architettura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 29 Mar 2025 21:00:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immagini di classe. Produzione artistica, operaismo, autonomia e femminismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/27/immagini-di-classe-produzione-artistica-operaismo-autonomia-e-femminismo/ Tue, 27 Feb 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80892 di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa [...]]]> di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa in rassegna la produzione del Gruppo N, collettivo artistico che, riprendendo il primo operaismo, intese ripensare il rapporto tra tecnologia, arte e lavoro, per poi dedicare un capitolo all’influenza esercitata dall’operaismo sull’architettura facendo riferimento in particolare al collettivo fiorentino Archizoom nato a metà degli anni Sessanta.

Nel volume trova spazio la ricostruzione del dibattito che attraversa “Angelus Novus” e “Contropiano” circa le avanguardie storiche, il ruolo degli intellettuali e dell’architettura moderna, vengono riprese le riflessioni a proposito del rapporto tra architettura, urbanistica e politica prodotte da Manfredo Tafuri insieme al suo gruppo di ricerca nel corso degli anni Settanta ed esaminato, a partire dalla figura di Danilo Montaldi, il rapporto tra la pratica della “conricerca” e l’universo culturale e artistico.

Ad essere passate in rassegna da Galimberti sono, inoltre, alcune produzioni realizzate con media diversi appositamente per Potere operaio e i materiali a sostegno della Campagna per il salario al lavoro domestico prodotti dal Gruppo Femminista Immagine di Varese, nato attorno alla metà degli anni Settanta.

L’ultima parte del volume è dedicata alla grafica delle riviste e delle fanzine dell’area autonoma, in particolare alla ripresa delle avanguardie storiche nelle strategie comunicative del movimento del ’77, per poi concludersi con l’analisi di alcune opere realizzate durante e dopo gli arresti del 1979 da parte di artisti legati all’operaismo e all’autonomia.

Immagini di classe intende dunque ricostruire un legame, quello tra esperienze politiche radicali e riflessione/produzione artistica, scarsamente approfondito: le ricostruzioni di quell’assalto al cielo portato dalla stagione dei movimenti, che pure non sono mancate, hanno spesso affrontato i due ambiti in maniera disgiunta.

Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla produzione del Gruppo Femminista Immagine di Varese, fondato nel 1974 da Milli Gandini, Mariuccia Secol e Mirella Tognola, a sostegno dell’International Wages for Housework Campaign portata avanti da femministe materialiste, alcune delle quali passate dall’esperienza di Potere operaio, come Mariarosa Dalla Costa.

Galimberti analizza in apertura di capitolo il manifesto del Convegno nazionale tenutosi a Roma il 29 aprile 1978 volto a lanciare la Campagna per il salario al lavoro domestico realizzato dalle componenti del Gruppo Immagine che, riprendendo una delle questioni centrali del network internazionale femminista – ben sintetizzata dalla frase «Col capitalismo cominciò lo sfruttamento più intenso della donna come donna e la possibilità alla fine della sua liberazione» di Mariarosa Dalla Costa e Selma James (Potere femminile e sovversione sociale, 1972) – recitava: «Soldi a tutte le donne», a suggerire da un lato «fino a che punto l’identità sociale delle donne fosse irretita nell’economia di mercato» mentre allo stesso tempo il manifesto graficamente ribadiva «la necessità di sviluppare un’azione politica di massa che saldasse chi riceveva un salario e le casalinghe, il cui lavoro era invece […] “demercificato”» (p. 246).

Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963) – ripresa successivamente da Leopoldina Fortunati (L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, 1981), altra ex militante di Potere operaio –, aveva evidenziato come l’ideologia della “mistica femminile” avesse contribuito a privare il lavoro domestico della sua dimensione economica legittimando così l’assenza di una sua retribuzione. Il manifesto prodotto dal gruppo intendeva dare immagine a questa oscillazione tra economia e natura in un contesto come quello italiano che negli anni Sessanta e Settanta, non di rado persino all’interno di formazioni politiche radicali, tendeva a considerare il lavoro riproduttivo alla stregua di una “vocazione femminile per natura” ricompensata con “l’affetto e l’amore”.

La forma sinuosa del corteo [proposta dal manifesto del Gruppo Immagine] rimandava infatti a un motivo classico che simboleggiava la prosperità: la cornucopia, un corno, spesso associato a una figura muliebre, da cui traboccano monete o alimenti che sono il frutto “del lavoro della natura”, per così dire. Questa scelta iconografica faceva sì che il poster del gruppo riuscisse a tradurre in termini visivi quello che Fortunati aveva definito come la doppia natura del lavoro domestico e del lavoro di cura: per l’ideologia capitalista, essi erano una “naturale” fonte di ricchezza e benessere, ma dal punto di vista delle “operaie della casa”, la forza-lavoro necessaria per svolgere queste mansioni era una merce e doveva essere retribuita come tale (247).

