Arthur C. Clarke – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 11 Mar 2025 22:55:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Storia di una copertina. Da “Le copertine di Urania” di Michele Mari a “Navi nel deserto” https://www.carmillaonline.com/2023/10/08/storia-di-una-copertina-da-le-copertine-di-urania-di-michele-mari-a-navi-nel-deserto/ Sun, 08 Oct 2023 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79413 di Luigi Weber

Humboldt Books ha da poco pubblicato un volumetto, dall’elegante veste rossa aniconica (fig. 1), che ripropone ai lettori Le copertine di Urania, celebre racconto di Michele Mari contenuto nella sua raccolta forse più fortunata, Tu, sanguinosa infanzia (Einaudi, 1997), con in aggiunta una selezione di immagini di copertine da remoti e pionieristici numeri della collana editoriale mondadoriana che in Italia significa “fantascienza”. Appartengono, reliquie doc, alla collezione privata di Mari stesso. Anche senza l’ausilio dell’informazione paratestuale, chi conosca appena un poco Mari lo dedurrebbe, che erano i suoi, dal perfetto [...]]]> di Luigi Weber

Humboldt Books ha da poco pubblicato un volumetto, dall’elegante veste rossa aniconica (fig. 1), che ripropone ai lettori Le copertine di Urania, celebre racconto di Michele Mari contenuto nella sua raccolta forse più fortunata, Tu, sanguinosa infanzia (Einaudi, 1997), con in aggiunta una selezione di immagini di copertine da remoti e pionieristici numeri della collana editoriale mondadoriana che in Italia significa “fantascienza”. Appartengono, reliquie doc, alla collezione privata di Mari stesso. Anche senza l’ausilio dell’informazione paratestuale, chi conosca appena un poco Mari lo dedurrebbe, che erano i suoi, dal perfetto stato di conservazione di questi libretti: pocket stampati su carta povera, pensati per un consumo veloce, di uscita settimanale o quattordicinale, e vecchi in qualche caso di buoni settant’anni (la gallery si apre con il leggendario n.1, “Le sabbie di Marte” di Arthur C. Clarke, uscito il 10 ottobre del 1952), ma quasi del tutto privi di pieghe strappi e perfino consunzione dei bordi; senz’altro in migliori condizioni di quelli conservati alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, che si vedono invece riprodotti nel saggio in appendice, “L’egemonia del cerchio”, a firma di Luca Pitoni.

Non si tratta di una rarità per bibliofili né d’un furbo oggetto di marketing che sfrutta l’amore dei lettori per il vissuto, traumatico fantasmatico e feticista, del Mari scrittore e del Mari uomo; quest’ultimo avvinghiato al primo e indistinguibile come le serpi nella bolgia dantesca dei ladri; con Le copertine di Urania siamo sulla chiara via tracciata da Asterhusher. Autobiografia per feticci (Corraini, 2015 e 2019, con fotografie di Francesco Pernigo) e da Sogni, con i disegni di Gianfranco Baruchello, edito per la stessa Humboldt Books nel 2017. Con una differenza e un progresso: Asterhusher esplorava una casa e il suo contenuto oggettuale, due mondi reciprocamente implicati e landolfianamente da un lato ospiti, dall’altro produttori di incubi, possessioni, infestazioni e metamorfosi, tutti e tutte sempre scaricate ed espulse nel linguaggio, anzi nominate proprio perché innominabili, e dunque mostruosamente, difettosamente, irregolarmente nominate. Era un iconotesto paradossale, dove le immagini non servivano davvero, giacché al massimo potevano offrire l’ancoraggio di una realtà qualsiasi al mondo letterario che da essa si era sprigionato, e che rimaneva prioritario. Una forma di garanzia d’esistenza del reale, a ridosso di un corpus narrativo che del reale si è sempre disinteressato. Questo Le copertine di Urania adempie invece a un ulteriore compito: recupera l’invisibile, produce le prove, presentifica l’ecfrasi che fu, accompagna il turbinio di approssimazioni verbali del racconto con le autentiche copertine di Urania allora citate e assemblate. Con l’effetto di ri-produrre il percorso di Bildung del piccolo Michele (e giustificare, in prospettiva, con il senno di poi, la propria identità e vocazione di scrittore) dentro un molteplice tunnel popolato di orrori, infezioni, mutazioni, dannazioni, fino all’approdo più inafferrabile, e perciò più inquietante e desiderabile, del puro ineffabile. A far questo non serve null’altro – interessante chiosa, per un lettore e letterato così amante dei racconti come Mari – che il vizioso e virtuoso coniugio tra un’illustrazione, un nome autoriale e un titolo, cioè tra un disegno e un pugno di parole.
Peraltro la notoria disinvoltura con cui Urania maneggiava testi e titoli degli originali, tagliandoli, adattandoli, traducendoli in modo si dice non troppo rigoroso, trova nella vicenda qui narrata una brillante compensazione:

