Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente/4 https://www.carmillaonline.com/2015/06/06/prosperare-sul-disastro-cronache-dallemergenza-sociale-permanente4/ Sat, 06 Jun 2015 01:00:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23081 di Alexik

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Ponte MammoloRoma 11 maggio 2015. Mentre al Teatro Brancaccio si attende l’arrivo di Salvini, a Ponte Mammolo va in scena un altro spettacolo: a quasi undici anni di distanza dallo sgombero dell’Hotel Africa si replica lo stesso consunto copione.

Questa volta è il turno della “Comunità della Pace”, dimora precaria di centinaia di persone tra richiedenti asilo e migranti economici, provenienti in prevalenza da Ucraina, Eritrea e America del Sud. Un insediamento “storico”, che stava lì da dieci [...]]]> di Alexik

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Ponte MammoloRoma 11 maggio 2015. Mentre al Teatro Brancaccio si attende l’arrivo di Salvini, a Ponte Mammolo va in scena un altro spettacolo: a quasi undici anni di distanza dallo sgombero dell’Hotel Africa si replica lo stesso consunto copione.

Questa volta è il turno della “Comunità della Pace”, dimora precaria di centinaia di persone tra richiedenti asilo e migranti economici, provenienti in prevalenza da Ucraina, Eritrea e America del Sud. Un insediamento “storico”, che stava lì da dieci anni senza creare grossi problemi. Come dicevo, il copione dello sgombero è sempre lo stesso, anzi peggio: mezz’ora di preavviso, polizia in assetto antisommossa, gente che piange e si sente male, altri che si affannano a portare via le proprie povere cose mentre la Municipale tenta di impedirglielo. Non c’è rispetto per nessuno: famiglie, bambini, donne anziane. Poi arrivano le ruspe a spianare ciò che era stata chiamata casa da tanta gente, sbattuta in strada priva di tutto e senza che nessuno si sia preoccupato di fornire alternative.

L’assessora ai servizi sociali della giunta Marino prima rivendica l’operazione (“stiamo smantellando un ghetto) poi, davanti alle associazioni inferocite, fa finta di cadere dalle nuvole, tentando di scaricare le responsabilità sul nuovo prefetto, che le rimanda al mittente (“è stato il Comune a chiederci lo sgombero“). Anche il prefetto Franco Gabrielli, arrivato fresco fresco dalla guida della Protezione Civile, non garantisce per gli sfollati né protezione né civiltà. All’atto dell’insediamento aveva dichiarato “Non sarò un prefetto col manganello“, e invece i manganelli la mattina dell’undici maggio vengono usati assai. Nel vuoto completo di qualsiasi assistenza da parte istituzionale, le associazioni e le realtà di movimento corrono a portare aiuto ai migranti, medicine, vestiti, cibo, acqua, tende da campeggio.

“Io ho visto tanti sgomberi, ma uno sgombero del genere non l’ho visto mai, proprio per la crudeltà, per il fatto che le persone non avevano avuto nessun avviso di questo sgombero… Sono state rase al suolo le loro baracche. Ho visto delle persone con problemi di cuore accasciarsi, piangere, donne, signore anziane.”1

Dopo lo sgombero, i rifugiati eritrei “transitanti”, che avevano fatto sosta alla “Comunità della pace” nel loro viaggio verso il Nord Europa, si avviano verso la stazione per riprendere il cammino. Gli “stanziali” vengono indirizzati dal passa parola verso il Baobab, il centro di via Cupa. Molti si rifiutano di andarci, perché sanno cosa li aspetta. Quello che una volta era la location per le cene di Mafia Capitale oggi è ridotto oltre i limiti del collasso: più di 500-600 migranti per 194 posti letto. Molti dormono per terra nei corridoi, nel piazzale di fronte allo stabile2, e manca il cibo.

A Ponte Mammolo rimangono accampate nel parcheggio davanti alle macerie della “Comunità della pace” un centinaio di persone che non sanno più dove andare. Il Comune, graziosamente, due giorni dopo tenta di togliergli anche l’acqua della fontanella pubblica3.

Le ruspe ai tempi di Veltroni. Sopra: le ruspe ai tempi di Marino.

Luca Odevaine e le ruspe ai tempi di Veltroni. Nella foto in alto: le ruspe ai tempi di Marino.

Ai tempi dello sgombero dell’Hotel Africa, i DS romani sbandieravano sui muri della città: “Alemanno fa demagogia, mentre la giunta Veltroni ha trasferito 4.000 persone in cinque anni” (“trasferimento”, nel lessico veltroniano, era sinonimo di sgombero)4. Marino si inserisce dunque nell’alveo di una lunga tradizione, che non suscita lo stesso scandalo dei proclami di Salvini ma in compenso li mette in pratica su larga scala.

C’è però una discontinuità rispetto ai tempi di Veltroni e di Alemanno: per gli sfollati non viene previsto neanche più lo sbocco nei centri di accoglienza del sistema corrotto e clientelare delle cooperative di Mafia Capitale. Per gli sfollati non viene previsto più niente.

Migranti sgomberati da 5 giorni vivono per la strada.

Ponte Mammolo: ciò che rimane.

Nell’ansia di accondiscendere alle pulsioni, ai patemi ed ai livori più beceri espressi in questi mesi da comunità escludenti, che trovano nella xenofobia l’unico motivo di coesione, Marino sembra abbracciare, fuori tempo massimo, la logica della “tolleranza zero”, nonostante che da anni essa abbia dimostrato il suo palese fallimento. Chissà se ne saranno soddisfatti i cittadini “anti degrado” di Ponte Mammolo, ora che hanno ottenuto, al posto del borghetto dei migranti, il bel risultato di una nuova immensa discarica.

La logica degli sgomberi è devastante per la vita delle persone e delirante dal punto di vista politico. Nuovi sgomberi, infatti, generano nuove emergenze e nuovi conflitti che si allargano in maniera esponenziale nella città, ogni volta che le vittime delle ruspe affluiscono nell’uno o nell’altro quartiere. Rincorrendo la destra sul suo terreno, Marino non fa che espandere il brodo di coltura nel quale la destra prolifera, e nemmeno si accorge dell’accurata regia che da un anno a questa parte unisce le “rivolte spontanee” contro gli immigrati con un unico filo nero. Vediamo di dipanarlo.

Un filo nero

La messa in scena inizia a Settecamini nell’aprile 2014, quando in piena campagna per le europee, un volantino aizza alla protesta contro l’ipotesi di apertura di un centro per richiedenti asilo. E la protesta inizia giusto in tempo per fare da sfondo alla prima passerella romana della campagna elettorale di Borghezio, scortato dai neo alleati di Casa Pound. È l’inaugurazione di un nuovo sodalizio, di un progetto di espansione che ha trovato una sua sponda

Mario Borghezio e Stefano Delle Chiaie alla convention romana.

Mario Borghezio e Stefano Delle Chiaie alla convention romana neofascista.

istituzionale. L’alleanza si rinsalda in giugno, quando Borghezio partecipa alla convention romana neofascista, assieme a vecchi arnesi come Stefano Delle Chiaie, Gabriele Adinolfi, ex fondatore di Terza Posizione  ora “ideologo” di Casa Pound, e Adriano Tilgher.

A maggio l’estrema destra si organizza nel Caop (Coordinamento azioni operative Ponte di Nona) per cercare di alimentare tensioni xenofobe in quel quartiere, senza riuscirci più di tanto. A luglio il filo nero si dipana a Torre Angela, dove la rivolta dei residenti scoppia sulla base di voci completamente infondate sull’apertura di un centro di accoglienza per 1200 rifugiati. La notizia è falsa, e non si capisce chi l’abbia messa in giro, ma serve a tenere “ben caldo” il quartiere. Intanto ai presidi, appaiono striscioni con le svastiche del gruppuscolo Azione Frontale. Sempre a luglio il comitato Fenix 13, vicino a Casa Pound, comincia a Casalotti la campagna contro il centro Enea, struttura di accoglienza dell’Arciconfraternita. A settembre a Torpignattara soggetti di chiara connotazione destrorsa indicono un’assemblea per soffiare sul fuoco. Un fuoco pericoloso, che porta due mesi dopo al pestaggio a morte di Shahzad, un giovane pachistano. Poi è la volta di Corcolle, dove il racconto mooolto strano5 di un attacco  da parte di immigrati a due autobus di linea scatena la caccia al nero nel quartiere, alimentata anche dalla notizia, del tutto infondata, del tentativo di stupro di una quindicenne. Viene pestato un brasiliano che risiede a Corcolle da 20 anni, amico di tutti. I picchiatori non lo hanno riconosciuto, perché vengono da fuori6.