Con una personale tenuta a Roma nel 1975 dal titolo La mamma è uscita, Milli Gandini, una delle fondatrici del Gruppo Immagine, intese rispondere all’invito ad “uscire di casa” rivolto alle donne da Dalla Costa e James. Mossa dalla volontà di presentare momenti di «creatività del rifiuto del lavoro domestico», attraverso arazzi realizzati con una trama molto larga e scarsamente ricamati, Gandini intendeva palesare il rifiuto di quanto questi avevano storicamente rappresentato per le donne, ossia «tanto lavoro manuale da eseguire ripetitivamente con punti piccolissimi» («Le operaie della casa», novembre 1975 – febbraio 1976). La tecnica del punto croce veniva dunque sovvertita e trasformata in qualcosa di volutamente grossolano intendendo così rifiutare l’abnegazione ad un lavoro ripetitivo, alienante e non retribuito. Nella stessa mostra l’artista aveva voluto esporre anche utensili domestici, trasformati dal processo di ricontestualizzazione artistico in esempi di “rifiuto del lavoro” femminile.

Attraverso le sue realizzazioni Gandini ambiva inoltre a contribuire a quell’opera di controinformazione femminista portata avanti a metà degli anni Settanta dalle militanti della Campagna per il salario al lavoro domestico anche attraverso nuove forme di controinformazione visiva.

Galimberti ricostruisce inoltre le modalità con cui politica ed estetica si sono intersecate all’interno del gruppo femminista promotore della Campagna per il salario al lavoro domestico, focalizzandosi soprattutto sul discorso estetico sviluppato da militanti italiane come Laura Morato e Silvia Federici. Di quest’ultima, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1967, lo studioso analizza le illustrazioni – in buona parte stampe del XVI e XVII secolo – scelte per il volume pubblicato in lingua inglese ad inizio del nuovo millennio Caliban and the Witch (2004) – in cui la militante aveva ripreso e ampliato un lavoro svolto con Fortunati a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta –, sottolineando come in tale apparato iconografico Federici intendesse proporre un uso innovativo delle illustrazioni nei testi di teoria politica.

Ad essere esaminato dallo studioso è anche il grande telo realizzato nel 1976 dal Gruppo Immagine e steso dietro al palco di un evento napoletano nell’ambito della Campagna per il salario al lavoro domestico, in cui erano state cucite con effetto filigrana in latino le Litanie della Beata Vergine Maria, figura modello di femminilità e maternità nell’Italia cattolica dell’epoca. A fare da controcanto al contenuto religioso era stata riportata in evidenza la scritta “Anche l’amore è lavoro domestico”, a sottolineare, così come avrà modo di argomentare Giovanna Franca Dalla Costa (Un lavoro d’amore: la violenza fisica componente essenziale del “trattamento” maschile nei confronti delle donne, 1978), come

il capitalismo [avesse] sostenuto l’ideologia dell’amore coniugale e, parallelamente, la stigmatizzazione delle sex workers proprio per imporre uno specifico modello di famiglia e legittimare, pertanto, il lavoro femminile non retribuito. Lo stupro e la violenza maschile non erano, quindi, eventi tragici e isolati, ma piuttosto misure standard che, in nome dell’ordine economico, i mariti mettevano in atto per garantirsi l’asservimento delle compagne (p. 259).

A Mariuccia Secol si devono grandi arazzi raffiguranti figure femminili astratte in cui a materiali nobili e pratiche complesse si alternano interventi poveri e grossolani al fine di criticare «l’immagine della casalinga virtuosa e compiaciuta della propria abilità nei lavori» (p. 260).

La questione della creatività femminile è stata posta la centro dell’incontro milanese Donne Arte Società tenutosi nel 1978 in un clima politico e sociale particolarmente teso. In quell’occasione le donne del Gruppo Immagine presentarono un documento – accesamente criticato da diverse partecipanti – con cui, rivedendo in maniera critica il tipo di militanza assunto negli anni precedenti, intendevano rivendicare il diritto a una pratica artistica più individuale e autoreferenziale e meno subordinata all’universo politico esistente.