[…] la copertina più guardata di tutte era quella del n. 265, R. Silverberg, Il sogno del Tecnarca. A parte la meraviglia di questa parola arcana, «Tecnarca», che mi affascinava per il suo sentore arcaico e insieme tecnologico (dunque parola pregna di un’interna e tesa lontananza tra il passato e il futuro) c’era in quella copertina l’immagine stessa del mio contemplare […] (Michele Mari, Le copertine di Urania, Humboldt Books, 2023, p. 11)

Sì perché Il sogno del Tecnarca è farina del sacco dei traduttori italiani: il romanzo di Silverberg si intitolava più semplicemente Collision course. E lo stesso vale per quasi tutti quelli che più colpirono il bambino ipersensibile ai suoni e alle parole: Strisciava sulla sabbia di Hal Clement (in origine Needle), Gli uomini nei muri di William Tenn (Of men and monsters), o il memorabile Essi ci guardano dalle torri di J.G. Ballard (Passport to Eternity). Vengono in mente due racconti archetipici della formazione di illustri scrittori novecenteschi, Le parole di Sartre e Biffures di Michel Leiris; in entrambi la scoperta della propria vocazione per la letteratura avviene in corrispondenza con la percezione, aurorale, infantile, di un’inconciliabilità, quasi una faglia originaria, tra significanti e significati, e di una oscura predilezione per i primi. Lo stesso accade con il nostro Landolfi. Mentore di siffatta scoperta, pare, per Michelino fu l’insieme dei titoli e delle copertine di Urania, dove evidentemente si trattava con poco riguardo l’insieme del corpus fantascientifico tradotto, ma non si disdegnava di attingere a registri immaginosi e spesso ricercati almeno in sede di titolazione.

I libri sottostanti, quasi come quel Nuovo commento che Manganelli dichiarava necessario solo come piedestallo e sostegno alla copertina, non necessitano più, nemmeno occorrerebbe sfogliarli (e peraltro lo stesso fece Karel Thole, che di Urania ne illustrò oltre mille numeri senza, si dice, aprirne neanche uno; Mari li lesse, invece, senza dubbio, ma la fecondazione dell’immaginario avvenne già a libro chiuso, o almeno così il racconto narra). La pubblicazione offertaci da Humboldt Books, dunque, diventa uno strumento critico: permette di rileggere questa deliziosa short story, autentico logos di fondazione, mettendolo alla prova – se per caso non lo avesse già fatto qualcuno, agevolato dalla condizione di collezionista di Urania come Mari, dunque son semblable, son frère; ma sarebbe un caso eccezionale, una forma di affinità elettiva, diciamo – dei suoi materiali da costruzione, dei suoi molteplici architesti e palinsesti, delle sue fonti d’ispirazione, a un tempo dichiarate e taciute, sepolte dalla lupara bianca autoriale nel cemento in bianco e nero della pagina, e invece improvvisamente riemerse, ritrovate intatte, persino a colori. Scopriamo così che l’ecfrasi è sempre precisa e puntigliosa, e che non v’è spazio per l’improvvisazione o l’abborracciatura: ogni dato, linguistico o luministico o d’impaginazione che sia, è fedele all’originale. Un esempio per tutti può essere la descrizione della cover di Dimensioni vietate (L. Sprague De Camp e C. M. Kornbluth, Urania n. 334, 17 maggio del 1964, fig. 2):

[…] interno di una costruzione in legno (stalla? fienile?) prospettato dall’alto: da un uscio un uomo che osserva nascosto ciò che sta avvenendo: un pentacolo magico verniciato per terra: una vecchia che sollevandovi sopra il cadavere di una gallina nera ne fa gocciolare il sangue: un essere biancastro gommoso fumoso grinzoso che si materializza. Due i motivi di fascinazione: certe grinze dell’evocato, che non lasciavano capire se avesse una faccia, e l’espressione della vecchia, comprensiva e di stolidità e di un’agghiacciante fiducia. C’erano poi quei due fonosimboli, Sprague de Camp e Kornbluth, che suonavano a presagio di strage… (Michele Mari, Le copertine di Urania, Humboldt Books, 2023, p. 11)

Si saggia quanto persino una materia evanescente e fuggevole, contesta per la gran parte di suggestioni, emozioni, paure, ricordi in qualche modo scioccanti, si poggi, nella costruzione della mitobiografia di Mari, su un assoluto rispetto, filologico diremmo, della fonte (nonché del trauma o del piacere). I più ci sono arrivati grazie a Leggenda privata; qualcuno per i necessari passaggi preparatori di Verderame e dell’intro di Roderick Duddle; ma era già tutto bene in vista qui, in Tu, sanguinosa infanzia, senza travestimento – il travestimento, per intenderci, che era ancora necessario approntare all’altezza di Di bestia in bestia e di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti – il dialogo autobiografico del piccolo Michele con mostri e terrori.