Giorgia Meloni a Tor Sapienza

Giorgia Meloni a Tor Sapienza.

E’ un’escalation che culmina a Tor Sapienza, con tre giorni di scontri, pestaggi di immigrati e l’assalto al centro per minori e richiedenti asilo gestito da “Un Sorriso”, che guarda caso è l’unica cooperativa refrattaria al monopolio degli appalti di Mafia Capitale. L’attacco è condotto da una settantina di soggetti incappucciati ed addestrati allo scontro. Dice un residente: “Gente che non è del quartiere c’è dietro a questa cosa. C’è una regia dietro, li ho visti con i miei occhi. Sono arrivati qui e hanno cominciato a istruire, hanno preparato. Io stesso li ho sentiti dire alle donne di parlare di ‘sti tentati stupri, di furti, di calcare la mano, di fare più pesante quella che è la situazione reale. Gente che non è de qua. De Casa Pound per esempio. So’ dieci giorni che vengono.”7.

Gramazio a un corteo di Casa Pound- 2014.

Luca Gramazio a un corteo di Casa Pound- 2014.

Il resto è storia nota. Nei giorni che seguono, Tor Sapienza diventa il palcoscenico per eccellenza, sfilano Borghezio e l’immancabile Giorgia Meloni a uso e consumo di microfoni e telecamere.

Il disagio delle periferie romane conquista sui teleschermi il suo momento di notorietà, ora che la rabbia ha un obiettivo facile. Il forzaitaliota Giordano Tredicine chiede a gran voce la chiusura della struttura gestita da “Un Sorriso”, mentre Luca Gramazio, capogruppo Pdl alla Regione e figlio di Domenico (fascista pesante della storica sezione di piazza Tuscolo), accusa Marino di abbandonare le periferie a degrado e insicurezza. Salvini imperversa contro l’immigrazione a reti unificate.

Giorgia Meloni

Ops !

Fino a che l’inchiesta su Mafia Capitale non mette, almeno per un attimo, tutti a tacere. Gramazio perché è un indagato della prima ora, Tredicine perché forse sospetta di diventarlo molto presto.  La Meloni, temporaneamente, si eclissa, sepolta dalla montagna di merda piovuta sul suo fratello d’Italia Gianni Alemanno. Diventerebbe un po’ dura per lei tornare, a botta calda, fra gli abitanti delle periferie a spiegare dove sono sparite, durante l’era Alemanno, le risorse che potevano alleviare i loro problemi, o sbraitare contro gli immigrati “che prendono 40 euro al giorno“, ora che è diventato palese chi se li intasca.

Riccardo Mancini e Gianni Alemanno

Riccardo Mancini e Gianni Alemanno

Ma è solo un attimo. Grazie al vasto coinvolgimento nell’inchiesta del PD,  Giorgia può tornare a pontificare alla grande contro la sinistra corrotta. Glissando magari su un paio di cosette: come per esempio le 854 assunzioni clientelari all’Atac di Alemanno, o l’inchiesta sul fedelissimo Riccardo Mancini, un altro ex Avanguardia Nazionale, inquisito (e ieri condannato in primo grado) per estorsione e tangenti nell’acquisto dei filobus per il Comune di Roma.

Oppure sul fatto che nel comminare ad Alemanno (assieme ad un pezzo della sua vecchia giunta) l’avviso di garanzia per associazione a delinquere di stampo mafioso,  venga ravvisato nella sua amministrazione un salto di qualità del sistema corruttivo, poiché “molti soggetti collegati a Carminati da una comune militanza politica nella destra sociale ed eversiva e anche, in alcuni casi, da rapporti di amicizia, avevano assunto importanti responsabilità di governo e amministrative nella capitale”.

Ma Giorgia confida nella memoria corta dei romani, così come vi confida Salvini, che imbarca fra le sue truppe le seconde file di Alemanno … almeno quelle ancora a piede libero. Gente che fino a ieri faceva il portaborse degli inquisiti di Mafia Capitale, come dimostra un gustosissimo servizio di Gazebo (guardalo qui).

Nel frattempo i fasci, forse stanchi delle borgate, si spostano nelle periferie più chic, fra i ricchi di La Storta che si oppongono all’apertura di un centro di accoglienza per i profughi in mezzo alle loro ville e campi da tennis. La protesta si arricchisce di nuove retoriche “contro gli speculatori delle cooperative che ci fanno i soldi sopra“, ma mantiene vive anche vecchie pratiche: in attesa di poterlo fare con i rifugiati, le ronde si allenano aggredendo gli operai stranieri che lavorano alla ristrutturazione del centro (vedi il servizio di La 7 qui).

Va detto, a onore del vero, che con innegabile capacità la destra romana è riuscita più di altri a prosperare sul disastro, prima contribuendo notevolmente alla sua creazione e poi cavalcandone gli effetti.

Corruzione e Liberazione

San Trifone

San Trifone

Sin dai tempi della segreteria Piccoli, vicesegretario De Mita, Cl aveva petulantemente chiesto (e in parte ottenuto) di accreditare una sua cooperativa, La Cascina, nel mercato dei servizi di ristorazione. Non c’era alcunché di illecito: solo che La Cascina, non contenta di essere stata ammessa nella mensa universitaria romana [.] intese proporsi anche per l’affidamento del servizio di mensa autogestito dall’ente comunale di consumo per i numerosissimi dipendenti del comune, retto dal democristiano Pietro Giubilo. Dietro quei servizi, come altri organizzati presso enti pubblici, proliferavano interessi economici d’ogni sorta“.

Era il 2004, e Giovanni Di Capua così descriveva nel suo libro “Delenda Dc le attività della cooperativa finita in questi giorni sotto  i riflettori per l’inchiesta sulle tangenti del C.A.R.A. di Mineo. La Cascina affondava dunque saldamente le sue radici  nelle logiche e nelle pratiche della prima repubblica, ancor prima di accogliere sotto il suo ombrello consortile altre cooperative del settore sociale: Domus Caritatis, Tre Fontane, Osa Mayor, raggruppate nel consorzio Casa della Solidarietà

Queste ultime erano strutture nate grazie all’impegno di Francesco Ferrara, un volenteroso ragazzo della parrocchia della Natività di via Gallia, regno dell’influente monsignor Pietro Sigurani. A questo volenteroso ragazzo il cardinale Camillo Ruini, all’epoca presidente della CEI, affidò nel ’94 le sorti dell’antica Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone.

Camillo Ruini

Camillo Ruini.

Gli disse: “Caro Francesco, ti affido una scatola vuota…“. E Francesco quella scatola gliela riempì di cooperative, di appalti e di soldi. Le coop erano strettamente controllate da San Trifone, dato che le loro posizioni apicali venivano ricoperte, all’epoca, dal presidente e dal camerlengo dell’Arciconfraternita. Questo almeno fino all’ottobre 2012, quando il Vicariato di Roma impose la separazione fra la struttura religiosa e le sue filiazioni commerciali. Nel novembre scorso il Vicariato attivò la procedura di estinzione della San Trifone, giusto poco prima che l’inchiesta su Mafia Capitale divenisse pubblica8. Vedi mai che lo Spirito Santo non gli abbia fatto una soffiata dell’ultimo momento ?

Ma qualche dubbio il Vicariato avrebbe potuto averlo pure prima, visto che i metodi di aggiudicazione degli appalti e l’accordo di cartello fra le cooperative di San Trifone e quelle di Buzzi e Carminati erano palesi da anni, denunciate più volte da giornalisti, dai compagni ed anche da voci interne al mondo cattolico.

