «è il nonsenso, è la gratuità, una sostanza che pulsa e non può né vuole essere resa valore, il corpo sottratto alla prestazione e al ricatto salariale, il desiderio che produce soltanto se stesso. Tuttavia, è solo là dove si odora la merda che si sente l’essere» (p. 91).

Chiurchiù si sofferma anche sul ruolo esercitato dell’Antiedipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari (uscito in Francia nel 1972) sul ragionamento portato avanti dal gruppo bolognese a proposito dell’occultamento

compiuto dalla psicanalisi e dal sistema in generale della macchina desiderante che è proprio un occultamento di di tipo codificante, significante, formalizzante. […] Il desiderio è schizofrenico, senza direzione né freni, il sistema capitalistico è paranoico, in quanto per esso tutto deve essere necessariamente ridotto a segno, a valore, a simbolo da poter ipostatizzare, immobilizzare nelle sue reti. Il desiderio è molecolare, scomposto e scontornato, le macchine paranoiche del capitale sono invece molari, compatte e strutturate (p. 93).

Occorre pertanto, secondo il “Piccolo gruppo in moltiplicazione” ridare voce al desiderio, rifiutando di uniformarsi alle macchine paranoiche, occorre delirare fino in fondo.

a_traverso___3456Se da un lato risultano evidenti i debiti nei confronti delle avanguardie storiche, secondo Chiurchiù il gruppo bolognese ne individua lucidamente anche i limiti; certo queste hanno operato per abolire la distanza tra pratica artistica e vita ma il loro sabotaggio nei confronti della società e della sua cultura ufficiale è ancora, tutto sommato, di matrice romantica in quanto gli esponenti delle avanguardie di inizio Novecento ritengono la loro attività ancora «indipendente rispetto ai processi di valorizzazione e, soprattutto, rispetto alla progressiva sussunzione di qualsiasi lavoro o produzione intellettuale da parte del capitale» (p. 96).

In sostanza le avanguardie storiche non comprendono che la loro azione resta comunque coinvolta nel generale processo di alienazione. Le stesse pur meritorie neoavanguardie degli anni Sessanta vengono accusate di non aver saputo uscire dal “laboratorio artistico” e “stilistico formale”. Nelle loro pratiche il mondo risulta comunque essere messo tra parentesi. É dal fallimento di quelle esperienze che occorre ripartire secondo “A/traverso”, dall’abbandono dell’illusorio laboratorio artistico e della pretesa indipendenza rispetto alla sussunzione della produzione creativa ed intellettuale da parte del capitale.

È su questa strada si arriva al mao-dadaismo ed a Vladímir Vladímirovič Majakovskij. Nel manifesto del mao-dadaismo, letto polemicamente nell’estate del 1976 in occasione del convegno di Orvieto della Cooperativa scrittori, all’ottavo punto è scritto: «Ripartiamo dalla lezione del dadaismo; ma quella separazione fra arte e vita che il dadaismo vuole abolire nel regno (illusorio) dell’arte, il trasversalismo la abolisce sul terreno pratico dell’esistenza, del rifiuto del lavoro, dell’appropriazione. Trasformazione del tempo, del corpo, del linguaggio» (p. 101).

Majakovskij è preso come punto di riferimento dal gruppo bolognese, sostiene l’autore, per il suo farsi promotore di una poesia capace di divenire pratica di massa, per il suo non essersi integrato al potere, per il fatto che è proprio nella sua partecipazione al processo rivoluzionario che