Intitolando questo pezzo Storia di una copertina avevo in mente il saggio-racconto omonimo che Mario Soldati scrisse nel 1976, rammemorando la genesi della princeps di America, primo amore (Bemporad, 1935), e in particolare il dipinto – la memorabile donna-demonio tentatrice dietro la quale si innalza lo skyline di New York e il profilo degli USA, in una sorta di nuvola violacea (fig. 3) – realizzato per lui da Carlo Levi, il quale poi nel 1954 aveva già dato la sua versione dei fatti, significativamente non identica a quella di Soldati, con un breve scritto: La copertina dell’America; ora tutto si legge nell’edizione Sellerio curata da Salvatore Silvano Nigro. Pubblicare con l’ebreo Bemporad, e con una copertina di Levi, nel 1935, per di più un libro sull’America, seppur resoconto di una delusione, significava una scelta di campo chiaramente antifascista. Non era solo una “bella” copertina, era una copertina coraggiosa. E, soprattutto, costituiva un elemento integrante dell’opera di Soldati, il quale, come è sempre bene ricordare, lasciò l’Italia nel 1929 anche e soprattutto in rotta con il regime.

Con il mio Navi nel deserto, uscito all’inizio di quest’anno per i tipi romani de Il ramo e la foglia, ho avuto una fortuna simile a quella di Soldati, cioè potermi avvalere dello sguardo e del talento di un amico artista, riminese come me. Il paragone non vuol essere immodesto, così come quello con Mari, ma soltanto finalizzato a un ragionamento su quale sia, o possa essere effettivamente, il punto ultimo di elaborazione di un libro, quando anche la sua copertina diventa parte integrante dell’operazione creativa, anzi la corona. Samuele Grassi ha creato una porta d’ingresso (e una mappa, come nei classici fantasy) per la vicenda che avevo scritto carsicamente nel corso di trenta lunghi anni. E questa immagine – del tutto coerente con la poetica di Grassi, che come il sottoscritto è stato un amante di fumetto e cinema fantastico e fantascientifico, di «Metal Hurlant» e di anime, del Conan di Miyazaki e di Arzach – vive in una dimensione di esplicita parentela con le copertine di Urania, almeno con quelle della stagione del cerchio, dominate dal segno pittorico di Thole e dalle soluzioni compositive ideate da Anita Klinz, art director della Mondadori, che si affermano a partire dalla metà degli anni Sessanta (estate del ’64, per la precisione).
Ma l’immagine in questione – un oblò, inconfondibile, dal quale però l’occhio si affaccia non su una distesa marina bensì su un paesaggio sabbioso, forse alieno, con al centro una città fortificata eretta su alcune vertiginose rupi (fig. 4) – è stata solo il punto di arrivo di una ricerca nella quale anche le tappe intermedie, le ipotesi scartate, presentano interesse e significato.

Una ricerca iniziata a partire da un’ipotesi di lavoro ai miei occhi adeguata e che invece mia moglie Claudia mi aiutò a comprendere quanto fosse fallimentare; e lo specifico perché ogni creazione cresce in primo luogo, lo si ammetta o no, nel confronto con chi ci è compagno di vita e con gli amici di cui si ha stima e fiducia. Avevo inizialmente pensato, infatti, alle immagini fotografiche di un disastro ambientale che ha colpito, nella seconda metà del Novecento, una vasta regione dell’allora URSS: il progressivo svanire del Lago Aral, oramai mutatosi in una desolata landa infestata spettralmente da centinaia di carcasse di navi in secca. Non era ancora uscito Absolutely nothing di Giorgio Vasta, ma la seduzione era la medesima, per intenderci. Non il vero vuoto, il terreno lunare, il mai toccato da mani umane (è il titolo di un altro membro della grande famiglia: Robert Sheckley, Urania 285, luglio 1962), bensì l’abbandonato, il residuale, ciò che fu affollato e vitale ed ora è silenzioso e sgombro.

Peraltro, quelli del morto bacino tra Uzbekistan e Kazakistan erano scatti facili da reperire sui motori di ricerca del web; avevano un forte impatto emotivo, come ogni relitto, specie navale; erano del tutto coerenti con l’ambientazione del mio romanzo (un esempio eloquente: fig. 5), che si svolge in un continente spopolato e desertificato. Nondimeno, l’effetto comunicativo di una copertina che inalberasse uno di questi scafi arrugginiti e insabbiati, più che evocare un ormai abusato immaginario alla Mad Max, avrebbe piuttosto suggerito un libro-reportage, un racconto di viaggio nelle vastità postsovietiche. Ma il mio romanzo non lo era, né aveva, almeno in origine, la denuncia dell’imminente disastro ambientale tra i suoi obiettivi. Guardandosi intorno, ci si rendeva conto che la strategia era sbagliata. L’editore trentino Keller, per esempio, che da alcuni anni sta pubblicando un catalogo molto orientato verso la narrativa di viaggio, e l’esplorazione di quella peculiare plaga neoweird da realismo magico postsovietico che è il grande mondo all’Est orfano del comunismo e dell’ex Unione Sovietica, stampa titoli magnifici con cover assai creative, e si guarda bene dal ricorrere a soluzioni simili. Perfino le opere postesotiche di Antoine Volodine non hanno mai avuto, nelle traduzioni italiane, prima per Clichy, poi per L’orma, fino a 66thand2nd, una veste tanto banale.

