antropologia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Il valore del gioco nelle società non moderne https://www.carmillaonline.com/2024/03/26/sport-e-dintorni-il-valore-del-gioco-nelle-societa-non-moderne/ Tue, 26 Mar 2024 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81335 di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo [...]]]> di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo millennio, del fenomeno della “gamification”. Molto più semplicemente, si pensi a come alla spontaneità del calcio giocato dai bambini nelle strade e nei parchetti, con le giacche o gli zaini a fare da pali delle porte inesistenti, si stiano sostituendo le “scuole calcio” a cui i genitori iscrivono i figlioletti non appena sono capaci di stare in piedi con la malcelata speranza di rendere “produttivo” quello che dovrebbe essere il gratuito e spontaneo divertimento dei bambini.

Il soffocamento del gioco improduttivo ha però una lunga storia ed ha certamente a che fare con l’avvento dello sport moderno nato nelle scuole inglesi come dispositivo finalizzato alla creazione di élite e gerarchie che ha esacerbato lo spirito di squadra, il cameratismo e l’attitudine al comando, ossia tutto ciò che, come sostiene l’antropologo Philippe Descola nel volume-intervista Lo sport è un gioco?, «è necessario al buon funzionamento della solidarietà dei dominanti in una società di classi, e anche in una società di caste […] costituita da una molteplicità di strati sovrapposti che comunicano abbastanza poco tra loro… Solamente le grandi operazioni come la guerra o le celebrazioni sportive permettono di superare queste barriere di casta»1.

Nei primissimi anni Settanta, la studiosa Ulrike Prokop2, legata alla Scuola di Francoforte, intendendo demistificare la retorica olimpica a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, De Coubertin, evidenzia come il modello pedagogico di riferimento per il francese sia quello promosso a metà Ottocento dal reverendo Thomas Arnold che, per arginare le turbolenze degli allievi nel collegio da lui diretto, ricorre allo sport come a una «forma di “concorrenza regolata”, basata su criteri “oggettivi” che legittimano la formazione di gerarchie. Prestazioni valutate secondo criteri “neutrali” portano gli studenti ad accettare come “naturali” le posizioni di potere scaturite dalle competizioni. Ad una situazione caotica, che degenera in contrasti spesso violenti tra gli allievi, si sostituisce così una disciplina fondata sull’autocontrollo. […] Prokop vede nel modello della “concorrenza regolata” e della disciplina autoimposta desunta da Arnold il fondamento della concezione decoubertiniana dello sport, cardine di un progetto pedagogico di ispirazione positivista funzionale alla creazione di una società armonica nella quale gli individui sono portati a riconoscere l’autorità “oggettiva” della tecnocrazia». Insomma, secondo Prokop si tratterebbe di «un modello di democrazia “formale” che cela, dietro un’apparente uguaglianza, sostanziali stratificazioni sociali rappresentate come “leggi naturali”»3.

La preoccupazione di matrice positivistica per la coesione e la pace sociale di De Coubertin, secondo Prokop, è facilmente ravvisabile anche nei progetti pedagogici per le masse operaie (il “Ginnasio greco” e le “Università operaie”) che il francese elabora dopo la prima guerra mondiale con il fine, secondo la studiosa, di contenere i conflitti sociali e il potenziale rivoluzionario del proletariato.

All’interno del clima di generale messa in discussione della società che caratterizza il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta del Novecento, le critiche all’universo sportivo mosse da Prokop si affiancano ad altri interventi che, attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, mettono in discussione lo sport e la cultura del corpo della società capitalistica denunciando come l’invito alla pratica sportiva celi un intento educativo di stampo repressivo. Si possono vedere a tal proposito gli scritti Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm, usciti sulla rivista francese “Partisans” e pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione, e del sociologo tedesco di ispirazione francofortese Gerhard Vinnai, il cui saggio Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista viene pubblicato in Italia nel 1970. Si tratta di testi che, nella loro critica allo sport inserito nella dimensione dell’industria, del “campionismo”, dell’individualismo, della spettacolarizzazione e della ricerca del risultato ad ogni costo, hanno contribuito a formare una visione critica dello sport nell’associazionismo sportivo italiano di sinistra, come l’ Uisp, e di matrice cristiana, come il Csi, che, proprio in quegli anni, sviluppano una visione politica e sociale radicalmente alternativa dello sport, come attestano gli interventi che compaiono sulle rispettive riviste (“Il Discobolo” e “Stadium”) e nel saggio di Claudio Bucciarelli Lo sport come ideologia: alienazione o liberazione?, uscito nel 1974. Sebbene, letti a distanza di anni, tali saggi appaiono viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine riduttiva del fenomeno sportivo, rappresentano però i primi importanti tentativi di guardare criticamente allo sport prospettando una visione e una pratica di esso meno votata alla performance e più inclusiva4.

Visto che l’Occidente ha imposto al resto del mondo – tra le altre cose – il suo modello di sport competitivo caratterizzato da individualismo, diseguaglianze e sentimenti nazionali esasperati, confrontarsi con l’idea di gioco propria di mondi altri, lontani e residuali può essere utile ad una riflessione sullo sport moderno. Quando, ad esempio, gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana osservati dall’antropologo Descola – come del resto avviene in altere società “non moderne” – affrontano una partita di calcio, ad essere importante per loro non è il prevalere sull’altra squadra ma il gioco in sé, consistente nel segnare evitando che la partita conduca a diseguaglianze.

“Gioco” è una nozione ampia di cui si sono occupati pionieristicamente Johan Huizinga,5 che ha insistito sulla sua natura pre-sociale e ne ha sottolineato l’importanza nella cultura europea, e Roger Caillois6, che ha proposto una classificazione del gioco in base al predominare della competizione (agon), del caso (alea), della mimica (mimicry) o della vertigine (ilinx). Interessanti riletture di questi testi pionieristici alla luce del contesto videoludico contemporaneo sono state prodotte da Alexander Lambrow7, che contesta l’enfasi con cui Huizinga insiste sull’autonomia del gioco, per quanto sottolinei come vada riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui è stata espressa, e Lars Kristensen insieme a Ulf Wilhelmsson8, che mettono in relazione l’improduttività del gioco, dunque il suo distinguersi dal lavoro, espressa da Caillois con la lettura del sistema capitalista proposta da Marx.

Consapevole di quanto sia difficile individuare una definizione generale di gioco, da parte sua Descola, a partire dalla sua conoscenze di antropologo, ritiene sia necessario «distinguere il gioco come attività di emulazione e apprendimento che viene praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, che è universale e che va oltre le frontiere dell’umanità»9 – visto che è riscontrabile anche tra altre specie animali –, da un gioco più sistematico e regolamentato, praticato soprattutto dagli adulti, di natura rituale, consistente «nella cooperazione tra due gruppi di persone che sono generalmente molto ben definite: dei lignaggi distinti, dei gruppi di filiazione, dei rappresentanti di diversi villaggi ecc. L’idea di cooperazione è più importante di quella di competizione; si tratta di collaborare a un’azione comune, di mettere in atto un processo che va oltre la volontà individuale di tutti i partecipanti»10.

Tra gli achuar, ma in generale in tutta l’Amazzonia, sostiene Descola, «si fa ricorso al gioco come attività di svezzamento, di apprendimento di ciò che è utile per la vita e di assimilazione delle tecniche, caratteristica dell’infanzia e dell’adolescenza»11. Ad esempio si fanno giocare i bambini di cinque-sei anni con mini cerbottane in bambù con palline d’argilla affinché, divertendosi, apprendano un’abilità tecnica a cui faranno ricorso quando, un po’ più grandi, si confronteranno con cerbottane più grandi per la caccia da appostamento, dunque, una volta cresciuti, possano destreggiarsi con la versione per adulti.

In queste società la caccia non si risolve semplicemente nell’atto del colpire la preda, ma presuppone innanzitutto trovare l’animale e adottare il suo punto di vista per avere la meglio su di esso e questo, ricorda l’antropologo, è ciò che si fa anche quando si gioca, ad esempio, a scacchi. In questi casi è dunque possibile assimilare la caccia al gioco.

Nelle società animiste anche la guerra “a bassa intensità”, consistente in raid di vendetta e scontri tra un numero limitato di individui, è stata a lungo un’attività che, come la caccia, presuppone la capacità di mettersi nei panni dell’altro. «In un certo senso, si potrebbe pensare che, nell’animismo, il gioco inteso nel senso della seconda definizione, il gioco collettivo diciamo, viene sostituito da attività di questo tipo: la caccia, la guerra, la pesca, che sono attività di emulazione, di competizione, che presentano dei rischi – spesso ne risulta un’uccisione – che prendono il posto del gioco»12.

Se il gioco ha scarsa rilevanza nelle società riconducibili a una ontologia “animista”, sostiene l’antropologo, risulta invece importante nelle società basate su sistemi “analogisti” – come nel mondo andino, in Messico, in gran pare dell’Asia Centrale e in Africa – in cui ha una funzione rituale, oltre che propedeutica. Si tratta di giochi in cui si compiono operazioni mentali con degli oggetti, che spesso prevedono una sfida tra due persone o tra gruppi che si affrontano faccia a faccia, propedeutici nel senso che predispongono a rintracciare legami tra elementi disparati.

Facendo riferimento alla sua esperienza tra gli achuar amazzonici, Descola ricorda che se un tempo tali giochi rituali erano ancora trasposti nella guerra e nella caccia, successivamente, poco a poco, le cose sono cambiate anche per l’introduzione nella loro società, da parte dello Stato nazionale ecuadoriano, del calcio e dell’Ecuavolley (una variante della pallavolo che si gioca in tre). In entrambi i casi, ha notato l’antropologo, gli achuar giocano senza porsi lo scopo della vittoria di una squadra sull’altra. Nel gioco del calcio da loro praticato tutti corrono dietro al pallone, portieri compresi, e le squadre hanno un numero di partecipanti variabile e non regolamentato; «ciò che conta, in fondo, è il gioco, prendere palla e segnare un gol»13, non farne uno in più dell’altra squadra. Ciò era già stato rilevato da Lévi-Strauss nei giochi con la palla arrivati tra i gahuku-gama in Nuova Guinea e lo stesso accade nel cricket praticato nelle isole Trobriand al largo della stessa nazione. Si tratta evidentemente di un’idea di gioco che privilegia l’attività ludica rispetto al risultato.

Lo sport, così come lo conosciamo e pratichiamo nelle società moderne ed ipermoderne, tende a rivelarsi un’attività di gioco particolare visto che presenta una serie di regole codificate e prevede competizioni orientate a uno specifico obiettivo: avere la meglio su altri partecipanti. Pur trattandosi di un’idea di gioco esclusiva al mondo moderno, è però all’interno di quest’ultimo che più marcatamente il conseguimento del risultato tende a soffocare l’attività meramente ludica.

«Mettere a confronto lo sport moderno con il gioco presso gli achuar o gli aztechi», scrive Stefano Allovio nella Prefazione al volume Lo sport è un gioco?,

ha la forza, per opposizione, di rendere chiara la stretta connessione fra la competizione sportiva e una specifica concezione dell’individuo emerso nella modernità: un individuo proprietario del proprio corpo e focolaio non solo della propria emancipazione e della propria libertà, ma anche [come afferma Descola nel libro] “focolaio di una competizione per acquisire beni, prestigio ecc.”. L’individualismo moderno “è racchiuso in maniera evidente e in modo permanente in quei dispositivi di competizione che consistono nell’acquisire dei vantaggi rispetto ad altri […]. Lo sport è la quintessenza intinta di bellezza di questo meccanismo. Ed è in questo che lo sport è diverso dal gioco”14.

Confrontarsi con «logiche differenti, sistemi di relazioni diversi e schemi collettivi altri, concernenti anche i contesti in cui si sviluppano e assumono senso le attitudini motorie» – sottolinea Allovio –, «permette di cogliere meglio le logiche e le epistemologie in cui ci troviamo e in relazione alle quali assistiamo storicamente all’affermarsi dello sport moderno»15.

Riflettendo su come si è evoluto lo sport in termini sempre più competitivi, mediatizzati e mondializzati allontanandosi dalla sfera del gioco, Descola ricorda come nei sistemi totalitari del Ventesimo secolo lo sport sia «stato considerato come un elemento di fierezza e di identificazione con degli eroi»16 e come, sin dagli anni Trenta, sia stato piegato alle ideologie nazionali o identitarie.

Quello che è cambiato, penso, da una ventina d’anni a questa parte – e non sono il solo a riscontrarlo –, è l’espansione, l’irruzione del capitale finanziario nello sport e il fatto che la selezione passi, in particolar modo per le grandi squadre di calcio, dal denaro e dalla capacità di attirare dei giocatori di eccezione. Lo sport così si ritrova in un certo senso spaccato a metà tra la pratica che ciascuno di noi può sperimentare all’interno di federazioni, grazie a un sistema che funziona relativamente bene, che è relativamente democratico, e poi una sorta di microsocietà d’élite nella quale questi stessi meccanismi, tutto d’un tratto, non funzionano più. A livello locale dei club sportivi, la maggior parte delle federazioni funziona bene ma, quando si giunge a quel livello in cui si gestiscono somme ingenti di denaro, i criteri, in particolare quelli morali, elementari, propri della vita civica, della vita comunitaria, scompaiono. È chiaro che le squadre finaliste, nel calcio, sono le squadre più ricche. La cosa va da sé17.

Descola si sofferma anche su come, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato dal trionfo dell’individualismo e da un certo modello di competizione sportiva, lo stadio risulti, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, comunque uno dei pochi luoghi pubblici che permette agli individui di fuoriuscire dalla loro sfera privata e di socializzare, di passare «dal dominio di interesse a loro proprio, per proiettarsi verso un progetto comune che è quello della loro squadra di calcio» sancendo un momento di rottura «con l’attitudine del consumatore esclusivo»18. Alla luce dei rischi di identificazione identitaria costruita per contrapposizione – basti pesare a quanta nefasta retorica nazionalista si possa creare attorno a tali fenomeni con i media che, spesso, non si “limitano” a fare da grancassa –, nulla di cui compiacersi a cuor leggero, aggiunge l’antropologo, ma la frequentazione dello stadio resta una delle rare occasioni per uscire da se stessi.


Sport e dintorni


  1. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, p. 37. 

  2. Ulrike Prokop, Soziologie der Olympischen Spiele. Sport und Kapitalismus, 1971. Il saggio viene pubblicato in traduzione italiana alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi di Monaco con il titolo Olimpiadi dello spreco e dell’inganno, Guaraldi, Bologna, 1972. 

  3. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 119-120. 

  4. Per una disamina di tale fenomeno si rimanda al saggio: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica, cit. 

  5. Johan Huizinga, Homo ludens. Proeve eener bepaling van het spel-element der cultuur, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1938; tr. it. Homo ludens, Einaudi, Milano, 2002. 

  6. Roger Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1958, tr. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Giunti, Firenze, 2017. 

  7. Alexander Lambrow, Prendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica, in Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 73-98. 

  8. Lars Kristensen, Ulf Wilhelmsson, Roger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies, in Matteo Bittanti, Reset, cit., pp. 79-133. 

  9. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 12. 

  10. Ivi, p. 13. 

  11. Ivi, p. 15. 

  12. Ivi., p. 20. 

  13. Ivi., p. 24. 

  14. Stefano Allovio, Prefazione a Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. XX. 

  15. Ivi, p. XXII. 

  16. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 50. 

