Antonio Tabucchi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 09 Apr 2025 20:00:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La libertà, l’Italia e chissà qual destino disperato: Pasolini, Porzûs, l’imprudenza https://www.carmillaonline.com/2025/02/07/la-liberta-litalia-e-chissa-qual-destino-disperato-pasolini-porzus-limprudenza/ Thu, 06 Feb 2025 23:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86797 di Luca Baiada

Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa [...]]]> di Luca Baiada

Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa di più grande di lui.

Il secondogenito di Carlo Alberto l’ufficiale, Guido, con l’occupazione dell’Italia nel 1943, già a settembre cercherà di rubare armi ai tedeschi; entrerà nella Resistenza, diventerà comunista e poi azionista. Si arruolerà in una brigata Osoppo e combatterà con una tenacia sorprendente.

Febbraio 1945, ottant’anni fa. A Porzûs, in Friuli, Guido Pasolini e altri partigiani della Osoppo sono assassinati da partigiani comunisti, in una vicenda scottante. La sua morte è la più convulsa: ferito, fuggiasco, accolto e rifocillato, poi ritrovato e catturato, infine crivellato e sepolto nella tomba che è stato costretto a scavarsi.

Il primogenito di Carlo Alberto, invece, Pier Paolo, sarà arruolato ma poi riuscirà a sottrarsi alla Rsi. Restando disertore, non parteciperà alla Resistenza e si dedicherà soprattutto allo studio e alla scrittura. Nel 1945, saputo della morte del fratello, aderirà al Partito d’azione. In seguito si iscriverà al Pci, che lo allontanerà quando il suo orientamento sessuale diventerà di dominio pubblico. Continuerà a dirsi marxista e a mantenere un rapporto contraddittorio con la sinistra e con la religione.

1975, cinquant’anni fa, ma a novembre. Pier Paolo cade in una trappola: percosso, bastonato, infine sopraffatto, tramortito e schiacciato sotto la sua automobile sino a fargli scoppiare il cuore. Le letture più odiose vedranno una zuffa tra un pervertito e un prostituto, quelle più comode un incidente in una vita agitata. Le interpretazioni più avanzate riusciranno a capire qualcosa, più per metodo obliquo che per altro – il forte «io so» pasoliniano entrerà nel discorso politico e culturale. Acuto, Antonio Tabucchi, quando ricorda che quel sapere ha precedenti antichi, fra cui un frammento di Anassimandro, e nota: «Questo “sapere” di Pasolini non appartiene dunque alla logica di Wittgenstein, ma a una conoscenza congetturale e creativa»[1].

La necessità di eliminare un intellettuale in presa diretta sulla realtà, nel 1975, porterà a un delitto. Si vorrà far tacere una voce scomoda e dare un segnale al mondo della cultura, allora decisamente a sinistra. Quasi tutti ubbidiranno, e solo dopo si comincerà a cercare la verità, collegandola anche al romanzo che la vittima non ha fatto in tempo a pubblicare. L’uomo di cui Pasolini stava scrivendo in Petrolio, l’uomo che si stava impadronendo del paese, estendendosi senza alzarsi, è Eugenio Cefis, già partigiano conservatore durante la Resistenza, poi vissuto in Italia e all’estero.

Le morti dei due Pasolini sono agli estremi. Una è ai margini d’Italia, sul confine, aggrappata ai monti insieme alle malghe. L’altra è al centro di tutto, in un crocevia storico, umano, estetico, fra le pieghe disadorne di un luogo incantato: alla foce del Tevere, negli anni Settanta ridotta a confusa edilizia e polverose baracche. Quella foce è da sempre magnetica; «dove l’acqua di Tevero s’insala»: là, secondo Dante, si adunano le anime per raggiungere il Purgatorio traghettate da un angelo.

Poliedrico, il nesso tra fatti e cultura. Franco e pulito, quello di Guido, che parte per la Resistenza portando con sé un libro di Montale con una pistola dentro. In certi momenti, l’unica cosa seria da fare con un libro è ritagliarsi fra le pagine uno spazio per qualcos’altro.

