apatia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Anestesia di solitudini nella gamification contemporanea https://www.carmillaonline.com/2020/01/27/nemico-e-immaginario-anestesia-di-solitudini-nella-gamification-contemporanea/ Mon, 27 Jan 2020 22:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57622 di Gioacchino Toni

«la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. […] È nostro dovere badare prima a noi stessi» Margaret Thatcher

A proposito del film Joker (2019) di Todd Phillips, Jack Orlando [su Carmilla] descrive il personaggio come «l’immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il prodotto violento di una società violenta; è l’individuo alienato, sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua mostruosità. […]  Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in [...]]]> di Gioacchino Toni

«la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. […] È nostro dovere badare prima a noi stessi» Margaret Thatcher

A proposito del film Joker (2019) di Todd Phillips, Jack Orlando [su Carmilla] descrive il personaggio come «l’immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il prodotto violento di una società violenta; è l’individuo alienato, sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua mostruosità. […]  Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in quanto individuo psicopatologico, ma in quanto soggetto alienato, straccio da piedi della società, produttore/consumatore deumanizzato». Si tratta pertanto di un prodotto della contemporaneità: un essere alienato del tutto disumanizzato cresciuto in balia di «una violenza strutturale e sistemica, subita sulla pelle giorno dopo giorno» insieme ad altri milioni di individui.

Sulla deriva a cui il sistema vigente ha condotto gli esseri umani si è soffermato anche il cinema di Yorgos Lanthimos, seppur lontanissimo da Todd Phillips per stile e storie narrate. Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino hanno recentemente dedicato il libro Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos (Mimesis, 2019) al cineasta greco che, con alle spalle sei lungometraggi – Kinetta (2005), Kynodontas (2009), Alps (2011), The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017), La favorita (2018) –, prodotti nel giro di poco più di un decennio, ha dato prova di autorialità realizzando opere che palesano uno stile originale – contraddistinto da «limpide geometrie, sguardo cinico, realismo paradossale, a un passo dal surreale» (p. 8) – del tutto riconoscibile e che non ha mancato di ispirare diverse produzioni nazionali. Secondo gli autori del volume, l’autorialità di Lanthimos si è mostrata capace di raccontare la deriva di un presente piegato al cinismo ed alla follia neoliberista in diverse sue sfaccettature, con un occhio di riguardo allo statuto ed al ruolo dell’immagine nella contemporaneità:

cosa mette in forma, Kinetta, se non la distorsione di una realtà indifferente che, per essere sentita, deve essere messa in scena, passare per il re-enactment, per la posa? Non è forse un testo critico sul nostro rapporto con le immagini di oggi, tra selfie su Instagram e ossessione per il cinema (e la tv) del reale? Di cosa racconta Kynodontas, aggiornamento di El Castillo De La Pureza di Arturo Ripstein (1973), se non di un potere che riduce il sapere, limita il lessico, agisce sul linguaggio per governare e farsi amare? Ricorda qualcosa o qualcuno? E Alps? Non è forse una radiografia di un mondo che evacua il concetto di morte in nome di un eterno presente, e di un regime di simulazione costante? Non è forse questa una delle malattie ideologiche del neoliberismo, del suo qui e ora continuo, della sua mancata responsabilità sul dato reale? E The Lobster o La favorita non raccontano forse la competitività estrema tra pari che ha sostituito, nelle narrazioni al tempo del precariato, la lotta di classe con l’homo homini lupus tra pari, il conflitto verticale contro il padrone con la guerra tra servi? Non è forse quello di Lanthimos un cinema perfetto per la gamification contemporanea, un cinema adatto a tempi in cui gli individui sono prima di tutto concorrenti, vuoi nel gioco ai mi piace, vuoi nella challenge infinita delle partite IVA? E Il sacrificio del cervo sacro, a modo suo, non certifica in fondo l’insinuarsi di un sapere antiscientifico in un mondo in cui un élite non è stata in grado di rispettare il dolore degli ultimi? E questi sono solo una piccola parte degli spunti, profondamente legati al presente e probabilmente al futuro, proposti dal cinema di questo autore: un autore capace di mettere in crisi e fare luce (in modo grottesco, feroce, parodico) sugli assurdi sistemi di regole e sugli sguardi ideologici che muovono l’oggi (pp. 8-9).