  17. Ivi, pp. 50-51. 

  18. Ivi, p. 56. 

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La grande partizione https://www.carmillaonline.com/2023/10/10/la-grande-partizione/ Mon, 09 Oct 2023 22:15:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79277 di Stefania Consigliere

Stefano Boni, Tornare in sé. Pandemia. Per una ripresa della coscienza sociale e della resistenza attiva, Nautilus, Torino 2023

Il 9 febbraio 2020, quando il governo Conte, per la prima volta nella storia, mette in lockdown un’intera nazione, nella popolazione italiana si apre una frattura che niente, in seguito, ha davvero ricomposto. A scanso di equivoci, preciso fin da subito che qui non si parla di pandemia ma di gestione pandemica, di come i governi mondiali – e il nostro in particolare – hanno trasformato [...]]]> di Stefania Consigliere

Stefano Boni, Tornare in sé. Pandemia. Per una ripresa della coscienza sociale e della resistenza attiva, Nautilus, Torino 2023

Il 9 febbraio 2020, quando il governo Conte, per la prima volta nella storia, mette in lockdown un’intera nazione, nella popolazione italiana si apre una frattura che niente, in seguito, ha davvero ricomposto. A scanso di equivoci, preciso fin da subito che qui non si parla di pandemia ma di gestione pandemica, di come i governi mondiali – e il nostro in particolare – hanno trasformato un’emergenza sanitaria in una catastrofe globale. Se oggi s’inizia a vedere che non il virus, ma le scelte politiche hanno causato i danni più estesi, all’epoca dei fatti il senno del poi non c’era e toccava navigare a vista fra paure e dubbi, affidandosi a qualcosa di assai più labile (e più cruciale) delle certezze teoriche e delle ricostruzioni storiche: le proprie sensazioni, le impressioni che ci attraversavano, le intuizioni, le perplessità.

E sono proprio le percezioni, le “strutture di sentimento” a essersi divise in due: in quel momento inaugurale e traumatico, la maggior parte della popolazione è stata attraversata da un sentimento di paura, e finanche terrore, per il virus e ha trovato credibili e adeguate le misure adottate (dal lockdown alle zone a colori, dal green pass alla vaccinazione obbligatoria). Una parte minore, ma tutt’altro che esigua, è stata invece attraversata da un’impressione di dismisura, di sproporzione fra rischi e protezioni, e si è trovata fin da subito a diffidare della versione ufficiale dei fatti e a temere le scelte del governo ben più del virus stesso. Altre ferite hanno poi ulteriormente dilaniato il corpo sociale (l’uso delle mascherine, il green pass, la vaccinazione), aggravando la scissione iniziale e aprendone altre.

Come e perché alcuni abbiano aderito a una parte e altri siano scivolati dall’altra resta uno dei fatti più misteriosi a cui mi sia capitato di assistere. La frattura ha spaccato famiglie, amici, amanti, partiti, militanze, associazioni, classi sociali, circoli parrocchiali. Ogni forma immaginabile di associazione fra umani è stata sottoposta a torsione e quasi tutte ne sono uscite frantumate. Forse perché deboli in partenza? forse perché abbiamo a lungo creduto di essere tutti d’accordo almeno sulle cose fondamentali? forse perché la violenza psichica applicata da governi e grande industria era immane? Una risposta convincente ancora non s’è trovata, ma la strage delle coscienze chiamata in causa da uno dei più rigorosi analisti dell’epoca è un’eccellente descrizione di quanto accaduto.

Anche in questo caso, però, bisogna distinguere: sentire il mondo altrimenti non significa automaticamente essere discriminati. Perché la macchina della criminalizzazione si metta in moto, occorre uno sforzo coordinato e continuativo da parte di gruppi di pressione e autorità – esattamente quello che si è verificato in Italia (e non solo) fra il 2020 e il 2022, con le campagne d’odio lanciate a più riprese dai governi e dai mezzi di comunicazione che, per riprendere Luciano Parinetto, hanno letteralmente streghizzato non solo chi non aderiva al nuovo teatro sociale (mascherine, distanziamento, vaccinazione ecc.), ma anche chiunque esprimesse perplessità: come in guerra, ogni dubbio era già tradimento e si è arrivati finanche a menzionare la “fucilazione in piazza”. (Vale pena notare, di passaggio, che le campagne di streghizzazione dei renitenti all’ordine bianco sono uno dei mezzi con cui l’Occidente coloniale ha imposto la propria regola – o, per meglio dire, il proprio inferno – alle popolazioni colonizzate; e già che ci siamo, aggiungo anche che tutti gli strumenti di “salute pubblica” utilizzati nel periodo pandemico sono stati a lungo sperimentati, con esiti atroci, nelle colonie.)

Quanti sono quelli che, nella primavera del 2020, hanno scoperto di sentire il mondo in modo diverso da quello prescritto? E quanti l’hanno scoperto più tardi, col trascorrere dei mesi, delle misure di contenimento, dei discorsi pubblici, delle polarizzazioni? Il computo non è semplice. Chi ha frequentato, o ha fatto parte di, questa popolazione può dirne almeno due cose: è più ampia di quel che sembrerebbe; e non sembra esserci alcuna caratteristica sociologica, politica, economica o culturale che la unisca in modo univoco. Questa balzana classe non sociologica, la “classe che non è una classe” di quelli che durante la pandemia hanno sentito il mondo altrimenti, è uno dei fenomeni sociologici e antropologici più interessanti da conoscere.

È quanto fa Stefano Boni in questo volume, intervistando in profondità un gruppo di persone unite dapprima dalla percezione che, nella gestione pandemica, qualcosa non tornasse e poi dall’attivismo resistenziale in epoca di restrizioni. Alle spalle del testo c’è un’etnografia partecipata, come nella miglior tradizione della ricerca antropologica: un osservar facendo – o, se si vuole, un domandare camminando – capace di scavare al di sotto dei fenomeni, di ciò che appare a prima vista, alla ricerca della struttura che connette.
Nell’arco di sette capitoli, l’autore esplora alcuni degli elementi che uniscono questa stramba popolazione: dal sospetto verso la televisione alle scelte terapeutiche, dalla ripresa dell’organizzazione orizzontale alla ricerca di una certa coerenza fra principi e pratiche. A volte questi elementi di inquietudine, e di critica del presente, erano già attivi prima dell’affare covid e hanno orientato fin da subito lo sguardo sugli eventi; altre volte, a fronte della dismisura pandemica, l’emergere di un diverso e imprevisto sentimento del presente ha reso necessario sviluppare rapidamente uno sguardo critico. In ogni caso, questi soggetti si sono messi in fuga da una macchina organizzativa che tutti quanti, fin dai primi anni di vita, siamo addestrati a pensare come benevola e che di colpo ha rivelato il suo lato nascosto, l’enorme violenza necessaria al suo incedere.

I renitenti alla gestione pandemica troveranno in questo libro un racconto, e una possibile sistematizzazione, di ciò che, in questi anni, hanno attraversato. Gli altri – almeno quelli che, col calare della pressione sociale, possono permettersi qualche apertura – vi troveranno descritte le ragioni intime, e al contempo profondamente politiche, dei refuseniks. Qui aggiungo solo due note rapide.
La prima riguarda la prospettiva politica dell’autore. Dal punto di vista della tenuta critica, la pandemia ha messo in ginocchio a livello globale quella che un tempo si chiamava “sinistra antagonista”: quando, nel febbraio 2022, all’università di Utrecht si è tenuto il primo convegno internazionale di analisi degli eventi pandemici da sinistra, alcuni dei partecipanti hanno scelto di parlare in incognito, a riprova della durezza del blocco epistemologico calato un po’ ovunque. Antropologo all’università di Modena e Reggio, Stefano Boni è notoriamente anarchico e le sue pubblicazioni (v. gli eccellenti Homo comfort e Orizzontale e verticale. Le figure del potere, entrambi editi da Elèuthera) ne testimoniano a sufficienza. Nell’imbarazzante silenzio dei saperi critici e dell’antagonismo circum-marxista a fronte della gestione pandemica, la prospettiva anarchica – con la sua strutturale diffidenza nei confronti delle organizzazioni verticistiche e la sua enfasi sulle autonomie – si è dimostrata assai più rapida e intelligente sia nella decrittazione degli eventi che nella costruzione di alternative.

La seconda nota riguarda l’ultimo capitolo del libro, dedicato a qualcosa che, in assenza di meglio, tutti quanti chiamiamo “spiritualità” e che può essere descritta, telegraficamente, come il sentimento di vivere in un cosmo in cui, oltre a quella umana, vi sono anche altre intenzionalità e intelligenze (ad esempio quelle delle piante, del terriccio, delle acque, dei venti, degli animali, degli antenati; e magari anche delle ninfe che abitano i boschi e dei lari che danno ai luoghi il loro timbro). Forse proprio per via della rottura pandemica, dopo un secolo e mezzo di materialismo nella sua versione più gretta, negli ambienti libertari e resistenti oggi si comincia a ragionare – ancora a mezza voce, ma in modo sempre più deciso – di una possibilità di reincanto che sia finalmente altro da quello con cui il fascismo e il sistema dello spettacolo muovono le masse. Si ragiona, cioè, della possibilità d’intrecciare cambiamento esterno e cambiamento interno, economia e struttura pulsionale, attaccamenti e gerarchie, la felicità che non è stata possibile ai morti e la nostra infelicità presente; di una misticopolitica che consenta, infine, un rapporto non violento con gli enti che popolano il mondo, e quindi anche con gli umani, con noi stessi, con le nostre memorie, i nostri valori e quel quanto di felicità che pure, sulla terra, ancora avrebbe il suo luogo – fuori e contro la macchina dell’oppressione.

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Complottismo e narrative egemoniche: sono così diverse? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/complottismo-e-narrative-egemoniche-sono-cosi-diverse/ Thu, 03 Nov 2022 23:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74465 di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi [...]]]> di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi è convinto che le istituzioni, nel loro complesso, siano credibili e chi invece le vede come organi di manipolazione di massa, è ormai evidente.
Quello su cui non ci si sofferma è ciò che accomuna questi due filoni narrativi: le loro similitudini riguardano fondamentalmente i processi cognitivi di costruzione di quello che Foucault chiamava i regimi di verità ovvero “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere”. A Foucault non interessa stabilire cosa sia vero o falso ma la costruzione di regimi, culturalmente specifici, in cui certe affermazioni appaiono a certi gruppi come tali: ciò che viene socialmente ritenuto autentico o fraudolento è prodotto e produttore delle dinamiche di potere prevalenti.

… credo che il problema non sia di fare delle divisioni tra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipende da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi (Foucault 1977: 25-27, 13).

Questo approccio ci permette un’operazione antropologica, finalizzata non tanto a giudicare la veridicità delle credenze proposte da diversi contesti ma piuttosto cercare il senso di ciò che le narrazioni esprimono per chi le formula e le ascolta. Questo è stato lo sguardo usato dall’antropologia per comprendere l’effetto sociale di miti, cosmologie, rituali, pratiche occulte; si può applicarlo anche a quelle che vengono denominate “teorie del complotto” e alle narrazioni istituzionali contemporanee.
Quello che accomuna “teorie del complotto” e narrative egemoniche è la costruzione di regimi di verità fondati su drastici meccanismi di semplificazione. Queste non sono chiaramente dinamiche inedite (la storia ne è piena sia tra i dominanti che i dominati) ma mi pare innegabile un’accentuazione di processi di decisa riduzione della complessità negli ultimi due decenni. Di seguito illustro alcuni di questi meccanismi di semplificazione, facendo notare come siano cruciali in entrambi i lati della contesa contemporanea su ciò che sia da ritenere vero.

1. Linguaggio post-ideologico. Chi viene denominato complottista così come le narrazioni egemoniche sono concordi nel constatare che siamo in una fase di transizione: i principali media insistono sullo stato di “crisi” o “emergenze”; le teorie del complottano hanno una visione più millenarista che sostiene l’approssimarsi della fine di un mondo corrotto e insostenibile. Per entrambi i campi, le categorie novecentesche sono ormai desuete. Le parole, gli schemi, le interpretazioni, i temi trattati da entrambi i filoni narrativi hanno ormai abbandonato l’ambito di quello che è stata la politica novecentesca, centrata sulla razionale valutazione del sistema migliore di gestione del bene pubblico. Nel racconto egemonico gli atti di governo sono sempre più ricondotti all’inevitabilità, alla necessità tecnica, fondata su pseudo-spiegazioni algoritmiche-numeriche (Boni 2022). Nelle cosiddette teorie del complotto si propongono letture che non si accontentano di proporre un aggiustamento dell’arte del governo ma chiedono una radicale palingenesi legata a profonde discontinuità etiche e spirituali; le affiliazioni e le diatribe politiche novecentesche vengono spesso ritenute vetuste e inutili. Il linguaggio di entrambi i generi narrativi più che finalizzato a ricostruire una descrizione affidabile e proporre una convincente strategia di gestione mira a suscitare emozioni riconducibili a dicotomie: giusto/ sbagliato oppure buono/ malefico. L’enfasi morale richiede di direzionare il messaggio alle viscere di chi ascolta piuttosto che fare affidamento sulla complessa negoziazione di soluzioni in contesti eterogenei.

2. L’enorme potere esplicativo del dettaglio. I processi odierni di semplificazione analitica si nutrono di spiegazioni fondate sull’attribuzione di un enorme capacità esplicativa a frammenti di documentazione piuttosto che ad un vaglio complessivo della serietà delle “prove” a sostegno della narrazione. Innanzitutto si elimina la profondità storica fino a neutralizzarla: la narrazione rimane sul presente (significativa ad esempio la capacità di far iniziare il conflitto russo-ucraino nel 2022 o la sostanziale accettazione degli USA come credibili paladini democratici, cancellando decenni di imperialismo e appoggio a dittatori sanguinari). In secondo luogo ci si affida a schegge di informazione: un’immagine, una frase, un video, un singolo evento possono essere usati come chiavi di lettura risolutive per farsi un’idea su dinamiche stratificate, sfaccettate, complesse. In questo modo alcune teorie complottiste riducono il capitalismo al piano diabolico di una setta (i miliardari ebrei), di una famiglia (ad esempio i Rothschild), di un fondo di investimento (ad esempio Blackwater) o di un economista (ad esempio Klaus Schwab) piuttosto che esaminare il complesso di forze in atto. Allo stesso modo i movimenti noGP possono essere etichettati come fascisti con un processo di estensione su un movimento variegato di una (piccola) parte attentamente amplificata attraverso la pubblicizzazione di certi eventi (l’assalto alla CGIL) attentamente selezionati se non proprio generati ad arte. In questo processo analitico fondato su frammenti di documentazione la cui valenza esplicativa viene generalizzata, la tendenza a personificare, ovvero a spiegare facendo riferimento non a dinamiche sociali o strutturali, ma a singoli individui (spesso portatori di piani diabolici), diventa comune: “la guerra di Putin” o “i divieti di Draghi”.

3. Assolutismo. Si tratta essenzialmente di non lasciare alcun spazio al dubbio, all’ambivalenza, alla contraddizione, alla eterogenesi dei fini. La narrazione si presenta come un monoblocco solido e inattaccabile fondato su una spiegazione lineare: obiettivo-azione-effetto previsto. L’impianto narrativo, spesso improntato sullo svelamento di un arcano, spiega tutto in modo convincente ed esaustivo. Di conseguenza le narrazioni richiedono un’adesione fideistica, un allineamento integrale piuttosto che una valutazione o interpretazione. Ne consegue una dicotomizzazione delle verità, senza la possibilità di percorrere interpretazioni ibride o di soffermarsi sulle sfumature. Il filone narrativo concorrente infatti non risulta solo meno convincente ma insensato, falso, mistificatorio. I media egemonici deridono “i complottismi” come fake news, espressione di credenze patologiche. L’affermarsi della convinzione (poco problematizzata) che esistano fake news presuppone che invece i canali legittimi irradino true news. Attraverso questa brutale semplificazione un modello epistemologico irriducibilmente dicotomico è servito: se non si propongono notizie catalogabili dai media egemonici come vere, si cade automaticamente nella categoria, stigmatizzabile a piacimento, dei diffusori di falsità. Diventa così sempre più complicato formulare critiche radicali popolari perché si corre il rischio di essere sbrigativamente catalogati come chi sostiene un assurdo complotto. D’altro lato le critiche popolari etichettate come complottiste tendono a fondarsi su sentimenti di delusione e rabbia; queste portano all’individuazione di nuclei di verità critica occultati dalla narrazione egemonica; l’espressione pubblica di queste letture sovversive prevede una palingenesi epistemica produttrice di interpretazioni eretiche, incompatibili con le letture istituzionali.