Probabilmente da questo mondo, in forma anonima, deriva il primo dossier del 2009 sui “manager del sociale”, che fa i conti in tasca all’Arciconfraternita, descrivendone la posizione quasi monopolistica sul mercato dei rifugiati e volumi di affari poco consoni ad una propensione caritatevole9. Già da allora, gli anonimi, svelano la correlazione poco cristiana fra la politica degli sgomberi e gli affari delle cooperative del San Trifone: “E’ evidente come dietro la strategia degli sgomberi pesi un giro d’affari imponente, un business che nel silenzio e sotto traccia si fa sulle spalle di occupa spazi abbandonati con il fine di avere il più semplice dei diritti, un tetto dignitoso sotto cui stare“.

Il Centro Enea.

Il Centro Enea.

Nel 2010 il giornalista Enrico Campofreda sul settimanale Terra prova a scavare negli affari dei “manager di Dio”, cercando invano i documenti di gara di alcuni servizi, dispersi nelle stratificazioni cartacee degli uffici dell’era Veltroni e dell’era Alemanno. Niente da fare: spariti quelli della convenzione con il “Centro Enea” per l’accoglienza dei richiedenti asilo, gestito dall’Arciconfraternita, e quelli (relativi allo stesso Centro) per la mediazione linguistica, l’assistenza psicologica e legale, l’animazione, le pulizie e le manutenzioni, in parte affidate all’Eriches e in parte alla Cooperativa Arte Integrale dove lavoravano Mambro e Fioravanti. All’Arciconfratenita tutti giuravano che le gare c’erano state, ma nessuno riesciva a dimostrarlo.

Campofreda riscontrava altre stranezze nell’appalto della Sala Operativa Sociale, un servizio per l’assistenza ai senza fissa dimora che valeva 2.108.000 euro l’anno (dati 2007). Assegnata all’Arciconfraternita dai tempi di Veltroni, con Alemanno la Sala Operativa venne sottoposta a nuova gara. E benché i dirigenti dell’Arciconfraternita si affacciassero irritualmente alle riunioni della commissione aggiudicatrice, le cooperative più amate da Ruini non riuscirono a vincere. Una volta accertata la loro sconfitta … venne annullato il bando10.

Nel 2011 apparve su “Redattore sociale” la notizia dell’epurazione, in atto nei servizi per le tossicodipendenze, del terzo settore non allineato con gli orientamenti della giunta Alemanno, e della sua sostituzione con associazioni e cooperative “di area”. Strutture con lunghissima esperienza nel settore delle sostanze vennero rimpiazzate da altre prive di qualsiasi curriculum specifico. Neanche a dirlo, fra queste vi era pure la Domus Caritatis11.

Gli illegali siete voiNel 2012 Antonio Sanguinetti, di Esc-Infomigrante, denunciava la concentrazione anomala dei progetti di assistenza in mano a pochi vincitori, rilevando come la Domus Caritatis e il consorzio Casa della solidarietà gestissero  più della metà dei rifugiati della provincia di Roma: “Una nuova forma di monopolio o in ogni caso di accaparramento di fondi pubblici, il tutto convive con una qualità dei servizi erogati a dir poco irrispettosa dei diritti umani”12.

Ma forse le cooperative del Santo Trifone vincevano perché offrivano un servizio di eccellenza ?

Non proprio.  La notte del 31 ottobre 2009 via Pietralata venne svegliata dalle sirene delle ambulanze dirette al  Centro per richiedenti asilo gestito dall’Arciconfraternita. Questo è il racconto di Margherita Taliani, all’epoca coordinatrice del Centro: “Alle due di notte ricevetti la telefonata dell’operatore che allarmato mi parlava d’uno stato di malessere diffuso, molti rifugiati lamentavano forti dolori addominali, vomitavano e svenivano. Era preoccupatissimo e ripeteva “Margherita che facciamo?” Che vuoi fare? avvisa immediatamente il 118… Si erano sentiti male in una quarantina e undici furono ricoverati nei Pronto Soccorso del Pertini, San Giovanni e Policlinico Casilino. Qualcuno finì addirittura al San Andrea. Il mattino seguente ho contattato i responsabili dell’Arciconfraternita riferendo dell’intossicazione alimentare che s’era verificata dopo la cena consumata come sempre fra le 22 e le 23, col cibo fornito in confezioni cellophanate dalla mensa del Centro Enea. Fui aggredita telefonicamente da Tiziano Zuccolo (camerlengo dell’Arciconfraternita) urlava come un ossesso “Chi ha chiamato il 118? … La diagnosi per i ricoverati, comunque dimessi nel giro di 12-24 ore, fu intossicazione da cibo, esaminai io stessa i referti”. Ma la versione ufficiale diede la colpa a una infezione virale13.

ambulanzaEvidentemente le coop sociali dell’Arciconfraternita avevano mutuato il menù da La Cascina, già assurta ai disonori della cronaca per aver somministrato a scuole ed ospedali baresi “cibi scaduti, putrefatti o con alta carica batterica”, e per l’infezione da salmonella di 182 bambini nelle mense scolastiche romane. La qualità del cibo imposto ai rifugiati (che nella maggior parte dei centri non possono cucinare) spiega il perché spesso venga buttato via, con sommo gaudio della propaganda razzista che può così titolare: “i clandestini ospiti nei centri di accoglienza buttano il cibo nei cassonetti“.

Ad una gastronomia degna di Lucrezia Borgia, l’Arciconfraternita affiancava una gestione alloggiativa ancor meno brillante. Nel 2012 Fabrizio Santori, esponente del Pdl e presidente della commissione capitolina per la sicurezza, dovette occuparsi della comunità di via Arzana, vicina all’aeroporto di Fiumicino, perché dava fastidio al vicinato. Scoprì che la struttura gestita dalla Domus Caritatis stipava 10 persone in alloggi di 35 metri quadri. Peggio di un carcere. Eppure per quel servizio incassava 12 mila euro al mese14.

Perché il trucco stava lì: i 40 euro al giorno per ogni rifugiato adulto e gli 80 per ogni minorenne venivano incassati a prescindere dalla qualità dell’accoglienza, senza nessun controllo. Il profitto delle cooperative derivava dall’acquisto di materie prime alimentari scadenti, dall’affitto di strutture abitative inadeguate, dall’assenza dei servizi educativi, medici o legali per i migranti, promessi solo sulla carta. E come per ogni capitalista del sociale che si rispetti, dallo sfruttamento e dalla precarietà dei propri lavoratori.

E’ questa la situazione descritta dagli operatori dei centri creati per l’emergenza Nord Africa, nelle interviste raccolte da Infomigrante:

(Continua)


  1. Testimonianza di Raffaella Federichino di “Medici per i Diritti Umani“. Ascoltala qui. Altre cronache dello sgombero su Radio Onda Rossa, e video qui e qui

  2. Redattore sociale, L’odissea dei migranti di Ponte Mammolo, in Comune.info, 27 maggio 2015. 

  3. C’era un brutta epidemia di scabbia … la situazione era già grave da diversi giorni. Ma soprattutto la cosa più grave, vista questa situazione, è una sola: che in teoria lo sgombero è stato ordinato proprio per risolvere il problema epidemico della scabbia. Pur sapendo che l’acqua, la pulizia, l’igiene personale, è il primo meccanismo, assieme a quello farmacologico che è il benzoato, per sconfiggere la scabbia. Lì attorno ci sono i bagni del parcheggio, chiusi da sempre… e una fontanella pubblica. La seconda giornata, dopo che i ragazzi di Casale Alba2 avevano portato delle docce solari, rimanendo attaccati a questo … la mattina del giorno successivo, dopo che per fortuna i ragazzi si erano lavati e cambiati e preso il benzoato, era stata chiusa l’acqua. Chiamato le istituzioni nessuno sapeva nulla”. Testimonianza di Raffaello Cosentino, medico di “Ambulanti”. Ascoltala qui

  4. Federico Bonadonna, Mafia Capitale: c’erano una volta Veltroni e il modello Roma, Popoff Quotidiano, 24 dicembre 2012. 