Il cinema di Lanthimos si configura come un personale grido di allarme nei confronti di una realtà caratterizzata da livelli di solitudine e di “anestesia del sentire” sconcertanti. Nelle opere del regista greco i protagonisti sono posti drammaticamente di fronte al controllo delle proprie e delle altrui azioni; sono individui tesi verso spirali autodistruttive «che chiamano in causa la contemporaneità e i miti tragici, la crisi della ratio occidentale e il dominio di un inconscio mai domato né compreso, nel segno della dissoluzione sconcertante delle relazioni tra individui» (p. 11)

Nel film The Lobster, attraverso la descrizione della vita di un individuo, Lanthimos propone una rappresentazione distopica della società, raccontando un futuro in cui la famiglia è un obbligo sociale che costringe i single ad individuare, una volta condotti in un hotel in cui vengono raccolti altri single, un partner credibile in termini di affinità al cospetto delle autorità, pena la trasformazione in un animale scelto dal malcapitato. A tale tipo di regolamentazione sociale, fondata su relazioni false e calcolate, tentano di sottrarsi i ribelli che hanno scelto di vivere in solitudine nei boschi a cui però non è consentito di costruire rapporti amorosi. Paradossalmente, a chi si è sottratto dall’obbligatorietà di una relazione artificiosa, viene ora impedito di vivere un sentimento amoroso autentico. La situazione messa in scena nella seconda parte dell’opera – dopo l’abbandono dell’hotel dell’accoppiamento forzato – si rivela pertanto speculare alla prima, sollecitando così il pubblico ad una riflessione sulla violenza imposta dalle consuetudini mostrate in tutta la loro follia.

«Lanthimos, pur in una prospettiva estraniante, riesce a non essere mai troppo distaccato, a rintracciare moti dell’animo in uno scenario degradato, per sondare le regole borghesi del sesso e comporre un’analisi millimetrica dei rapporti sentimentali e sociali nella civiltà contemporanea, portando in scena l’irrompere del sentimento amoroso che era rimasto finora il grande assente del suo cinema. L’emergere di qualcosa di unico e autentico è propriamente quanto la società, raffigurata nel doppio e allegorico contesto dell’hotel e del bosco, non contempla» (p. 66). L’unica via di fuga parrebbe essere da ricercarsi in una “terza via”, ove l’amore si mostra in tutta la sua irrazionalità, capace di sfuggire alle classificazioni e alle regole delle modalità disumane che impongono o vietano l’accoppiamento.

«L’amore autentico come gesto proibito, non previsto nei contesti distopici, trova il suo spazio irrompendo fisicamente nella rappresentazione. Il lavaggio del cervello camuffato dall’inserimento nell’hotel – con i cerimoniali che evocano, in una ribalta teatrale stilizzata, i banali e ordinari vantaggi della vita di coppia (parodia delle consuetudini borghesi e sottofondi maschilisti nel disegno di semplificazione evocante il sorriso sardonico) – rivela la sua vocazione autoritaria e la sua aura dissonante rispetto ai  baci, irresistibili, che David e la ribelle si scambiano sul sofà davanti a un’altra platea di osservatori irreggimentati, i cittadini della società dei consumi che, pur non vivendo in cattività come gli ex-partecipanti all’hotel poi riparati nel bosco, sono i perfetti integrati, esasperatamente posseduti dalla finzione. Una finzione non più cosciente o deliberata, ma vissuta nell’obbligo, nella non consapevolezza» (p. 72) È una società poliziesca quella che viene messa in scena, una società che non contempla alcuna cultura della differenza. Se in Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut, tratto dall’omonimo romanzo (1953) di Ray Bradbury, le guardie davano la caccia ai libri per bruciarli, in The Lobster controllano il possesso dei certificati di matrimonio nei centri commerciali.

Secondo Lasagna e Pallavidino, Lanthimos, padroneggiando perfettamente l’andamento allegorico del film e ponendo grande attenzione all’inquadratura, alla cromia, all’ambientazione ed alla scelta musicale, riesce mirabilmente a delineare i personaggi con tutte le loro bizzarrie. «Una complessità che attraverso una struttura da film di fantascienza illustra le perversioni di un sistema di regole disposto a concedere, in cambio del controllo sociale, una logica arbitraria e inoppugnabile, dove le persone sono costrette a non vedersi mai per quello che sono dietro la facciata della classificazione» (pp. 72-73)

Quella restituita dal cinema di Lanthimos è una realtà straniante che, scoraggiando qualsiasi presa di consapevolezza, relega gli individui in una dimensione asettica, semplificata ed immatura, contraddistinta da relazioni interpersonali fredde e banali. «Negli scarti tra quanto rappresentato e quanto accade realmente, tra quanto esibito dal comportamento e i dettagli che non corrispondono a pieno alla logica che sarebbe legittimo attendersi dallo sviluppo dei fatti […], nella densità di una musica che ammalia e ferisce, negli scatti di violenza che ottengono le lacrime, Lanthimos porta nella sua rappresentazione come dei lapsus, delle sfasature. L’assurdo come regola sociale si trova allora ad essere minacciato da quanto emerge inaspettatamente da ciò che pare meno controllabile: il desiderio, una ferita, l’impossibilità di contenere le lacrime davanti all’agonia del fratello o i baci alla sola persona che (forse) ci conosce realmente» (p. 75)