4. L’abbandono della dialettica. Le credenze si costruiscono e rimangono sempre più bolle auto-referenziali, sia quelle mediatiche sia quelle diffuse su blog e social network proponenti teorie riconducibili al complottismo, nel senso che non vengono sottoposte al vaglio di chi la pensa diversamente. Ormai è scarsa la volontà – sia da parte di chi irradia ma anche da parte di chi riceve le narrazioni – di costruire la credenza sul confronto argomentato tra una diversità di letture. Il contraddittorio con interpretazioni distanti, anche antitetiche, ci obbliga ad esaminare in maniera attenta una documentazione complessa e ambivalente; consente di aggiustare la propria tesi in base alle obiezioni di chi la pensa diversamente; permette di sondare posizionamenti intermedi o imprevisti; ci costringe a cautele epistemologiche, metodologiche e narrative che l’auto-referenzialità delle narrazioni contemporanee non prevede. La mancanza di confronto, o meglio l’indisponibilità ad ascoltare seriamente la posizione altrui, spinge ad adesione fideistiche e impermeabili oltre che ad una polarizzazione delle credenze. Lo svuotamento della dialettica sul piano narrativo completa l’opera di delegittimazione di qualsiasi forma di conflitto portato dai movimenti sociali, ridotti a problema di ordine pubblico. La volontà di dialogo è stata assente in modo evidente durante la sindemia, fino alla richiesta da parte di un ex-primo ministro di “modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” finalizzata a ridurre ulteriormente quello che appariva uno spazio di dibattito già praticamente inesistente1 (il fatto che a distanza di due anni ancora non ci siano dibattuti pubblici tesi a confrontare posizioni divergenti sulla gestione pandemica è significativo così come la sostanziale assenza di confronto pubblico acceso di fronte al pericolo nucleare!). In tale contesto, il progressivo ritorno della censura generalizzata sui canali social ma anche televisiva (apparentemente salvata con l’apparizione di sporadiche voci dissenzienti che possono essere comodamente massacrate sia perché minoritarie, sia perché lo spazio per un ragionamento non c’è, sia perché le posizioni presentate come eversive sono già state neutralizzate dalla loro ossessiva derisione). Allo stesso modo le teorie del complotto non prevedono la possibilità di chiedere documentazione complessa, di dissentire in parte, di sollevare obiezioni. Ci si arrabbia sempre meno al bar e si discute sempre meno in strada, ognuno stretto nei suoi regimi di verità.

L’accentuazione di questi processi è riconducibile, tra l’altro, a tre dinamiche. Le prime due sono riferibili ad una crisi della informazione egemonica non più in grado di generare consenso e perlomeno quiescenza in settori ampi, gruppi non riconducibili più al solo mondo dell’attivismo politico “classico”.
Primo, lo spostamento della politica, e quindi del conflitto politico, da un ambito razionale ad uno emotivo, finalizzato a generare sensazioni: i media ultimamente solleticano le emozioni legate all’emergenza (ansia e paura in primis) mentre quelle classificate come teorie del complotto alimentano principalmente la rabbia anti-sistema. I movimenti attuali e futuri sembrano sempre più caratterizzati da una collera indirizzata verso l’alto e una frustrazione livorosa verso gli altri dominati, alimentando una progressiva polarizzazione, fino a scenari di guerra civile.
Secondo, una crisi epistemica della informazione egemonica non più in grado di generare consenso, o perlomeno rassegnazione, in ampi settori sociali che rimanda ad una più profonda crisi del modello politico ormai incapace di garantire le promesse di benessere e rappresentanza. A questa difficoltà i media istituzionali hanno reagito irrigidendo i regimi di verità, ovvero non ammettendo dubbi e sfumature, e negando qualsiasi credibilità a critiche emerse fuori dai meccanismi egemonici di produzione della informazione e della credenza.
Terzo, la trasformazione dei canali tecnologici attraverso cui passano le informazioni, ovvero l’avvento degli smartphone con le caratteristiche dei loro canali, in particolare blog e social network. Il meccanismo del “like”, il linguaggio schematico, i temi rapidi, in breve la richiesta di un’attenzione sfuggente nella ricezione del messaggio rientra appieno in questo processo di digestione delle narrazioni intesa come adesione/rifiuto piuttosto che problematizzazione. Questa tendenza all’auto-referenzialità è rafforzata dalla scelta dei gestori della rete di alimentare le convinzioni soggettive con narrazioni che propongono credenze analoghe, ovvero l’induzione al consumo di informazioni confermative che portano a scoraggiare il confronto con chi la pensa diversamente. Si creano così regimi epistemici settoriali, isolati ed auto-referenziali.
Riconoscere le somiglianze tra critiche popolari etichettate come teorie del complotto e informazione egemonica significa riconoscere il peso di dinamiche culturali trasversali che vanno ad impattare il piano cognitivo della costruzione della credenza. Significa anche evidenziare come la critica popolare – se fatta esclusivamente in termini ipersemplificati – riproduce alcuni meccanismi propri del potere istituzionale, in particolare lo scadimento del livello analitico. Questo scadimento complessivo, polarizzato su posizioni contrapposte, mina la risorsa forse più preziosa dei movimenti sociali, la paziente costruzione della credenza mediante un dibattito polifonico e approfondito, in grado di generare solida consapevolezza e azioni coerenti con questa. Per tornare a Foucault, gli effetti che genera questa convergenza sulla semplificazione della critica popolare del potere (classificata come teoria del complotto dai suoi oppositori) è la creazione di settori fortemente critici ma non in grado di scardinare la visione dei più, anzi non in grado neanche di dialogare con chi è rimasto nelle credenze egemoniche. Si consolida in ampie fasce un senso di profonda estraneità rispetto alle dinamiche egemoniche ma si fa difficoltà ad allargare la base del consenso critico.
Lo scetticismo crescente con cui sono accolte analisi profonde e l’insofferenza verso i “professori” e gli “intellettuali” (anche questa dinamica comune ad entrambi i campi narrativi) acquistano un senso se viste nella lettura qui proposta; ma ciò non ci esime dal, anzi ci dovrebbe spingere ancora di più a contribuire alla costruzione pubblica di regimi di verità complessi, dialoganti, polifonici.

Bibliografia

Boni Stefano (2022) “Postfazione”, Culture e Poteri, seconda edizione, eleuthera, Milano.

Boni Stefano (2022a) “In assoluta sicurezza. Rimozione della morte, onnipotenza tecnica, controllo pandemico e iatrogenesi”, in N. Bertuzzi e E. Lello (a cura di) Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Castelvecchi, Roma.

Boni Stefano (2022b) “Eliminare il virus, schermare i corpi. L’illusione di onnipotenza tecnica e i suoi rischi” in AA.VV. Antropologia di una pandemia, AAM Terranuova.

Foucault Michel, (1976) “Intervista a Michel Foucault”, in Microfisica del Potere. Interventi Politici,Einaudi, Torino 1977.


  1. Boni 2022a, 2022b 

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Nemico (e) immaginario. Il nontempo. Quando il presente diventa egemonico https://www.carmillaonline.com/2020/12/14/nemico-e-immaginario-il-nontempo-quando-il-presente-diventa-egemonico/ Mon, 14 Dec 2020 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63749 di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo in guardia, sul finire degli anni Novanta, circa la sparizione della realtà – a causa di una sua “messa in finzione”, soprattutto da parte del mezzo televisivo –, Marc Augé ha iniziato a denunciare un’altra sparizione: quella del futuro. Il mondo sembra in effetti in balia di un eterno presente capace di annullare l’orizzonte storico. Futuro e passato si sono eclissati sotto l’ombra della globalizzazione con i suoi aspetti politici, scientifici e simbolici.

Dopo una decina di anni dalla sua prima pubblicazione, torna in libreria, in una nuova edizione, il volume in cui l’antropologo francese riflette sulla sparizione dell’avvenire: Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? (eleuthéra, 2020). In questo libro, che resta di estrema attualità, lo studioso, dopo essersi a lungo occupato della dimensione dello spazio, prende in considerazione quella del tempo, mostrando come il nostro mondo, oltre che essere disseminato di “nonluoghi”, possa davvero dirsi caratterizzato dal “nontempo”.

Augé elenca tre paradossi del tempo. Il primo ha a che fare con la consapevolezza dell’individuo di vivere nel corso di un tempo che precedeva la sua nascita e che proseguirà dopo la sua morte. Il secondo è inerente alla difficoltà per l’individuo mortale, dunque tributario del tempo e delle idee di inizio e fine, di «pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine» (p. 8). Cosmogonie e apocalissi rappresentato soluzioni immaginarie a tale difficoltà umana. Il terzo è il paradosso dell’evento, del fatto al contempo atteso e temuto.

Se il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è ricorrente nelle attenzioni dei gruppi umani, oggi tale paradosso dell’evento pare giunto al suo culmine: mentre la storia accelera, spinta da eventi di ogni tipo, gli individui contemporanei, sostiene Augé, pretendono di negarne l’esistenza, esattamente come accadeva nelle epoche arcaiche, ad esempio celebrandone la fine. Con questi tre paradossi hanno dovuto fare i conti, nei contesti storici più diversi, tutti i tentativi di simbolizzazione del mondo e delle società.

Dalla caduta muro di Berlino può dirsi iniziata una nuova storia che, a causa della velocità con cui procede e per il suo aspetto globale, risulta pressoché incomprensibile.

Dal punto di vista intellettuale, questo cambiamento di scala ci prende alla sprovvista. Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c’è più niente da capire, e dall’altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo (p. 13).

Tra queste due visioni estreme, accomunate dal non derivare alcune lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, secondo Augé, trova posto un’ideologia del presente caratteristica di quella che è stata definita la società dei consumi. Sembra quasi che all’essere umano non resti che scegliere tra un consumismo conformista e passivo, anche quando può darsi in forma assai ridotta, e un rifiuto radicale al quale, al momento, sembrano in grado di provvedere soltanto le espressioni religiose più esasperate.

Sullo stesso piano ideologico, vediamo inoltre formarsi connubi sostanziali tra ideologia religiosa e ideologia consumista, più in particolare nel caso dell’evangelismo di origine nordamericana. Per il resto, le nuove forme di esclusione, delle quali la globalizzazione è nello stesso tempo il contesto generale e uno dei principali fattori, generano, attraverso diverse mediazioni come quella del fondamentalismo religioso, atteggiamenti di rigetto o di fuga che hanno senso solo in rapporto all’ordine dominante. Quest’ultimo provoca insieme odio e seduzione. La contestazione, la rivolta o la protesta sembrano così prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero ai quali si oppongono, sia a livello della vita politica sia sul piano intellettuale e artistico (p. 14).

Di fronte ad uno scenario di tale tipo, secondo lo studioso, può essere utile far riferimento alla categoria di tempo per indagare le false evidenze dell’attuale ideologia del presente. Tali evidenze, continua Augé, assumono la forma di un triplice paradosso.

Primo paradosso: la storia, intesa come fonte di nuove idee per la gestione delle società umane, sembra terminare proprio nel momento in cui riguarda esplicitamente l’umanità nel suo insieme. Secondo paradosso: noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata. Terzo paradosso: la sovrabbondanza senza precedenti dei nostri mezzi sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica (p. 15).

A ben guardare tali paradossi non sono altro che l’odierna forma storica dei tre citati precedentemente. «In questo senso attengono tutti all’ideologia. Ogni sistema di organizzazione e di dominio del mondo […] ha prodotto teorie dell’individuo, del mondo e dell’evento. Il sistema della globalizzazione non si sottrae a questa regola» (p. 16).

Non possiamo interessarci al futuro senza incontrare la presenza massiccia e anomala dell’immaginazione. Se è infatti vero che non vivono ogni giorno con il pensiero dei propri fini ultimi, gli umani non possono tuttavia accontentarsi indefinitamente di un’eternità fiacca, di un tempo chiuso. Questo vale per i più deprivati, ma anche per gli altri. La corsa al senso si svolge dunque anche nelle peggiori condizioni. Il senso non è necessariamente il destino post mortem, l’immortalità o il paradiso. È l’esistenza del domani, un insieme di relazioni con gli altri sufficientemente consistente per scongiurare l’assurdità di una solitudine senza oggetto e senza fine, nel doppio senso del termine (p. 122).

L’illusione offerta dalle sette «parla il linguaggio dei fini, che è anche quello del desiderio, ma si limita a servirsene, lo sbriciola, lo distilla in dosi omeopatiche; i suoi espedienti sono il rovescio negativo del discorso sociale sempre incompiuto dei politici e degli economisti: essa non pretende di orientare la società, la rimpiazza» (p. 123).

Diversi movimenti evangelici, così come il fondamentalismo islamico, si fondano su parole d’ordine semplici e capaci di attrarre quanti, vivendo in solitudine, privi di riferimenti simbolici, in miseria materiale e morale, sono in cerca di certezze. «Tutti questi fondamentalismi hanno in comune un riferimento, un’ambizione e una modalità di azione. Il riferimento è l’origine: la disputa tra i tre monoteismi si basa essenzialmente sul punto di partenza, sull’origine della sola storia che conti ai loro occhi, quella del vero messaggio» (p. 124).

Se da un certo punto di vista, sostiene Augé, i monoteismi, con le loro aspirazioni all’universalizzazione del messaggio, nel basarsi sia sul passato che sul futuro, rimandano alle “grandi narrazioni” lyotardiane, allo stesso tempo se ne differenziano per la pretesa, in quanto cosmogonie, di parlare all’umanità intera e perché la loro visione dell’avvenire dell’umanità si risolve nel prospettare la fine del mondo come compimento. Per quanto riguarda la loro modalità di azione, questa si risolve in un proselitismo, tratto specifico dei monoteismi, che gli integralismi portano all’estremo e a maggior ragione in uno scenario globalizzato.

L’integralismo è una globalizzazione dell’immaginario che può avere conseguenze terribilmente reali. È anche la globalizzazione dei poveri (anche se, ovviamente, può essere usata, manipolata e sostenuta dai soldi dei ricchi); in questo senso è una globalizzazione mimetica. La globalizzazione e i suoi agenti sono mimetizzati, come lo erano la colonizzazione e i colonizzatori. Il mimetismo e la rappresentazione sono le armi simboliche cui si ricorre quando la relazione diventa impensabile, impossibile da negoziare (p. 125).

Se i movimenti locali di protesta per reggere lo scontro necessitano di collegamenti su scala più ampia, ancora più che nel passato sono oggi proprio le religioni a vocazione universale a procurare i mezzi intellettuali e materiali per tale estensione. «Il marxismo e le ideologie progressiste in generale, che avevano influenzato i movimenti politici di indipendenza e di liberazione, sono in declino […] L’immaginazione, in questo caso, va al traino della storia» (p. 127).

Nella società contemporanea non deve essere sottovalutato il ruolo giocato delle immagini, soprattutto televisive, che finiscono per certi versi per svolgere il ruolo delle cosmologie tradizionali che ponevano coordinate spazio/temporali dando un ordine simbolico al mondo. L’Occidente è modellato dalla mentalità consumista in cui ognuno si costruisce la propria cosmologia ricorrendo non di rado alle nuove tecnologie.

Il mondo della televisione è esemplare per questo postmodernismo dei poveri: se ci sono tante persone che desiderano esprimere in quell’ambito le proprie convinzioni, le proprie preferenze, la propria vita, quando è evidente che non hanno niente di originale, è perché così possono crederci anche loro, grazie al prestigio dell’immagine che consolida all’occorrenza l’assicurazione fornita dal prendere la parola. Nonostante l’egocentrismo forsennato, questi comportamenti indotti dalla società dell’immagine non sono poi tanto diversi da quelli che governano la fede dell’uomo semplice (che peraltro non gli competono in modo esclusivo): in entrambi i casi si tratta di una questione di sopravvivenza. Ci troviamo così, d’ora in avanti, in una situazione in cui siamo in grado di percepire, davanti a un campo di rovine metafisiche nel quale i fondamentalisti illuminati e gli individualisti alienati continuano a rovistare per assemblare un senso a partire da qualche rottame, che colonizzati e colonizzatori hanno vissuto la stessa storia e che la colonizzazione altro non è stata che la prima tappa della globalizzazione. Siamo tutti quanti ai piedi dello stesso muro. Dopo le tristi esperienze del secolo scorso, è questa la sfida che ci aspetta: come possiamo reintrodurre nella nostra storia finalità che ci affranchino dalla tirannia del presente ma che non siano all’origine di un nuovo dispotismo intellettuale e politico? Come possiamo, più che prefigurare il futuro (essendo il cambiamento tanto inimmaginabile quanto ineluttabile), attrezzarci nella misura del possibile perché sia l’avvenire di tutti? (pp. 127-128).