ha trovato il punto in cui la separazione veniva praticamente superata: tutta la forza-intelligenza che il capitale sottrae agli operai e cristallizza in forma di lavoro, tutta una creatività che il capitale riduce a spettacolo di fronte alla miseria del quotidiano delle masse, in quel movimento di massa che era l’ottobre Rosso esplodeva e travolgeva in cinto dentro cui la letteratura voleva stare rinchiusa. Produrre testi in piazza, dipingere di rosso la trasformazione della vita. Trasformare il colore della metropoli e il linguaggio di tutti rapporti, per rendere insopportabile la schiavitù capitalistica. Questa è l’indicazione di Majakovskij. La pratica testuale è così, in quei momenti, pratica creativa. Pratica creativa significa superamento reale (e non mera predicazione su questo superamento, o lamento della separatezza) della spettacolarità del testo e della miseria del quotidiano. Nel processo rivoluzionario, di liberazione della vita operaia dal lavoro salariato, diventa centrale la trasformazione collettiva del tempo liberato, dello spazio in cui si vive, del linguaggio (p. 103).

Nel volume si riportano anche le celebri letture proposte da Umberto Eco e Maurizio Calvesi del linguaggio del movimento della seconda metà degli anni Settanta e degli evidenti debiti di Bifo e compagni nei confronti di Guy Debord e di Jean Baudrillard. Nel saggio viene, inoltre, ricostruita la collaborazione romano-bolognese tra “Zut” e “A/traverso” che porta alla pubblicazione nel 1977 di “La rivoluzione. Finalmente il cielo è caduto sulla terra”. Nell’analizzare l’esperienza di Radio Alice Chiurchiù mette in risalto il suo aprirsi al flusso sociale, il suo lasciarsi attraversare da esso, il suo esserne parte.

Poi si arriva alla Bologna del marzo 1977, ai “fatti nostri”, come recita il titolo di un noto libro bolognese (“autori molti compagni”), ai blindati all’università, alla morte di Francesco Lorusso, alle barricate, ai botti ed alle botte, all’irruzione a Radio Alice. Poi è epoca di fughe precipitose verso il confine o verso la baiaffa, verso la solitudine e verso l’eroina. Poi è anche storia di oblio e di memorie selettive, di nostalgie reduciste e di silenzi assordanti calati su chi non ha finito di pagare il conto, di portavoce sempre in servizio e di riciclati facenti capolino negli anniversari comandati, di chi si è spento sul lavoro e di chi si è spento avendolo perso senza avere in cambio libertà, di chi è tornato a  chinare il capo ma anche di chi ha continuato a non farlo. La rivoluzione (è) in/finita (?)

 

 

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Pablo Echaurren, il movimento del ’77, gli indiani metropolitani e la “massificazione dell’avanguardia” https://www.carmillaonline.com/2016/10/11/pablo-echaurren-movimento-del-77-gli-indiani-metropolitani-la-massificazione-dellavanguardia/ Tue, 11 Oct 2016 21:30:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30706 di Gioacchino Toni

collettivo_rizoma_1977Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

Il saggio di Raffaella Perna su Pablo Echaurren si inserisce all’interno di un certo interesse critico che da qualche tempo indaga il rapporto tra arte e politica nell’Italia degli anni Settanta.

Sul finire del 1968 la rivista “Carta Bianca” presenta un numero intitolato “Contestazione estetica e pratica politica”, in cui viene indagato il rapporto tra i fenomeni di contestazione sociale e le nuove direttrici artistiche indirizzate a smaterializzare il feticcio-opera in favore di pratiche di comportamento tese a [...]]]> di Gioacchino Toni

collettivo_rizoma_1977Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

Il saggio di Raffaella Perna su Pablo Echaurren si inserisce all’interno di un certo interesse critico che da qualche tempo indaga il rapporto tra arte e politica nell’Italia degli anni Settanta.

Sul finire del 1968 la rivista “Carta Bianca” presenta un numero intitolato “Contestazione estetica e pratica politica”, in cui viene indagato il rapporto tra i fenomeni di contestazione sociale e le nuove direttrici artistiche indirizzate a smaterializzare il feticcio-opera in favore di pratiche di comportamento tese a far coincidere spazio della rappresentazione e spazio del vissuto quotidiano.

