Arma letale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 79 https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/divine-divane-visioni-cinema-porno-79/ Thu, 18 Jan 2018 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42820 di Dziga Cacace

Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato

918 – Pulgasari di Shin Sang-Ok, Corea del Nord, 1985 Ecco, io un film nord coreano non lo avevo mai visto. E per il mio esordio ossequiente al cinema sotto l’egida di Kim Jong-il non potevo che scegliere Pulgasari, nome leggendario che evoca in tanti cinéphile boccaloni travaglio ideologico e immensa sofferenza. Devo anche dire che in Rete si trova qualche originale che ritiene il film realmente interessante. Beh, la storia della sua realizzazione lo rende curioso, ma [...]]]> di Dziga Cacace

Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato

918 – Pulgasari di Shin Sang-Ok, Corea del Nord, 1985
Ecco, io un film nord coreano non lo avevo mai visto. E per il mio esordio ossequiente al cinema sotto l’egida di Kim Jong-il non potevo che scegliere Pulgasari, nome leggendario che evoca in tanti cinéphile boccaloni travaglio ideologico e immensa sofferenza. Devo anche dire che in Rete si trova qualche originale che ritiene il film realmente interessante. Beh, la storia della sua realizzazione lo rende curioso, ma bello, beh… no. Ma neanche discreto, passabile, accettabile… proprio no: è una vera merdaccia di film come raramente mi è capitato di vedere, il grado ultimo della fecalità su pellicola, vi assicuro. Ma prendiamola larga: il regista è Shin Sang-ok, un coreano sbagliato, del Sud, che al paese suo godeva di gran fama (era detto l’“Orson Welles sudcoreano”…) ma doveva anche sfangarla continuamente con censura e problemi produttivi. Mai saprò dell’effettivo valore del cineasta perché se pensa, come ha detto, che Pulgasari sia il suo miglior esito posso immaginare quali badilate di letame siano gli altri suoi film. Kim Jong-il – morto l’anno passato – voleva adeguare la cinematografia del suo paese a quella prodotta su scala mondiale che tanto ammirava. Dall’alto della sua pratica cineteca con 15mila titoli, il figlio di Kim Il Sung scrisse poderosi saggi di cinema e, di fronte alla cronica latitanza di talenti e capacità produttive a nord del 54° parallelo, decise per le maniere forti: fece rapire Shin Sang-ok (come del resto l’ex moglie e attrice Choi Eun-hee) e, dopo opportuna rieducazione, gli diede carta bianca. Shin girò diversi film fino a questo Pulgasari dopo il quale, complice una trasferta a Vienna, riuscì a imbucarsi nell’ambasciata USA con dei nastri registrati da donna Choi che provavano come i due fossero sotto ricatto e non volontariamente in esilio come sempre sbandierato dal regime nordcoreano.
Pulgasari dura un’ora e mezza ma vi assicuro che il tempo percepito è di circa una settimana. È un kaiju eiga, cioè un film di mostri o qualunque cosa significhi. Siamo nella Corea dell’epoca feudale (1400, quasi 1500, boh) e la vita, alle pendici delle montagne, è grama, sotto il giogo di una monarchia insensibile. Inde è il capo dei ribelli: esibisce una rambesca bandana e, pur sembrando Drupi, gode dell’amore della virginale Ami. Tanto per cambiare è in atto una carestia e il governatore pretende armi e metallo e confisca tutti i beni del villaggio dove vive Inde. Ci scappano calci e pugni e pure il morto: tragedia! Inde e il padre di Ami, fabbro, vengono imprigionati e rifiutano orgogliosamente il cibo, al punto che il vecchio, prima di schiattare, usa una polpetta di riso per sagomare una figurina antropomorfa cui chiede di salvare il mondo. Dolore e stridore di denti, anche per le scelte registiche ributtanti: è quasi tutto girato in studio, con luci alla cazzo di cane, montaggio prescolastico e una musica infestata di synth atroci. Ami, ad ogni modo, recupera il pupazzetto che finisce tra i suoi attrezzi da cucito. La ragazza si punge e una goccia di sangue finisce sulla figurina che, voilà, prende vita e comincia a nutrirsi di metallo. La cosa non smuove minimamente nessuno: “È carino!”. Risate e si va a dormire, ma il mostricciattolo fugge e cresce a vista d’occhio, mangiandosi tutto quanto sia metallico: maniglie, lucchetti e serrature. E pure la spada del boia che avrebbe dovuto decapitare Inde, così come le sue manette, tutto sgranocchiato come appetitosi snack. Il mostro, sempre più grosso, viene battezzato Pulgasari, l’immortale, e diventa l’arma che consente ai ribelli di opporsi finalmente al brutale tiranno.
Da qui parte una sequela eterna di combattimenti tra ribelli e potere centrale. Il canovaccio è sempre lo stesso: i rivoltosi rischiano grosso, poi arriva Pulgasari e si vince. Il tutto tra scene di massa drammatiche (come impeto e come effetto sullo spettatore), con armi risibili come letali pietre di polistirolo o fischioni e altri fuochi d’artificio spacciati per prodigi bellici pirotecnici. Un cacamento di cazzo eterno e dolente, non potete immaginare, con questo Pulgasari che è un panzone mangiametalli con la faccia da coglione, mezzo toro e mezzo maiale, e che si ha il coraggio di definire pure “molto intelligente”. Tra l’altro si vede chiaramente il povero attore che si agita sotto il costumone in gommapiuma con la cucitura sulla schiena, un sarcofago che deve averlo fatto sudare come in un bagno turco.
Il re capisce che la chiave per incastrare il mostro è Ami: la cattura e attira Pulgasari in trappola, in una gabbia a cui si da fuoco. E secondo voi che fa il nostro eroe? Si libera e si riparte. Dal punto di vista drammaturgico siamo a livelli infantili. Le scene di battaglia sono girate in modo dilettantesco, con sganassoni e capriole alla Bud Spencer e Terence Hill, ed è tutto avvincente come una partita di shangai. All’ennesimo confronto una freccia propulsa da polvere pirica piglia Pulgasari in un occhio: comprensibilmente il mostro s’incazza vieppiù e sgomina l’esercito per l’ennesima volta. Allora si fa ricorso a una fattucchiera in deliquio che lo strega e lo fa cascare in un orrido (orrido, sì, ma non quanto il film) dove lo sotterrano con delle pietre. L’esercito attacca i ribelli e, con mio sommo godimento borghese, Inde viene impiccato coi capelli sciolti al vento come Geronimo: devono avere qualche problema di parrucchieria da quelle parti, comunque. Vabbeh. I governativi festeggiano e Ami, che s’è finta prostituta, va a versare il suo sangue nell’orrido e Pulgasari riemerge dalla terra. I contadini attaccano la capitale, ma il re ha l’arma totale: una specie di involtino primavera pieno di esplosivo che finisce in gola a Pulgasari che repente lo risputa, sfasciando tutto. Roba da non credersi, con un’effettistica (a cura della Toho, quella dei vari Godzilla) che sarebbe parsa infelice in un telefilm come Megaloman, per dire, e un sonoro di una povertà clamorosa, con il clangore delle spade che neanche in un videogioco del Commodore 64. A questo punto i ribelli entrano in trionfo nel palazzo reale ma Pulgasari ha fame e – Franza o Spagna, purché se magna – diventa intrattabile, pretendendo altro metallo. La pazientissima Ami realizza che qui si rischia la fine dell’umanità e allora si nasconde in una campana e si fa mangiare, implorando il mostro, col suo sacrificio, di annientarsi per il bene della Terra. E Pulgasari sgrana gli occhi e si sgretola: dai detriti riemerge un Pulgasari cucciolo che si smaterializza ricongiungendosi col corpo esanime di Ami. E io: BOH.
Pulgasari sembra aver conosciuto incassi record alla sua uscita in Corea del Nord (beh, immagino che fosse imposto in sala tipo I soliti idioti quest’inverno qui da noi). In Giappone arrivò nel 1998, non ho capito con quale accoglienza, e poi venne distribuito anche in Corea del sud e pure negli USA, immagino per riderne di gusto o per compiacere qualche coprofago.
È una metafora del Capitalismo, con la sua fame inarrestabile? Oppure l’irriconoscente regista Shin ha voluto rappresentare con Pulgasari Kim Il Sung, padre della rivoluzione e Grande Leader ormai ingestibile come presenza? O ancora – e qui saremmo al top – ci sta dicendo che la Rivoluzione mangia se stessa? E CHI CAZZO LO SA?! È tutto confuso ideologicamente e non vedo come il regista possa aver voluto dare una qualche lettura sovversiva a ‘sta cacata. Potete attribuire tutto quello che volete, a questa clamorosa puttanata, anche che sia una satira delle diete carnivore, ricche di ferro e povere di verdura. Io non azzardo interpretazioni, valuto solo i risultati: non ho mai visto un film così orrendo. (29/2/12)