  5. Una trentina di immigrati in attesa – sostiene l’autista Elisa De Bianchi – scagliano una bottiglia sul finestrino laterale dell’autobus rompendolo. Succede, su quel tratto di linea, perché gli autobus spesso non si fermano quando vedono gli immigrati, costringendoli a fare lunghi tratti a piedi. La De Bianchi, prosegue la corsa. Ma all’altezza del capolinea si trova la strada sbarrata dagli africani che a suo dire l’avrebbero inseguita. Evidentemente volano, o sono tutti atleti con uno scatto degno di Ben Johnson dopo il doping. La De Bianchi dice che gli immigrati spaccano tutto, ma non chiama la polizia: chiama invece un suo amico fascista che arriva in motorino e mette in fuga, da solo i trenta aggressori. In seguito, l’autista non presenterà alcuna denuncia del fatto alle autorità competenti. La dinamica viene spiegata in: Riccardo Staglianò, Una settimana a Corcolle, in “Il Venerdì di Repubblica”, 28/11/14. 

  6. Leonardo Bianchi, Come i neofascisti provano a prendersi le periferie romane, Internazionale dicembre 2014. 

  7. Servizio di Piazza Pulita/La 7 del 18 novembre 2015 

  8. Vicariato “estraneo” all’attività di Domus Caritatis e Casa della Solidarietà, Romasette, 9 dicembre 2014 

  9. Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone. Il business dei manager del sociale arriva agli sfratti e agli sgomberi

  10. Enrico Campofreda, Il business dei rifugiati, Parte I, Terra, giugno/luglio 2010. 

  11. I finanziamenti del settore tossicodipendenze

  12. Antonio Sanguinetti, Vite in emergenza, tra cricche, isolamento e indeterminatezza, MeltingPot, 31 marzo 2012. 

  13. Enrico Campofreda, Il business dei rifugiati, Parte II, Terra luglio 2010. 

  14. Michele Sasso, Francesca Sironi, Chi specula sui profughi, L’Espresso, 15 ottobre 2012. 

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Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente/3 https://www.carmillaonline.com/2015/04/05/prosperare-sul-disastro-cronache-dallemergenza-sociale-permanente3/ Sat, 04 Apr 2015 22:10:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21766 di Alexik

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Lupo-agnelloNell’esperienza romana il disastro abitativo ha rappresentato, oltre che una benedizione per i palazzinari, un vasto terreno di espansione per la cooperazione sociale. Gli imprenditori del mercato della miseria ne hanno beneficiato nelle sue varie forme: gestione dei centri di assistenza alloggiativa temporanea (CAAT), centri di accoglienza per richiedenti asilo, nuovi ghetti per rom e sinti, servizi per i senza fissa dimora … Situazioni diverse definite sulla base delle differenti categorizzazioni di genti accomunate da una stessa condizione: la totale impossibilità economica di saziare gli immensi appetiti [...]]]> di Alexik

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Lupo-agnelloNell’esperienza romana il disastro abitativo ha rappresentato, oltre che una benedizione per i palazzinari, un vasto terreno di espansione per la cooperazione sociale. Gli imprenditori del mercato della miseria ne hanno beneficiato nelle sue varie forme: gestione dei centri di assistenza alloggiativa temporanea (CAAT), centri di accoglienza per richiedenti asilo, nuovi ghetti per rom e sinti, servizi per i senza fissa dimora … Situazioni diverse definite sulla base delle differenti categorizzazioni di genti accomunate da una stessa condizione: la totale impossibilità economica di saziare gli immensi appetiti delle rendita immobiliare.

In tutti i questi casi, a ritagliarsi una fetta consistente della torta dell’assistenza ai senza casa (e di quale assistenza si tratti vedremo fra poco), ritroviamo i protagonisti dell’accordo di cartello venuto alla luce con l’inchiesta Mafia Capitale. O meglio … venuto a conoscenza dei più, perché è impossibile sia passato inosservato davanti agli occhi degli addetti ai lavori.

Le cooperative dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone1 e quelle affiliate all’Eriches 29 di Salvatore Buzzi hanno cominciato ad affermarsi nel settore abitativo a partire dall’era Veltroni per arrivare alla massima prosperità sotto Alemanno, dimostrando un’estrema duttilità di adattamento sia nei confronti delle politiche sociali così dette “buoniste” che di quelle “cattiviste”. Ma partiamo dall’origine delle loro fortune, da quello che, dopo la Pantanella, è stato il più grande sgombero di immigrati della storia di Roma. Quello che ha inaugurato il circolo “virtuoso” fra gli sgomberi delle occupazioni abitative e gli affari della cooperazione sociale, e la cui storia può considerarsi l’emblema di cosa si nasconda sotto tanta retorica sulla solidarietà.

All’origine fu l’Hotel Africa

Kerba

Kerba. Foto di Lorenzo Pari.

Nell’agosto 2004 la giunta Veltroni procedette allo sgombero dell’Hotel Africa, gli ex magazzini ferroviari della stazione di Roma Tiburtina occupati da centinaia di profughi, prevalentemente etiopi, somali (molti dal Darfur) ed eritrei.

“Kerba”, come veniva chiamato dai suoi abitanti, era un villaggio2. Un villaggio di persone che i propri Stati di origine avrebbero voluto in guerra, e che invece, ostinatamente, vivevano in pace. Al suo interno c’erano ristoranti, un luogo di preghiera, uno per la scuola di italiano e le riunioni, i bar, il barbiere, la lavanderia. Servizi e spazi di socialità completamente autogestiti dagli immigrati, nel contesto di una situazione precaria, con la luce assicurata dai generatori, pochi bagni per tanta gente e l’acqua per lavarsi scaldata sui fornelli.

Tutto questo, secondo il lessico veltroniano, doveva essere trasferito (non “sgomberato”, per carità, che suona male), ufficialmente per assicurare una sistemazione più dignitosa ai richiedenti asilo. Ufficiosamente perché l’Hotel Africa andava demolito nell’ambito del progetto del nuovo snodo dell’Alta Velocità della stazione Tiburtina e di interramento della tangenziale est.

Lives in the shadows 6

Occupanti del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Il progetto definitivo della stazione venne approvato il 1° agosto 2004. La mattina del 18 si presentarono i funzionari del Comune con polizia e carabinieri, e iniziò il “trasferimento”, con solo otto ore di preavviso agli abitanti. Un delirio, con la gente che dopo aver passato tutta la notte a cercare di raccogliere le proprie cose, si ritrovò sbattuta in posti assurdi: “Quindici persone sono state accompagnate in un ostello nei pressi dell’aeroporto di Ciampino. Però li hanno dimenticati lì e per tre giorni non sapevano neppure dove fossero. Non avevano niente da mangiare. Altri sono finiti in un garage, dove un tubo di scarico della fogna rotto rende impossibile respirare. Altri sono alloggiati in una struttura in grado di accettare 70 persone, ma sono in 110”.3

Venne chiuso il capannone grande, con dentro gli averi di chi quella mattina non era presente. Lo sgombero era avvenuto infatti nel mezzo della stagione agricola, e molti profughi si trovavano al sud a lavorare come braccianti in nero. Da un magazzino più piccolo, centoventi sudanesi rifiutarono di spostarsi dopo aver visto il luogo di destinazione. «Neppure in prigione ci sono stanze così”: stanze con due letti a castello a tre piani, orari di uscita e di entrata obbligati4. “Gli altri gruppi sono andati via, solo noi sudanesi siamo rimasti. Hanno cominciato a minacciarci, ci volevano sbattere per strada”.5 Nonostante le intimidazioni, per un altro anno tennero duro.