Alla Biennale veneziana del 1978 intitolata Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, il Gruppo Immagine prospettò un riformulazione della dualità natura/arte intendendo, sostiene Galimberti, contrastare l’idea che le donne potessero “rappresentare la natura”, come a lungo sostenuto da diversi artisti maschi. Il Gruppo guardò criticamente anche all’ambito architettonico denunciando quanto la progettazione delle abitazioni avesse storicamente contribuito a limitare l’indipendenza delle donne e prospettando forme architettoniche alternative ed emancipative.

Il ritorno all’ordine che si diffuse in Italia sul finire degli anni Settanta comportò la fine tanto della Campagna per il salario al lavoro domestico quanto dello spirito militante e collettivo che aveva animato il Gruppo Immagine. Gli anni Ottanta sancirono una svolta tanto nella militanza politica quanto nella pratica artistica delle donne che condusse all’aprirsi un nuova e differente stagione.

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Cemento, arma di costruzione di massa https://www.carmillaonline.com/2022/06/10/cemento-arma-di-costruzione-di-massa/ Fri, 10 Jun 2022 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72137 di Gioacchino Toni

Schade, dass Beton nicht brennt (Peccato che il cemento non bruci). Così, riprendendo una scritta tracciata sulle mura della città dagli squatter berlinesi, è intitolato un film documentario realizzato dal Gruppo NovemberFilm nei primi anni Ottanta sul movimento di occupazione delle case vuote nella zona di Kreuzberg. L’ostilità espressa dagli autonomen berlinesi non è evidentemente tanto rivolta al calcestruzzo in sé – materiale utilizzato per edificare sin dall’antichità – quanto piuttosto al suo impiego moderno – nella variante “rinforzata”, il cosiddetto “cemento armato” –, con cui sono edificati i quartieri [...]]]> di Gioacchino Toni

Schade, dass Beton nicht brennt (Peccato che il cemento non bruci). Così, riprendendo una scritta tracciata sulle mura della città dagli squatter berlinesi, è intitolato un film documentario realizzato dal Gruppo NovemberFilm nei primi anni Ottanta sul movimento di occupazione delle case vuote nella zona di Kreuzberg. L’ostilità espressa dagli autonomen berlinesi non è evidentemente tanto rivolta al calcestruzzo in sé – materiale utilizzato per edificare sin dall’antichità – quanto piuttosto al suo impiego moderno – nella variante “rinforzata”, il cosiddetto “cemento armato” –, con cui sono edificati i quartieri degradati a cui sono costrette le fasce più povere della popolazione. Nonostante un glossario tecnico un po’ approssimativo, a questo slogan occorre riconoscere il merito di aver colto il legame esistente tra degrado urbanistico-abitativo, a cui è relegata una larga fetta di società, ed il materiale con cui tale habitat è edificato.

È proprio tale materiale ad essere preso di mira dal saggio di Anselm Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa (elèuthera 2022), saggio in cui l’autore riflette sul cemento armato a partire dal crollo del viadotto Morandi nel 2018 a Genova. Al di là di colpevoli e criminali incurie e di eventuali ricorsi a materiali di scarsa qualità, il cemento armato è un materiale destinato ad un precoce invecchiamento divenuto simbolo dell’architettura novecentesca, tanto dei grandi maestri del funzionalismo quanto dei più anonimi fautori del disastro urbanistico-ambientale di cui è ormai impossibile non prendere atto.

Dapprima integrato nei metodi di costruzione tradizionali e celebrato da alcune avanguardie storiche, la sua “rivoluzione” in Francia può dirsi avvenire nel primo dopoguerra con l’industrializzazione del settore delle costruzioni edili che lo elegge come materiale imprescindibile. Se il cemento armato tende ad essere associato alle costruzioni funzionaliste-razionaliste, non ha fatto mancare il suo apporto nemmeno negli edifici neogotici, nelle ville liberty e nell’architettura organica.

Il boom del cemento armato, almeno in Occidente, si ha tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso e se già dopo pochi decenni dalla loro costruzione le stretture realizzate con tale materiale iniziano il loro inesorabile processo di decadimento, per quanto possa essersi data una buona manutenzione, presto si dovrà fare i conti con l’obsolescenza di buona parte dell’ambiente edificato che ci circonda.

Se è vero che nella società contemporanea vengono da tempo mosse critiche nei confronti dei progettisti e delle imprese costruttrici – fedeli alle logiche del profitto – e si levano diverse voci contro l’imperativo di continuare a costruire senza sosta, forse, suggerisce Jappe, sarebbe utile mettere in discussione lo stresso cemento armato. Il legame tra cemento e capitalismo potrebbe non risolversi nel suo contribuire ai profitti di pochi, ma, secondo lo studioso, si potrebbe vedere in esso «la perfetta materializzazione della logica del valore della merce […] chiamato concrete in inglese e concreto nello spagnolo e nel portoghese latinoamericani, può ben essere considerato come il lato concreto dell’astrazione capitalista» (p. 18).