919 – The Artist di Michel Hazanavicious, Francia 2011
Fresco vincitore di una carrettata di Oscar, eccovi il film amato dai critici e dal pubblico più snob. Rientro perfettamente nella seconda categoria e ammetto il divertimento: l’opera di Hazanavicious è un intelligente e riuscito omaggio al bel cinema di un tempo, quello di circa 80 anni fa, che tracopia mimeticamente e in maniera scintillante. Muto, in bianco e nero, in formato 4/3, con tutti i temi cari alla cinematografia di quel periodo: la commedia passionale e patetica, con rovinose cadute di carriera come incredibili ascese rags to riches. Mettiamoci poi il gioco metacinematografico, l’uso dissimulato e intelligente del sonoro, diversi attori splendenti che non fan rimpiangere alcun dialogo (compreso un superbo cagnolino), musiche enfatiche anche riprese da altri film, un buon ritmo e l’immancabile happy ending, dopo il classico suicidio sventato. Un’opera così non può che far godere i critici che sui testi sacri del muto hanno studiato e che qui ritrovano in ammiccante filigrana. Il pubblico snob – che magari queste cose le ha già viste, ma è molto più probabile che no – ha un comprensibile compiacimento da scoperta. Saremmo nel midcult se The Artist fosse più facilino o facilone, ma Hazanavicious mi pare più intelligente che furbo e alla fine, Oscar o meno, il film l’han visto mica in così tanti. Un giocattolo carino, molto, che fa tenerezza. E una recensione borghesissima, lo ammetto. (Dvd; 4/3/12)

920 – Rome di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005
Sarà che ho appena finito di lavorare con Pippo Baudo (…) e tornando a casa – chissà perché – mi viene una voglia di antichità, di Storia, che tosto soddisfo col cofanetto di Rome comprato anni fa. La prima serie l’abbiamo già vista nell’edizione televisiva italica, mutilata di violenza e sesso per non turbare gli spettatori Rai, ci mancherebbe. Questa è quella uncut e decidiamo di ripartire dall’inizio, tanto la memoria della prima visione è pressoché scomparsa, annebbiata tra pannolini, pappe e sveglie notturne per l’allora piccolissima Sofia. Rome racconta la vicenda di Giulio Cesare (interpretato da un indiano che pare Paolo Calabresi, il Biascica di Boris) attraverso le storie di due poveri diavoli che son sempre a mezzo e, con abili sottigliezze narrative, si evince che i fatti scatenanti siano sempre dovuti a loro, micce loro malgrado della dinamite romana. Lucio Voreno (Boris Becker, uguale) e Tito Pullo (uno yankee che più non si può) sono ovunque, ad Alesia come a Farsalo (scampando in mezzo a 5000 vittime alla tempesta che ha annientato la flotta di Marco Antonio) come nel letto di quella drogata di Cleopatra. Lucio Voreno è diviso tra ambizione e dovere, mentre Tito Pullo è tutta minchia e il suo ideale è combattere, razziare, scopare, bere e fumare (dice proprio così… ma ai tempi dei romani si fumava? Scopro di sì: salvia, alloro, erbette… pazzesco!). Di contorno il futuro Augusto, Ottaviano, una piccola merda di eccezionale intelligenza politica, e Ottavia, una poverina indecisa sessualmente, sempre pedina di altri. Tra i vari colpi di scena della puntata finale, Cesare ci rimane comunque secco, anche se non pronuncia lo storico tu quoque. L’esperimento narrativo e produttivo è interessante, la messa in scena sontuosa, le inesattezze storiche a go-go (documentate con perfidia da Wikipedia) ma chi se ne frega. La cosa che più lascia perplessi, però, è la teoria di facce WASP o le inaspettate somiglianze, come Marco Antonio che sembra Teo Mammucari, furbetto, zozzetto e amatissimo dai suoi soldati. Il plot storico è adattato e non ci vedo niente di male e l’unica attendibilità che sembra rispettata in pieno è quella della realtà spicciola e quotidiana: pensa un po’, anche gli antichi romani trombavano, tradivano e facevano le scritte sui muri. Ringraziamo che ci vengano risparmiate le dita nel naso, le palline fatte con le caccole e le scoregge liberatorie. Molta attenzione è dedicata poi alla religiosità e alla superstizione, con il fato come arbitro dei destini: guai ad andare contro la Fortuna! (Cosa che salva Voreno e Pullo infinite volte da Cesare). C’è anche dell’ironia con il ciccione che al Foro romano fa il telegiornale e alla fine annuncia che le notizie sono state offerte dallo sponsor. Che dire, in conclusione? Serie magnifica che però va un po’ perdendo colpi e diventa progressivamente oscura e lenta, seguendo la caduta verso la tragedia del Divo Giulio, quello originale. (Dvd; marzo 2012)