Raffinato e pericoloso, quello di Pier Paolo, che dal mondo contadino e dialettale arriva al realismo narrativo e cinematografico, poi attinge a una creatività vulcanica, lisergica e materialista, denunciando la violenza consumistica, industriale, ma anche politica e stragista. Il cortocircuito pasoliniano passa attraverso lo sviluppo e l’estrattivismo, ma anche attraverso il sangue che scorre sotto il lavoro intellettuale, perché Cefis all’Eni assume il potere di Enrico Mattei, anche lui proveniente dalla Resistenza e assassinato nel 1962, e perché al film sulla morte, Il caso Mattei di Francesco Rosi, lavora per gli approfondimenti il giornalista Mauro De Mauro, ex fascista repubblichino, che durante la realizzazione cinematografica è a sua volta eliminato, nel 1970.

Si potrebbe continuare, in questo cortocircuito, perché fra le spiegazioni correnti del delitto Pasolini del 1975 – si vorrebbe farne la sola causa – c’è il furto delle pellicole di Salò, un film sul fascismo nell’Italia sotto occupazione tedesca; e la pagina storica della Rsi è una fogna di doppiogiochismi, sadismi, putredine mentale, falsa coscienza. E si potrebbe continuare ancora, perché non solo De Mauro è stato repubblichino nella Roma occupata, persino durante le Fosse Ardeatine, ma suo fratello Tullio è fra i massimi linguisti italiani. In questa storia inchiostro e sangue non vogliono né separarsi né fondersi, proseguono come correnti di fiumi, con colori diversi ma direzione comune, sino a un mare nebbioso dove navigare non è permesso; perciò è un dovere avventurarsi, in quelle acque, se si ama la libertà. Si spalanca proprio sul mare, la foce del Tevere, luogo da cui si salpa per sanare le piaghe o farne stigmate.

Solcare acque oscure serve a capire le sorgenti, perché nel fascismo, e poi nei doppiogiochismi fra il 1943 e il 1945, è l’origine di tanta parte della storia italiana. In quel magma hanno radici Cefis e Gelli, la partita futura sull’Eni e la P2, mentre Andreotti è in Vaticano e Mattei è con la Resistenza al Nord. Fili intrecciati, correnti profonde.

Poliedrico anche il rapporto fra coscienza e storia. Pasolini, in La resistenza e la sua luce, edita nel 1961, insieme alla morte di Guido scolpisce la lotta di Liberazione:

Venne il giorno della morte

e della libertà, il mondo martoriato

si riconobbe nuovo nella luce…

 

Quella luce era speranza di giustizia:

non sapevo quale: la Giustizia.

La luce è sempre uguale ad altra luce.

Poi variò: da luce diventò incerta alba,

un’alba che cresceva, si allargava

sopra i campi friulani, sulle rogge.

Illuminava i braccianti che lottavano.

Così l’alba nascente fu una luce

fuori dall’eternità dello stile…

Nella storia la giustizia fu coscienza

d’una umana divisione di ricchezza,

e la speranza ebbe nuova luce[2].

Sono versi che pubblica. Ma prima, a maggio 1945, già consapevole della morte di Guido, scrive per sé un testo in seconda persona rivolto al fratello:

Gloriosa morte perché voluta da te stesso, in nome di un’idea qualunque (bella, tuttavia: la libertà) e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo. […] Se io paragono la mia imprudenza nello scrivere versi di quell’età, con la tua, vedo che sono la stessa cosa[3].

Guido ha voluto morire, Pier Paolo ha la stessa imprudenza: l’emulazione è già cominciata.

Sempre in privato, in una lettera a Luciano Serra del 21 agosto 1945, Pasolini scrive che il secondogenito gli ha insegnato la strada. Così, la morte è diventata attingibile:

Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è così schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione così a noi inconcepibile. E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene, a cui credeva troppo. Per questo posso dirti, Luciano, ch’egli si è scelto la morte, l’ha voluta; e fin dal primo giorno della nostra schiavitù[4].

L’inconcepibile ha preso qualcosa di vicino. Per questo, forse, Guido nel 1954 diventa visibile, quando il poeta si imbatte in un raduno del Msi, a Roma, e scrive Comizio:

Per la prima volta, dall’inverno

in cui la sua ventura fu appresa,

e mai creduta, mio fratello mi sorride,

mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,

oscuro partigiano, non ventenne

ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne

d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,

in quei poveri occhi, umiliante e solenne…

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,

tremendo sguardo, non per il suo destino,

ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?[5].