Nei primi anni Novanta il giovane me, lettore avido di Urania, aveva conservato nel proprio inconscio visivo-visionario soprattutto tre suggestioni potenti. La prima era la cosiddetta “tetralogia degli elementi” di James Graham Ballard (Vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo, fig. 6), dove meno contavano le motivazioni e persino le forme della catastrofe ambientale, e ben di più la reazione sgomenta, straniata, attonita, dei pochi sopravvissuti; era la nascita di una fantascienza psicologica, dove le esplorazioni degli spazi siderali lasciavano il posto agli abissi della psiche, e naturalmente lì si davano la mano Ballard con il Dick dei romanzi marziani. La scelta del mar d’Aral sarebbe stata estetizzante: Ballard e Dick mi avevano insegnato che la vera catastrofe era sempre interiore.

La seconda fonte, sempre di provenienza ballardiana, era il meno famoso ma per me assai impressionante – proprio nel senso dell’impressione fotografica – Ultime notizie dall’America (Urania 908, gennaio 1981; in originale Hello America, di cui esistono due edizioni in lingua originale con delle copertine perfette anche per Navi nel deserto, figg. 7-8), probabilmente il suo ultimo lavoro di SF pura, con una spedizione archeologica che si muove per un Nordamerica inaridito e derelitto da moltissimo tempo. Navi nel deserto inizia in un luogo a modo suo iconico, ossia un deposito di rottami, e per la precisione di auto abbandonate, i cumuli delle quali emergono appena dalla superficie di sabbia. Discariche più desertificazione erano già un topos, specie nel cinema americano, e tuttavia il tempo a venire si sarebbe incaricato di renderlo sempre meno figurale e sempre più concreto. Non potevo certo supporlo, nel ’92, quando iniziai Navi, ma pochi anni dopo Don DeLillo avrebbe dedicato uno dei suoi capolavori al paesaggio più drammaticamente attuale dell’Antropocene, il mondo in continua crescita dei rifiuti (parlo di Underworld, ovviamente).

Ha scritto di recente Matteo Meschiari, nel suo Neogeografia (Milieu, 2019): «I segnali della fine sono leggibili in tutte le coste che vengono sommerse, nell’acqua marina che s’infiltra nei campi coltivati, nel permafrost che si scioglie e gonfia di metano l’Artico e l’atmosfera, e nella gente, che migra dalle guerre della fame e della siccità. Segnali solo per gli altri: “per ora non tocca a me”. Invece Amitav Ghosh si chiede come sia possibile che il mondo in dissoluzione e il collasso imminente restino fuori anche da un’altra società, così incapace di pensarli, quella degli scrittori. Romanzi di città, di famiglie, di malattie, di idee morali, di borghesie tacitate e refrattarie… ma quanti di questi romanzi includono in sé il collasso, l’apocalisse in atto, la sete che verrà, i deserti che ci attendono?»
C’era infine, terzo ingrediente, l’opera di uno scrittore francese estremamente dotato, Serge Brussolo, di cui la collana mondadoriana pubblicò sei titoli, tutti notevolissimi, tra il 1987 e il 1990; era Sonno di sangue (Sommeil de sang, 1982, Urania n. 1104, fig. 9; qui, si noti, Thole è stato già sostituito da Vicente Segrelles, il creatore del Mercenario, un fumetto che segnò la nascita e l’estetica, in Italia, de «L’Eternauta») e mi regalò l’ambientazione, vagamente esotica e arabeggiante, di città fortificate costruite su rupi in mezzo al deserto, che si adagiava elegante sulla mia lettura delle novelle persiane.

Una fotografia, dunque, per quanto potente, non era la soluzione. Si poneva un problema serio di atmosfera. Claudia, di nuovo, mi suggerì la direzione giusta. Ci voleva un pittore, e uno in particolare si offriva egregiamente alla bisogna: il pittore forse più implicato nella prosa del Novecento italiano, protagonista e coautore di almeno tre capolavori come Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio, Retablo di Vincenzo Consolo e Le pietre volanti di Luigi Malerba: Fabrizio Clerici.

Ci venne subito in mente un dipinto in particolare di Clerici, Venezia senz’acqua (1955, fig. 10) che in qualche modo parlava la lingua della mia visione. E tuttavia Clerici, che nessuno mi toglie dalla mente abbia ispirato la serie delle vedute metafisiche di Moebius con Venezia senz’acqua, mancava, proprio rispetto a Moebius, di un ingrediente ancora essenziale. La neometafisica luttuosa e degradata di Clerici incontrava un aspetto tonale del romanzo, ossia la sua volontà stilistica di suonare inattuale, di parlare una lingua chiaramente non orale e non immediatamente comunicativa, di evocare un metodo mitico nella formazione delle immagini e delle scene, tuttavia avvertivo oscuramente che non verso le sale di un museo – il luogo in cui Clerici non ha mai smesso di abitare – bensì verso un cinema mentale, naturale, come l’avrebbe definito Celati, avevo inteso muovermi. E il mio cinema mentale, naturale – così come quello, azzardo, di una intera generazione nata all’inizio dei Settanta – aveva la sua sala originaria, archetipica, in una sede ancora cartacea, ossia tra gli Urania e le riviste di fumetti, con in più la televisione che ospitava i primi anime nipponici, e il paesaggio, imprescindibile per noi allora, e saccheggiato senza pietà decenni dopo dalla Disney, del primo Star Wars (non a caso, ancora un mondo di sabbie e rottami).