Se la gestione capitalista dello spazio, con l’ingiustizia sociale che ne deriva, è stata ed è oggetto di critiche, anche feroci, scarso interesse è stato sin qua rivolto ai materiali impiegati. Jappe propone dunque di trasformare in atto di accusa l’elogio che spesso viene fatto al cemento armato in quanto materiale che ha permesso l’architettura e l’urbanistica dei secoli XX e XXI. A scanso di equivoci è bene sottolineare che nel volume l’autore non propone il ritorno a murature prive di legnati; ciò che gli interessa è invece concentrare i suoi ragionamenti su di un materiale particolare come il cemento armato per il suo legame con il capitalismo industriale.

Con riferimento alla Francia, quando ha iniziato ad essere impiegato, il cemento armato è stato utilizzato soprattutto negli edifici pubblici, nelle opere di ingegneria civile e nelle abitazioni popolari. Servirà qualche tempo prima che questo venga accettato nelle dimore borghesi. La sua introduzione può dunque dirsi socialmente connotata tanto che finisce per essere “rivendicato” dal pensiero più progressista come “materiale proletario” da elogiare, inoltre, per la sua modernità.

Nonostante l’edilizia del cemento armato tenda ad indirizzarsi verso l’abitazione di massa, secondo Jappe non si deve scorgere una forma di emancipazione proletaria in quella che definisce una modernizzazione delle baracche.

L’architettura modernista del dopoguerra ha introdotto una novità degna di nota: i poveri sfogano la loro rabbia sulle loro stesse case. Il legame tra i grandi complessi residenziali e il continuo “degrado”, piccolo o grande che sia, è a tal punto visibile che ormai è considerato inevitabile, “naturale”. Non ci sono prove di tali pratiche nei tuguri proletari del XIX secolo. Il successo è innegabile: invece di attaccare le case dei ricchi, gli “esclusi” attaccano ora le loro stesse case (pp. 61-62).

Se precedentemente il proletariato urbano manteneva un legame orgoglioso con le abitazioni e i quartieri in cui dimorava, per quanto miseri fossero, nell’era del cemento armato tende invece a rivolgere l’odio non verso la classe avversa ma verso se stesso e verso i luoghi in cui vive ed a tale ribaltamento, sostiene Jappe, il ruolo dell’urbanesimo e della gestione del territorio è stato tutt’altro che secondario.

Il diffondersi delle nuove abitazioni è andato ad affiancare forme di inurbamento e modernizzazione forzati che hanno indotto a trasformare l’arredamento domestico, alla diffusione dell’automobile, all’abbandono dell’autoproduzione e alla perdita delle abilità nelle riparazioni domestiche anche più banali. Al di là dei miglioramenti reali, tutto ciò è stato reso possibile anche grazie alla capacità del capitalismo di far provare un senso di vergogna a quanti ancora vivevano “alla vecchia maniera”.

Il cemento armato è alla base anche della cosiddetta “architettura brutalista” spesso applicata nella costruzione di nuovi edifici universitari e, secondo l’autore, ciò appare del tutto in linea con l’avvento della “università di massa”

Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento tanto negli ambienti lettristi che, successivamente, situazionisti si produsse una critica radicale all’urbanistica dell’epoca che prese di mira anche il funzionalismo a cui tanti, anche di tradizione progressista, erano devoti. Quelle mosse da tali ambienti non erano, però, critiche mosse da uno spirito nostalgico-tradizionalista – come invece accade ai nostri giorni in diversi critici della modernità di matrice libertaria –, si trattava piuttosto di prospettare un altro modello di modernità, libero tanto da rigurgiti passatisti quanto da acritiche celebrazioni dell’esistente:

l’urbanismo unitario, e qui stava la loro originalità, non doveva servire all’ordine esistente, al lavoro o alla vita familiare, alla circolazione delle automobili o agli “svaghi” autorizzati, alla standardizzazione o all’economia. Tutto al contrario, l’architettura immaginata da lettristi e situazionisti era volta al gioco e al nomadismo, al “comportamento sperimentale” e allo smarrimento: in breve, alla “costruzione di situazioni”. Un aspetto essenziale era quindi la struttura labirintica, così come la possibilità per gli abitanti di modificare gli edifici (p. 73).