Ora che, nel 2025, a ottant’anni dalla Liberazione, c’è «un tempo morto che torna / inaspettato, odioso», ricordiamo cosa scrive Pasolini, nella stessa poesia, a proposito della fiamma tricolore del Msi sulle loro usurpate bandiere: «Arista / o tetro vegetale guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista»[6].

Però. Mentre scrive a Serra nel 1945, Pier Paolo ha ventitré anni e Guido è morto da pochi mesi. C’è da chiedersi se molti anni dopo – è stato scritto che Pasolini, come altri poeti, ha progettato la sua fine, l’ha costruita – la ricerca instancabile della verità, la più scomoda e indicibile, sull’Italia del dopoguerra e sui compromessi del centrosinistra, sui suoi enigmi, sui tessuti di potere, sulle trame affaristiche e neofasciste, con sottili connivenze, serva a Pier Paolo per prendere lo slancio verso quella dimensione inconcepibile. C’è da chiedersi se proprio lui metta in mano agli assassini ciò che gli permette di colmare la mancata partecipazione alla Resistenza, di riscattare l’essersi appartato mentre si sparava e si moriva, di essere pari a Guido nella fine eroica. La fine accettata allora da Guido, tornato a Porzûs benché avvertito del pericolo, perché, come scrive Pasolini nel 1945:

La libertà, l’Italia

e sa Dio qual destino disperato

ti volevano,

dopo tanto vivere e patire,

in questo silenzio[7].

Per rifletterci sarebbe utile Il Vangelo secondo Gesù di Saramago, romanzo eretico, percorso dal senso di colpa del figlio di Maria e Giuseppe, scampato alla strage degli innocenti. Erode, cioè la ragion di Stato abbarbicata al potere, non fabbrica solo cadaveri, ma anche superstiti carichi di scrupoli. Saramago: «Viene da lontano e promette di non aver fine la guerra tra padri e figli, l’eredità delle colpe, il rifiuto del sangue, il sacrificio dell’innocenza»[8]. Sono ombre che i poeti afferrano al volo, come si impugnano fiori spinosi, magari per metterli sulla propria tomba.

Se è così. La morte di Pasolini, come quella del fratello, è voluta «fin dal primo giorno», perché prima di quel novembre 1975, dall’adolescenza e dalla giovinezza, contro Pier Paolo è pronta una schiavitù fatta di conformismo, di cristianesimo prostituito nelle sacrestie, di marxismo reso miope dalle burocrazie, di Costituzione prigioniera del centrismo, di modernità immersa nello sviluppismo corrotto, nel consumismo, nella devastazione del linguaggio, nella dispersione delle culture popolari, nel massacro del paesaggio e del territorio.

Comunque. Questa storia è un sunto urticante del Novecento italiano. Nel 1926 un padre rispettabile contribuisce – involontariamente, voglio pensare, ma di fatto – al linciaggio di un ragazzino. Vent’anni dopo, partigiani comunisti uccidono il suo secondogenito, inizialmente comunista e poi convinto azionista. Carlo Alberto consumerà gli anni che gli restano, lasciando una vedova e un figlio dalla sessualità difficile da accettare. Nel 1975 anche il primogenito, che è stato prima azionista e poi comunista critico, sarà ucciso, e anche stavolta non saranno i fascisti, o almeno il mandante non sarà di quelli dichiarati. Poche cose esprimono così il suicidio di una certa Italia, in un arco di tempo che comincia nel 1926 con un assassinio nella disciplinata città dei glossatori, e che nel 1975, con un assassinio nell’agglomerato abusivo di Ostia, finisce.

Accostandomi a questo mi domando perché, malgrado la vicenda possa essere sia un buon boccone per il revisionismo fascista, sia un terreno per il lavoro culturale di sinistra, entrambi si tengano alla larga da un sunto, da uno sguardo ampio. Meglio congetture sul delitto del 1975, controversie su Porzûs, rare occhiate all’attentato Zamboni, senza saldare insieme la storia. Se ci si chiede perché, già si comincia a capire.

 

 

[1] Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone, Sellerio, Palermo 1998, pp. 31-32.

[2] Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, tomo primo, pp. 472-473; in questa citazione e in seguito i puntini sono nell’originale.