Pur non mancando forme di resistenza allo stato di cose esistente, queste sembrano muoversi in nome di ideali particolari e incompleti che, nonostante i tentativi di esprimersi su scala globale, non riescono a costruire progetti di futuro, limitandosi a proporre obiettivi meramente difensivi.

Secondo Augé è necessario evitare di confondere il tema della “fine delle grandi narrazioni” con quello della “fine della storia”: se Lyotard rifletteva sulle nuove modalità di relazione con lo spazio e con il tempo che definiscono la condizione postmoderna, Fukuyama finiva invece per proporre una nuova “grande narrazione”. «La fine della storia non è, evidentemente, il blocco degli eventi, ma la fine di un dibattito intellettuale: tutti quanti, ci dice in sostanza Fukuyama, sarebbero oggi d’accordo nel ritenere che la formula che coniuga il mercato liberista e la democrazia rappresentativa sia insuperabile» (p. 133).

Il concetto di “fine della storia” in Fukuyama, si chiedeva Jacques Derrida (Spectres de Marx, 1993), è da interpretare come un dato di fatto o come un’ipotesi speculativa? L’avvenimento sembrerebbe essere tanto la realizzazione quanto l’annuncio della realizzazione. Tale incertezza, sostiene Augé, è tipica di un’atmosfera intellettuale in cui non si è più in grado di “immaginare del futuro”.

Nelle società dell’immanenza si tende a negare l’evento, «lo si rimanda alla serie di determinazioni concepite al contempo come sociali e antropologiche che lo riversano sulla struttura. Quando questo riversamento, questa “eziologia sociale”, non è più possibile, perché l’evento è enorme e sproporzionato rispetto agli abituali strumenti di misura e di interpretazione […] allora lo si mima, lo si recita, lo si mette in scena […], nella speranza che quella sorta di sfida simbolica basti a scongiurarlo» (p. 134).

Soprattutto nelle società occidentali si assiste a una crescita della paura dell’evento ma se ciò classicamente comportava una ricerca delle cause e dei responsabili, quando l’evento ha una portata inaspettata (come nel caso dell’attentato dell’11 settembre 2001), esso si trasforma da «punto di arrivo che bisogna spiegare» in «punto di partenza che tutto spiegherà». È questo, secondo lo studioso, il senso della guerra dichiarata al terrorismo.

La parola chiave, qui, è “dichiarazione”. Forse la formula “dichiarazione di guerra” non era più stata utilizzata dal 1939. La dichiarazione di guerra ha precisamente l’effetto di un annuncio che cancella con un tratto il passato per convertire gli animi all’attesa e al seguito. È il passaggio alla violenza legittima, o comunque legale; è un ribaltamento delle coordinate temporali, una rifondazione, il canto di chi parte. Il problema è che nella complessità delle società moderne non è così facile riuscire in questa operazione simbolica, passare dall’ordine delle cause a quello degli effetti, dalla diagnosi al progetto. Così il discorso ufficiale sul terrorismo si sdoppia: gli si dichiara guerra, certo, ma questo non cambia niente, si vive come prima (sia pure con un po’ più di vigilanza poliziesca). Cambia tutto, non cambia niente (pp. 135-136).

La contemporaneità globalizzata manifesta, dunque, la prevalenza del linguaggio spaziale su quello temporale. La coppia globale/locale ha sostituito l’opposizione particolare/universale che, invece, associata a una concezione dialettica della storia, si inscriveva nel tempo. «L’assimilazione dell’opposizione globale/ locale a quella interno/esterno assume tutto il suo significato in relazione al tema della fine della storia inteso come avvento della democrazia liberale, cioè, in definitiva, in rapporto all’opposizione sistema/storia» (p. 137).

L’epoca della globalizzazione, oltre ad aver incrementato enormemente la disparità delle ricchezze, ha ampliato lo scarto tra chi dispone di conoscenze e chi non ne dispone generando una massa di esclusi dalla conoscenza , una massa di individui a cui è permesso di essere semplici consumatori, quando non sono esclusi sia dal sapere che dai consumi. A ciò, sostiene il francese, occorre contrapporre un’utopia del “sapere per tutti”, «una visione del futuro finalmente sgombra dalle illusioni del presente veicolate dall’ideologia della globalizzazione consumista» (p. 140).

«Di fronte all’ideologia del presente e dell’evidenza diffusa dal sistema globale, di fronte alle illusioni micidiali e liberticide dei totalitarismi integralisti, abbiamo più che mai bisogno di un ritorno allo sguardo critico capace di rivelare i giochi del potere dietro alle formule che si appellano a una quiete illusoria o una mobilitazione fanatica» (p. 131). È all’antropologia che Augé attribuisce quello sguardo critico che, sebbene insufficiente di per sé per cambiare il mondo, può almeno contribuire a dare la misura delle vere poste in gioco.


Nemico (e) immaginario serie completa

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I movimenti aberranti di Deleuze https://www.carmillaonline.com/2020/11/20/i-movimenti-aberranti-di-deleuze/ Fri, 20 Nov 2020 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63511 di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del [...]]]> di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del secondo Novecento: secondo quanto scrive Jean-Paul Sartre, “non è in un ipotetico rifugio che scopriamo noi stessi, ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini” (e si possono ricordare anche gli elogi della strada attuati da Céline già nel 1932, nel suo Viaggio al termine della notte, quel “c’è solo la strada” ripreso da Gaber e Luporini in una nota canzone). Come nota Fabrizio Palombi nella prefazione, dehors diventa “la parola d’ordine di una comune missione teorica e vitale. La ritroviamo nelle pagine di Gaston Bachelard, negli scritti di Maurice Blanchot, nelle pieghe di Gilles Deleuze, nei testi di Jacques Derrida, nelle analisi di Maurice Merleau-Ponty e, soprattutto, nelle pagine di Michel Foucault”, autore, quest’ultimo, di un’opera intitolata Il pensiero del fuori. Ed è proprio attraverso gli strumenti offerti da quest’ultimo studioso che si presta ad essere analizzato il periodo che stiamo adesso vivendo, in cui il “Fuori” viene continuamente negato e interdetto. La pratica del lockdown, il mantra dello “state a casa”, le dinamiche di controllo armato rivolte a chi esce di casa ‘senza motivo’ sono semplicemente l’ipostatizzazione di un controllo diffuso già a partire dalla modernità, ampiamente analizzato da Foucault. Mettere in discussione tali pratiche, perciò, in questo periodo, non significa assolutamente negare la pericolosità del virus; si tratta, bensì, di una messa in discussione che investe alcuni meccanismi di controllo preesistenti alla diffusione del virus e che, grazie ad esso, emergono allo scoperto. Comunque, tornando a Deleuze, si può notare, con Palombi, che “il libro di Lapoujade c’invita ad affacciarci continuamente sul Fuori per respirare ancora una volta, proprio come Deleuze sosteneva a proposito di Sartre e di Foucault, una boccata d’aria fresca proveniente dal dehors”.

È bene mettere subito in chiaro che non si tratta di una lettura semplice. Come osserva D’Aurizio nella postfazione, “la difficile ascesa teorica alla sua cima ripaga il lettore con la possibilità di dominare, tramite uno sguardo teoretico d’ampio respiro, molti dei problemi centrali della filosofia di Deleuze. La lettura di questo libro, infatti, implica l’attraversamento delle spesse nebbie evenemenziali e delle fitte selve logiche che popolano il suo pensiero”. L’importanza maggiore del libro di Lapoujade sta nel fatto che esso non rappresenta una semplice “introduzione” a Deleuze; non si limita a ripeterne formule e concetti “ma ne dispiega diversamente il tessuto per comporre delle immagini nuove, contemporanee”. Come nota Lapoujade nell’introduzione, “la filosofia di Deleuze si presenta come una filosofia dei movimenti aberranti o dei movimenti forzati. Costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società”. Ricordiamo che “aberrante” (da “ab”, moto da luogo e “erro”) in senso etimologico, può significare sia “vagare senza una meta precisa” sia “sbagliare”. Perciò, la funzione dei movimenti aberranti, come scrive l’autore della postfazione, “è quella di condurci sino ai limiti del pensiero, dell’immaginazione, della memoria, della sensibilità, del linguaggio e di spingerci oltre, di farceli oltrepassare, conducendoci così all’impensabile, all’inimmaginabile, all’immemorabile, all’insensibile, all’indicibile che lavorano costantemente queste facoltà. I movimenti aberranti comunicano con l’aldilà del limite, con il rovescio della frontiera. In una parola: con il Fuori”.

Per Deleuze, “un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità. Più è irrazionale, più è aberrante, più è logico”. Uno fra i più significativi movimenti aberranti analizzati da Deleuze è ciò che egli chiama “deterritorializzazione” in Mille Piani (scritto insieme a Félix Guattari) e “sfondamento” in Differenza e ripetizione. Come scrive Lapoujade, “la deterritorializzazione è il movimento aberrante della terra. La deterritorializzazione della terra è il più grande, il più potente di tutti i movimenti aberranti, quello che, in un modo o nell’altro, alimenta tutti quanti gli altri. La deterritorializzazione sta alla terra come il senza-fondo sta al fondamento”. I nomadi sono coloro che seguono la terra nella sua deterritorializzazione, sono “i più liberi rispetto alla nozione di territorialità”. Sono anche coloro che deterritorializzano la terra. Se per l’Anti-Edipo, le formazioni sociali sono tre (Selvaggi, Barbari, Civilizzati), per Mille Piani sono almeno cinque: le società primitive di lignaggio, gli apparati di Stato, le società urbane, le società nomadi, le organizzazioni internazionali. I nomadi si servono della “macchina da guerra” nomade per distruggere gli Stati e per seguire la loro linea di deterritorializzazione mentre lo Stato, a sua volta, si appropria della stessa “macchina” per consolidare la propria potenza politica. Ma una “macchina da guerra” è anche quella attraverso la quale il capitalismo “instaura una guerra potenziale – lo status quo nucleare – come fondamento di una pace terrificante, di una politica securitaria postfascista e di una distruzione della terra abitabile senza precedenti”. C’è un combattimento costante che attraversa Mille Piani: nomadismo contro imperialismo. Se l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una “mega-macchina imperiale”, “le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. E allora, Lapoujade giunge alla conclusione che viviamo in un mondo-schermo, un mondo composto esclusivamente di immagini mentre non esiste più un mondo esteriore in cui agire. C’è solo uno schermo o “una tavola d’informazione con cui interagire”. Si tratta di un mondo esterno che manca di esteriorità, un “mondo senza fuori”. La distinzione interno/esterno non ha più senso perché tutto accade in uno “spazio di informazione” stracolmo di cliché.

Il concetto di “terra”, in Deleuze, è strettamente collegato a quello di “deserto”. Quest’ultimo è assai presente nelle opere del filosofo francese: in Differenza e ripetizione, ne L’anti-Edipo, in Mille Piani, in Cinema 2. L’immagine-tempo. La stessa filosofia – scrive Lapoujade – ha bisogno di un deserto. Il deserto non è “l’utopia di un altro mondo, ma una a-topia all’interno di questo mondo. È un luogo di giustizia; è in nome della giustizia del deserto che noi possiamo denunciare le ingiustizie di questo mondo”. È il deserto dei “cristalli di tempo” che ritroviamo nel cinema di Fellini, Antonioni, Pasolini. In quest’ultimo autore, il deserto è l’a-topia dove riecheggiano le grida di giustizia degli ultimi della terra contro l’ingiustizia sociale che in essa regna sovrana. È uno spazio-tempo separato da dove può forse partire l’attacco di una nuova macchina da guerra nomade per sovvertire le griglie degli apparati di stato. Perché Lapoujade fa suo e rinnova un importante grido filosofico di Deleuze: che si combatta, sempre e ovunque, la lotta a favore delle minoranze, di ciò che è intrinsecamente minore, “la guerra molecolare”. Vi sono tante “minoranze di fatto”, nel mondo, che intraprendono una “lotta molecolare assoluta”, come le lotte operaie, le battaglie femministe, la guerra dei Palestinesi, le Black Panthers, le lotte nel Terzo Mondo. Legata a queste lotte, nell’opera di Lapoujade, è la “necessità di pensare e di creare continuamente una nuova terra o molteplici nuove terre”.

Attraverso la questione della creazione di una nuova terra, I movimenti aberranti dialoga inoltre con uno dei filoni di ricerca contemporanei più rilevanti. La catastrofe ecologica (tema attualissimo, legato anche alla diffusione dei virus), la “fine” del nostro mondo e la costruzione di un mondo a venire sono problemi che Lapoujade discute in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge la teoria politica, l’antropologia, la sociologia e la filosofia stessa. L’opera di Lapoujade analizza la logica della territorialità in Deleuze evidenziandone le potenzialità strategico-politiche. A tal proposito, particolarmente significativa – e più che mai attuale, si potrebbe aggiungere – appare una riflessione che Lapoujade squaderna concludendo il suo saggio: “La macchina da guerra ci distruggerà o distruggerà i limiti che ci assoggettano e ci asserviscono? Non si può saperlo in anticipo, è tutta una questione di sperimentazione”. E lo sperimentiamo sulla nostra pelle in un difficile presente: in questo caso, rovesciando il noto verso di Manzoni, non “ai posteri”, ma a noi “l’ardua sentenza”.

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Quelli che… non se la bevono https://www.carmillaonline.com/2020/08/05/quelli-che-non-se-la-bevono/ Wed, 05 Aug 2020 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61833 di Roberto Revello

[Lo scritto I tristi Psicotropici dell’antropologo sciamanofobico di Piero Cipriano, recentemente pubblicato su “Carmilla”, ha dato il via a una discussione sul libro Psicotropici (Meltemi, 2020) di Jean-Loup Amselle. Riportiamo di seguito un contributo inviatoci da Roberto Revello, traduttore del volume – ght]

Viviamo in un paese che in materia di “mondi magici” non può fare a meno di richiamarsi anche alla lezione di Ernesto De Martino, un antropologo e storico delle religioni non propriamente passato “dall’altra parte”, ma che sicuramente si è mosso pericolosamente vicino ad [...]]]> di Roberto Revello

[Lo scritto I tristi Psicotropici dell’antropologo sciamanofobico di Piero Cipriano, recentemente pubblicato su “Carmilla”, ha dato il via a una discussione sul libro Psicotropici (Meltemi, 2020) di Jean-Loup Amselle. Riportiamo di seguito un contributo inviatoci da Roberto Revello, traduttore del volume – ght]

Viviamo in un paese che in materia di “mondi magici” non può fare a meno di richiamarsi anche alla lezione di Ernesto De Martino, un antropologo e storico delle religioni non propriamente passato “dall’altra parte”, ma che sicuramente si è mosso pericolosamente vicino ad aree che al tempo bastava bollare come “irrazionali”. Oggi il clima è profondamente mutato e andare a indagare e a ricercare un senso e un’efficacia in pratiche altre rispetto alla razionalità tecnica dell’occidente è una cosa molto diffusa, tanto in ambito di vasto pubblico quanto in ambito di ricerca accademica. De Martino, anche recuperando la lezione di Gramsci, vedeva nel meridione ancestrale una cultura subalterna in estinzione. Oggi, quello spirito gramsciano dovrebbe in qualche modo farci rovesciare la prospettiva, ma sempre nell’ambito di collocare in una cultura all’interno del suo effettivo spazio socio-economico (senza necessariamente essere riduzionisti). Noi possiamo ancora fingere di incontrare mondi magici e incontaminati, che un bel tour nelle vie dello sciamanesimo amazzonico sia un’esperienza altra se non addirittura di contestazione, ma così ovviamente non è. E anche se si fanno le cose più seriamente, magari con impegno politico a fianco delle popolazioni subalterne della America Latina o impegnati in una seria ricerca di pratiche terapeutiche diverse dalla medicina ufficiale, resta pur sempre legittima la domanda se in qualche modo non si sia sempre dentro a un ingranaggio più grande e a cui è difficile sfuggire, esattamente quello del nostro mondo inglobante, con il suo ordinamento liberista.