Insomma, occorreva sì un artista, un grafico, ma qualcuno dotato di un segno più prossimo a quello del fumetto che all’accademismo solenne di un Clerici, e semmai capace di parlare la lingua degli Umanoidi Associati, i quali fin dagli anni Settanta introdussero il repertorio onirico delle avanguardie, in particolare del Surrealismo, sulle riviste “per ragazzi”, e probabilmente influenzarono in qualche misura anche la stessa concezione di Lucas.
Samuele Grassi, mio vecchio amico e sodale di avventure artistiche, aveva precisamente quella cifra, e da qualche anno la stava esplorando con una serie di tavole (si veda il suo sito, www.samuelegrassi.it) dedicate alla nostra Rimini, a una Rimini sommersa, come tristemente sta già avvenendo in forma di prove generali, in più popolata di mostri alieni o preistorici (fig. 11). La prima illustrazione realizzata per me da Samuele citava molto esplicitamente Arzach, ma ancora non avevamo trovato la quadratura del cerchio, come si suol dire, e qui più che mai a proposito. Bontà loro, Roberto Maggiani e Giuliano Brenna, ossia Il ramo e la foglia, suggerirono di riequilibrare l’ironia di quell’immagine demo, e la sua apertura a larghissimo campo (fig.12), con un elemento forte: l’oblò, appunto, che significa mare, scafi, e si lega all’altro elemento essenziale del mio romanzo, cioè la diretta dipendenza dal magnum opus conradiano, trapiantato in un contesto futuribile. L’oblò fece riemergere immediatamente la memoria di Urania. Eccola, la quadratura del cerchio.

Non erano più gli Urania con i «rombi», dettaglio grafico su cui si conclude il racconto di Mari – che però è un classe 1955, e non poteva non rimanere prigioniero, lui che della sua infanzia non si è mai liberato, di una veste cessata quando Michelino aveva grossomodo nove anni – ma senza dubbio il convergere su quella collana contiene un segno dei tempi valido anche per noi venuti più tardi, e forse per ultimi, giacché proprio il successo mondiale di Star Wars affossò la SF come genere da leggere, e la spostò definitivamente nel business dei blockbuster e degli effetti speciali della Industrial Light & Magic.

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Nemico (e) immaginario. Alterità marziane e rifondazione dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2020/09/29/nemico-e-immaginario-alterita-marziane-e-rifondazione-dellumanita/ Tue, 29 Sep 2020 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62858 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival Lowell e di Camille Flammarion, convinto dell’esistenza di una vita extraterrestre sul pianeta rosso.

C’è […] una corrispondenza fra lo spirito morale dei costruttori della mitologia marziana, Schiaparelli, Lowell e Flammarion, e quello che sarà lo sviluppo letterario del genere ambientato in questo pianeta. Uno specchio in cui guardare la Terra, in cui proiettare i propri desideri e le proprie paure, in cui costruire un mondo alternativo per mostrare ciò che non siamo ma che potremmo essere. Rimane in questi uomini ancora o spirito positivo dell’epoca, quello che vedeva nelle grandi opere dell’ingegneria ottocentesca un primo passo verso una società migliore in cui la tecnologia sarebbe stata parte integrante della società e i sui frutti democraticamente distribuiti fra tutta la popolazione, un sogno utopico che on durerà a lungo, messo in crisi dai due conflitti mondiali, dai nuovi mezzi di distruzione offerti dall’industria bellica alle potenze nazionali e sostituito, nel suo modo di immaginarie il futuro, dalla distopia. (pp. 48-49)

Marte inizia così a essere percepito come luogo abitato da una specie tecnologicamente superiore che ha saputo utilizzare la scienza per salvarsi dall’estinzione e che dunque merita di essere esplorato, a maggior ragione nel momento in cui la Terra sembra ormai conosciuta in ogni sua parte. La volontà di entrare in contatto con gli abitanti del pianeta rosso conduce, nel passaggio tra Otto e Novecento, a svariati tentativi di inviare messaggi verso questa lontana civiltà, compreso il ricorso a pratiche paranormali all’epoca in voga; celebre è il caso della medium Hélène Smith che, con le sue visioni, contribuisce a creare un immaginario dettagliato su questo nuovo mondo.

È proprio a partire da tale periodo che Marte inizia a diviene protagonista di numerose opere narrative tra cui La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1898) di Herbert George Welles, storia capace di mostrare ai lettori inglesi dell’epoca gli effetti di una guerra tra civiltà a potenziale tecnologico decisamente asimmetrico; non è difficile leggervi una denuncia della violenza dell’imperialismo occidentale ai danni dei popoli colonizzati. Si può constatare come a partire dall’uscita di tale libro la figura dell’alieno si carichi di molteplici significati tanto da essere utilizzata per alludere allo “scontro tra razze” ottocentesco, al “pericolo comunista” durante la “guerra fredda”, ecc.