921 – Il mondo esploso di Crumb di Terry Zwigoff, USA 1994
Se i fumetti di Robert Crumb vi sono sempre sembrati strani, dovreste conoscerne l’autore. E se lui vi parrà un tipo completamente fuori di coccio, allora non avete idea di come stiano messi i suoi fratelli. Questo il succo di un documentario notevole, costato nove anni di fatica e realizzato da un altro matto, un regista spiantato, amico di Crumb, capace di comprendere ciò che stava riprendendo, cioè il frutto doloroso della società americana: una famiglia che definire disfunzionale è fargli un grosso complimento. Repressione, consumismo, plastic people, cultura underground, depressione, perversione, sublimazione: in Crumb c’è tutto, sia nel documentario che nella vita e nelle opere dell’artista che, grazie al successo della sua “visione”, ha condotto un’esistenza più o meno normale. Due matrimoni, diverse storie, due figli. La sua vita artistica e sentimentale è raccontata attraverso le testimonianze, spesso scostanti e uncomfortable di chi gli è stato vicino. Diversamente Max e Charlie, i due fratelli, sono andati in malora. Il primo è ritirato a San Francisco dove dipinge quadri folli e bellissimi e medita su un tappeto di chiodi. Giuro. L’altro, Charlie, non esce di casa da anni, rinchiuso in camera sua. Anche lui un talento grafico eccezionale, lui più degli altri disperato di fronte alla vita, tanto che a un anno da fine riprese si suiciderà. Robert Crumb è famoso da noi per Fritz il gatto, ma è anche l’autore della copertina di Cheap Thrills, l’album che fece di Janis Joplin una star. Divenne popolare alla fine dei Sessanta, con le sue storie schizzate, perfette per l’epoca drogata e ribelle, e poi, man mano, cominciò a raccontare le sue ossessioni, passando attraverso il barbuto Mr. Natural o rievocando la sua adolescenza nel dopoguerra USA sessuofobico. Crumb disegna in modo incredibile, con pennino a china, pennello o rapidograph. È un commentatore satirico che non osserva soltanto, ma vive il disagio che rappresenta. Da artista vero, tormentato, bugiardo, misantropo (e “masturbatore compulsivo” secondo una ex, che ne ricorda anche il cazzo grossissimo), contento solo quando può ascoltare la sua collezione di dischi di jazz e blues delle origini, Crumb coglie le espressioni, la disperazione, i tic dell’americano medio assediato e represso dalla società. Assieme a lui – allampanato e con lenti spesse come fondi di bottiglia – ripercorriamo la sua storia girando per l’America e quel che viene fuori, appunto, è un documentario tradizionale nella forma ma dirompente nei contenuti. Non è un’agiografia, questa, e su Crumb è interessante ascoltare anche il punto di vista acuto di una femminista intransigente che lo bolla come pornografico, razzista e sessista (zero convincente invece il critico d’arte che lo esalta: un cialtrone che fa name dropping a caso per nascondere la sua ignoranza in materia). Documentario strepitoso, comunque. (Dvd; 31/3/12)

922 – Rome 2 la vendetta, di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2007
Porca Juno! Ma non si può a metà di una serie cambiare faccia a un protagonista, dai! Ottaviano, uno che hai visto per 14 puntate ragazzo, di punto in bianco diventa una specie di cyborg, con l’espressività di un capitello. Anche Lucio Voreno ha un evoluzione che dal punto di vista recitativo è tremenda, siccome è nervosetto diventa tutto oscuro, ringhia, ha sempre lo sguardo torvo, sembra Boris Becker dopo aver saputo che la donna che gli ha dato un figlio usando il seme ottenuto con un rapporto orale avrà piene tutele economiche (è successo, lo so: è incredibile). In contrapposizione si accentua il lato da compagnone del buon Tito Pullo, che però – data la sua natura primitiva – incorre anch’egli in diverse vaccate. Come sempre grande violenza, tradimenti schifosi, nessuno “buono”. Al limite si apprezza la schietta onestà di Marco Antonio. Per il resto son tutti calcolatori efferati o pusillanimi (come Bruto che si riscatta con la morte pressoché suicida, dopo aver visto morire anche Cassio – legame omoerotico solo sottilmente adombrato). Divertente, ad ogni modo, ma inferiore alla prima serie. (Dvd; marzo e aprile 2012)

925 – Colpa mia, non di Lady Vendetta, di Park Chan-wook, Corea del Sud 2005
Barbara e io sbagliamo clamorosamente film, perché per un’opera del genere bisognerebbe essere freschi e cazzuti e invece quando ci accasciamo sul divano ci piomba sulla schiena tutta la fatica della settimana. Poi non vorrei sembrare razzista ma io ho confuso tutte le facce degli attori e per un bel po’ non ho capito chi fosse chi e cosa cazzo volesse dalla bella protagonista. Comunque trattasi di ennesima variazione sul tema della vendetta: lei (figuratevi se ricordo il nome) è stata 13 anni in carcere, accusata di aver ammazzato un bimbo di sei anni. Lì ha abbracciato la religione (cristiana) e s’è comportata da santa, difendendo o vendicando le compagne angariate. Poi uscita di prigione si dedica alla vendetta, perché lei non era assassina ma semplicemente complice inconsapevole e succube. Si fa aiutare dalle vecchie compagne di carcere (e di nuovo io non capivo una mazza) e fa un bel lavoretto pulito, in maniera non proprio prevedibile. Lady Vendetta è elegantissimo da un punto di vista formale, spezzettato in tantissime scene e trascinato per le lunghe al momento della vendetta vera e propria: l’ho sopportato e m’è parso inutilmente complicato tra diversi piani narrativi e temporali (prima del carcere, durante e dopo). Meno brillante e riuscito dei precedenti capitoli di Park, quindi? Mah! Ero troppo stanco per vederlo con la dovuta attenzione, però il cliente ha sempre ragione: non è che l’Auditel del venerdì sera sia ponderata mettendo in conto la settimana lavorativa, eh. Per cui, anche se so di sbagliarmi, giudizio non esaltato e – prima o poi – vendetta tremenda vendetta. (Dvd; 13/4/12)