[3] Andrea Zannini, L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, Marsilio, Venezia 2022, pp. 88-89.

[4] Pier Paolo Pasolini, Lettere agli amici (1941-1945). Con un’appendice di scritti giovanili, a cura di Luciano Serra, Ugo Guanda Editore, 1976, pp. 44-45.

[5] Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, pp. 30-31.

[6] Ivi, p. 27.

[7] Còrus in muart de Guido, XXV, in «Il Stroligut», agosto 1945, n. 1, pp. 3-4. Nell’originale: «La libertat, l’Italia / e qissà diu cual distin disperat / a ti volevin / dopu tant vivut e patit / ta qistu silensiu».

[8] José Saramago, Evangehlo segundo Jesus Cristo, trad. Il Vangelo secondo Gesù, Bompiani, Milano 1993, p. 58.

 

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L’orco e le ossa, ovvero ricordare il futuro https://www.carmillaonline.com/2023/11/27/80076/ Sun, 26 Nov 2023 23:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80076 di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non [...]]]> di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non possa essere anche questo libro dalla copertina coi colori pastello e con la grafica di certe vecchie scatole di biscotti o di sapone in polvere.

La freccia del tempo suggerita dal titolo sembra scontata, pare muoversi dal passato verso il futuro, ma l’arguzia dell’autore prende la questione per la coda e immagina in questo cammino un viaggiatore imprevedibile, citando Le ricordanze: «L’esperienza ci dice che è il futuro quello che si fa incontro a noi di continuo, fin dall’ingresso nella vita e poi sempre più: fino all’uscita. Solo allora – ha scritto Giacomo Leopardi – “dal mio sguardo fuggirà l’avvenire”».

La figura del gigante di Recanati è ben presente, a Prosperi. Chi lo conosce può vederlo seminare passi pensosi, nella Pisa del Palazzo della carovana e del primo orto botanico del mondo, magari mentre percorre quella viuzza che adesso porta il nome del poeta. Potrebbe essere proprio lei, la via descritta in una famosa lettera del 1828 alla sorella Paolina: «Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti».

Basta calcare col piede quelle pietre, respirare le muffe decrepite di quei muri, per fare un poeta o uno storico? Lasciamolo credere a chi cerca scorciatoie. L’autore non le ha cercate; la strada che l’ha portato sino alla Scuola Normale di Pisa e all’Accademia dei Lincei l’ha segnata con studi e ricerche e riflessioni. Ora che distilla in una chicca pensata per i ragazzi un sunto delle sue fatiche, sembra quasi che si volga indietro, e forse per questo il rapporto fra i tempi si sbarazza dell’ordine consueto. Fa pensare alle osservazioni di Edward Carr sul rapporto degli storici e dei filosofi col domani, quando ricorda il paradosso di Lewis Namier secondo cui gli storici immaginano il passato e ricordano il futuro[1].

Leopardi, ma non solo lui. La letteratura è una chiave indispensabile perché schiude sensibilità altrimenti inaccessibili, scarta e vola sull’ostacolo come la mossa del cavallo: «La letteratura ha molto da dire a chi, attraverso lo studio della storia, cerca di conoscere la società umana. Quella vivente umanità raccontata nelle creazioni letterarie è la carne che copre le ossa accumulate nei depositi dei manuali di storia».

Naturalmente la letteratura, quella tramandata dai libri, risente di un’egemonia sociale, dei rapporti di forza; Prosperi lo sa, è l’autore di Un volgo disperso: contadini d’Italia nell’Ottocento. Anche di Un tempo senza storia: la distruzione del passato, dove non fa complimenti con un atto del Parlamento europeo, la grottesca risoluzione del 19 settembre 2019, Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, chiamandola «disegno sommario dei regimi, delle ideologie e dell’immane tragedia europea del secolo scorso che non reggerebbe alla prova di un esame di scuola media»[2]; non solo: Prosperi svela le assonanze fra quella risoluzione e il documento Agenda per il futuro di Ursula von der Leyen, all’epoca della sua candidatura alla presidenza della Commissione. Nello stesso libro è chiaro:

L’esperienza del recente passato ha fatto emergere la consapevolezza che la ricerca della verità ha come verifica la capacità del ricercatore di smascherare inganni e falsità del potere, fino al punto che la missione dello storico è stata definita come l’opposto della legittimazione dello Stato e di qualunque altro potere[3].