Se per qualche tempo nell’immaginario collettivo gli abitanti di Marte sono visti come creature benevole ed esotiche con cui vale la pena entrare in contatto e fraternizzare, le cose cambiano con la pubblicazione dell’opera di Wells: da quel momento prende piede l’idea che l’incontro con gli alieni avrebbe potuto essere tutt’altro che pacifico. Numerose sono le opere di fiction che, riprendendo il racconto di Wells, contaminano il genere della Future War innestandovi la questione aliena. Si diffondono anche versioni della stessa opera wellsiana che spostano l’ambientazione dall’Inghilterra agli Stati Uniti e prolungamenti delle vicende raccontate, come nel caso di Edison’s Conquest of Mars (1898) di Garrett P. Serviss che mette in scena la ripresa della vita in una Terra devastata dagli alieni e la decisione di prevenire futuri ritorni del nemico attaccandolo in anticipo direttamente “a casa sua”.

Nel romanzo di Serviss non è difficile individuare echi coloniali, celebrazione della superiorità anglosassone e orgoglio a stelle e strisce. Si tratta di elementi ricorrenti all’interno di opere – dette non a caso detto “edisonate” – che a partire dalla fine dell’Ottocento hanno come protagonista un giovane eroe-inventore, maschio, americano, che oltre a preservare se stesso dalla corruzione dei tempi, riesce a salvare la famiglia, la comunità e la nazione intera dall’invasione straniera. Su questa linea l’alieno marziano finisce facilmente per alludere al nemico di turno dell’America.1.

Le vicende che vedono il confronto militare tra alieni ed esseri umani narrate, pur con spirito diverso, da Wells e Serviss non esauriscono di certo le modalità del contatto tra le due parti; vi sono anche storie in cui il pianeta è abitato da società complesse e sfaccettate, come nel caso della saga dedicata a Marte e alla pluralità di razze che lo abitano da Edgar Rice Burroughs, iniziata nel 1912 e proseguita fino agli anni Quaranta, serie venata di nostalgia per i “vecchi tempi” popolati, oltre che da uomini coraggiosi, da donne schiave o principesse; non a caso si è parlato a tal proposito di “retroutopia antifemminista”. Più in generale lo spazio extraterrestre è tratteggiato come qualcosa di complesso e mutevole, non per forza di cosa ostile ai terrestri, anche da diverse opere di Clive Staples Lewis, legato a Tolkien e al gruppo degli Inklings.

Questa idea dello spazio come qualcosa di vivo è parte della costruzione di un mondo cristiano contrapposto alle due forze che Lewis considerava come le componenti distruttrici della società dell’epoca, rappresentate dai due personaggi [che] riassumono, esasperandole, le due facce del capitalismo multiplanetario: il capitalismo estrattivista, che vede nello spazio una fonte di nuovi guadagni, e quello scientifico, infarcito di retorica antropocentrica che vede nella conquista degli altri pianeti una maniera di garantire l’immortalità della specie umana. (p. 72).

I viaggi spaziali intrattengono una stretta relazione con l’utopia a partire dal Settecento, quando il viaggio in direzione delle luna diviene un sottogenere dell’utopia; nel momento in cui si diffonde la convinzione dell’esistenza di vita intelligente su Marte, questo pianeta assume un ruolo di primo piano nella letteratura di fantascienza.

Secondo una concezione ampiamente diffusa nell’epoca vittoriana, Marte era sia un luogo del presente che una proiezione della storia dell’umanità, un’idea determinata da una concezione evoluzionista dei processi sociali. Marte divenne quindi, a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo, un topos per la costruzione di una società immaginaria da contrapporre a quella umana, e generò quell’estraniamento che è la condizione sine qua non dell’utopia. (p. 75)

Se, come detto, il mito di Marte diviene popolare soltanto a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, occorre ricordare che già negli anni precedenti il pianeta faccia da sfondo alle vicende narrate in alcuni romanzi. Nella fiction narrativa e cinematografica Marte viene scelto in diversi casi come luogo di ambientazione tanto dal sottogenere delle “edisonate”, quanto da quello delle “robinsonate”, incentrate sulla sopravvivenza di un essere umano sul pianeta, come nel caso del film Robinson Crusoe on Mars (1964) di Byron Haskin o del recente romanzo The Martian (2011) di Andy Weir, trasformato in film da Ridley Scott nel 2015.

Tra e prime opere narrative di ambientazione marziana Porretta cita Across the Zodiac: The Story of a Wreckes Record (1880) di Percy Greg e A Plunge into Space (1890) di Robert Cromie. Diffusa in molti racconti è l’idea che le società tecnologicamente avanzate comportino un inaridimento delle passioni; esemplare in tal senso Noi di Evgenij Zamjatin, uscito nel 1924 anche se scritto alcuni anni prima.