Tale domanda se la pone in maniera radicale Jean-Loup Amselle nel suo libro Psicotropici (Meltemi, 2020), in coerenza con una sua serie di interventi che sarebbe estremamente utile considerare come elementi di autocritica per i diversi orientamenti della cultura di sinistra. Notoriamente si è profondamente confrontato, ad esempio, con il postcolonialismo, avanzando dubbi interessanti sulla sua strategia di spostare le questioni fondamentali nell’unico problema dell’emancipazione di una identità che lotta per il riconoscimento, in una dialettica servo-padrone mai in grado di sciogliere la servitù in sé. Si veda appunto il volume pubblicato ai tempi da Meltemi (2009), Il distacco dall’occidente, che ha anche interessanti pagini dedicate a un Gramsci postcolonialista che non corrisponde esattamente al Gramsci nella sua interezza. Un’ulteriore utilità delle osservazioni scomode di Amselle potrebbe consistere anche nel fatto che potrebbero essere di aiuto per andare a fare un po’ di chiarezza su un altro tormentone degli ultimi anni a sinistra, ovvero le accuse di “rossobrunismo” (si veda il suo libro Les nouveaux rouges-bruns: le racisme qui vient, Lignes, 2014). Quasi mai, quando vola un’accusa del genere contro qualcuno, ci si spinge al di là di un attacco ad hominem, parecchio fastidioso e da comari, ma le analisi di Amselle a nostro avviso ci indirizzano su una buona strada quando improvvisamente ci si interroga su certe inquietanti vicinanze tra un anticapitalismo che recupera le tradizioni e fa sua una certa critica alla modernità… tutto bene, se continua a mantenere un distinguo, cioè proprio quell’attenzione alla componente socio-economica che invece il pensiero di destra ricopre con le sue solite essenze (razza, ethnos, identità culturale, ecc.).

E veniamo al presunto attacco snob che Amselle avrebbe compiuto senza rispetto per la ricchezza e complessità dello sciamanesimo amazzonico e il suo utilizzo rituale e terapeutico dell’ayahuasca. Non essendo per vocazione uno studioso di religion studies o uno psicoterapeuta, ma un antropologo sociale, ha circoscritto il suo lavoro a un aspetto ben specifico: gli occidentali che si recano in Perù per provare gli effetti dell’ayahuasca. Le sue osservazioni lo hanno indotto a ritenere di trovarsi di fronte a un altro dei classici modi con cui persone anche con disagi significativi (malattie fisiche, psicologiche e psichiche, tossicodipendenze) si concedono a pratiche e immaginari che giocano un ruolo adattivo e riparatore. Amselle, che evidentemente non è convinto di vivere in un mondo che, per quanto brutto, è il migliore possibile, sostiene che questa funzione adattiva e riparatrice finisce per essere funzionale a un consolidamento dell’ordinamento economico che domina il mondo, piuttosto che contestarlo. Esattamente come accade nello “sciamanesimo” psicoanalitico occidentale, dove evidentemente il ruolo terapeutico finisce per funzionare da palliativo, non per una connessione essenziale, ma per le pratiche che in effetti sono in corso.

Amselle non ha argomentazioni da presentare per dire che tutti gli sciamani – o tutti gli psicoterapeuti – sono dei truffatori al soldo del capitale. Con onestà intellettuale, nel libro racconta di essersi posto dei limiti, in un certo momento della sua vita, per una scelta ben precisa. Confessa anche una fascinazione subita, nei riguardi dei mondi magici, così come racconta di essersi servito dell’aiuto della psicoanalisi per delle sue sofferenze personali. Non è allora legittimo parlare di una sua fobia o di una diffamazione a riguardo. Per riprendere una nota avvertenza di Furio Jesi, in un suo celebre saggio sul “mito”, si è comportato come il coro dell’Edipo a Colono che, per parlare con Edipo, gli impone di uscire dal recinto sacro.  Per parlare di questi aspetti socioeconomici dello sciamanesimo incentrato sull’ayahuasca ha deciso di non bere la sostanza psicotropa. Piano di osservazione opportuno per le sue finalità che non erano quelle di indagare le potenzialità terapeutiche contro la tossicodipendenza, oppure di descrivere l’esperienza visionaria di chi assume l’ayahusca.

Mi sembra che uno psichiatra con grande esperienza e una precisa sensibilità possa non ritenersi offeso da questo “surplus” di analisi. Mi limito a una mia esperienza personale. Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in provincia e in un ambiente culturalmente (ed economicamente) decisamente poco ricco. In famiglia a uno stretto parente viene diagnosticata la schizofrenia. Un giorno di crisi particolarmente forte del suddetto, con mia madre scappiamo letteralmente di casa e ci rechiamo al centro di salute mentale della zona dove incontriamo uno psichiatra molto giovane e molto liberale che, preoccupato giustamente di dover richiedere un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), si rivolge a noi, evidentemente in difficoltà, con un laconico: “lasciatelo sfogare” (“laissez-faire” si potrebbe anche dire). Ovviamente, con gli anni, non ho ricavato da questa esperienza l’augurio di ritornare alla riapertura dei manicomi, tutt’altro. Ma mi sono posto spesso il problema di come il luogo e il ceto sociale in cui ci si ritrova cambi il modo di essere curati e il modo di essere alternativi. Avere cure “liberali” in una società tutt’altro che libera è una grossa ingiustizia. La psicoanalisi che non si fa veramente sociale è un fallimento. Le terapie cosiddette alternative che diventano esotismi elitari o sperimentazioni non destinate a potersi diffondere lo sono altrettanto.

Per questo le frecciatine di Amselle hanno il loro perché. Che le dica uno snob francese accademico, come può pensare qualcuno, o un onesto intellettuale, come penso io, non fa la differenza.

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I tristi Psicotropici dell’antropologo sciamanofobico https://www.carmillaonline.com/2020/07/27/i-tristi-psicotropici-dellantropologo-sciamanofobico/ Mon, 27 Jul 2020 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61332 di Piero Cipriano

C’è questo saggio di un antropologo francese, Psicotropici di Jean-Loup Amselle, che maltratta, irride perfino, gli antropologi che sono “passati dall’altra parte”, “al nemico”. E chi è il nemico? E’ lo sciamano! Lo sciamano, a quanto pare, è il nemico dell’antropologo. O meglio, non lo sciamano tunguso che percuote i tamburi, voglio dire quello che la modificazione di coscienza la produce con metodi non medicinali, diciamo, quello non inquieta molto l’antropologo francese, ma lo sciamano amazzonico che un tempo era chiamato più propriamente vegetalista, o ayahuasquero, o curandero e solo da una ventina d’anni pure lui ha cominciato [...]]]> di Piero Cipriano

C’è questo saggio di un antropologo francese, Psicotropici di Jean-Loup Amselle, che maltratta, irride perfino, gli antropologi che sono “passati dall’altra parte”, “al nemico”. E chi è il nemico? E’ lo sciamano! Lo sciamano, a quanto pare, è il nemico dell’antropologo. O meglio, non lo sciamano tunguso che percuote i tamburi, voglio dire quello che la modificazione di coscienza la produce con metodi non medicinali, diciamo, quello non inquieta molto l’antropologo francese, ma lo sciamano amazzonico che un tempo era chiamato più propriamente vegetalista, o ayahuasquero, o curandero e solo da una ventina d’anni pure lui ha cominciato a definirsi sciamano (per una sorta di mondializzazione del termine) il medicine man (o medicin woman) che ti dà la bevanda drogastica detta ayahuasca che ti fotte il cervello, e non ti fa essere più quello di prima, ciao ciao al tuo lucido cervello che ti aveva permesso di fare le ricerche scientifiche e guadagnare la cattedra universitaria e la rispettabilità, accademica e del mondo reale, questo sciamano qui, si deduce dalla lettura del saggio, è il nemico numero uno dell’antropologo universitario francese. Questo è il rischio che Amselle ha scampato, per un pelo, il rischio che ha corso e sventato è che l’antropologo vada ai tropici con le migliori intenzioni, ma se appena allenta il controllo e si arrischia pure una sola volta a partecipare alle bevute cerimoniali che il mestatore propone, ecco che è fottuto, e fa la fine di Jaques Mabit.

Jaques Mabit d’accordo, non è un antropologo, ma non importa, perché è la prova che gli antropologi seri, scientifici, è meglio non bevano gli intrugli dei curanderi esotici, Mabit va in Perù nel 1992 per Medici senza frontiere e sai come succede, ti trovi lì, sei a due passi dalla giungla, ne senti dire tante, di questi vegetalisti che preparano bevande visionarie, e la provi, che ti potrà mai succedere?, una bevuta sola, una toma soltanto, e che sarà mai?, invece la pianta maestra, e lo sciamano che l’ha cucinata, ti fottono. E non torni più in Francia a fare il medico ma resti in Perù, e fondi la casa che canta, Takiwasi in lingua quechua, con cui affronti la grande sfida che la medicina occidentale sta perdendo: divezzare, somministrando la droga ayahuasca, persone dipendenti dalle droghe cocaina oppiacei alcol, e a un certo punto sei ancora un po’ il medico che eri prima, che conosce la medicina occidentale, ma questa è stata surclassata, inglobata, messa al servizio della medicina amazzonica, che è più antica è più potente, è una medicina che attinge non ai testi scientifici ma a quel “grande libro” e qual è questo grande libro ma è il grande libro mai scritto della medicina amazzonica che non è stato scritto proprio perché la sua conoscenza non passa per l’apprendimento scritto e neppure per quello orale bensì per una trasmissione diretta (mentale potremmo dire) da parte dello spirito delle piante, quelle piante che dalla scienza dell’al di là comunicano solo a chi sa aprirsi a questa scienza non scritta e non parlata. Come? Per mezzo dello stato modificato della coscienza che bere la bevanda ayahuasca determina, ecco come, a quel punto tu, Jaques Mabit, sei ormai un medico dei due mondi e delle due medicine: la medicina scientifica del mondo reale ma, soprattutto, la medicina non scientifica del mondo degli spiriti.

Questa cosa, che un medico lasci la medicina moderna e si metta a fare lo sciamano, o che schiere di antropologi (sfigati, sottintende l’antropologo autore di questo saggio, gente fuori corso che non trovava un posto all’università) lascino l’antropologia scientifica (non si capisce poi cosa connoti l’antropologia scientifica) e passino dalla parte del nemico, a Amselle, che rappresenta il prototipo del professore universitario di mezza età che ci tiene a mantenere integro il suo stato di coscienza ordinario, tutto questo proprio non va giù. Non se ne fa una ragione.

Eppure, anche lui c’era andato vicino. In Psicotropici, i suoi tristi e spaventati Psicotropici, a un certo punto, ha questo afflato di sincerità, fa la sua self-disclosure e lo dice, quando.

Lui è del 1942, ora va per gli ottanta. Ha una signora età. Forse non sa che tra poco pure lui, volente o nolente, uno stato di coscienza modificato lo avrà. Non l’ha voluto prima, tra poco arriva. La sua premorte, e la sua morte, saranno uno stato di coscienza modificato. Tutto ciò che ha temuto, e ha tenacemente scansato finora, lo vivrà, comunque suo malgrado, nel momento della morte. Faceva meglio a fare un po’ di tirocinio prima. Come Jaques Mabit. O come Jeremy Narby. Ma si è cagato sotto, il professore.

Confessa che a fine anni Sessanta (era giovane, nemmeno trent’anni) lui pure ebbe una certa attrazione per l’altra parte, il dark side, l’ombra dell’occidente razionale, avrebbe detto Jung. Era attratto da geomanti e marabutti del Mali, era “perfino” stato affascinato ma, precisa, solo “di tanto in tanto”, dalla loro capacità di predizione. Fu “perfino” tentato di passare dall’altra parte, nell’altro campo, nel campo nemico (sottinteso nel campo dell’irrazionale). Il suo collega, Jean-Marie Gibbal, s’era fatto prendere dalla credenza nel culto dei jiné, geni o spiriti che cavalcano i posseduti e li dominano, ma lui riesce giusto in tempo a prenderne le distanze, dai jiné e dal suo collega e, a causa di “episodi dolorosi” della sua esistenza (che non esplicita), si vede costretto a intraprendere una cura: e quale cura sceglie l’antropologo francese? Ma quella psicanalitica, si capisce, da bravo francese ancorché antropologo iper-razionalista si affida a una psicanalisi di verosimile osservanza lacaniana che lo aggiusta. Il super io mette la mordacchia all’es e il suo io si irrobustisce al punto che adesso non si rende proprio più conto che, grazie a questo suo troppo io, è un antropologo fallito.

Che giudizio severo. Ma chi sono io per dire che Jean- Loup Amselle è il prototipo dell’antropologo fallito? Dovrei essere almeno antropologo per dirlo con cognizione di causa invece sono solo uno psichiatra con qualche rudimento di etnopsichiatria e qualche frequentazione di sciamani curanderi e delle loro piante.

Il mio giudizio è severo perché negli ultimi decenni, in cui tutti i mondi da scoprire sono stati scoperti, e l’unico mondo inesplorato è quello che puoi vedere solo se entri in un altro stato di coscienza, un antropologo che (pur occupandosi di sciamani e di ayahuasca) ha l’ossessione della sobrietà, il culto, la venerazione dello stato di coscienza ordinario, e non si affaccia neppure una volta una soltanto dico una nell’altro mondo, nel mondo dove ci sono gli spiriti (direbbero gli sciamani) oppure ci sono i morti oppure i demoni e gli dei, che antropologo può mai essere? Che saggio su sciamani amazzonici e ayahuasca potrà mai scrivere? Un libro scritto da un voyer, uno che sta al di qua, a guardare a studiare da fuori i vari “attori della filiera sciamanica”, come li chiama, per osservare da fuori ciò che ha timore di vedere da dentro. Come uno che, invece di scopare in prima persona, guarda gli altri mentre sono intenti a… bere l’ayahuasca. Cosa potrà mai capirci?

Infatti è comico, Amselle, quando chiede alla “turista mistica” (tutto il saggio gronda di queste definizioni sprezzanti) egiziana Nabila, di descrivergli le visioni molto intense che ha avuto e lei gli risponde che “descrivere le visioni procurate dall’ayahuasca è come provare a descrivere il funzionamento di un reattore nucleare a un gatto!”. E’ comico come un gatto, Amselle: è lui il gatto comico che chiede la descrizione di visioni che ha il terrore di vedere in prima persona. Ah ma le vedrà. Tra poco le vedrà.

Un tipo troppo prudente che non è riuscito a fare ciò che altri, non più fessi di lui, hanno avuto l’ardimento di fare: esplorare i mondi interiori. Artaud, Huxley, Osmond, Jünger, Micheaux, Burroughs, Ginsberg, Leary, Grof, McKenna, Narby, Harner. Per citare i più noti. Intellettuali artisti medici antropologi, tutti curiosi di sapere cosa c’è dall’altra parte. Ma soprattutto, tu che sei antropologo, io dico, ora che il pianeta è stato battuto in lungo e in largo, come fai a non comprendere che c’è un altro mondo molto più inesplorato da esplorare e comprendere e cartografare che è quello degli stati modificati di coscienza? E che oggi un antropologo che si occupa di sciamanesimo e piante sacre non può ricusare di inoltrarsi in questi mondi, i mondi che da millenni gli sciamani sono i più attrezzati a conoscere, gli sciamani veri eroi dei due mondi, capaci di stare con un piede in questo mondo e con un piede nell’altro mondo?