Lives in the shadows 0

Occupante del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Tranne i darfuriani, la comunità del Kerba venne disgregata, in parte indirizzata verso i centri gestiti dalle cooperative, in parte semplicemente buttata fuori. Fra gli esclusi, chi si presentava nei nuovi centri di accoglienza senza il cartellino – di colore diverso a seconda della provenienza nazionale – veniva respinto dai piantoni della security, e rimaneva a dormire li fuori, sul marciapiede.6 Quelli “col cartellino” vennero indirizzati verso varie strutture: circa 200 nell’ex vetreria di via Cupa affidata in gestione al Consorzio Eriches di Salvatore Buzzi, altri in immobili gestiti dall’Arciconfraternita, come Grottarossa e via Casilina 815, altri al Fosso di Centocelle dall’ACISEL Onlus.

L’operazione di trasferimento, le cui modalità testé descritte furono coordinate da Luca Odevaine – all’epoca vice-capo gabinetto di Veltroni e oggi detenuto con l’accusa  di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso – riempì il sindaco di orgoglio: “È un risultato importante per la città, perché rappresenta un esempio di civiltà. Da oggi Roma realizza un modello innovativo d’ accoglienza”7. Peccato che “il modello innovativo di accoglienza” contrattato con le comunità dei migranti – quello che prevedeva nei nuovi centri piena libertà di movimento, la possibilità di cucinare e di gestire i propri spazi, e la “valorizzazione delle forme di autogestione sperimentate a Tiburtina”- si dimostrò ben presto carta straccia.

Lives in the shadows 1a

Occupante del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Nei nuovi centri, come quello di via Cupa (il Baobab) gestito dall’ Eriches, alle 9 del mattino dovevi essere fuori dagli stanzoni che ospitavano dai 10 ai 16 letti. Se non avevi un’attività, dovevi vagare per la città, con qualsiasi tempo, e tornare nel pomeriggio. Una volta a “casa” non avevi l’uso cucina. L’unico pasto veniva distribuito di sera da una ditta di catering8. Col tempo il Baobab migliorò notevolmente diventando un centro di eccellenza, il fiore all’occhiello dell’Eriches da mostrare a politici e sponsor quando si trattava di chiedere soldi. Ospitò nel suo ristorante la tavolata di Buzzi, Alemanno e Poletti, quella immortalata in una foto salita recentemente agli onori della cronaca. Ma nell’agosto del 2004 la situazione degli alloggiamenti non era certo idilliaca.

Già dal primo ottobre un centinaio di eritrei scapparono dai centri e tornarono ad occupare una vecchia scuola in via della Bella Villa. Il perché lo spiega Manuel: “Come faccio a vivere con un pasto al giorno? Perché alle nove di mattina devo essere messo alla porta e tornare dopo le sei? Perché non posso cucinarmi una colazione? Perché devo andare in giro con un solo vestito senza la possibilità di fare niente?”.9

Lives in the shadows 5

Occupante del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Nel settembre 2005 vennero trasferiti gli ultimi occupanti del Kerba (i sudanesi del magazzino piccolo) nel centro di via Scorticabove, gestito dall’Arciconfraternita tramite il Consorzio “Casa della Solidarietà”. Una palazzina a due piani in mezzo agli outlet di una zona artigianale a San Basilio, senza allaccio del gas, senza acqua calda e a volte anche senza quella fredda, perché collocata in un’area priva di un’adeguata rete di servizi. “Quando abitavamo nel magazzino – spiega Gazhim – l’acqua era sempre fredda, ma potevamo scaldarla nelle pentole”. All’interno della nuova struttura non era possibile per “motivi di sicurezza”10.

Passò il tempo, e qualche anno dopo la situazione dei centri, descritta dal Gruppo Richiedenti Asilo Roma, non sembrava molto migliorata: “È inverno e non c’è riscaldamento né acqua calda a Baobab in via Cupa e a via Casilina 815. In questi giorni nel centro di Centocelle abitano cinque famiglie e venti bambini pieni di tosse”…

Lives in the shadows 3a

Occupante del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Dicono i richiedenti asilo: “Il centro è la metafora della precarietà… Sei dentro e non sai per quanto tempo, sei dentro e non decidi niente: quando ti svegli, a che ora esci, quando e cosa mangi, quando torni, quando vai a dormire. Il tempo non è mai il tuo e non ce la fai a pensare al futuro…. Tra te e il mondo resta il regolamento. Le persone che dormono in un centro di accoglienza devono restare fuori tutto il giorno. Fuori perché? È il regolamento. Alle 8.00 fuori d’estate e d’inverno. A Grottarossa alle 9.00. A San Saba (un centro gestito dai Gesuiti) fuori entro le 10.00. Perché il regolamento ci manda fuori tutto il giorno? Per fare le pulizie, ci dicono. Non devo pensare io alla stanza in cui vivo. Dentro un centro non sono responsabile neanche del mio piccolo spazio. Devo aspettare che arrivi qualcuno che mi manda via per pensare al mio letto. Se sei fortunato hai un piccolo armadietto come in carcere per mettere tutto quello che hai. Il resto non è tuo, lo possono far sparire o buttare. Ho perso scarpe, magliette, libri. L’accoglienza in Italia è uno strano affare, ti tolgono tutto per farti aspettare di avere qualcosa”.

“Per mangiare è lo stesso. Il regolamento vieta di cucinare nei centri di accoglienza. Mangiamo alle mense dei poveri o per non mangiarci prendiamo cappuccino e tonno in scatola. Dentro non puoi preparare una tazza calda. Noi facciamo il tè di nascosto quando fa troppo freddo. Ci organizziamo ma per strada spendiamo sempre più di quanto abbiamo in tasca. Ci vediamo e a turno uno paga il cappuccino qua, l’altro là, l’altro un po’ di pizza e tutti ci possiamo sedere. Paga solo chi è riuscito a lavorare e lo stipendio se ne va presto. Trenta quaranta euro al giorno per mangiare niente ognuno” .11

Occupante del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Occupante del Kerba. Foto: Lorenzo Pari.

Forse confidando in San Trifone, l’Arciconfraternita e i gestori degli altri centri speravano di compiere un miracolo: quello di trasformare persone adulte con tanto di lauree e figli, persone che avevano affrontato guerre e prigionie, attraversato mari e deserti, dimostrato di potersi autogestire anche nell’estrema difficoltà dell’Hotel Africa, in assistiti passivi, espropriati da ogni autonomia. Non gli riuscì del tutto. I rifugiati lottarono per il diritto al calore, alla cucina, alla libertà di movimento.

In via Scorticabove i sudanesi, a forza di proteste, ottennero dall’Arciconfraternita di non aver più orari di uscita e di rientro e di poter cucinare. Ci volle una lotta anche per il riscaldamento. “Funzionava al piano terra, ma non al primo piano. Domande, richieste formali, accordi e false promesse. Abbiamo chiesto e abbiamo ricevuto mesi di “domani” per risposta. Ogni giorno uguale all’altro ad aspettare e noi sempre più impotenti. Sapevamo che il regolamento vieta di introdurre nel centro stufe a gas e noi decidiamo di comprare delle stufe a gas. Le accendiamo. Arriva subito il responsabile, gli diciamo che se esplode una stufa e va a fuoco il centro con noi dentro la responsabilità non è certo la nostra. Inizia così la contrattazione. Contrattiamo otto stufe per dieci termosifoni elettrici che arrivano in meno di venti minuti. Ma fa ancora freddo, quei piccoli termosifoni non bastano, accendiamo di nuovo le stufe. La sera stessa l’impianto di riscaldamento del centro funziona alla perfezione anche al primo piano”.12

È già qualcosa, anche se non è tutto quello che  volevano ottenere.

Il Centro di via Scorticabove nel dicembre 2008.

Il Centro di via Scorticabove nel dicembre 2008.

Noi volevamo portare avanti un nuovo modello di accoglienza per rifugiati, gestito dai rifugiati stessi… Il problema è che dentro abbiamo trovato l’Arciconfraternita. Il Comune ci aveva fatto credere che quel posto lo avremo gestito noi e che a loro sarebbe toccata la parte legale. Ma sono loro che anche oggi comandano, in maniera completamente diversa da come vorremo. Tengono il centro sempre chiuso all’esterno e dicono di no a tutte le nostre iniziative. Per esempio abbiamo contattato dei medici volontari per fare delle visite, solo che non ci concedono le stanze e gli spazi per fare quest’attività…

…Un’altra cosa che non abbiamo capito è come funziona la convenzione tra Arciconfraternita (che prende dei soldi per la gestione del posto) e il Comune di Roma: abbiamo chiesto le documentazioni ma non ce le hanno mai volute far vedere… Non c’è nessuna attività sociale, quel centro d’accoglienza è un luogo morto. 13.