Perciò. Quando si parla di storia, chi parla di letteratura non è uno che cambia discorso. Semmai, il problema è che se scarseggia la buona letteratura anche la storia ne risente, e ciò costringe un buon orco, insomma uno storico, a cercare la carne fra ossa con poca polpa. Ma la questione delle fonti ha risvolti complessi, e questo libro lo segnala quando ricorda le osservazioni, ancora di Bloch, sulla leggibilità dell’appoderamento, del tessuto campestre e del paesaggio agrario. Non è vero che le classi subalterne, prima dell’alfabetizzazione, siano senza scrittura: i gesti, i modi e i perimetri della produzione, le loro fasi nel susseguirsi delle stagioni e generazioni, le forme che incidono nel mondo sono un modo di scrivere. La manomissione di quel patrimonio è l’incendio di una biblioteca, è un genocidio culturale. Viene in mente Pasolini: «C’era una volta un popolo / abitava in casali tagliati come chiese…»; in quei versi i colpevoli e le vittime del genocidio siamo noi.

Col suo timbro mite Ieri, oggi e domani procede inesorabile, senza sconti:

La caduta del Muro di Berlino convinse l’opinione pubblica che fosse cominciata un’era nuova, quella della libertà. Anzi, ci fu persino un intellettuale americano, Francis Fukuyama, che sostenne una tesi molto audace. Secondo lui quell’eliminazione di un confine, simbolo di un conflitto tra due grandi sistemi sociali, aveva inaugurato nientemeno che la fine della storia umana – non più conflitti né divisioni ideologiche come quella fra comunismo e capitalismo. […] Tesi subito smentita: da allora il mondo intero ha visto sorgere moltissimi conflitti, tra nuovi stati e nazioni, ma soprattutto tra paesi ricchi e paesi poveri. Ci sono confini invisibili in natura, tracciati con segni di penna sulle carte geopolitiche, e ci sono confini sbarrati da costruzioni ostili di ogni genere – reticolati, muraglie, posti di blocco – sorvegliati da corpi militari.

Parole scritte in tempi non sospetti, prima che, il 7 ottobre di quest’anno, un muro costruito da una potenza nucleare venisse bucato da persone tecnologicamente più arretrate, accompagnate da radicalismi che fanno a gara con quelli dei loro carcerieri. Il tutto, con molte conseguenze. Effetti del buco o colpa del muro?

Chi vagheggia la fine della storia accettando che sopravvivano disuguaglianze e che non si facciano i conti con l’ingiustizia, non fa altro che tracciare nuovi confini invisibili, ostacoli complici delle costruzioni ostili; cioè premesse di duri regolamenti di conti, quando emerge brutale la realtà. Per questo lo storico non è, non può essere neutrale. Quando va bene è compagno d’armi dalla parte della giustizia, altrimenti è il contabile dei carnefici, il magazziniere di una macelleria. Ma l’autore non rivendica una fragile innocenza. Come dice Albert Camus, nessun uomo è del tutto colpevole, non ha dato inizio alla storia; e neppure del tutto innocente, visto che la prosegue. E Camus – guarda un po’ le coincidenze – nel 1937 consegna al suo taccuino le passeggiate notturne pisane, sciogliendo una prosa in cui ci si può illudere di sentir l’eco di Dino Campana: «La mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. […] Non esiste vita che non sia quella di cui lungo l’Arno i miei passi ritmavano la solitudine». Ci sono luoghi che raggiano incantesimi, e l’antica città morta, il porto sepolto che riposa su un limo di secoli, forse diffonde aure speciali, con cui la letteratura «ha molto da dire» a chi studia la storia. Magari, aure che tornano nel racconto perduto, velate in chiaroscuro da Antonio Tabucchi in Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa.