926 – Una benedizione: Baraka di Ron Fricke, USA 1992
È come una legge non scritta: è il week end, arrivi più morto che vivo e nel mio caso è anche un week end lavorativo. Bene: le bimbe, ka-zam!, hanno tutte e due la febbre. Tanto per cominciare non si capisce perché in settimana, per portarle a scuola, la sveglia prima delle 8 sia un’operazione titanica, mentre il sabato siano belle arzille e rumorose già alle 7… E vabbeh. Fatto sta che verso le 11 cominciano le lamentazioni e le misurazioni, che con questi maledetti termometri elettronici sono un autentico terno al lotto. Ma siccome ho studiato Fisica all’università faccio diverse misurazioni, tolgo i risultati estremi e calcolo la media. Non c’è nulla da fare: hanno il febbrone. E Sofia, catatonica, subisce la mia imposizione: un film non narrativo, di pure immagini. Siccome Koyaanisqatsi le ha fatto un baffo, non si scompone quando faccio partire questo Baraka girato da Ron Fricke, direttore della fotografia dell’epocale film di Godfrey Reggio. Rispetto al capostipite qui c’è più ricerca formale e cromatica ma si sente la mancanza della musica di Philip Glass. E se alla fine, stringi stringi, il concetto è farci vedere la ricchezza e la diversità della Terra e dell’impatto dell’uomo su di essa, qui c’è più compassione (il titolo significa – in diverse lingue – “benedizione”), mentre Koyaanisqatsi era manifestamente critico, a partire dal titolo. Sono tante le immagine di devozione e preghiera (soprattutto all’inizio e nel finale) e a fianco della maestosità della natura si trovano anche tanti esempi grandiosi dell’inventività umana, artistica e tecnica. Se ne vedono anche gli effetti (in termini ambientali) e il costo (le fabbriche alveare o l’allucinante sequenza della selezione dei pulcini). E ancora una volta vediamo il traffico velocizzato che diventa un torrente di automobili o le masse di pendolari che scorrono come sangue nelle vene della metropolitana. Ma il film di Reggio aveva una natura più sperimentale e astratta, forse frutto anche dei diversi materiali confluiti durante gli anni. Baraka invece risponde a un disegno più preciso e ambizioso: la bellezza e l’orrore, cioè l’umanità, dal rapporto placido col creato (gli indios, gli aborigeni, le risaie terrazzate a Bali) a quello impazzito (i pozzi in fiamme in Iraq). Non stupefacente perché visto in casa e non in una sala, come previsto utilizzando la pellicola a 70 mm. Però bello, molto, e apprezzato anche dai 7 anni di Sofia. (Dvd; 14/4/12)

927 – La maledizione della prima luna di Gore Verbinski, Usa 2003
Altro film, ma stavolta sceglie Sofia, che si toglie una soddisfazione: in classe sua La maledizione della prima luna l’han visto tutti e soffre di complessi, la piccina che si vanta con nonchalance di Koyaanisqatsi. Tale e quale a suo padre. Purtroppo. Il film è divertente ed è evidentemente per bambini, ma siccome gli USA sono un grande paese l’han visto diverse milionate di adulti. Botte, botti, duelli e schermaglie anche verbali. La regia è molto ritmata, ricca di invenzioni cinematiche e in effetti non ci si annoia di fronte a questo aggiornamento che rubacchia qui e là, da Peter Pan al Corsaro Nero a Sandokan. Sforzo produttivo e cura realizzativa, appoggiandosi poi a un cast astuto: ci sono un lercio e autoironico Johnny Depp, una splendida Keira Knightley (non secca secca com’è adesso) e il belloccio Orlando Bloom. Di contorno quel Geoffrey Rush che mi sta sulle palle dai tempi del turpe Shine, ma che risulta effettivamente bravo. E poi è sempre un piacere rivedere Jonathan Pryce che non è invecchiato di un giorno dai tempi di Brazil. Film divertente, da pop corn e Coca Cola. Per pensare, rivolgersi ad altro (ma chi l’ha detto che io pensi, quando guardo un film?). (Dvd; 14/4/12)

928 – Esanime, Watchmen di Zack Snyder, USA 2009
Il week end di fuoco volge al termine e Barbara rifiuta in maniera odiosa qualunque cosa le proponga: la mia collezione di Dvd sovietici e di documentari in bianco e nero viene ufficialmente maledetta con un tremendo anatema. Allora facciamo ricorso a un film scaricato per mera curiosità e per stupido imitativo desiderio di possesso: se ce l’ho è quasi come se lo avessi già visto. Adesso però tocca vederlo sul serio. Barbara, orfana di Marco Antonio e di Rome, pensa che dei supereroi siano meglio che niente e allora ci imbarchiamo nell’avventura. Ed è una rottura di palle micidiale. Scritto (e disegnato) ancora durante la guerra fredda, Watchmen è la saga di un gruppo di ex supereroi messi da parte, alle prese con problemi esistenziali e la voglia di mettere fine all’equilibrio del terrore tra le due superpotenze. Ci riusciranno in maniera per nulla convincente (in termini narrativi), in un film lungo, noioso, calligrafico senza motivo, con protagonisti dei complessati cretini in costume. Mah! Me l’hanno consigliato Fabrizio e Max, ma forse la soddisfazione di Fabri partiva dalla riuscita trasposizione del fumetto (che mi ha consigliato per anni), mentre per Max si tratta di depressione, cosa di cui solitamente accusa me. Io apprezzo la messa in scena, al limite limite, ma poi, in fondo, delle vicende di questi odiosi tizi mascherati al servizio di una nazione infantile non me ne frega niente. Non riesco a fare il salto, ad avere compassione per i supereroi ridotti a vivere come normali cittadini e – lontani 25 anni dall’epoca dei fatti – anche le motivazioni pacifiste sembrano artificiose e pare tutto una parodia della parodia che era The Incredibles della Pixar. Film senza scintilla vitale: Snyder è quello di 300 e sotto la confezione c’è il vuoto. (Dvd; 15/4/12)

930 – A me fanno schifo I Goonies di Richard Donner, USA 1985
Gruppo di bambini con facce da cazzo assortite si interrogano a ritmo letargico per oltre due ore su un mistero fasullo. Tesori nascosti, scheletri, schermaglie tra bande… bah. Sofia apprezza ma a me non m’è piaciuto per niente – sarò stato stanco, indisposto, irritabile, che ne so – e non avendolo visto da ragazzo non ne conservavo neanche un ricordo positivo alterato dalla nostalgia. Da un soggetto di Spielberg, regia di quello che ha anche firmato Ladyhawke, altro film che andrebbe un po’ ridimensionato, e il primo Superman (idem c.s.). All’attivo Richard Donner ha, per i miei gusti plebei, giusto il casinaro Arma letale. Per il resto son perplesso e vi chiedo: per voi I Goonies è “mitico”? E mi dispiace, allora: avete avuto un’infanzia più disagiata della mia, eh. (Dvd; 29/4/12)

931 – Semplicissimo Cattivissimo me di Chris Renaud e Pierre Coffin, USA 2010
Un cattivissimo misantropo cui basta affiancare dei bimbi perché diventi buonissimo e amorevole. Non c’è molto d’altro a livello di narrazione in questo Cattivissimo me, che però possiede alcune trovate, è disegnato benino da un team francese e si fa vedere soprattutto per la frenesia cogliona e liberatoria dei Minions, dei tombolotti gialli al servizio del protagonista che blaterano in una sorta di esperanto babelico. E tanto mi basta, dai. Poi, en passant, ho visto anche le deliranti scene stracult di Paganini Kinski, sconclusionata biografia eretica ed erotica del violinista genovese. Va detto che vedere Klaus Kinski emaciato che puccia la lingua nella peluria di una figurante sconosciuta non sia cosa da eccitare neanche un monaco in clausura da decenni. Nel delirio annoto anche le apparizioni psichedeliche di Donatella Rettore: era molto bella; purtroppo oggi – come previsto da Splendido Splendente – può dire: “Io sorrido eternamente grazie a un bisturi tagliente”. E comunque l’album Kamikaze Rock’n’roll Suicide era un’operina stramba ma piacevole, giuro. Vabbeh, ho divagato. (Dvd; 11/5/12)