Nel corso degli anni Settanta non solo si susseguono diverse esposizioni che riflettono sul rapporto tra produzione artistica ed impegno politico ma anche il ruolo della critica viene messo in discussione. Le prospettive entro cui viene affrontato il rapporto arte/politica nel corso del decennio indagato da Perna sono molteplici: «gli artisti si interrogano sulle relazioni tra linguaggio, potere e ideologia […]; pongono in luce la distorsione dell’informazione e gli effetti del condizionamento mediatico […]; denunciano le disparità di genere e abbracciano il pensiero e la pratica femminista […]; inventano nuovi modelli di socializzazione e riappropriazione dello spazio urbano […]; danno vita a collettivi e spazi autogestiti e anti-istituzionali […]; collaborano con gruppi politici, sino al rifiuto radicale del sistema dell’arte a favore della militanza» (p. 8).

Il saggio qui preso in esame si concentra non tanto sui fenomeni di politicizzazione che toccano il mondo dell’arte e della critica, quanto piuttosto sul «fenomeno di recupero e riuso delle strategie artistiche della prima e della seconda avanguardia da parte dei gruppi antagonisti legati al movimento del ’77» (p. 10). Raffaella Perna si concentra su quel processo di “massificazione dell’avanguardia” che vede il movimento appropriarsi di pratiche proprie delle avanguardie, come il détournement, il collage, l’happening al fine di sottrarsi dai, e contestare i, linguaggi dominanti.

«La sperimentazione artistica fuoriesce dal laboratorio ristretto dell’avanguardia per divenire patrimonio condiviso dalla massa di studenti, giovani lavoratori precari e proletari scolarizzati che compone il movimento. Questo libro intende riflettere su tale fenomeno, concentrandosi in particolare sulla vicenda artistica di Pablo Echaurren colta negli anni tra i 1970 e il 1977: verranno presi in esame i legami dell’artista con la sinistra antagonista e la sua attività militante, che si traducono in centinaia di immagini e illustrazioni – spesso presentati in forma anonima e collettiva – su quotidiani, riviste e volantini legati al movimento del ’77» (p. 10).

echaurren_perna_coverDopo una prima fase (1970-1976) contraddistinta da esposizioni in gallerie e musei, a partire dal 1977 Echaurren, convinto che l’arte debba essere un mezzo e non un fine, abbandona il circuito artistico preferendo mettere la sua creatività al servizio dei movimenti antagonisti. I primi rapporti tra l’artista e l’ambito politico del movimento si danno ben prima dell’abbandono del circuito artistico ufficiale; risalgono al 1973 le prime illustrazioni per “Lotta Continua” ed al 1976 le tante copertine realizzate soprattutto per l’editore Savelli.

Tra le tante esperienze editoriali che hanno voluto e saputo coniugare le istanze politiche rivoluzionarie con il rinnovamento dei linguaggi, Perna, tra le altre, cita: “A/traverso”, “Zut”, “Oask?!”, “Abat/jour”, “Wow”, “Viola”, L’occulto”, “Il complotto di Zurgo”. In particolare l’esperienza bolognese di “A/traverso” (dal 1975) può essere indicata come come modello di ispirazione poi ripreso da tante altre testate.

Il rinnovamento comunicativo proposto attraverso il collage, la commistione tra scritte a stampa ed a mano, i giochi di parole ecc., utilizzati da “A/traverso”, sembrano derivare dalla rielaborazione delle avanguardie e dalle neoavanguardie artistiche, dal Dada al Surrealismo, dall’Internazionale Situazionista al Gruppo 63. A differenza di quanto accadde per le avanguardie storiche di inizio Novecento, il linguaggio del movimento del ’77 proviene realmente “dal basso”, dall’interno della società, almeno di una sua parte, in fermento, e pertanto risulta comprensibile anche a chi non è necessariamente colto.

É in tale contesto di massificazione dell’avanguardia che Maurizio Calvesi, da una prospettiva storico-artistica, sviluppa il concetto di Avanguardia di massa (1978) avventurandosi nella messa in relazione dell’apertura del Centre George Pompidou a Parigi (esempio di nuovo consumismo culturale) e la comparsa degli indiani metropolitani (modalità di consumo da intendersi come distruzione permanente), come due aspetti complementari di massificazione della cultura.