Amselle in fin dei conti dedica questo suo libro al nemico, e i suoi nemici sono (oltre agli sciamani) quegli antropologi che hanno tradito la causa e sono passati dall’altra parte (dalla parte degli sciamani), i più noti dei quali Carlos Castaneda, Jeremy Narby e Michael Harner. Non gli perdona questo “percorso ibrido, al crocevia tra università letteratura e mitomania”, percorso che lui non ha saputo o non è riuscito a fare. Ma non risparmia neppure le decine di antropologi meno noti che definisce sprezzante gli “ex studenti scartati che andranno a ingrossare le file degli sciamani occidentali operanti nell’Amazzonia peruviana”. Pare che se non diventi assistente universitario o ricercatore con Amselle sei un fallito, sia che diventi Castaneda sia che diventi un anonimo sciamano che si auto esilia nella selva.

Chi è, invece, l’antropologo che ha fatto il passo che Amselle ha avuto timore di fare? Non mi riferisco al più noto, Carlos Castaneda, che nemmeno a me è simpatico granché. A Fellini sì, era simpatico. Non lo so perché. Forse perché Fellini, da Jung a Rol, tutto ciò che era misterico e irrazionale lo affascinava. La sapeva lunga Fellini. Ah, bisogna informare l’antropologo francese, che probabilmente Fellini era così affascinato dall’altro mondo perché lo aveva esplorato, ai tempi magici (fine anni Sessanta) in cui lui, Gillo Pontecorvo, Franco Solinas e altri, potevano viaggiare in acido con la Lsd somministrata dallo psicanalista Emilio Servadio. Per dire che non sono tutti squinternati gli esploratori dei mondi interiori, caro Amselle.

L’anti-Amselle è Jeremy Narby, uno che si è spinto dove Amselle e gli antropologi legati tenacemente allo stato di coscienza ordinario non potranno immaginare. Ha conosciuto cose che solo i morti e i morenti possono conoscere pur non essendo ancora morto. Nel 1985, a venticinque anni, va a fare la sua ricerca sul campo, presso la comunità di Quirishari, nell’Amazzonia peruviana, dove gli ashaninca hanno una conoscenza sbalorditiva delle proprietà medicinali delle piante.

All’inizio non è particolarmente interessato a questi aspetti della cultura ashaninca, perché ha una visione soprattutto politica. Le immense risorse della foresta amazzonica fanno gola alle agenzie che investono ingenti capitali per favorire lo sviluppo dell’Amazzonia. Espropriano i territori agli indigeni (sostenendo che non sanno che farsene, non li utilizzano, li lasciano incolti) per disboscarli, e trasformarli in verdi pascoli per vacche.

Il suo scopo (politico) era raccogliere quante più varietà di piante mediche, classificarle, per dimostrare che la foresta è utilizzata eccome dagli indigeni, è la loro farmacia, laboratorio, ospedale.

Ma come fanno a conoscere tutte queste piante? “Bevi l’ayahuasca, e lo saprai” gli dicono. “L’ayahuasca è la nostra televisione, è la televisione della foresta”. In quegli anni non sono molti gli antropologi che ci provano, Gerardo Reichel-Dolmatoff, in Amazzonia, l’ormai famoso Castaneda in Messico. Jeremy Narby osa. Assume la bevanda. Si apre un mondo. L’immagine più spettacolare è quella di due boa enormi. Gli parlano in un’altra lingua, che lui non conosce ma comprende, e gli spiegano che lui è semplicemente un umano. Cioè: non meglio di tutti gli altri viventi.

Ma bevendo, Narby comprende, anche, come hanno fatto gli sciamani amazzonici a inventare l’ayahuasca. L’ayahuasca ha una composizione chimica complicatissima. Come fanno, da millenni, gli sciamani dell’Amazzonia, a cucinarla? Due piante, almeno, bollite insieme. Una liana, la Banisteriopsiis caapi, provvista di beta-carboline (armina, armalina e tetraidroarmina) capaci di inibire le monoaminossidasi umane, combinata con foglie di Psychotria viridis, che contiene dimetiltriptamina (Dmt). Siccome la Dmt quando assunta per via orale viene inattivata dalle monoaminossidasi (MAO) gastriche, per cui niente visioni, gli ayahuasqueros amazzonici alla Dmt delle foglie associano gli IMAO della liana. Ma come l’hanno capito, che per avere le visioni bisogna mettere insieme due piante e proprio quelle tra le 80.000 specie vegetali amazzoniche? Gli ashaninca sostengono che glielo ha detto l’ayahuasca, e sì, quel che si dice un paradosso. E’ nato prima l’uovo o la gallina? Prima l’ayahuasca o la formula per l’ayahuasca? Gli scienziati occidentali solo negli anni Sessanta del secolo scorso hanno scoperto gli IMAO, e solo a partire dal nuovo secolo stanno studiando le proprietà terapeutiche di ayahuasca e altri psichedelici. Almeno cinquemila anni dopo.

Ma Narby comprende altro. Scopre che il mondo è diventato consapevole delle conoscenze etnobotaniche degli indigeni amazzonici. Senza la loro competenza, i chimici delle aziende farmaceutiche dovrebbero “testare alla cieca le proprietà medicinali di 250.000 specie vegetali che si stima siano presenti al mondo”. Una stima per difetto, visto che potrebbero essere oltre trenta milioni, le specie vegetali.

Finora, la prassi delle aziende farmaceutiche è stata mandare in avanscoperta antropologi, botanici e chimici, prelevare campioni di farmaci vegetali, estrarne il principio attivo e sintetizzarlo nei propri laboratori, brevettarlo, senza dare niente in cambio agli indigeni detentori del sapere. E’ caccia di frodo, dice Narby. Il curaro è l’esempio più eclatante. Da millenni i cacciatori dell’Amazzonia conoscono questo veleno che, soffiato con cerbottana, paralizza i muscoli delle prede senza avvelenare la carne. Negli anni Quaranta la medicina se ne appropria. Oggi gli anestetici utilizzati in medicina sono derivati sintetici del curaro. Anche per il curaro, se si chiede agli amazzonici come l’hanno scoperto, la risposta è: ce l’ha affidato il creatore dell’universo.

Ma (ecco il punto) una motivazione del genere non va bene. L’origine allucinatoria del curaro, o dell’ayahuasca, o di altri farmaci, non va bene, non si può essere presi sul serio, così. Se non li prende sul serio una parte degli antropologi di cui Amselle è il portavoce, figuriamoci gli altri (farmacologi, chimici eccetera). Non possono, gli indigeni amazzonici, essere presi sul serio se danno questa spiegazione come origine della propria conoscenza etnobotanica. Se la tua conoscenza è allucinatoria, dunque a genesi psicotica, non sei credibile, e non puoi avere le royalties dei nuovi farmaci prodotti dalle società farmaceutiche a partire dalle piante amazzoniche e dai saperi amazzonici.

Gli scienziati moderni (senza allucinazioni) solo negli anni Cinquanta del ventesimo secolo hanno scoperto che la composizione chimica di quasi tutti gli allucinogeni somiglia alla serotonina (5-idtrossi-triptamina), ipotizzando che agiscano, a livello del sistema nervoso centrale, proprio legandosi ai recettori della serotonina. Solo negli anni Sessanta hanno scoperto gli IMAO per inattivare le monoaminossidasi. Solo negli anni Ottanta scoprono che il cervello umano produce la stessa Dmt contenuta nell’ayahuasca.

Gli sciamani amazzonici ci sono arrivati millenni prima. Come? Glielo ha detto la pianta. Ma se non bevi l’ayahuasca, non puoi capire. Non puoi capire che quel che dice un ayahuaschero (“Me lo ha detto la pianta”) è vero. Ma perché la maggior parte degli antropologi, come Amselle, non beveva ayahuasca? Per il timore di essere squalificati dal mondo accademico, probabilmente.

E però l’acribia con cui Amselle prende di petto e di sarcasmo il nemico sciamano, rende poco credibile pure la sua giusta critica alla degenerazione dello sciamanesimo amazzonico che si sta verificando, da dieci-venti anni a questa parte. Perché una critica agli sciamani improvvisati, e al consumismo e al turismo mistico spirituale sciamanico, non può mettere nello stesso calderone dello sciamano improvvisato anche chi di questo sapere è autentico portatore.

A cominciare dagli anni Novanta l’ayahuasca, assunta come sacramento delle nuove religioni sincretiche del Santo Daime e della União do Vegetal viene esportata al mondo occidentale. Ciò accade mentre c’è una crisi di vocazioni per il mestiere di sciamano amazzonico, perché non conviene più fare il curandero per un pezzo di pane, il curandero, tradizionalmente, non è mai stato il più ricco ma il più povero della comunità, per le sue prestazioni riceve offerte in beni naturali, e ciò è o ovvio: un individuo che si è staccato dalla comunità, che ha avuto la chiamata, che è andato nel mondo dei morti o degli spiriti e ne ha tratto il potere di ottenere la guarigione, questo potere gli permane solo se non si indirizza verso il proprio benessere economico ma verso la comunità, e comunque, uno sciamano che sa abitare i due mondi, che ha un piede nel mondo reale e l’altro nel mondo degli spiriti, se ne frega della ricchezza o degli altri beni materiali, gli serve il minimo per sopravvivere. Negli anni Ottanta dunque i giovani amazzonici iniziano a ricusare il mestiere di sciamano. Essere sciamano significava essere povero. Il mestiere di sciamano è a rischio di estinzione quando, negli anni Novanta, inizia il turismo esotico-psichedelico-mistico-spirituale, occidentali desiderosi del rito sciamanico con ayahuasca (o altre piante) arrivano a frotte nei villaggi amazzonici. E gli indigeni si attrezzano per questo nuovo tipo di utenza. Iniziano, nei villaggi, le cerimonie per i bianchi, per i turisti dello spirito. Molti di questi pellegrini dell’esperienza psichedelica riporteranno nei loro paesi ciò che hanno appreso, nasce il fenomeno del neo-sciamanesimo: occidentali che hanno fatto la propria iniziazione in Amazzonia, occidentali talvolta perfino più autentici, sinceri, ispirati, toccati dalla grazia, di molti sciamani autoctoni. Perché l’arrivo a frotte dei turisti psichedelici in Amazzonia, nell’arco di un decennio, trasforma il mestiere sciamanico da mestiere povero in mestiere ricco. Iniziano i tour europei e americani di sciamani non solo amazzonici, ma messicani, andini, pellerossa, e non solo con l’ayahuasca ma con peyote il San Pedro il Bufo Alvarius la Dmt fumata eccetera. E’ chiaro che se molti diventano sciamani non per vocazione, ma perché è diventato un mestiere remunerativo e prestigioso, non tutti sono affidabili, bravi, altruisti, degni di fiducia.

Questa differenza, però, tra sciamano autentico e sciamano imprenditore, nel libro di Amselle non si coglie. Amselle butta via lo sciamanesimo con l’acqua sporca del capitale.

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L’antropologia alle prese con la globalizzazione https://www.carmillaonline.com/2019/08/17/lantropologia-alle-prese-con-la-globalizzazione/ Sat, 17 Aug 2019 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54066 di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI [...]]]> di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI secolo Marc Augé e Jean-Paul Colleyn hanno dedicato nel 2004 un libro tradotto e pubblicato una prima volta in italiano un paio di anni dopo da Eléuthera ed ora riproposto, dal medesimo editore, in una nuova edizione: L’antropologia del mondo contemporaneo (Eléuthera, 2019).

A lungo, sostengono i due studiosi, gli antropologi hanno pensato di compiere viaggi nel tempo mentre in realtà si muovevano nello spazio. Al convincimento, oggi scarsamente sostenibile, che lo spostamento in terre lontane consenta di rintracciare “civiltà antiche”, si è sostituita la consapevolezza che, indipendentemente dal modo di vita degli esseri umani delle più diverse società, esistano riferimenti in comune e che l’antropologia, nel suo spiegare la variabilità dei fatti umani, debba saper comprendere anche le somiglianze e gli universali.

Se dal punto di vista valoriale la distinzione Occidente / resto del mondo e l’idea di uniformare in un’unica grande categoria l’umanità “non industriale” sono del tutto inaccettabili, dal punto di vista scientifico, sostengono Augé e Colleyn, non di meno la sfasatura tra “moderni” e “altri” necessita di essere indagata.

L’antropologia occidentale si è sviluppata all’interno di un percorso culturale che ha avuto le sue tappe principali nel pensiero greco-romano, nell’illuminismo e nella rivoluzione industriale. Condannato l’evoluzionismo che pretenderebbe di imporre una tendenza orientata da parte di tutte le forme sociali verso tale modello, occorre però, ribadiscono i due studiosi, prendere atto di come il modello occidentale abbia finito col farsi globale, sebbene, a ben guardare, risulti meno razionale di quel che pretende. L’economia della società postindustriale più avanzata resta infatti fortemente toccata dal simbolico, dall’ideologia e dalle credenze.
Nonostante tale sistema abbia condotto ad una professionalizzazione della ricerca tecnico-scientifica, l’Occidente non può pretendere di detenere il monopolio della riflessione critica:

non tutte le culture aderiscono a un modello scientifico basato sul confronto di argomenti razionali con l’unica preoccupazione di ricavarne leggi, regolarità, strutture. Ciò che oggi è in discussione è il fatto di capire se l’autonomizzazione della scienza e della ricerca introduca, rispetto a tutte le altre forme del sapere, una cesura epistemologica, o se la categoria isolata sotto il nome di “scienza” altro non sia che una forma relativa di sapere tra le tante (p. 119)

Lo schema base dell’agire dell’antropologo prevede: la costruzione di un oggetto di studio, la scelta di un tema legato a forme di vita collettiva, il portarsi sul campo al fine di svolgere l’indagine etnografica, affrontare la letteratura esistente sull’oggetto di ricerca, infine l’intraprendere la scrittura dei risultati ottenuti.

Circa l’oggetto, se un tempo era confinato a piccole società esotiche che si volevano indagare prima che venissero assorbite dall’espansione della civiltà europea, oggi, con l’avanzare del processo di globalizzazione, il contesto da indagare si estende all’intero globo. Ovunque le genti risultano “locali” solo in funzione di una precisa configurazione storica e, in un sistema mondiale come l’attuale, si mostrano sempre più interdipendenti. Dunque, l’antropologia è passata dallo studio dei popoli a quello dei temi, con le inevitabili specializzazioni. Nonostante si siano così strutturate, ad esempio, un’antropologia del diritto, della religione, della malattia, della città e così via, resta indispensabile, a parere di Augé e Colleyn, il mantenimento di un minimo di visione generale dell’umanità nel suo insieme.

Quando si parla di campo in ambito antropologico, si intende contemporaneamente un luogo ed un oggetto di ricerca ed a proposito di esso i due studiosi ribadiscono come il metodo su cui si basa l’antropologia resti quello dell’etnografia: il lavoro sul campo durante il quale il ricercatore prende parte alla vita quotidiana di una diversa cultura, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e ne scrive.

L’immersione in una cultura consente un apprendimento spontaneo (per familiarizzazione o impregnazione) che dovrebbe impedire al ricercatore di proiettare sulla realtà sociale indagata ciò che vuole vedervi; l’antropologo deve riuscire ad evitare di inserire ciò che osserva all’interno di categorie appartenenti alla sua tradizione culturale e di trasformare ciò che si trova di fronte in differenza ed estraneità a tutti i costi rispetto alla sua cultura di provenienza.

L’attuale analisi transculturale si è formata sulla base dei tentativi degli anni Settanta di analizzare la realtà sociale dal suo interno, ed altrettanto importanti per la ricerca contemporanea sono state le ricerche antropologiche che hanno avuto come oggetto di analisi l’esperienza antropologica stessa in quanto forma della conoscenza prodotta dal contattato tra due diverse culture. Grazie ai postcolonial studies è stata invece messa in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo nel suo derivare dal colonialismo.