932 – La realtà è un uccello: 9 Songs di Michael Winterbottom, Gran Bretagna 2004
Esasperato da troppo cinema per bambini mi schioppo un peccaminoso Winterbottom, eclatante esempio di cinema d’autore con scene di sesso non simulato. E uno si chiede: perché? Quella raccontata è una storia d’amore: serve l’esplicitazione per renderla più vera, più credibile? O si cercava un successo di scandalo? O cosa? Cacace non sa, non risponde. Perché questo 9 Songs non respinge, non indigna, non scandalizza (figuriamoci), ma lascia proprio con un interrogativo: perché? Mah. Matt e Lisa – lui inglese, climatologo, lei americana in Gran Bretagna per studiare – si conoscono a uno dei tanti concerti che punteggiano (attraverso nove canzoni) il film. Si vedono, si piacciono, scopano e poi dormono abbracciati, in intimità immediata, simple as that. Io a vent’anni tornavo dai concerti gonfio di pipì, con un principio di sciatica e sudato da far schifo. Devo aver sbagliato concerti, non so. Qui sono fatali i Black Rebel Motorcycle Club e poi via via ascoltiamo brani di Primal Scream, Franz Ferdinand e qualche altro british che ha caratterizzato gli anni Zero del rock (gli ultimi, purtroppo). Canzoni che sono inni alla giovinezza, alla frustrazione, alla voglia di esplodere. In effetti si sente il desiderio, quella pura energia dei corpi, delle menti, l’ansia positiva e la fame di futuro, di pelle, di baci, come a mangiarsi il corpo, dopo tanti morsi e leccate.
Tra una song e l’altra (e anche Michael Nyman al piano, nel concerto per i suoi 60 anni) strisce di cocaina, pianti, breakfast e cene, irritazioni e qualche parola che si vorrebbe emblematica, fine alla fine del rapporto: questi sono carucci, con la bellezza della gioventù, sodi, guizzanti, arrapati e con una confidenza corporea che ma io ho avuto né, ormai, avrò. La cinepresa digitale, impudica e addosso ai corpi, è come se partecipasse ma non c’è un vero crescendo psicologico e narrativo (se non forse in termini di provocazione visiva, arrivando – dopo cunnilinctus, footjob, dildo e altro – a un rapporto orale mostrato esplicitamente fino alle liquide conseguenze). Ma io vorrei un’emozione sincera non solo realistica, perché qui è tutto enunciato, dato, senza crescita vera. E alla fine, di fronte a questa cruda esposizione minimale, mi manca l’emozione, non trovo compassione autentica né partecipazione. E mi dispiace perché alla fine il film – coraggioso, curioso – mi pare riuscito solo nelle intenzioni. (13/5/12)

933 – Indigesto Ratatouille di Brad Bird, USA 2007
Storia noiosa all’inizio, protagonisti poco attraenti, finale evocativo con richiamo proustiano all’infanzia per riabilitare il tutto. Diverse accelerazioni (inseguimenti virtuosistici e concitati percorsi mirabolanti) rendono passabile la storia, ma non posso appassionarmi alle vicende di una pantegana pelosa e gastronoma: solo degli americani potevano concepire una cosa così. E tutta la poesia del cibo scompare ogni volta che vengono confuse spezie, erbe aromatiche e sapori (nonostante la coltissima citazione dello zafferano dell’Aquila). Oggetto bellissimo che non funziona, Ratatouille globalmente delude: i critici che lo hanno osannato per fare i gggiovani che hanno scoperto la Pixar, tanto per cambiare non han capito nulla. (Dvd, 15/5/12)

934 – La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera di Stefan Herek, USA/Gran Bretagna 1996
Barbara è partita e io ho le mie armi segrete per mandare le bimbe a letto presto: qualche pappa peccaminosa e soprattutto uno scintillante film nuovo, questo. Definito da Elena la Carica dei 101 umano, si fa vedere e ha ritmo e trovate sceniche: non segue pedissequamente l’originale (qui gli animali non parlano) ma lo aggiorna senza risultare fastidioso, accentuando il sentimento di vendetta: i cattivi sono mazzulati a più riprese, con gusto, con l’apice di Crudelia Demon cacciata nella melassa e poi anche nel letame. Glenn Close è bravissima e Jeff Daniels ha ormai la faccia da gran bollito, ma se la cava assieme a un’attrice che sembra una triglia. Uno dei due cattivi è il Dr. House, comunque. (Dvd; 20/5/12)

(Continua – 79)

È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 61 https://www.carmillaonline.com/2014/07/03/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-61/ Thu, 03 Jul 2014 21:26:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15584 di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004 Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì. Venerdì arrivo presto [...]]]> di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004
Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì.
Venerdì arrivo presto dall’ufficio, faccio una spesa blietzkrieg comprando cibi strategici e mi metto subito sotto, senza indugi, sono uno serio, io. Cioè vedo le prime quattro puntate del serial, sbafando patatine all’aceto e un caprice des dieux scartocciato e addentato come una banana. Sabato mi sveglio ad orario congruo e faccio il mio dovere professionale fino a tarda mattinata, quando ci stanno un kebab leggerissimo con Coca Cola e altre due puntate. Le vedo ruttando cipolla cruda. Riprendo a scrivere e a merenda gradisco ancora due episodi accompagnati da un Twix ciascheduno. Arrivo a sera stanco e un po’ appesantito, chissà perché, e allora ci sta una diavola presa sotto casa con litrozzo di Menabrea ghiacciata e come niente mi scoppio altre quattro puntate. Ormai ho preso il ritmo, sono a metà dell’opera (del cofanetto, intendo) e ho un’efficienza produttiva sudcoreana con rigore (e prevedibili punizioni, in caso di fallimento) nordcoreano. È già domenica e per pranzo concludo il mio lavoro, che non è neanche male. Santifico la festa e la libertà con Cipster, un intero salame di Piacenza ben stagionato che non mi preoccupo neanche di tagliare – tanto va via a morsi che è una meraviglia – e innaffiando il tutto con Lemonsoda a 4 gradi, uno dei piaceri della vita. Una festa a sorpresa per il mio colesterolo, ma chi ne gode di più sono i miei lobi cerebrali perché il fiero pasto viene consumato pazientemente mentre assumo dodici episodi di Lost, uno via l’altro, concedendomi giusto una pisciatina ogni tanto. E arrivato alla fine della maratona gastroseriale dichiaro convinto che probabilmente, ad oggi, questa è l’esperienza televisiva più clamorosa di ogni tempo. Fate questa semplice addizione: Robinson Crusoe + Cast Away + L’isola del dottor Moureau + Il signore delle mosche + il telefilm Le isole perdute + il videogame Monkey Island + la saga di Airport + L’isola del tesoro + il reality Survivors + l’estetica primi seventies e tutto l’immaginario pop che vi possa venire in mente. Ganci narrativi a profusione, apparato tecnico e artistico a livelli sublimi, attori azzeccati, dialoghi (in originale) perfetti: è impossibile mollarlo, è una droga potentissima, che il crack al confronto smetti quando vuoi. La storia la sapete e non ve la ripeto e l’intreccio è clamoroso. Ma la formula prevede anche flashback che illustrano il passato dei 14 protagonisti, formula quasi banale orchestrata magistralmente: ognuno ha un passato che nasconde qualcosa, tutti sono inspiegabilmente legati, anche senza saperlo. Alla fine ne viene fuori una macchina narrativa perfetta: si può fare di meglio, ma 24 episodi in 52 ore – dovendo lavorare – sono un mio personale piccolo record. Gli extra del cofanetto sono interessanti: i creatori di questa macchina da guerra sono tre trentenni adrenalinici, cazzoni e affilati come rasoi, capaci di mettere in piedi lo show – come lo chiamano loro – in pochi giorni, assoldando il cast mentre lo script era ancora in embrione. Oppure diciamo che la mitologia agiografica vuole così, ma non importa: la prima serie di Lost è un capolavoro, comunque vada a finire. (Dvd; 6, 7, 8/4/07)