Se il rapporto tra movimento ed avanguardie storiche è stato rilevato prontamente dalla critica (ad esempio da Umberto Eco), il legame con l’Internazionale Situazionista, sostiene Perna, non è stato colto immediatamente. «Anche l’idea del “superamento dell’arte”, concepito da Debord come il fine ultimo dell’esperienza delle avanguardie, viene riassorbito dall’ala creativa del movimento del ’77. In tale contesto si inquadra la storia di Pablo Echaurren: in questo momento, infatti, egli abbandona il sistema artistico ufficiale, rifiutando i concetti di originalità e i valori connessi all’autorialità a favore di una pratica artistica collettiva, che si fonde con e si discioglie nella militanza politica» (p. 33).

Pablo-Echaurren-Basta-con-i-padroni-con-questa-brutta-razza-1973A partire dal 1970 la poetica Echaurren, sicuramente influenzata dall’amicizia con Gianfranco Baruchello, è caratterizzata da opere “impaginate a quadratini” ove si alternano piccole immagini dal sapore fiabesco di stampo fumettistico. Alla particolare composizione di tali opere, che determina una fruizione frammentata e discontinua, si aggiungono titolazioni stranianti in quanto spesso non immediatamente riconducibili alle immagini.

Il 1973 segna l’inizio della collaborazione di Echaurren con la Galleria Schwarz di Milano ed a tale periodo risalgono anche i primi simboli politici inseriti nelle opere in maniera volutamente scanzonata. «Echaurren crea uno spazio frammentario, in cui le singole immagini assumono il ruolo di tasselli di un puzzle, combinandosi tra loro sena un ordine gerarchico. L’artista usa infatti un montaggio paratattico, creando un campionario di simboli politici in cui tutte le immagini hanno lo stesso peso specifico, senza che una prevalga sull’altra» (p. 40).

Anche le illustrazioni realizzate tra il 1973 ed il 1974 per il quotidiano “Lotta Continua” ripropongono la struttura a quadratini (in tale periodo il soggetto delle immagini tendono a riferirsi al contenuto dell’articolo) collocata il più delle volte in maniera orizzontale a fondo pagina. Rispetto alle opere che ancora realizza per musei e gallerie, sottolinea Perna, le immagini realizzate per il quotidiano risultano semplificate e più didascaliche.

L’impaginazione a quadratini torna pure nelle copertine realizzate, a partire dal 1976, per diversi editori. A tal proposito Perna cita, ad esempio, la copertina per il libro di Nanni Balestrini, La violenza illustrata (Einaudi, 1976). Nel corso dello stesso anno, Balestrini “ricambia il favore” scrivendo il testo per la personale di Echaurren alla Galleria Valsecchi di Milano.

Sempre nel 1976 inizia anche la collaborazione tra l’artista e l’editore Svelli per il quale realizza numerose copertine come, ad esempio, Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, in cui si alternano simboli politici a particolari anatomici femminili. Nei riquadri della copertina compare anche la figura del “maiale alato” che, secondo Claudia Salaris, “ben sintetizza la condizione della sinistra giovanile di quel tempo, sospesa tra utopia e libido”. Una versione del maiale alato disegnata nel 1977 viene utilizzata nelle locandine del film Porci con le ali di Paolo Pietrangeli.

Il 1977 segna per Echaurren, come detto, l’abbandono del mondo dell’arte e l’inizio di un lavoro stabile per la redazione di “Lotta Continua”. A questo periodo risale il suo legame con il variegato mondo degli indiani metropolitani e l’iconografia dei nativi americani non manca di comparire su numerose sue produzioni grafiche alternando immagini in cui inserisce slogan politici del movimento a citazioni derivate dalla storia dell’arte. Perna segnala come Echaurren non manchi né di prendere le distanze dalla dilagante rappresentazione stereotipata dell’indianità, né di mettere in guardia il movimento degli indiani metropolitani dal rischio di un suo riassorbimento come fenomeno di moda da parte del sistema.