Chi non ha accettato, da adulto, di vivere in collegio, è ritornato ad occupare col Movimento Exodus, con Action o con i Blocchi Precari Metropolitani. Da via della Bella Villa al Nazznet (“Libertà” in tigrino) sulla Collatina, dallo stabile di Porta Maggiore al Metropoliz di Tor Sapienza14. Perché è la lotta che rende liberi, non la carità pelosa (fatta peraltro con i soldi del Comune). (Continua)

Le foto di Lorenzo Pari sono tratte dal suo sito  Lives in the shadows.


  1. Consorzio La Cascina, Consorzio Casa della Solidarietà, Cooperative Domus Caritatis, Tre Fontane, Osa Maior. 

  2. Kerba viene ricordato dai suoi abitanti nei racconti: La lavanderia, Il posto delle fave, Sempre aperto

  3. Roberto Bàrbera, Hotel Africa addio, Peacereporter, 24 agosto 2004. 

  4. Benedetta Scatafassi, Incubo di una notte di mezza estate, Peacelink, 24 agosto 2004. 

  5. Gasim, il Darfur è a Roma, in Fuori le Mura, Speciale Giornata Mondiale del Rifugiato, 2012. 

  6. Tiziana Barrucci, Dall’hotel Africa al marciapiede, Il Manifesto, 28 agosto 2004. 

  7. Spadaccino Maria Rosaria, Chiude l’ «hotel Africa», profughi trasferiti. Tiburtina: nuova sistemazione per gli immigrati. Veltroni: «Roma è un modello d’ospitalità», Corriere della Sera, 19 agosto 2004. 

  8. Tiziana Barrucci, op.cit. 

  9. Eduardo Di Blasi, Un pezzo di Hotel Africa finisce sulla Casilina. Un centinaio di eritrei ha lasciato i centri di accoglienza e ha occupato ieri sera una vecchia scuola abbandonata, L’Unità, 1 ottobre 2004. 

  10. Eduardo Di Blasi, Senza acqua e senza gas la casa dei sudanesi. I rifugiati africani che vivevano allo scalo Tiburtino sono stati trasferiti nella struttura il 7 settembre, L’Unità, 1 novembre 2005. 

  11. Gruppo R.A.R., Vita barbara. I Centri di accoglienza secondo chi ci vive, Roma, Italia, febbraio 2008, in Storie Migranti. 

  12. Gruppo R.A.R., op cit. 

  13. Gasim, il Darfur è a Roma, in Fuori le Mura, Speciale Giornata Mondiale del Rifugiato, 2012. 

  14. Eduardo Di Blasi, Porta Maggiore: rifugiati occupano palazzo. Ottanta persone provenienti da un’altra occupazione sulla Collatina entrano in uno stabile del Comune, L’Unità, 16 luglio 2005. Eduardo Di Blasi, Porta Maggiore, sgomberate 20 famiglie, L’Unità 20 agosto 2005. 

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Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente/2 https://www.carmillaonline.com/2015/01/28/prosperare-sul-disastro-cronache-dallemergenza-sociale-permanente2/ Wed, 28 Jan 2015 02:00:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20313 di Alexik

Sfratti[A questo link il capitolo precedente.]

Prosperare sul disastro abitativo

Promuovere e organizzare il disastro abitativo su larga scala non è un’impresa per dilettanti. Nell’esperienza storica italiana ci sono voluti vari decenni di politiche mirate e una notevole determinazione per arrivare al risultato.

C’è voluto il saccheggio dei fondi Gescal, quelli detratti per decenni dalle buste paga dei dipendenti per costruire alloggi destinati ai lavoratori, e deviati dalle loro finalità per tamponare il buco del deficit pubblico o per altre voci varie [...]]]> di Alexik

Sfratti[A questo link il capitolo precedente.]

Prosperare sul disastro abitativo

Promuovere e organizzare il disastro abitativo su larga scala non è un’impresa per dilettanti. Nell’esperienza storica italiana ci sono voluti vari decenni di politiche mirate e una notevole determinazione per arrivare al risultato.

C’è voluto il saccheggio dei fondi Gescal, quelli detratti per decenni dalle buste paga dei dipendenti per costruire alloggi destinati ai lavoratori, e deviati dalle loro finalità per tamponare il buco del deficit pubblico o per altre voci varie ed eventuali (il disavanzo della RAI, il sostegno a San Patrignano, l’arredo urbano per il G7 di Napoli, ecc. ecc.). Una stima del ’96 valutava che su £ 200.000 miliardi di fondi Gescal, di 50.000 non si trovasse più traccia né si capisse dove fossero finiti. Un mare di soldi sottratti anno dopo anno alla costruzione di case popolari, e quelli che ancora non sono spariti risultano tuttora inutilizzati per un miliardo di euro1.

Tanta coerenza nella pratica dell’obiettivo a lungo andare ha pagato: l’Italia è riuscita a collocarsi agli ultimi posti in Europa per quantità di abitazioni sociali in % sul patrimonio abitativo,  una quantità decurtata ultimamente dalla messa a mercato di migliaia  di alloggi di proprietà degli enti previdenziali.

Edilizia socialeRispetto alla tendenza nazionale Roma non fa eccezione, dato che la percentuale di case a canone sociale o agevolato raggiunge nella capitale il 4,3 %, contro il 26 % di Londra, il 16,8 % di Parigi e il 12,7 % di Berlino2. Un ottimo risultato per i beneficiari di rendite immobiliari, visto che l’edilizia pubblica popolare ha il pessimo difetto di esercitare sugli affitti privati un effetto calmiere.

Il beneficio però non sarebbe stato colto appieno se negli anni ‘90 non fossero intervenuti prima il governo Amato (1992) e poi quello D’Alema (1998) per distruggere definitivamente la legge sull’equo canone. Nei cinque anni successivi alla sua abrogazione gli affitti romani salirono del 85,2 %, innescando oltretutto una reazione a catena. Visto che ormai la pigione eguagliava la rata del mutuo, chi se lo poteva permettere si orientò verso l’acquisto dei quattro muri, e l’aumento della domanda delle famiglie contribuì a spingere al rialzo anche il prezzo del metro quadro.

Ma non ne fu l’unica responsabile. La distruzione dell’equo canone aveva dato infatti la stura alle speculazioni, accellerando un processo di finanziarizzazione che poneva i patrimoni immobiliari in mano a società emettitrici di titoli, la cui redditività poteva essere ottenuta solo spingendo sempre più sulla crescita dei canoni e dei prezzi delle case. Il risultato su Roma fu di un aumento del 83,9 %3, dal 1999 al 2004, del costo del mq.

Roma sfratti eseguitiOvviamente chi non poteva più permettersi né l’affitto né il mutuo era fuori, con un ritmo medio degli sfratti eseguiti nella capitale di oltre 2500 famiglie l’anno4. Decine di migliaia di persone che sono andate – e vanno tuttora – ad aggiungersi ad altre migliaia che al mercato degli affitti non hanno mai avuto nemmeno accesso.

Non erano per loro, infatti, le decine di milioni di metri cubi di nuove edificazioni piovute sulla città sotto le giunte Rutelli, Veltroni e Alemanno, che trasformarono Roma in un’immensa fiera dell’edilizia ad uso e consumo di quelli che, in definitiva sono i suoi veri padroni: Caltagirone, Toti, Parnasi, Scarpellini, Bonifaci, Rebecchini, Mezzaroma, Pulcini e tutti gli altri allegri colleghi dell’Acer (Associazione dei costruttori edili di Roma e provincia).