ddv6102Douro632 – Compiacimento archeologico con Douro faina fluvial di Manoel De Oliveira, Portogallo 1931
Altra Vhs da estinguere, con una registrazione che mi aspetta da diversi anni: il primissimo film di De Oliveira, quando era appena ventitreenne. Il documentario è fortemente debitore del cinema sovietico ed è assimilabile alle tante “sinfonie urbane” di quegli anni. La vita sul fiume Douro, sotto il ponte Luiz I, dall’alba alla notte: grafismi, assonanze visive, dinamismi, nature morte, riflessi, ombre, particolari, montaggio analogico, primi piani, grandangolate. Ci rivedi dentro Ivens, Chomette, Ruttman, Clair (La Tour), Vertov, Vigo e molta avanguardia coeva: un film piccolo, bellissimo e montato da dio. Appagante il gusto per la bella immagine, pulita, pregnante. Non si è più abituati a questo nitore e la volgarità della tivù è nell’averci disabituato alla bellezza compositiva, all’inquadratura filmica come opera d’arte. Ecco. E De Oliveira l’anno prossimo compie cent’anni: ha cominciato col muto e il bianco e nero ed è ancora lì che gira e produce a tutto spiano. Magari chiava pure, non so. Pazzesco. (Vhs da RaiTre; 10/4/07)

ddv6103 JCS639 – Oddio, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA 1973
Nuova passione di Sofia duenne, che ne ha visto un pezzettino e non lo ha voluto mollare più. Ovviamente la visione è di pochi minuti per volta ed è rigidamente censurata quando le cose volgono al peggio per Nostro Signore Hippie. Il quesito che Sofia mi pone continuamente è perché litigano tutti (Gesù con Giuda, Giuda con gli apostoli, i farisei con Gesù etc.) e non s’immagina neanche lontanamente come finiscano malissimo tutte queste discussioni. Il film io lo ritrovo splendido e le ripetute visioni me ne fanno apprezzare ogni sfumatura. La musica, beh, è clamorosa, lo sappiamo già: prima di tutto, Jesus Christ Superstar è stato un disco strepitoso, realizzato perché in teatro nessuno si sentiva di produrre un’opera con protagonista Gesù. Se ti dicevano che l’ottica era quella di Giuda, poi… I due autori ventenni, Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, oggi baronetti, hanno poi fatto la storia del genere, ma all’epoca scommisero pesante. Girava una parola nuova, allora: “Superstar”. Decisero di fare i gggiovani e di usarla per un titolo che colpiva e per analogia costruirono un Gesù rockstar, con Giuda ideologo preoccupato dal troppo successo d’immagine che oscurava il messaggio. La storia acquisì anche sottotesti politici e, per me, una costante tensione omosessuale. Musicalmente siamo allo stato dell’arte del rock di quegli anni: influenzato dal pop, con reminiscenze di ragtime quando serve, perlopiù improntato da un rhythm and blues da infarto, non disdegnando tracce di psichedelia e hard (con la chitarra scatenata di Henry McCollough). Da contrapporre al Giuda discografico di Murray Head (quello di One Night In Bangkok!) serviva un Gesù potente e incazzoso, umano e non divino (stesse conclusioni di De André per il coevo La buona novella): l’ascolto delle urla barbariche di Child in Time sul non ancora pubblicato In Rock dei Deep Purple fece trovare l’uomo giusto, Ian Gillan. Maria Maddalena venne invece scovata per caso, mentre cantava in un club postribolare: era la Yvonne Elliman, che purtroppo dopo fu solo corista e amante di Clapton. Nell’ottobre 1970 uscì l’album doppio, da considerare assieme a Tommy capostipite di tutte le rock opera. Oggi siamo oltre le 20 milioni di copie vendute: avesse esordito come musical in un teatro di provincia non ne conosceremmo neppure l’esistenza. Invece il successo del disco fece fare due più due a qualche impresario che portò l’opera per 8 anni consecutivi nel West End londinese (record dell’epoca, oggi non so). Nel 1973 – sull’onda del successo ormai planetario – venne realizzato questo film meraviglioso che accentua gli anacronismi (e la stessa temperie hippie era già bella che passata) e leviga lo score musicale con l’orchestra, ma senza esagerare: infatti la chitarra continua a improvvisare a latere. Gillan, interpellato, non partecipò per impegni che dovete conoscere e nel cast subentrarono l’ottimo e strabico Ted Neeley e soprattutto il Giuda marxista che non dimenticheremo mai, Carl Anderson, morto tre anni fa, pace all’anima sua. In questo Jesus Christ Superstar sono eccezionali anche il montaggio, i costumi, la recitazione generale o le incredibili location on site, con il sole sempre basso (doveva fare un caldo dell’accidente, eh). Siccome sono prodotti del loro tempo – album doppio e film –, i critici li hanno sempre un po’ snobbati e li dimenticano ogni volta che bisogna fare una di quelle stupide classifiche che servono a riempire le riviste durante i mesi estivi. Ma sbagliano e le due opere meritano ancora oggi lo status di capolavoro assoluto. Oh, stiamo ben parlando di Dio, eh? (Dvd; maggio ’07)