Se le illustrazioni realizzate nel 1973 per “Lotta Continua” mirano ad una lettura immediata, anche perché spesso risultano riferite al contenuto dell’articolo, la nuova stagione presenta un cambio di poetica; ora le immagini tendono a liberarsi dai dettami contenutistici degli articoli dando vita ad un mondo di mostriciattoli, animaletti e figure ibride dal sapore surrealista. «Il carattere ironico e scanzonato di queste immagini assume forme e toni più sofisticati e stranianti in alcune illustrazioni in cui l’artista associa le immagini del fumetto a testi legati alle sperimentazioni d’avanguardia» (p. 58).

La commistione tra “alto” e “basso” presente nelle sue illustrazioni ben «si coniuga all’uso del falso e del détournement nella rubrica “Dietro lo specchio”, realizzata in coppia con Gabbiadelli, pubblicata su “Lotta Continua” tra il 15 luglio e il 2 agosto del 1977. Il titolo richiama l’idea del “linguaggio al di là dello specchio” espressa da “A/traverso” nell’articolo Informazioni false che producono eventi veri (febbraio 1977), in cui il collettivo bolognese sosteneva la necessità di appropriarsi dei modelli di comunicazione degli organi di potere per sovvertirli dall’interno, senza limitarsi, come aveva fatto sin lì la controinformazione, a smascherare la faziosità della stampa ufficiale» (p. 59).

In tale contesto, il ricorso al falso ed al sabotaggio diventa centrale nella poetica di Echaurren, come risulta evidente nelle riviste e sui fogli con cui collabora. Perna cita in particolare la collaborazione dell’artista con “Oask?!”, giornale legato al mondo degli indiani metropolitani romani, caratterizzato da un collage di testi che alternano scrittura a macchina ed a mano e risultano impaginati in maniera discontinua e zigzagante.

air bologna 77Come detto, Echaurren ed il movimento del ’77 attingono a piene mani dalle fenomeno Dada e, in particolare, l’artista concentra la sua attenzione sull’opera di Marcel Duchamp a cui viene introdotto dal padre (Roberto Sebastian Matta), dall’amico Gianfranco Baruchello e da Schwarz. L’artista realizza nel 1977 una serie di disegni e dipinti su carta in cui riprende Duchamp «deviandone il senso attraverso l’uso di slogan e nonsense desunti dal linguaggio “metropolitano”.

Echaurren recupera gli aspetti di trasformazione del linguaggio […] e lo humour propri dell’opera di Duchamp, rielaborandoli alla luce delle idee e delle istanze espresse dalla contestazione politica» (p. 78).

Dunque, secondo Perna, «Duchamp diventa la fonte principale alla quale attingono Echaurren e più in generale il movimento […] non solo perché Duchamp ha messo in discussione l’ordine del linguaggio, ma anche perché si è sottratto alle logiche di valorizzazione economica dell’opera e, coerentemente con la lettura di Maurizio Lazzarato, ha concepito il “rifiuto del lavoro” (anche artistico) e l’azione oziosa come strade che aprono nuove possibilità di senso, capaci di produrre altre soggettività e modi diversi di “abitare il tempo”.

Per Echaurren l’esempio di Duchamp deve essere recuperato in chiave anticapitalista per far sì che l’arte si dispieghi nell’esistenza quotidiana, e che all’idea di opera come invenzione e produzione individuali subentri il concetto di creatività diffusa e collettiva» (p. 78).

Nel saggio è inserito anche lo scritto di Pablo Echaurren “Dov’è Oask?!…” tratto da AA.VV. (a cura di), Lingue & Linguaggi. Gli indiani metropolitani. Storie, documenti, testi, immagini (Derive Approdi, 1997).

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