Nell’attuale realtà globalizzata, segnata dalla mobilità delle culture e dagli spostamenti delle popolazioni, il lavoro sul campo si trova ad assumere una forma “reticolare”, richiedendo un’indagine delle “comunità sparse” tanto nel paese d’origine quanto in quello di approdo. L’inchiesta, però, sottolineano i due studiosi, non può ridursi a descrizione di quanto osservato sul campo: «essa non può fare a meno di prospettare fenomeni che la determinano dall’esterno, spesso studiati da altri specialisti: geografi, demografi, storici, linguisti, psicologi…» (p. 98)

A proposito della fase di lettura, Augé e Collyn ricordano come l’antropologo si trovi a tentare di comprendere l’universo sociale di una cultura che non consce e di come, a tal fine, debba confrontare quanto osservato sul campo con con il sapere accumulato dalla letteratura circa altre forme sociali presenti nel tempo e nello spazio evitando così di piegare l’esperienza diretta a quanto già conosce e allo stesso tempo di trarre stimolo dalle sue conoscenze. Ciò differenzia il campo dal reportage.

Attraverso la letteratura il ricercatore può dialogare con autori di epoche e culture diverse in modo da evitare di essere del tutto determinato dalle condizioni storiche in cui vive. I classici dell’antropologia, pur con tutti i limiti storico-culturali, mantengono elementi di utilità e di attualità. Tali ricerche necessitano di essere lette alla luce dei contesti culturali in cui sono state prodotte cercando in esse quanto resta di utilizzabile alla luce delle attuali conoscenze.

Circa la fase di scrittura è ovviamente necessario che l’antropologo si interroghi a proposito del linguaggio che intende utilizzare e, salvo rare eccezioni, è soltanto dall’inizio degli anni Ottanta che le modalità espositive sono state realmente problematizzate. «Ogni stile postula una teoria (una concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la “letteratura”) e un impegno etico (non giudicare, ma capire)». (p. 104)

Da qualche tempo si tende a concedere maggior spazio a “voci altre” rispetto a quella del ricercatore: voci d’archivio, di interlocutori sul campo, di altre discipline, di narratori e così via. Il ricorso da parte di alcuni antropologi agli audiovisivi impone una particolare attenzione al fine disciogliere la mediazione di tali strumenti nella restituzione; che si abbia a che fare con la scrittura o con gli audiovisivi si tratta sempre di “discorsi costruiti”.

Se l’antropologia classica (1920-1975) aveva il suo genere preferito nella monografia, che si propone come ricerca esaustiva di una società localizzata, successivamente è stato preferito il saggio che, nel suo proporre un punto di vista argomentato, tenta di confrontare il locale con una realtà più allargata nello spazio e nel tempo. L’antropologia contemporanea ha dovuto anche prendere atto che i soggetti indagati sono spesso a loro volta lettori dei risultati ottenuti dal ricercatore e non mancano di discuterei e criticarli.

L’antropologia e la sociologia contemporanee operano nella convinzione che l’attualità si è fatta caotica e con l’implosione delle grandi narrazioni tutto tende ad essere visto sotto la lente del dubbio.

Dire che ogni testo è una costruzione è un’ovvietà, affermare che un testo di scienze umane è una finzione, in quanto non può pretendere di arrivare a una verifica definitiva, è un abuso di linguaggio o un espediente retorico. É bene infatti distinguere con cura tra finzione, errore, menzogna, falso, argomento ideologico, modello, ipotesi… (pp. 110-111)

L’idea soggiacente all’antropologia coloniale votata alla classificazione etnica, secondo i due studiosi, ha preannunciato il comunitarismo contemporaneo.

In entrambi i casi si trattati sottrarre una “società” dal suo ambiente storico, di preservarla dall’insieme che la contiene, lo Stato […] In Europa, se oggi si sviluppa uno spirito comunitario, ciò è dovuto a un indebolimento del potere di integrazione dello Stato e alla malintesa volgarizzazione di un’antropologia dilettantesca venata di moralismo. In questa ideologia, è la celebrazione delle differenze culturali che funge da a priori, non la comprensione dei meccanismi che stanno alla base della struttura identitaria e quindi delle alterità. I movimenti identitari non chiedono all’antropologo un giudizio morale. Esistono, e bisogna cercare di spiegarli, quindi di capirli (pp. 115-116).

Non sorprende, affermano Augé e Colleyn, che

le persone si raggruppino, adattino la propria cultura alle sfide del momento, sfruttino creativamente il proprio passato per cercare di trovare il proprio posto e di trarne qualche vantaggio. L’antropologo può deostruire queste ideologie, mettendo in luce come tutte le forme dell’esclusivismo – razziali, etniche, classiste, religiose, sessuali – siano falsamente presentate come qualità essenziali, ma deve anche fare opera di storico per studiare le condizioni che le hanno fatte emergere (p. 116).

Negli anni Ottanta si è iniziato a parlare di “antropologia indigena” a proposito delle ricerche svolte da appartenenti a “gruppi minoritari”: chi è stato a lungo oggetto di studio inizia a produrre a sua volta ricerche. Se deve essere accolto positivamente il fatto che l’Occidente divenga oggetto di studio da parte di chi “non ne fa parte”, non si deve però perdere di vista l’asimmetria tra le possibilità offerte a tale tipo di ricerca rispetto a quelle di cui dispone la ricerca occidentale.

Nel libro viene sottolineato come le località in cui sia individuabile un’autentica autoctonia siano restate davvero poche e di come sia ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che l’etnicità sia

una una relazione più che una proprietà di un gruppo, che l’economia di mercato e le istituzioni statali consono incompatibili con strutture di lignaggio, che un movimento di guerriglia può ricorrere alla trance di possessione, che gli scambi “globali”, sotto forma di traffici di ogni genere, di migrazioni, di trasferimenti di beni su lunghe distanze e di lunga durata, non sono cominciati con l’invenzione della macchina a vapore (p. 125)

L’antropologa contemporanea non ha come obiettivi la ricerca di “paradisi perduti” o l’individuazione di modalità di “resistenza all’occidentalizzazione”. Non si tratta di scoprire gruppi sino ad ora sconosciuti o di completare la mappatura culturale del globo; l’antropologia, sostengono Augé e Colleyn, dovrebbe piuttosto preoccuparsi di «proporre un’analisi critica delle modalità di espressione culturale nel contesto storico che dà loro un senso» (p. 125).

L’antropologia, così come la sociologia, dovrebbe anche riflettere sulla deriva individualista della società contemporanea tenendo conto dell’enorme impatto dei mezzi di comunicazione e dell’indebolimento delle istituzioni tradizionali che storicamente assicuravano i legami sociali.

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La possessione spiritica come strumento difensivo, critico o sovversivo https://www.carmillaonline.com/2019/07/02/la-possessione-spiritica-come-strumento-difensivo-critico-o-sovversivo/ Tue, 02 Jul 2019 21:30:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53485 di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo multidisciplinare, a cavallo fra sociologia, antropologia, etnografia e linguistica. Cosa accomuna e cosa differenzia le suggestioni e le pratiche esorcistiche, in scenari culturali così diversi? Sicuramente la possibilità di rivelare e dare corpo, attraverso il “fenomeno possessione” e i complessi rituali che lo accompagnano, a istanze sociali collettive, di gruppi subalterni o sottoposti a forzati processi di modernizzazione. Essere posseduti significa, in una modalità profonda e ineffabile, prendere la parola, diventare visibili, trasformare il tormento interiore in malessere fisico e, spesso, in catarsi e guarigione.

“La possessione, osservata dal punto di vista della caduta in trance, o dell’alterazione dello stato di coscienza, è un fenomeno che interessa pochi individui ma che viene altamente teatralizzata e ritualizzato all’interno della società più ampia, la quale vi inscrive (e vi esprime) i suoi significati”. (p. 10)

E il fenomeno è talmente connesso all’esperienza umana, quasi una sua modalità naturale di espressione, che: “nessuna società sembra trovarsi impreparata di fronte alla possessione. Se l’esordio spiritico può sconvolgere e marcare l’esistenza di un individuo o di una classe di individui, nessun ordine culturale viene scombinato o entra in crisi quando la possessione si manifesta in uno dei suoi membri”. (p.10)

Infatti, all’interno di una compagine sociale, la possessione può assolvere varie funzioni: difensive, critiche o addirittura sovvertitrici, rispetto ai rapporti fra classi, gruppi etnici o generi. La possessione fornisce un linguaggio e un’allusione a istanze nascoste persino a chi le manifesta.

È palesemente il caso del primo saggio –  Produzione della possessione, di Aihwa Ong -, che esamina le “epidemie di possessioni” nelle fabbriche multinazionali impiantate nella Malesia occidentale a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Territori da sempre rurali che sottoposti a una torsione antropologica violentissima, insieme al benessere economico sono sottoposti a sconvolgimenti epocali negli stili di vita e negli assetti familiari. La prima generazione operaia – soprattutto femminile – all’impatto con il mondo alieno e alienante della produzione, “usa” il linguaggio tradizionale della possessione, per protestare contro la propria condizione: è così che si diffondono i malesseri e si materializzano gli spiriti del territorio, disturbati dagli impianti industriali, che vagano fra i reparti e gli spogliatoi, inducendo crisi isteriche e inquietanti visioni ai danni della forza lavoro.

Davanti alle migliaia di ore di lavoro perso a causa di questi fenomeni, le multinazionali americane arrivano persino ad assumere sciamani autorizzati a praticare rituali ancestrali dentro gli stabilimenti – stabilendo una connessione inedita tra le forme più alte della tecnologia industriale e quelle più arcaiche dei rituali esorcistici. Naturalmente il fine non è quello di migliorare la condizione operaia e mitigare l’impatto potente dell’industrializzazione: anzi, le forze “tradizionali” si uniscono alle strategie di medicalizzazione e colpevolizzazione delle vittime, onde preservare la continuità della produzione

Nel secondo saggio – Possessione, afflizione, follia – Jean Pierre Olivier de Sardan cerca soprattutto di classificare la ricca articolazione simbolica e di prassi che si manifesta in una certa area del Niger, sui temi della possessione, dell’esorcismo e soprattutto dell’adorcismo – le pratiche attraverso cui si “invita” lo spirito a prendere possesso di un individuo che cerca la guarigione del corpo e della mente: qui l’antropologo deve districarsi in una foresta di segni e significati intricatissimi, in cui è necessario interrogarsi sul significato di malattia e terapia in contesti lontanissimi da quelli della modernità occidentale.

Nel terzo saggio – Musulmani riluttanti – Janeth McIntosh analizza la condizione di sottomissione quasi “castale” subita da una ristretta minoranza animista, quella dei giriama, considerata impura e subalterna rispetto alla maggioranza swahili, musulmana e socialmente più avvantaggiata. Siamo nel litorale costiero del Kenia, un’area di recente urbanizzazione, in cui le gerarchie etnico-religiose si riflettono immediatamente sui mondi celesti: gli spiriti dei giriama sono meno potenti e hanno meno pretese, rispetto ai loro omologhi musulmani, considerati spiriti di “serie A”, generalmente in rapporto con il mondo swahili.

Non di rado uno spirito musulmano “possiede” un giriama e questo induce nel soggetto un cambio nella dieta, l’adozione dei tabù alimentari islamici e finanche un nuovo abbigliamento che richiama lo stile swahili. I giriama hanno talmente introiettato la loro subalternità, da “usare” le possessioni come strategia di abbandono della loro vecchia cultura e viatico verso una islamizzazione che potrebbe risultare socialmente più conveniente. Nel senso opposto, alcuni sciamani giriama utilizzano l’evocazione dei loro spiriti ancestrali come strategia di resistenza culturale all’egemonia islamo-swahili. Anche in questo caso, quindi, esorcisti/adorcisti di entrambe le fazioni, mettono in campo complessi rituali che regolano queste contese squisitamente culturali e sociali.

Un campo di studi complesso e affascinante, in cui nessuna teoria può attribuirsi il ruolo di “ultima parola”, in cui è facile cadere nelle trappole di letture materialisticamente grossolane, attraverso cui lo sguardo occidentale crede di svelare con chiarezza i nessi di causa/effetto che sottostanno a fenomeni sfuggenti e di problematica classificazione: manifestazioni che hanno il loro campo di origine nella foresta nera della psiche umana e nel mare magnum dell’inconscio collettivo. Con saggezza, il curatore è consapevole del fatto che: “È evidente che l’antropologia, pur attenendosi ai dati etnografici, riposa sulla loro interpretazione, ossia sull’arbitrio di attribuire loro un significato”. (p. 12) Premessa utile di un libro interessante, scientificamente rigoroso, non riservato agli “addetti ai lavori” degli studi antropologici.

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Black Empusa. Füssli, la koiné degli incubi e il fantastico moderno (IV) https://www.carmillaonline.com/2018/08/17/black-empusa-fussli-la-koine-degli-incubi-e-il-fantastico-moderno-iv/ Fri, 17 Aug 2018 21:22:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48129 di Franco Pezzini

La koiné degli incubi

“[…] Stia dunque a sentire quello che non sa. I tre fiumi dell’antico mondo dei morti, l’Acheronte, il Flegetonte e il Cocito, appartengono oggi all’inferno musulmano, ebraico e cristiano. Il loro corso segna i confini che separano i tre inferni: la Gehenna, l’Ade e l’inferno glaciale dei maomettani. Proprio laggiù, sotto le terre che un tempo appartennero ai Chazari, si incontrano i tre regni dei morti: l’infuocato regno di Satana, con i nove cerchi dell’Ade cristiano e con il trono di Lucifero e [...]]]> di Franco Pezzini

La koiné degli incubi

“[…] Stia dunque a sentire quello che non sa. I tre fiumi dell’antico mondo dei morti, l’Acheronte, il Flegetonte e il Cocito, appartengono oggi all’inferno musulmano, ebraico e cristiano. Il loro corso segna i confini che separano i tre inferni: la Gehenna, l’Ade e l’inferno glaciale dei maomettani. Proprio laggiù, sotto le terre che un tempo appartennero ai Chazari, si incontrano i tre regni dei morti: l’infuocato regno di Satana, con i nove cerchi dell’Ade cristiano e con il trono di Lucifero e le bandiere dell’imperatore infernale; gli inferi dell’Islam dove regnano le gelide pene di Iblis; e infine la regione di Ghebhurah, alla sinistra del Tempio, la Gehenna dominata da Asmodeo, dove siedono gli spiriti ebraici del male, della lascivia e della fame. Questi tre inferni sono ben divisi, i loro confini sono segnati da un aratro di ferro e a nessuno sarà concesso di superarli. Capisco che è la sua mancanza d’esperienza a farle immaginare questi tre inferni in modo sbagliato. Nell’inferno ebraico, nel regno di Beliaal, l’angelo delle tenebre e del peccato, non bruciano come lei crede, gli ebrei. Laggiù bruciano solo gli arabi o i cristiani. Allo stesso modo nell’inferno cristiano non ci stanno i cristiani, bensì i maomettani o quelli del popolo di David, mentre nel regno musulmano delle sofferenze, dove Iblis è sovrano, si trovano solo cristiani ed ebrei, e neanche un turco o un arabo. S’immagini un po’ quel che significherebbe per Masudi, il quale teme il suo tremendo ma tuttavia ben conosciuto inferno, ritrovarsi nello Sheol ebraico o nell’Ade cristiano, dove ad accoglierlo ci sarò io! Invece che in Iblis, s’imbatterà in Lucifero. Sull’inferno in cui soffre un ebreo si leverà un cielo cristiano!”.

Così spiega il diavolo: almeno quello dell’inferno cristiano, almeno a quanto riporta lo scrittore serbo Milorad Pavić (1929-2009) in un libro strano e affascinante che deve parecchio a Borges. Si tratta del labirintico Dizionario dei Chazari. Romanzo Lessico (1987, in Italia 1988 per Garzanti) che intreccia a vicende del tutto inventate la raccolta di tre fantomatiche enciclopedie con riferimenti incrociati. Ciascuna nell’ottica di una delle tre religioni monoteiste: cristianesimo nel Libro Rosso (da cui la citazione, pp. 49-50, voce ‘Branković, Avram’), islam nel Libro Verde e giudaismo nel Libro Giallo – il tutto complicato dal fatto che il testo è proposto in due versioni, una “maschile” e una “femminile”, che differiscono solo in un paragrafo. Al centro, le vicende e i misteri dell’antico regno dei Chazari, tra Europa e Asia, convertitisi a fine VIII secolo o inizio del IX a una delle tre fedi (dopo un certo travaglio, quella d’Israele) ma in un rapporto di continuo travaso di suggestioni, pressioni e tentazioni culturali. Parecchie considerazioni si potrebbero articolare, su questo romanzo in realtà venato di pesanti ambiguità: se la frase “Sull’inferno in cui soffre un ebreo si leverà un cielo cristiano!” già richiama a un contesto raggelante del passato europeo, nei Chazari – che a dispetto del numero finiscono con l’essere dominati da altri – Pavić sembra richiamare i Serbi. Ambiguità che del resto preludono tragicamente a quanto succederà di lì a pochi anni tra rivalse, miti nazionalisti e fantasie geopolitiche (più tanto pelo sullo stomaco dell’Occidente) nell’area dell’ex-Iugoslavia.