ddv6104 Bova640 – Io, l’altro di uno inadeguato, Italia 2007
Devo confessare l’antefatto: nell’ultima puntata del programma tivù cui lavoro è stato ospite gradito Raoul Bova, un educatissimo gnoccolone – lo confermo per le lettrici femminili con la Bova alla bocca –, molto carino. E che a registrazione ultimata ci ha invitato tutti alla prima di un film che ha prodotto e interpretato, credendoci molto. Promettono tutti di venire ma al cinema mi presento solo io (redazione di paccari snob!) e siccome non ho faccia tosta abbastanza mi siedo in mezzo al pubblico plebeo e scoprirò solo dopo che avevo un posto riservato di fianco a Giorgio Armani. Pensa cosa s’è perso: un Cacace in camicia da boscaiolo e pantaloni cargo lerci, roba che ci tirava fuori due collezioni estate-inverno per l’uomo casual. Vabbeh: il film. Due pescatori, uno italiano, uno arabo, con lo stesso nome (Giuseppe e Youssef) lavorano assieme su un peschereccio, sinché non emergono dubbi e differenze e accuse. Va prevedibilmente a schifìo: il film ha sicuramente un intento meritorio ma il veleno del terrorismo raccontato da un regista con poche letture (il tunisino Mohsen Melliti) fa crollare le aspirazioni di un apologo teatrale molto scarno. I due attori (Bova e Giovanni Martorana) tengono in piedi il film nonostante lo script schematico, con passaggi di sceneggiatura che sfiorano il ridicolo e dialoghi maldestri a dir tanto. E qui la colpa è di sceneggiatori che per conto mio meriterebbero la radiazione dall’albo, se mai esiste, perché i buoni propositi non bastano. A fine proiezione esco dalla sala perplesso, pensando ai fatti miei, dimentico dell’atmosfera celebrativa e in cima alla scalinata che dà sull’esterno mi ritrovo all’improvviso abbracciato dal coraggioso Raoul Bova, accecato da un crepitare di flash che mi avranno sicuramente guadagnato una partecipazione involontaria a Sipario su Retequattro. Succede. A me. (Multisala Odeon, Milano; 14/5/07)

ddv6105 24641 – Lo stupefacente 24 – Season 1 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2001
Di questo seriale controverso e altamente addictive, che è il non plus ultra dell’adrenalina televisiva e che porta a un consumo compulsivo simile a quanto avviene con Lost, parlo più avanti. Qui rilevo solo l’incredibile finale del thriller spionistico, una cosa che mai potreste immaginare. Abbiate fede, procuratevelo, deliziatevene e andate all’incredibile, ricchissimo, innovativo e geniale parere d’autore (cioè il mio) che troverete alla rec. #655. (Dvd; maggio e giugno ’07)

ddv6106 Uccidete la democrazia642 – Lo spaventoso Uccidete la democrazia! di Ruben H. Oliva, Italia 2006
Documentario maldestro e, purtroppo, senza uno straccio di prova esibita, sulle elezioni politiche dell’anno scorso, quando nel corso di una giornata si passò da una vittoria schiacciante dell’armata Brancaleone di Prodi a una risicatissima maggioranza a notte fonda, pelo pelo, tanto che oggi ‘sto governo vivacchia sperando che la Levi Montalcini arrivi oltre i cento anni. A urne chiuse il nano gridò subito al broglio, e siccome “l’ho detto prima io” nessuno fece notare granché che il sospetto, al limite, era per chi aveva gestito informaticamente il voto, cioè il governo uscente. Vabbeh. Sennonché sulla vicenda è tornato quel drittone di D’Alema, parlandone en passant da Fabio Fazio, dicendo cose gravissime senza però andare fino in fondo alla faccenda (lui, Fazio, i giornalisti, tutti, CAZZO!), perché tanto siamo superiori o più semplicemente complici. Il documentario in questione affronta la vicenda ed è sgrammaticato, sceneggiato male, con escursioni narrative che confondono (Portella delle Ginestre, il cospiratore americano) e con parti ricostruite in fiction semplicemente agghiaccianti, da non poterci credere, al di là del bene e del male come recitazione e testo. Mi stupisce che nessuno si sia preso la briga di prendere una videocamera e un microfono per andare da D’Alema a fare la domanda che Fazio non ha fatto: “A Massimo bello, spiegami un po’ BENE cos’è successo… perché quando si stava mettendo veramente male hai mandato Minnitti al Viminale? Cos’ha fatto là?”. E poi, facendo la fatica di cambiare interlocutore: “Caro Minnitti, spiegaci perché arrivi tu e s’inverte la tendenza dei voti…”. E magari una domandina anche a Pisanu, via!, ministro responsabile dell’epoca. Perché il flusso anomalo di voti e l’anomalia statistica della scomparsa delle schede bianche (in tutte le regioni, con le stesse percentuali, mai successo in 50 anni di Repubblica), non sono una prova, però un bell’argomento sì. E invece rimane tutto lì, adombrato, guadagnando al film la facile accusa di complottismo. Peccato, ma proprio “no buono”, come diceva Andy Luotto. (Dvd; 21/5/07)

ddv6107 apocalypto645 – Corri! Arriva Apocalypto di Mel Gibson, USA 2006
Seratina genovese, con papà che sonnecchia mentre su Sky passa Ogni cosa è illuminata, film rischiosissimo, tratto da uno dei romanzi più belli letti di recente. A film finito (e direi riuscito) e papà a letto ito, rimango solo con un dvd che mi attira terribilmente. Qui ne hanno parlato tutti malissimo – lo so – perché Mel Gibson sta prepotentemente sulle palle ai nostri critici. Del resto è un fascistone. Ma oltremare il film è stato ben accolto. Io non ho visto Braveheart la Passione di Cristo per cui non ho preconcetti e se puttanata dev’essere, che puttanata sia: me lo vedo anche se è tardi perché di sonno non ne ho per niente, domani non lavoro e ho diritto ogni tanto anch’io, eccheccazzo, al diavolo l’ideologia. E poi per me Gibson rimane l’amabile tamarro con la testa gonfia di Arma letale, l’eroe post-atomico di Mad Max e il soldatino eroico de Gli anni spezzati, mio personale stracult. Gli perdono tante cose, insomma. E vengo premiato in toto perché Apocalypto è una sesquipedale e clamorosamente divertente stronzata, un videogioco indiavolato dove un povero maya della foresta dello Yucatan deve fuggire da rapitori carogne e sacerdoti amabili che ti estraggono il cuore senza anestesia. Non ho verificato l’attendibilità storica del prodottino, ma non m’importa per niente: il thriller azteco è ritmato, colorato ed efferato e va via che è una meraviglia. E poi – per fortuna, verrebbe da dire – arrivano i conquistadores che sbarcano a sinistra dello schermo, cioè percettivamente a ovest (come se arrivassero dall’oceano Pacifico, insomma): il ribaltamento di campo geografico mi manda in sbattimento psicomotorio, tipo pilota di jet che perde l’orizzonte, e mi consegna a un sonno inquieto. Apocalypto è come una parmigiana di melanzane bisunta: sai che non devi mangiarla, lo fai, ti strafoghi, ne godi. E poi hai gli incubi. (Dvd; 26/5/07)