Raoul Vaneigem nel 1961, nei suoi Commentaires contre l’urbanisme scrive:

Abitare è il ‘bevete Coca-Cola’ dell’urbanistica. Si rimpiazza la necessità di bere con quella di bere Coca-Cola. […] Mischiando il machiavellismo al cemento armato, l’urbanistica ha la coscienza a posto. […] Bisogna costruire in fretta, c’è molta gente da alloggiare, dicono gli umanisti del cemento armato. Bisogna scavare trincee senza tardare, dicono i generali, c’è la patria da salvare. Non c’è forse qualche ingiustizia nel lodare i primi e nel beffarsi dei secondi?1.

Il ricorso massiccio al cemento si rivela nocivo per la salute del pianeta; si pensi alla ricaduta ambientale dell’estrazione massiccia di sabbia e ghiaia, all’impoverimento dei terreni ed al consumo di energia con conseguenti ricadute in termini di emissione di anidride carbonica determinata dalla sua produzione, oltre a richiedere l’impiego di una grande quantità di risorse idriche. Trattandosi però di cemento armato, occorre considerare anche la presenza del ferro nel calcolo dell’impatto sul pianeta.

Al di là dei problemi di impatto sulla salute e sull’ambiente, occorre però, secondo Jappe, concentrarsi sulla responsabilità del cemento armato nell’aver permesso l’architettura moderna così come si è sviluppata con tutta la sua negatività, pertanto, sostiene l’autore, la domanda da porsi non è tanto cosa il cemento armato abbia reso possibile – nella consapevolezza che non mancano di certo esempi positivi –, quanto piuttosto occorre chiedersi cosa sia scomparso a causa sua e cosa abbia reso impossibile, quanto abbia inciso sulla perdita di savoir-faire e sul declino dell’artigianato edile, quante capacità e competenze nell’ambito dell’edilizia abbia cancellato…

L’omogenizzazione, la standardizzazione e l’anonimato dell’architettura e dell’urbanistica dell’età del cemento armato è sicuramente figlia della rottura operata dal capitalismo industriale nei confronti dello sviluppo millenario della civiltà.

Una delle prime esigenze del potere moderno è di vedere e controllare ogni cosa: conosciamo il ruolo emblematico del carcere detto “panottico” proposto in Inghilterra da Jeremy Bentham nel 1780. Le lunghe arterie dritte che attraversano le città moderne non servono solo a sparare sugli insorti, ma anche a impedire che qualcuno pensi anche solo di insorgere […] L’ideale panottico del potere si realizza non solo nella linea retta senza ostacoli, ma anche nel culto della trasparenza […] Questo fanatismo per la trasparenza corrisponde al desiderio di sorveglianza totale da parte di chi detiene il potere. L’architettura della visibilità è sorta quando la credenza in un Dio che tutto sa e tutto vede cominciò a intimorire meno le coscienze: Bentham era un protagonista dell’Illuminismo! Ed è anche una lotta contro il nostro lato oscuro, contro tutto ciò che sfugge al controllo della razionalità strumentale (pp. 155-156).

Il volume di Jappe termina dedicando un capitolo a William Morris ed alla sua lucida presa di coscienza, in pieno Ottocento, di come la meccanizzata produzione seriale dia luogo a realizzazioni di pessima qualità estetica derivata dalla logica profonda del “sistema fabbrica” e dalla parcellizzazione del lavoro svilente l’apporto creativo individuale. I meriti delle proposte di Morris sono probabilmente da ricercarsi più sul versante delle problematiche poste che su quello delle reali risposte praticate; la sua ambizione di unire etica ed estetica, di dare vita ad un’esperienza in grado di liberare tanto la creatività dei lavoratori, attraverso modalità produttive preindustriali, quanto la fruizione dei destinatari dal grigiore della produzione seriale, impatta, inevitabilmente, con la logica complessiva di un sistema economico che ne impedisce di fatto l’attuazione. Resta, tuttavia, un apprezzabile, per quanto romantico e utopistico, tentativo di invertire la rotta rispetto ai tempi correnti.

Insomma, un’alternativa al cemento armato, arma di costruzione di massa nelle mani del capitalismo, pare possibile soltanto mettendo davvero in discussione quest’ultimo.


  1. Raoul Vaneigem, Commentaires contre l’urbanisme, “Internationale situationniste”, n. 6, 1961, p. 33; riprodotto in Internationale situationniste 1958-1969, trad. it. Commenti contro l’urbanistica, Nautilus, Torino, 1994. 

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