Milioni di metri cubi (70 nel PRG di Veltroni del 2008, senza contare le deroghe) che hanno assaltato l’agro romano coprendolo con nuovi quartieri dormitorio grandi come città, o “densificato” zone di Roma rendendone la vivibilità un delirio. Una devastazione del tutto legale, ovviamente … ché ai palazzinari la legalità è stata ritagliata addosso come un abito di sartoria, tramite i condoni o attraverso una serie di artifici creativi (compensazioni, accordi di programma, ambiti di riserva) tali da consentire deroghe massive ai piani regolatori.

Tralasciando le numerose lottizzazioni minori, si è trattato, ai tempi di Rutelli di due milioni e settecentomila mc a Bufalotta a favore di Toti, Caltagirone e Parnasi; un milione e 900 mila mc a Tor Marancia (sul parco dell’Appia Antica) per la gioia di Mezzaroma; un milione e centomila mc a Ponte di Nona e un altro milione e duecentomila a Tor Pagnotta, entrambi a beneficio di Caltagirone. Con Veltroni  si sbloccarono per Scarpellini un milione e centotrentamila mc alla Romanina, mentre con Alemanno arrivarono centosettantamila mc per Rebecchini a Palmarola e duecentodiecimila mc di diritti edificatori per l’Amministrazione del patrimonio della sede Apostolica5.

muralesMilioni di metri cubi che rappresentano per gli abitanti della città un’immensa rapina di spazio, aria, verde, suolo, tempi di vita. Una nuova spinta centrifuga verso e oltre (molto oltre) il raccordo anulare, l’ultimo capitolo di un processo di espulsione ai margini della città non solo dei lavoratori e del sottoproletariato urbano ma anche di strati sempre più consistenti del ceto medio. Al centro, la Grande bellezza è un monopolio per ricchi, una cartolina per turisti, un teatro per speculazioni di lusso.

Le nuove cubature fruttano ai re del cemento centinaia di milioni di euro di guadagni netti, con volumi di affari tali da far sembrare i business di Carminati & C briciole per poveracci. Hanno una funzione “sociale” decisamente diversa rispetto alla soluzione dell’emergenza abitativa, visto che sono off limit per migliaia di persone che non se le possono permettere.

Chi vive in emergenza abitativa può tutt’al più aspirare a pochi metri quadri in un residence di un’estrema periferia, di proprietà di qualche palazzinaro, gestito da una cooperativa e pagato con cifre esorbitanti dal Comune.

campo farniaPer chi ha già vissuto la violenza dello sfratto o dello sgombero, il residence è l’ultimo approdo, l’ultimo insulto. Dovrebbe essere un semplice luogo di transito verso la casa popolare, ma visto che non ci sono nuove case popolari la sistemazione provvisoria diventa definitiva.

Eppure la politica dei residence avrebbe dovuto concludersi già con Rutelli, dopo che la città ne aveva sperimentato per anni gli esiti fallimentari. Con la delibera n. 163/98 sembrava avviata all’estinzione, e tale indirizzo pareva confermato dalla giunta Veltroni, che nel suo “Piano Regolatore Sociale” del 2004 affermava: “I residence avrebbero dovuto garantire una permanenza di emergenza, per un massimo di tre mesi. Date le gravi carenze alloggiative, invece, più generazioni si sono trovate a vivere in quelli che sono diventati veri e propri ghetti, a causa della composizione sociale omogenea e di un assistenzialismo passivo e deresponsabilizzante”.

La giunta Veltroni riuscì a smentire se stessa l’anno dopo, con la pubblicazione di un primo bando di gara per l’apertura di 10 nuovi centri di assistenza abitativa temporanea (CAAT) e 3 strutture per richiedenti asilo . In residence, ovviamente, o in strutture riaccatastate come tali in seguito a fantasiosi cambi di destinazione d’uso (dopo essere state classificate come negozi, opifici, magazzini, discoteca, casa di cura). Il tutto, compreso di portierato, pulizia e manutenzioni, al modico prezzo (complessivo) di circa 24 milioni di euro di affitto annui. Un affarone per le proprietà degli stabili, felici di piazzare monolocali a ridosso del raccordo anulare allo stesso prezzo di un appartamento ai Parioli.

CAAT 2006Fra gli aggiudicatari di tanta manna troviamo tutta gente degna.  Alcuni sono vecchi nomi dell’edilizia romana, come gli Armellini, memorabili per l’erezione di un palazzo di nove piani completamento abusivo a Tor Marancia, oltre che per la costruzione delle traballanti “case di ricotta” di Ostia, e per aver recentemente omesso al fisco la proprietà di 1243 appartamenti6.

Ci sono poi i Pulcini, imprenditori vicini a Carminati, artefici di 283.000 metri cubi di abitazioni di lusso abusive ad Acilia, poi sanate dall’interpretazione “estensiva” del concetto di condono da parte degli uffici tecnici della giunta Veltroni7. Due Pulcini sono finiti ultimamente agli arresti a causa di una maximazzetta al deputato Pd Marco Di Stefano per l’affitto di due palazzi alla Regione Lazio8.

E c’è l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, forte di una notevole esperienza in tema di appalti pubblici, dato che già alla fine degli anni ’90 il suo consorzio di cooperative La Cascina (attivo anche nella ristorazione) si era distinto per aver somministrato a scuole ed ospedali baresi “cibi scaduti, putrefatti o con alta carica batterica”, per essersi aggiudicato appalti con la frode9, e per l’infezione da salmonella di 182 bambini nelle mense scolastiche romane (scuole Besso e Bertolotti).10 Chissà, forse Veltroni sperava che gli risolvesse il problema dei profughi e dei senza casa sterminandoli col catering. O forse non gli era indifferente il fatto che l’Arciconfraternita fosse diretta emanazione di Ruini, all’epoca ancora presidente della CEI. (Continua)


  1. Giovanni Laccabò, Incostituzionali i fondi Gescal, L’Unità, 28 aprile 1994. Giulio Cesare Filippi, Fondi Gescal. Una variabile dipendente, La Repubblica, 19 febbraio 1996. Fondi Gescal: Cobas inquilini, non rintracciabili 50.000 mld, AdnKronos, 27 maggio 1998. Fondi ex-Gescal, tutte le risorse ancora in cassa, Regione per Regione, Il Sole 24 Ore, Edilizia e Territorio, 17 maggio 2013. 

  2. P. Bendini, D. Nalbone, Le mani sulla città, Alegre, 2011. 

  3. Elaborazione dati Istat: aumento degli affitti e dei prezzi delle case negli anni 1999-2004

  4. Fonti: Unione Inquilini e Ministero dell’Interno. Consultabili qui

  5. Per ulteriori dettagli: Paolo Mondani, I re di Roma, Report, 4 maggio 2008. Claudio Cerasa, La presa di Roma, Rizzoli, 2009. P. Bendini, D. Nalbone, Le mani sulla città, Alegre, 2011. Ylenia Sina, Chi comanda Roma? , Castelvecchi, 2013. 

  6. Dal palazzo abusivo all’Eur alle case di ricotta di Ostia. Storia dell’impero Armellini, Roma Today, 21 gennaio 2014. 

  7. Paolo Mondani, I re di Roma, Report, 4 maggio 2008. 

  8. Mauro Favale, Giuseppe Scarpa, Carminati: Affari e crac del mio amico Pulcini, La Repubblica, 5 dicembre 2014 

  9. Paolo Berizzi, Cibi scaduti a bimbi malati. Arrestati dirigenti di cooperativa, La Repubblica, 9 aprile 2003. 

  10. Associazione Lucchina e Ottavia, Intossicazione nelle scuole di Ottavia. 182 bambini aspettano giustizia, 19 marzo 2012. 

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Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente https://www.carmillaonline.com/2014/12/29/19771/ Mon, 29 Dec 2014 22:50:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19771 di Alexik

Kuczynski-PawelL’ultimo mese dell’anno ci ha riservato, all’ora del TG, un lungo telepanettone noir pieno di personaggi coloriti: er Cecato, er Ciccione, lo Spezzapollici ….