ddv6108 HRCCacace a Mosca (con filmino ad hoc!)
Per la consueta settimana di festeggiamento annuale dei 138 Hard Rock Cafe sparsi nel mondo, me ne vò con Riccardo a Mosca, a riprendere il concerto del nostro amico Vic Vergeat.
L’arrivo nella capitale è incredibile: smog come a Mexico City e traffico come a Mumbay, con SUV giganteschi e Lada arrugginite fianco a fianco. I semafori sono a gusto della Polizia che può cambiare segnale all’improvviso, rendendo l’attraversamento pedonale divertente come una roulette russa. Il mio albergo è davanti al Ministero dell’Interno, un imponente palazzo staliniano che negli anni Cinquanta, se eri un Giovane Pioniere, doveva sembrarti un missile puntato verso il cosmo. O verso le tue terga se eri un dissidente. Dicono che l’albergo – molto frequentato da politici stranieri – sia controllato dai servizi segreti che l’hanno tutto cablato. Mah: non ci credo, non voglio intaccare il mio sincero fervore sovietico.
L’Hard Rock invece è davanti alla casa di Puskin, sul vecchio Arbat, il corso dove la gente fa le vasche come in tutto il mondo e dove puoi vedere splendide ragazze, militari sfaccendati, facce piatte di buriati e calmucchi, artisti fasulli che disegnano caricature invendibili e turisti che ci cascano. Aperto nel 2003, il locale presenta reliquie decisamente cafone come gli abiti di scena di Ozzy Osbourne e Paul Stanley dei Kiss, gli stivalazzi di quella gran signora di Lita Ford e anche la clamorosa chitarra dei Blue Öyster Cult, sagomata come il simbolo di Cronos. Il tocco indigeno è dato da qualche balalaika elettrica di artisti francamente ignoti a noi occidentali. E a tavola altro che bortsch e blinis: panini molto yankee e per i fanatici degli Aerosmith pure la “Quesadilla alla Joe Perry”, polletto con una salsina urticante con cui faccio merenda. E poi si può fumare che è un vantaggio niente male.
Dopo le prime prove acustiche e di regia torniamo in albergo a prepararci per la serata. Vic è inquieto e accusa curiosi fastidi alla schiena, sinché non scopre che è venuto in Russia con due scarpe diverse (!) che lo fanno zoppicare. Ci prepariamo ad uscire, vagamente storditi dalla conturbante frequentazione dell’albergo di donne single eleganti ed altere che intuisco potrebbero incenerirti la carta di credito. Ma io ho una faccia da deficit e non vengo considerato come possibile cliente. Ci succede di peggio: siamo nella hall con la band e, momento surreale come pochi, da una rumorosa delegazione di politici italiani si stacca l’ineffabile Giulio Tremonti – lui, giuro – che ci piomba addosso curioso. Vuol sapere chi siamo e che facciamo a Mosca e nella vita. Non a caso non si offre come commercialista a nessuno di noi. È lì con Bertinotti per non so quale incarico comunitario (Tremonti: “Una gvuan vottua di balle”) e quando sa del nostro concerto dell’indomani e dell’abilità di Vic esclama “Magavui mi imbuco!”. Fausto non ci degna che di un cenno e devo dire che tra il rotacismo dei due risulta più simpatico quello di destra, mannaggia.
Andiamo nel ristorante più quotato della capitale in questo momento, italiano. È tutto offerto dal fantastico organizzatore della trasferta Luca e siamo trattati come superstar, con cibi nostrani pregiati e freschissimi, come certe burratine che vengono fatte arrivare dalla Puglia con voli giornalieri. Fuori dal locale una teoria di Hummer corazzati tutti col motore acceso. Chiedo distrattamente il perché a chi sa di cose moscovite e la risposta mi lascia la burratina a metà gargarozzo: “Per scappare subito in caso di attentato”. Comincio a osservare allarmato la clientela e ai miei occhi diventano tutti mafiosi ceceni, trafficanti georgiani, industriali del gas e generici tagliagole. Si finisce con classici brindisi e abbracci lacrimosi con sconosciuti e seppur barcollanti guadagniamo di nuovo l’albergo. Ric dorme 9 ore consecutive, senza pipì; io sono svegliato dagli SMS di sua moglie e tormentato da un’aria condizionata siberiana inarrestabile.
Il giovedì mattina è dedicato a un ovvio pellegrinaggio alla piazza Rossa. Vic compra delle scarpe nuove ai magazzini GUM, io mi faccio turlupinare acquistando alcune memorabilia sovietiche palesemente false, Ric riprende tutto, anche quando una guardia ci invita ad abbassare le telecamere, non capiamo se volendo una mancetta o cosa. La piazza è grossa ma non come credevo e San Basilio è proprio piccina, un labirinto espressionista. Pranziamo all’Hard Rock Cafe e poi dedichiamo il pomeriggio a prove estenuanti, fino all’ennesimo frugale spuntino e al concerto vero e proprio, davanti a una cinquantina di persone.
ddv6109 MoscaDopo l’esibizione ceniamo per l’ennesima volta nel locale, un po’ appesantiti, francamente, e nell’euforia post partum Vic ci racconta convinto della storia dell’uomo bicazzo, cui Ric e io non crediamo assolutamente. Complice la birra prima e le vodke dopo chiedo curioso di come siano posizionati i peni e ipotizzo rapporti a “presa elettrica” con la famosa donna con due buchi del culo. Ric ha un attacco di risa isterico e in albergo deve prendere il Ventolin perché ha ancora l’affanno asmatico un’ora dopo. Però poi scopriamo che la difallia esiste eccome (sui due buchi del culo non ho investigato).
Il venerdì siamo ancora storditi da alcolici, fumo e rivelazioni morfologiche, ma ci concediamo una visita più accurata del centro di Mosca, ritornando infine sulla piazza Rossa e visitando l’emozionante monumento dei caduti della seconda guerra mondiale. Ci sono segni dell’impero sovietico un po’ ovunque, non nascosti, neanche esaltati, ma presenti. Come il paragone quasi orgoglioso tra Putin e Lenin. Poi è già ora di ritorno a casa e dopo due ore in coda fino all’aeroporto Sheremetyevo, con un tempismo da film thrilling saliamo a bordo. Mosca addio. Come diceva Abatantuono nell’immortale Eccezzziunale veramente: “Che popolo, lo slafo!”. Ah: poi al concerto Tremonti ha dato buca. (Live 13, 14, 15/6/07)

655 – 24 – Season 2 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2002
Se arrivate dalla recensione #641 vi ho fregati: per i miei pensierini su questa serie magistrale vi tocca aspettare la #688 perché, lo confesso, ciurlo nel manico anche nella #672. (Dvd; agosto ‘07)

ddv6110 History Of Violence660 – Non ho capito benissimo A History Of Violence di David Cronenberg, USA 2005
Mah! Adesso: non è che se un film lo firma Cronenberg, debba per forza essere un colpo di genio… io son rimasto freddo, confesso, mentre tutto il mondo ha gridato al miracolo. L’unica cosa che mi ha colpito è quando a metà pellicola c’è l’idea clamorosa della lite che finisce in trombata: Viggo Mortensen e Maria Bello litigano furiosamente, si menano di brutto e poi – dopo un’occhiata elettrica – scopano come cani per le scale di casa. Detto questo, mi pare un film algido, in qualche maniera irrisolto, che parte bene per poi andare totalmente sopra le righe nella seconda parte. Ma non sembra averlo notato nessuno. Boh, sbaglierò io! Ed ero pure di buon umore: l’oracolo immerso nella pipì ha confermato, l’anno prossimo ripartono le notti magiche perché arriva un altro figlio, oh yeah! (Dvd; 25/9/07)

(Continua – 61)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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