In generale la letteratura utopica a cavallo tra Otto e Novecento riflette le preoccupazioni e le aspettative di progresso sociale del tempo. Il pianeta rosso come luogo di realizzazione di società migliori è presente anche in To Mars via the Moon: An Astronomical Story (1911) di Mark Wicks e in Unveiling Parallel: a Romance (1893) di Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant, in cui si prospetta una società paritaria per uomini e donne. In ambito cinematografico Porretta cita la pellicola danese Himmelskibet (1917) di Holger-Madsen, girata nel corso della Grande guerra con evidenti intenti pacifisti.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Persa la fiducia nella scienza come motore di miglioramento in voga agli albori della Rivoluzione industriale, l’immaginario legato allo società del futuro è ben descritto dallo scrittore e illustratore francese Albert Robida: «da una parte c’è un’immaginaria borghesia del futuro, che avrebbe affollato i cieli con le sue macchine volanti per andare all’opera, e dall’altra i moderni mezzi di distruzione che avrebbero progettato chimici, medici e farmacisti» (p. 58). Tale immaginario di distruzione futura riflette le ansie della società vittoriana timorosa di trovarsi presto coinvolta in qualche conflitto, tanto da determinare il successo del genere Future War che prende il via con La battaglia di Dorking (1871) di Geroge Tomkyn Chesney narrante di un’invasione tedesca dell’Inghilterra. Ai timori per guerre internazionali si aggiungono presto i timori per un invasione di popoli orientali capace di annientare la civiltà europea. È attorno a tali ansie generate dai fenomeni migratori di massa che si strutturano stereotipi razziali destinati a durare nel tempo. Non è difficile che le tensioni razziali entrino in gioco nella fiction catastrofista.

Il romanzo scientifico e la letteratura fantascientifica ottengono un certo successo anche in Russia ove, sull’onda della Rivoluzione il progresso tecnologico diviene uno degli elementi simbolici della nuova era socialista. Se tradizionalmente l’utopismo russo tende a focalizzarsi sulla fondazione di comunità religioso-spirituali, sostiene Porretta, con il passaggio tra Otto e Novecento l’immaginario dell’industrializzazione e del progresso tecnologico prendono piede anche nell’immaginario russo.

Tra gli esempi in cui si ricorre al pianeta rosso come luogo immaginario per produrre discorsi utopici o per rappresentare società distopiche, lo studioso fa riferimento alle due opere di Aleksandr Bogdanov La stella rossa e L’ingegner Menni, pubblicati rispettivamente nel 1908 e nel 1912, esempi di romanzo utopico in cui si ripone estrema fiducia nel progresso tecnologico e in cui viene tratteggiata una società comunista realizzata. Se il ricorso a Marte può darsi per mostrare un esempio di società di stampo comunista realizzata, il film Аėlita (1924) di Aleksandrovič Protazanov, tratto dal romanzo omonimo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, utilizza invece il pianeta rosso per mostrare una rivoluzione in corso contro la tirannia e la schiavitù.

A cavallo tra le due guerre mondiali cambia la rappresentazione di Marte; la tecnologia inizia ad essere osservata con minor entusiasmo avendo nel frattempo evidenziato il portato distruttivo. «È terminato il tempo dell’utopia ed è il suo contrario, la distopia, a diventare lo strumento più utilizzato per la descrizione del futuro» (p. 90).

Nei primi anni Cinquanta, pochi anni prima dell’avvio dell’era spaziale, se il romanzo Le sabbie di Marte (1951) di Arthur C. Clarke tenta di immaginare in maniera realistica il processo di colonizzazione del pianeta, lo scienziato tedesco Wernher von Braun, l’ideatore dei razzi V-2 per il regime nazista, dopo essersi messo al servizio dei vincitori statunitensi, lavora a un progetto finalizzato alla colonizzazione di Marte. Pur rivelatosi di impossibile realizzazione, il progetto evidenzia come, giunti a metà Novecento, l’idea di un viaggio verso Marte non riguardi più esclusivamente le fantasie narrative si scrittori e registi.

Durante la guerra fredda la fantascienza tende a focalizzarsi sulla paura dell’attacco straniero/comunista e sul pericolo di una graduale sostituzione dell’umanità con “altri esseri”, come ne Gli invasori spaziali (Invaders form Mars, 1953) di William Cameron Menzies e L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) d Don Siegel.

A resistere nel tempo, anche quando il mito marziano inizia ad affievolirsi, è la raccolta di racconti Cronache marziane di Ray Bradbury, pubblicata la prima volta nel 1950, il cui successo è però forse dovuto soprattutto «alla sua capacità di incarnare lo spirito americano, esattamente come La guerra dei mondi di Wells aveva rappresentato mezzo secolo prima l’imperialismo inglese tardo-vittoriano» (p. 103).