Ed è proprio con un occhio a questa dimensione equivoca che, nel riprendere il filo del nostro tema, preme richiamare la suggestione evocata dal diavolo: la terribilità straniante di trovarsi in un inferno dalle categorie non conosciute, o – per dirla in termini più generali – di confrontarsi con dimensioni di paura che non trovano comprensione nelle categorie culturali note. È in fondo il motivo per cui, venendo a una grana molto più pop, il remake The Ring (2002) reca – a chi scrive, ma ho trovato conferme tra altri spettatori – ben più inquietudine del modello originale giapponese Ringu (1998): e non solo perché di quest’ultimo non riesco a cogliere il sapore di scene chiave (i riti funebri in Giappone, per esempio, hanno caratteristiche molto diverse da quelle che a livello profondo riconosco), ma anche e soprattutto per un problema di coerenza simbolica. In Ringu la storia è coerente a un contesto di credenze in spiriti di vario tipo, si colloca in un certo alveo culturale; The Ring è invece completamente destrutturato, le categorie vanno in palla, i personaggi non riescono a reagire perché il meccanismo è “altro” e non corrisponde a tutto ciò che in Occidente si può sapere sui “fantasmi” (con tutte le virgolette del caso). È un po’ lo scarto che Le Fanu presenta tra i fantasmi delle storie di Padre Purcell – tradizionali, spaventosi ma coerenti a un contesto folklorico – e quelli di In a Glass Darkly, dove i protagonisti colti e scettici non riescono più a gestirli per un deficit di categorie congrue.

Questa dell’alienità è idealmente una delle maschere della paura: il terrore di trovarci in una realtà che non riconosciamo nostra, neanche nel tipo di sofferenze. Ma che presenta un rovescio paradossale in un’altra e opposta forma di paura: quella di scoprirci meticci da sempre, di vedere relativizzate – e minate nelle fondamenta – una serie di categorie identificative del nostro consolidato e compiaciuto storytelling. Di scoprire ibridate le nostre tanto amate “radici”, e non così uniche le nostre specificità.

E proprio il nostro tema pare una buona metafora di tutto questo, per la curiosa, imbarazzante somiglianza delle storie notturne tra culture diversissime: qualcosa che non si esaurisce nelle componenti psichiche e neurologiche comuni ai Sapiens e ai loro fratelli più “primitivi” (sleep paralysis eccetera), o in analogie nei meccanismi culturali. Un magma perturbante che va ben oltre i contenuti specifici del quadro The Nightmare.

Ricapitoliamo: si è visto come a monte di film fantastici popolari degli anni Trenta emerga il successo del saggio sull’incubo di Ernest Jones; poi, con un passo indietro, come un influsso persino più diffuso (anche su Jones) sia recato da un’opera preromantica sul tema, il dipinto seminale di Füssli. Un ulteriore passo indietro ha portato ad allargare ancora la mappatura dell’area interessata e degli influssi artistici e culturali in riferimento a tradizioni e opere dal mondo latino in avanti. A giustificare non solo la genesi ma il successo del dipinto di Füssli è insomma tutto un intreccio di radici: qualcosa che conosce un’accelerazione in un momento di svolta inquieta della cultura europea, un passo prima della bufera rivoluzionaria. Un addensarsi di nubi tra sogni e incubi della ragione come nella famosa tavola di Goya di poco successiva col suo volo di nottole spettrali (El sueño de la razón produce monstruos, 1797/1799, sorta di controcanto al dipinto füssliano) o in altri dei suoi Los caprichos.

Eppure il discorso così impostato coglie ancora soltanto la cima dell’iceberg. E dobbiamo ora azzardare un ulteriore passo indietro, verso un passato assai più remoto.

Si è citato l’incubo a monte del primo romanzo gotico, nella forma del gigante onirico di Walpole; e una sorta di gigante sarà l’incubus/Creatura di Frankenstein. Ma in realtà il nesso tra incubi e giganti è saldato ufficialmente dal ricordo del nome con cui i Greci (Galeno compreso) etichettavano il fenomeno: Efialte, termine che sembra rimontare a un antroponimo miceneo e-pi-jata, e già nel mondo antico interpretato come un composto epi + allomai, “saltare su qualcuno”, ma che per altri si raccorderebbe a epialos/ēpialos, “febbre con brividi” (in riferimento al delirio?), oppure a iallō, “inviare, lanciare” nella forma composta di “getto su, in, verso”. Efialte è il nome di ben due figure di Giganti del mito greco, entrambi ribelli contro l’Olimpo: il primo figlio di Poseidone e di Ifimedia, e uno dei cosiddetti Aloadi; il secondo un figlio di Gea coinvolto nella Gigantomachia. Entrambi associati a un saltare o lanciare sopra: gli Aloadi sovrappongono il monte Ossa al monte Pelio (o viceversa), per raggiungere l’altezza dell’Olimpo; i giganti ribelli della Gigantomachia tentano di arrivare al cielo (saltare sopra) e finiscono sepolti negli Inferi (il peso della terra lanciato su di loro). Anche alla luce di certe associazioni mediterranee tra demoni e ombre degli antichi giganti – per esempio nel mondo ebraico degli apocrifi – il nesso tra queste entità ribelli del mito greco (ma in realtà precedenti a esso) e l’omonimo demone incubo non sembra esaurirsi in una semplice omonimia. Quanto al fatto che l’incubus/Alp del dipinto di Füssli non abbia tanto le caratteristiche del gigante quanto del nanerottolo, non esiste in realtà una vera contrapposizione: l’essere che schiaccia e incombe, il gioco del grottesco che veicola, il contesto onirico rimandano – come ben mostra Lewis Carroll coi cambi di dimensioni di Alice – a un unico orizzonte di spiazzamento.

Ma se Efialte è per l’antico mondo greco la maschera mitica dell’incubo inteso come demone maschile, non manca e anzi trova spazio persino eminente la sua controparte femminile, il succubo Empusa: una figura di protovampira della schiera della dea infera Ecate (nel cui profilo trascolora), dall’etimologia dubbia e forse pregreca, risolta talora come “colei che preme/comprime” (da empiezō), ancora una volta nel senso del gravare sul petto. Se altre orchesse della stessa schiera infera insidiano i bambini (e infatti sono spesso ricordate col diminutivo “d’allarme” del linguaggio infantile: Mormó/“lo Spauracchio”, Accó/“Colei che ghigna/fa smorfie”, Maccó/“la Stupida”, Alfitó/“l’Infarinata”, Carcó/“la Mordace?”, Gelló, Lamó cioè Lamia), Empusa minaccia la “seconda nascita”, quella sessuale dei giovani adulti. Entità metamorfica e plurale – come peraltro Lamia e le Lamie, con cui verrà confusa – l’Empusa in forma di procace fanciulla rimorchia sulle strade di notte o nel pericoloso meriggio i viaggiatori che intende divorare o drenare a morte. Senza entrare qui nei dettagli, è evidente che si tratta di un profilo molto simile a quello di un’altra entità stavolta del folklore mediorientale, quella già citata Lilith le cui prime tracce emergono in Mesopotamia e che estorcerebbe sesso al maschio standogli sopra: un’immagine che salda l’idea del sovrastare comprimendo con un più variegato orizzonte di suggestioni sulla temuta supremazia femminile e la minaccia alla virilità.

Beninteso, si tratta solo di due facce tra le tante repertoriate da imbarazzati mitologi: orchesse e predatrici del respiro-vita – dal sembiante di volatile o di sfinge o di qualunque altra bestia o ibrido (cfr. Hecate Britannica) – che al di là di specializzazioni locali muovono sullo stesso fronte arcaicissimo. Per poi riemergere a infestare la modernità: e non è un caso se tra fine Ottocento e inizio Novecento, archiviate le luminose e numinose signore preraffaellite, l’arte simbolista sprofondi la donna nel torbido moltiplicando immagini dell’incubo anche e soprattutto in chiave femminile. È del 1896 l’Empusa di Carl Schmidt-Helmbrechts (1872-1936) ritta – bontà sua, senza vittime – tra ragni e serpenti; ma nel 1899, Ernst Stöhr (1860-1917) illustra una propria lirica Vampir sulla rivista Ver Sacrum mostrando una vampira che incombe come un incubo su un uomo riverso. Al 1910 circa risale L’incubo di E. Turbacky, dove una figura femminile nuda accucciata su un dormiente – di lei non vediamo il viso, nascosto dai capelli quasi a prefigurare Ringu – punta le mani sugli occhi della vittima, impedendo di aprirli. Poco prima l’artista tedesco Fritz Schwimbeck (1889-1972) aveva offerto nel quadro Il sogno (1909) la visione raggelata di un incubus – una carcassa con zampe ramificate accucciata su un dormiente – e nel Sogno di Semiramide (1909) la regina similmente oppressa da un toro alato Lamassu: ma pochi anni dopo dipinge Il mio sogno, il mio incubo (1915) con il dormiente compresso da una donna-uccello che chiaramente rimanda alla nebulosa arcaica, tra Mesopotamia ed Egeo. Più o meno in contemporanea, il pittore e scultore polacco Bolesław Biegas (1877-1954) vara un’intera galleria di straordinaria potenza visionaria – Les Vampires de guerre, quaranta dipinti 1915-18 – dove gli orrori del conflitto mondiale sono resi come l’incombere su uomini riversi di demoni femmina in genere alati, molto simili alle antiche protovampire con funzioni d’incubo… Se a queste raffigurazioni pittoriche aggiungiamo tutte quelle presenti nella narrativa o in altre forme artistiche (per esempio nel Nosferatu del 1922 Empusa è il nome sostitutivo dello stokeriano Demeter per la nave maledetta che porta il vampiro a spargere contagio e morte), e tanto più se consideriamo anche i richiami in chiave di metafora, ci accorgiamo non solo – e non è una novità – del peso di un certo immaginario sul Femminile allarmante, ma che sul piano tipologico il tema dell’incubo conosce con l’avvio inquieto del Novecento una nuova stagione di successi.

Ma a colpire persino di più è un altro elemento: e cioè la ricorsività lungo i millenni dei nomi di queste entità, nell’ambito di un evidente meticciato. Che il nome di una mattatrice dell’immaginario tra Otto e Novecento come Lilith rimandi all’antica Mesopotamia – e forse più indietro, ma solo da allora ci giungono testimonianze – è un fatto noto: di lì ne troviamo parecchie varianti in Medio Oriente e poi in Europa tramite le comunità ebraiche. Ma per una sua collega, il demone ammazzabambini Gelló, esistono ipotesi etimologiche dal greco (geleĩn, “esplodere di una risata agghiacciante”), in generale dall’indoeuropeo (*gel, “inghiottire”) però anche dal Gallû o Galu sumero-accadico; la ritroviamo in età bizantina (Gylo o Gyllou), nella demonologia ebraica (Gilu, nome segreto di Lilith) e in quella araba come ghoul, nota al fantastico fino a Lovecraft. Per l’orchessa Lamia – “libica” o almeno collocata su set non greci – principale imputata nel mito classico di ratto di bimbi e pedofagia, s’individuano radici mesopotamiche (Lamma sumerica, Lamassu accadica e assira, la diavolessa accadica Lamaštu), transiti nel punico (laham come “mangiare”, “divorare”) e nel greco (lamuros, “vorace/impudente” e laimos, “gola”) e parentela con Lamo, l’Orco per antonomasia, fondatore di Telépilo, città dei Lestrigoni antropofagi dell’Odissea. L’elenco potrebbe continuare, a mostrare l’esistenza di un tessuto condiviso di credenze al di là di distanze geografiche e politiche di territori. Un insieme di travasi continui a partire da un passato remotissimo con forti connessioni. Dove l’interesse dell’esempio sta proprio nella sua apparente marginalità.

Nel suo discutibile ma insieme fondamentale Black Athena (tre voll. 1987, 1991, 2006), Martin Bernal mostra come il mondo greco non rappresenti il miracolo autonomo che una certa lettura nazionalista moderna ha voluto vedere, bensì il frutto – originale, ma in fecondissimo scambio – di una quantità di influenze sui popoli balcanici e delle isole dalle grandi civiltà dell’Africa e dell’Asia, come del resto sostenevano già gli storici antichi. Ma questo intreccio di imprestiti e relazioni corre fin dai tempi che rozzamente ci ostiniamo a considerare pre-istoria, dimenticando che già allora esisteva una storia di uomini tessuta di eventi e di idee. Un meticciato da tempi arcaicissimi, una comunità che nelle stesse paure – anche e in particolare quelle della notte, associate ai grandi misteri a partire dalla morte – vede una koiné, una cultura condivisa. Accanto a Black Athena potremmo individuare un filone di studi Black Empusa.

Con una koiné degli incubi che almeno dal neolitico continua ad avvicinare popoli lontani: perché è un fatto che figure analoghe a incubi e succubi fluiranno in tutte le culture. In Europa, a parte le tipologie citate, il folklore ne conosce innumerevoli altre: andiamo dalla ricca demonologia sarda dove l’incubus principale è l’ammuntadòre (ammuntare, “avere incubi”) – ma altre figure possono avvicinarsi, come le surbiles, le cogas, la busha, la surtora, la stria, la giana… – alle credenze ungheresi sul lidérc e l’éjjeljáró (“quello che va di notte”), a quelle estoni sul painaja (“schiacciatore”) e il külmking (“scarpafredda”). Per entità affini all’incubus l’Asia conosce per esempio il karabasan (“minaccioso schiacciatore”) turco, il bakhtak persiano, il pori dell’Assam, il pee ahm thailandese; alla famiglia dei succubi possono richiamarsi l’arabo qarînah – plausibilmente derivato da tempi preislamici – e le indiane yakshini. In Africa troviamo, tra mille altri, il popo bawa di Zanzibar e il tokolosh sudafricano; e in America meridionale il trauco cileno, il tintín ecuadoriano, per non parlare del Brasile, dove si attribuisce al delfino del Rio delle Amazzoni una natura di incubo sciupafemmine.

In un’epoca come la nostra, piena di angosce (la grande invasione, l’estinzione dei figli d’Occidente, la fine di culture strutture identità, l’ossessione delle radici…), ragionare sul rapporto tra alterità culturale e paura sembra fondamentale: tenendo presenti le due facce ideali, astratte del tema – il terrore dell’alienità da un lato, e dall’altro l’allarmante novella che siamo meticci da sempre.  In questo senso, il tema dell’incubo diventa anche metafora di una soffocante dimensione “notturna” della paura: “notturna” nel senso di non razionale, coltivata dai grandi media come negli scambi al bar. E diventa occasione e macchina per pensare alle dinamiche sessiste (maschio su femmina, femmina su maschio, mancata accettazione del rifiuto e violenza conseguente…) e razziste con cui possiamo interpretare la realtà; alle ansie in un mondo che scricchiola come al tempo di Füssli, tra crolli di paradigmi e rivoluzioni epocali; alla continua proiezione di tali ombre e maschere nell’odierno immaginario – compreso quello del fantastico moderno, lingua franca e lente efficace per mettere la realtà a un giusto fuoco, cogliendo ciò che altrimenti ci sarebbe precluso. A farci ricordare che un punto comune del nostro essere umani potremmo ritrovarlo persino nelle nostre paure.

[4-Fine. Le puntate precedenti sono qui, qui e qui]

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