Un gradevole entertainment, che come ogni fiction che si rispetti ci propone un finale e una lettura degli eventi in definitiva rassicurante: il disastro della capitale, il collasso delle sue funzioni vitali sono frutto dell’attività criminale di un gruppo – sia pur nutrito – di biechi delinquenti, corrotti e corruttori ormai resi innocui dalla giustizia trionfante.

Disastro e collasso non [...]]]> di Alexik

Kuczynski-PawelL’ultimo mese dell’anno ci ha riservato, all’ora del TG, un lungo telepanettone noir pieno di personaggi coloriti: er Cecato, er Ciccione, lo Spezzapollici ….

Un gradevole entertainment, che come ogni fiction che si rispetti ci propone un finale e una lettura degli eventi in definitiva rassicurante: il disastro della capitale, il collasso delle sue funzioni vitali sono frutto dell’attività criminale di un gruppo – sia pur nutrito – di biechi delinquenti, corrotti e corruttori ormai resi innocui dalla giustizia trionfante.

Disastro e collasso non derivano dunque da quelle scelte politiche che per decenni hanno nutrito deliberatamente la speculazione privata  con tonnellate di denaro pubblico, a prescindere dall’esistenza o meno di mazzette e dal ricorso del potere economico a pratiche formalmente illegali.

La retorica della legalità è la narrazione necessaria affinché, una volta eliminate le “mele marce”, tutto ritorni come prima, o meglio, perché la speculazione si dia forme più moderne, più efficaci, meno grossolane. È una retorica che non entra nel merito del fatto che la devastazione sociale e quella dei territori possano avvenire anche a norma di legge.

Tutta questa enfasi sulle tangenti è riduttiva e fuorviante, perché c’è qualcosa di ancora più grave dell’aspetto corruttivo: un prezzo molto più alto da pagare ai detentori del potere economico. Lo pagano i territori in termini ambientali, lo paga il lavoro in termini di diritti, lo pagano le fasce corruptionpiù deboli di questo paese in termini di emarginazione sociale. E proprio sul business dell’emarginazione sociale, oggi al centro dell’inchiesta romana, che sarebbe ora di soffermarsi, facendo un bilancio di quelle politiche di sussidiarietà che nell’ultimo quarto di secolo hanno trasformato l’assistenza pubblica in un mercato, rendendola un settore vulnerabile alle scorrerie dei predoni.

Dalla fine degli anni ’80, il privato sociale ci è stato spacciato come l’alternativa vincente alla gestione pubblica del welfare, in nome di una presunta superiorità etica, economica e qualitativa del terzo settore. In realtà l’espansione della cooperazione sociale rappresentava un attacco frontale alle condizioni di lavoro nei servizi, in quanto le tutele dei soci lavoratori erano molto più basse della media del settore in termini di salario, diritti, stabilità occupazionale.

Rappresentava inoltre un modalità per costruire interesse privato anche sulla miseria, un interesse che, a differenza di quello pubblico, non trae convenienza dalla soluzione dei problemi sociali, perché è proprio il loro perdurare che gli reca vantaggio. Questa dinamica si è resa più evidente con lo sviluppo dei processi di concentrazione di impresa, con l’affermarsi cioè delle grandi centrali cooperative, organizzate in consorzi ed alleate in cartelli, ai danni delle piccole strutture di idealisti. Una trasformazione “industriale”  che necessita di grandi numeri di assistiti. Non è un caso che questa tipologia del così detto no-profit abbia prosperato, e continui a prosperare, grazie a logiche di tipo emergenziale: l’emergenza immigrazione, l’emergenza nomadi, l’emergenza casa… l’emergenza infinita. L’emergenza è infatti il contesto che permette l’assegnazione diretta degli appalti e lo stanziamento di fiumi di denaro senza tante discussioni. Permette di operare su grandi numeri e non deve MAI risolversi o concludersi, perché altrimenti finisce il gioco.

Nell’ambito dell’emergenza sociale permanente, il business della sussidiarietà si è dimostrato nel tempo non solo pienamente compatibile, ma anche intimamente interrelato con le politiche securitarie, le derive xenofobe, la trasformazione dei bisogni umani in problemi di ordine pubblico. Non risulta dunque strano che, nella specificità romana, esso abbia raggiunto il suo punto di massimo sviluppo sotto la giunta Alemanno, che proprio della “lotta al degrado” e della “zero tolerance” aveva fatto la sua bandiera.

Kuczynski- dynamiteL’emergenza infatti, è benvenuta qualunque ne sia l’origine. A volte capita per eventi esogeni, come l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dalle molteplici guerre che, in concorso con i nostri tradizionali alleati, ci dilettiamo a fomentare in giro per il mondo.

A volte è l’effetto collaterale di lungo periodo di leggi antisociali, come quella che ha abolito l’equo canone (un regalo del governo D’Alema), lasciando milioni di inquilini alla mercé della rendita immobiliare, e migliaia di loro nell’impossibilità di pagare un affitto a prezzi di mercato.

A volte invece è il prodotto immediato dell’attività repressiva, come gli sgomberi di grandi occupazioni abitative, che creano folle di senza casa da un momento all’altro. Oppure delle “politiche della razza” (scusate se uso di proposito la terminologia fascista, so bene che le razze non esistono), come la deportazione di rom e sinti dentro fetidi recinti nelle estreme periferie.

In tutti questi casi la cooperazione sociale c’è, pronta a correre verso l’aggiudicazione degli appalti e a chiamarla solidarietà. Vano sostenere che la vera solidarietà sarebbe opporsi agli sfratti, agli sgomberi e alle deportazioni … ma non sottilizziamo !

E piuttosto entriamo nel merito, perché più che queste valutazioni di ordine generale, sono eloquenti le storie concrete. Come punto di osservazione privilegiato prenderemo la situazione romana, perché è lì che le contraddizioni sono esplose in maniera più emblematica, e lo faremo a partire dalle storie dei due grandi contraenti di quel cartello che fino ad ora ha gestito gli appalti dei welfare della capitale in regime di sostanziale oligopolio. L’operazione è tanto più interessante perché, mentre uno dei due è alla gogna per illegalità manifesta, l’altro è invece rimasto nel regno dell’economia rispettabile. Eppure, tranne qualche particolare, hanno fatto più o meno le stesse cose.

Per cominciare, partiamo dall’antica Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone.  E si, perché è proprio l’Arciconfraternita, con le sue cooperative di pertinenza, uno dei soci del trust. O forse pensavate che a due passi dal soglio di Pietro l’accoppiata Buzzi/Carminati potesse avventarsi sugli appalti di servizi senza previa santissima benedizione e – soprattutto – senza condividere cristianamente la torta ?

images (6)I termini del sodalizio sono noti: “Va be’, a Salvato’, noi l’accordo… l’accordo è quello al cinquanta, no?eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?”. Così come è noto il siluramento congiunto di una dirigente del Comune di Roma poco disponibile alle loro pressioni: “ ma no, ma questa è una cretina, ma non è possibile, no? Che non te riceve, non te parla, non parla con nessuno, ma è una deficiente vera, ma ‘ndo cazzo vive? Cioè, ma… ma veramente tocca mandarla a sbatte, eh!”. Queste le conversazioni che coinvolgono Tiziano Zuccolo, ai tempi camerlengo dell’Arciconfraternita, Francesco Ferrara, che ne era presidente, e Salvatore Buzzi, presidente del Consorzio Eriches/Coop 29 giugno nonché braccio economico di Carminati.

Ma qual è la novità ? Che le cooperative di Comunione e Liberazione e quelle di Legacoop si spartiscono gli appalti? Che insieme determinano la nomina dei funzionari comunali? Se è per quello determinano pure la nomina dei ministri della Repubblica, non solo Poletti in quota Lega, ma anche Lupi, come mandatario della Compagnia delle Opere.

Quello stesso Lupi che con il Piano Casa dichiara guerra alle occupazione abitative e prelude alla vendita massiva degli alloggi popolari.  Vale a dire: nuove folle senza dimora, nuova benzina sul fuoco dell’emergenza casa, nuovi introiti per le cooperative chiamate a gestirla e per i palazzinari loro alleati. In nome, ovviamente, della legalità. (Continua)

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