Sin dai primi anni Sessanta lo scrittore inglese James Graham Ballard ritiene terminata l’epoca della narrativa spaziale, tanto che preferisce indagare l’inner space dell’essere umano. Il calo di interesse per il pianeta rosso coincide con l’arrivo delle prime immagini ravvicinate di Marte a metà degli anni Sessanta, quando per qualche tempo il centro della scena viene lasciato alla Luna. Nonostante la Space Age possa dirsi davvero conclusa attorno alla metà del decenni successivo, ultimamente il pianeta rosso sembra di nuovo interessare la letteratura, il cinema e l’economia. Marte ricompare non solo nella fiction o nella docu-fiction – oltre al film The Martian (2015) di Ridley Scott, si pensi alle serie televisive Mars (2016) della National Geographic, The Mars Generation (2017) di Michael Barnett, The First (dal 2018) di Beau Willimon – ma anche in ambito economico e con esso si ripresenta anche l’idea, evidentemente legata a una “utopia della ricostruzione”, di una sua futura terrificazione.

Non si può evitare di osservare che la costruzione di questa nuova utopia marziana appare in un momento in cui la distopia esercita un dominio pressoché assoluto sull’immaginario collettivo riguardo il futuro dell’umanità. […] Tralasciando l’attrazione morbosa che la prospettiva di una società futura in rovina esercita sul pubblico, oggi la distopia incarna la sensazione di assistere a una fine del mondo al rallentatore. […] La distopia contemporanea ci connette con le nostre più recondite paure: la perdita dei capisaldi della sicurezza esistenziale, lo sfascio dello stato sociale, l’inevitabilità del disastro climatico, la fine della stabilità lavorativa, l’imporsi si un modello di società competitivo e atomizzante. Visto in questa prospettiva, abbandonare il pianeta Terra per andare su Marte non sembra poi un piano così assurdo. (p. 106)

I motivi per cui, da qualche tempo a questa parte, a più di un secolo dalla nascita del mito, il pianeta Marte è “tornato di moda” secondo Porretta sono probabilmente da ricercarsi in una sorta di desiderio di fuga dalla Terra, da una realtà percepita come inesorabilmente incamminata verso l’apocalisse. Se nell’immaginario contemporaneo il pianeta rosso può rappresentare una “utopia della ricostruzione”, un luogo da cui ripartire dopo la catastrofe terrestre, in esso è però possibile vedere anche una sorta di arca di Noè, un rifugio destinato soltanto a una piccola parte dell’umanità alle prese con l’esaurimento delle risorse vitali terrestri.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Il successo di pubblico per il filone catastrofico ha sicuramente a che fare con i timori e con le emergenze del momento, riflettendo il clima di pessimismo di un’epoca in cui non si intravede alternativa a un sistema che mostra tutti i suoi limiti. È in questo clima di sfiducia che permea le opere di fiction che il pianeta rosso torna a conquistarsi spazio portandosi dietro quell’immaginario utopico marziano sedimentatosi nel tempo a partire dall’epoca vittoriana.

A una prima Space Age (1957-1975) inaugurata dallo Sputnik-1, e una seconda età spaziale (1981-1997) identificabile con i voli dello Shuttle, si aggiunge ora l’epoca della cosiddetta New Space Economy caratterizzata dall’apertura ai privati dei servizi di trasporto di merci e persone. La corsa allo spazio non vede più fronteggiarsi Stati Uniti e Unione Sovietica; nella nuova era spaziale a confrontarsi sono alcuni colossi privati spinti da business legati alla ricerca scientifica, al turismo spaziale, allo sviluppo di tecnologie da vendere ai governi e alla possibilità di sfruttare risorse minerarie di altri pianeti. Se ad oggi, sottolinea Porretta, la “terrificazione” di Marte appare estremamente improbabile, il pianeta rosso può però essere visto come obiettivo simbolico di una narrazione volta all’espansione capitalista verso lo spazio, un’ennesima riproposizione della lotta per l’indipendenza degli stati Uniti dall’Inghilterra e della conquista del West.

La colonizzazione dello spazio, a partire da Marte, sembrerebbe avere a che fare con i timori contemporanei per un prossimo collasso mondiale: il pianeta rosso viene identificato come luogo-rifugio per una parte dell’umanità in fuga dalla catastrofe terrestre. Il confine tra utopia e distopia può essere sottile, soprattutto se si cambia il punto di vista. Si potrebbe pensare al pianeta rosso come a un luogo inospitale in cui costringere un proletariato spaziale a lavorare in condizioni di vita terrificanti o, viceversa, come rifugio per una ristretta élite multiplanetaria che da lì sovraintende il lavoro di un proletariato invece costretto a restare su una terra sempre più invivibile.

Vista dall’ottica del capitalismo espansionista, Marte appare sempre di più la possibile utopia del futuro, o meglio, la distopia di una comunità perfettamente vigilata e autosufficiente […] la realizzazione finale del sogno utopico rincorso dalla modernità: la nascita di una comunità perfettamente controllata, pianificata e lamentatone dipendente dalla tecnologia. (p. 115)

In questo recente guardare allo spazio esterno, conclude Porretta, non è difficile vedere un modo per eludere le responsabilità nei confronti della Terra o lo sviluppo inevitabile di un sistema che non può fare a meno di espandersi e occupare nuovi territori.


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. Cfr. R. Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma 2014. Di tale saggio si parla negli scritti: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, “Carmilla” e G. Toni, Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno, “Carmilla”. 

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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