Ad inquietare lo spettatore sono soprattutto la naturalezza con cui i protagonisti dei film sembrano accettare l’assurdità della realtà in cui sono immersi e, ancor di più, il distacco emotivo, l’apatia, la desensibilizzazione, la mancanza di empatia e di umanità con cui si confrontano e agiscono (o non agiscono). «La rassegnazione sembra dominare questa umanità, che si presenta al cospetto della SPA accettando umiliazioni e vessazioni, assoggettamento e costrizioni tra cui l’ammanettamento a determinate ore del giorno per evitare la masturbazione – vista come deleteria per la ricerca di un partner. Domina una calma solo apparente, perché gli ospiti dell’hotel sono sottoposti con regolarità a stimoli eccitatori frustranti da parte del personale, che non portano mai al soddisfacimento completo […] L’hotel dal sapore buñueliano-pasoliniano è luogo di accentramento (o spazio di “concentramento”) di tutti gli elementi che enfatizzano la sessualità ed esprime quella mercificazione del sesso che insieme al condizionamento offerto dal sistema mediatico crea frustrazione e ansia da prestazione amorosa.» (pp. 75-76)

Il film Il sacrificio del cervo sacro ruota invece attorno ad una famiglia modello della buona borghesia americana e prende il via dall’ambiguo rapporto tra uno stimato chirurgo ed il figlio di un un paziente che, secondo il giovane, non è stato salvato dal medico a causa del suo passato di alcolismo. Presto ci si rende conte della spietata decisione del ragazzo: punire il chirurgo mettendolo nella condizione di dover scegliere quale dei famigliari debba essere sacrificato al fine di interrompere la condanna a morte emessa dal giovane nei confronti dell’intera famiglia.

Parzialmente ispirato alla tragedia Ifigenia in Aulide (448 a.C.) di Euripide, il film scardina un poco alla volta, attraverso un progressivo processo di spaesamento, la calma di superficie di una banale vita borghese che però palesa di contenere in sé la dimensione della follia, come si evince dalla convivenza tra razionalità ed irrazionalità che la contraddistingue. Il gruppo famigliare attorno a cui ruota il film finisce con l’ammalarsi poco a poco, anche se la malattia pare già evidente nella distaccata ritualità del rito sessuale che i coniugi chiamano “anestesia generale”, con cui la moglie, simulando il tramortimento, eccita il marito. Ed è proprio l’anestesia del sentire ad evidenziarsi nei comportamenti dell’uomo nei confronti delle persone con cui si trova costretto a relazionarsi. Ne Il sacrificio del cervo sacro, l’ombra dell’irresponsabilità del chirurgo sembra proiettarsi sull’intera classe sociale a cui appartiene, segnata com’è da una cultura totalmente priva del senso di responsabilità.

Un senso di incombente minaccia che scalfisce le maschere dei protagonisti, sempre più segnati dall’inquietudine e la cui abitudine all’anestesia allude, fuor di metafora, all’insensibilità al dolore altrui che, nel grigiore di questa famiglia marcia, diventa addirittura fonte di desiderio. Il pensiero corre, inevitabilmente, al personaggio della “donna senza cuore” di The Lobster, ma anche all’anestesia del sentire così sconcertante in Kinetta; l’horror, lontano da etichette di genere, si manifesta ne Il sacrificio del cervo sacro come dimensione ontologica ma anche movente di una rappresentazione antropologica, sviluppata attraverso le modalità e la materia del racconto: linee di ripresa secondo una sceneggiatura precisa, carrellate in avanti e indietro punteggiate da un montaggio che scandisce la ritmica di un paesaggio come dentro un labirinto di scenari asettici e freddi, abitato da personaggi anaffettivi. Al posto dell’atto sessuale, culmine del piacere e della rappresentazione che ne può conseguire, un rituale necrofilo, e in questa incorporeità allarmante si affaccia in maniera trasparente una condizione post-umana, sottolineata a pieno regime tragico dall’operazione a cuore aperto con cui si apre il film, le cui riprese sono effettuate dal regista in prima persona, pronto a ribadire tutta l’intenzionalità di una vivisezione della cellula umana fondamentale: la famiglia già messa sotto osservazione in Kynodontas. (pp. 82-83)

Il tentativo di ristabilire un ordine venuto meno è tra le tematiche ricorrenti delle opere di Lanthimos ed anche quando, alla fine dei film, un equilibrio sembra essere ripristinato, questo non manca di mostrarsi in tutta la sua assurdità. Visto che è di noi e del nostro mondo che, in fin dei conti, ci parlano le opere del regista greco, così come Joker di Todd Phillips, una volta calati i titoli di coda, tocca nuovamente fare i conti con la violenza della gamification contemporanea a cui siamo sottoposti.

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