A chi legge il capitolo Periodizzare: che significa? Medioevo, Umanesimo, Rinascimento tocca la scoperta di un continente impalpabile, intrecciato alla questione della scansione del tempo, rivisitata attraverso la storia dei nomi attribuiti per convenzione alle epoche. Quei nomi d’uso sono pietre miliari che di solito si imparano a memoria, senza tener conto di chi le ha poste. E si nota qualcosa. Dal gomitolo della modernità sporge un filo:

Toccò a uno dei ricercatori, Poggio Bracciolini, scoprire nel 1417 mentre si trovava a Costanza, l’unica copia sopravvissuta del grande poema di Lucrezio, il De rerum natura. Fu un libro di cui si è detto (Stephen Greenblatt) che ha causato la svolta epocale (“the Swerve”) dell’apertura del mondo moderno. Dobbiamo riconoscere che quella scoperta non rivelò solo un capolavoro assoluto ma portò nella tradizione cristiana europea l’immissione di un diverso orizzonte mentale, quello del materialismo antico e dell’etica epicurea.

Si può aggiungere che, senza la riscoperta di Epicuro, quattro secoli dopo l’Umanesimo un giovane tedesco non avrebbe potuto scrivere la sua dissertazione sulla filosofia naturale in Democrito e in Epicuro. Senza quegli studi e quell’orizzonte, uniti al messianismo proprio della sua molteplice formazione religiosa e familiare, quell’intellettuale non avrebbe messo mano a studi storici ed economici diretti a cambiarlo, il mondo: si trattava di rivoluzionarlo, non solo di capirlo. Chissà se lui, il tedesco, Carlo Marx, quando si appartava nella biblioteca del British Museum meditando i fondamenti della sua opera, rivolse un piccolo grazie a Poggio Bracciolini. La storia è avara, di ringraziamenti sinceri, e forse è meglio così. Certi debiti non si possono mai pagare, restano come un angolo opaco, una periferia della vita che ci portiamo dietro come l’ombra.

Anche Ieri, oggi e domani, come Un tempo senza storia, sa vedere dritto nei rapporti di forza:

La svolta segnata dal crollo del sistema sovietico prese forma col crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca. E da allora la crescita economica della Germania ha di nuovo modificato l’assetto internazionale. È nata una unione europea che lega con vincoli economici e politici un assemblaggio di stati e staterelli dominati dalla Germania e, per il possesso dell’arma nucleare, dalla Francia.

Un «assemblaggio». Attraente, però; in buona parte perché si regge ancora su sistemi che fanno inospitali i luoghi e i contesti in cui è più duro lo sfruttamento della natura e delle braccia:

Resta il fatto che l’Europa esercita un’attrazione che porta a movimenti migratori di altri popoli. Ma intanto si è perduta la capacità politica di governare l’economia, ormai nelle mani di un’élite di ricchissimi imprenditori e speculatori finanziari. E l’idea di libertà della sua tradizione storica si è trasformata in senso individualistico, come privilegio personale.

Ieri, oggi e domani raccomanda attenzione per le storie sotto la storia. Già, perché gli storici, quando lavorano per il potere, non sono solo scopritori; spesso sono nasconditori. Civiltà complesse sono celate sotto la prepotenza di vincitori che si fingono eterni e che magari sono impegnati a far credere, anche tramite gli intellettuali, che le loro vittime fossero rozze e più crudeli di loro. Quegli storici seppellitori preparano il terreno al lavoro di altri che verranno a svelare, a decifrare, a ricostruire da dettagli, su dati apparentemente illeggibili o insignificanti, la presenza di mondi sommersi, sopraffatti, dimenticati. Altra carne intorno a ossa confuse. Questo non ci riguarda, s’intende. Si sta parlando di lontani paesi in condizione coloniale.

E invece no. L’intreccio fra dominatori e schiavizzati è sottile, il sangue sepolto è alla porta di casa: l’etrusca Veio, al pari della lontana Cartagine, è fra le vittime di Roma. Noi calpestiamo la nostra polvere. Ma se dovessimo districare il tessuto delle colpe e dei conti sospesi, troppe sorprese ci sconcerterebbero. Raab che favorì la conquista di Gerico da parte degli ebrei, e che Dante pone per prima, «raggio di sole in acqua mera», fra coloro che entrarono in paradiso riscattati dal Cristo, se sapesse cosa accade ora fra il Giordano, il Sinai e il mare, e poi si guardasse le mani, vedrebbe quelle di una santa, di una giusta fra i gentili, oppure quelle di una traditrice della sua città, di una locandiera malcontenta, di una prostituta? Gli storici di Canaan tacciono, e anzi Canaan stessa è diventata sinonimo di perversione, come Babilonia di peccato.

Ci stiamo abituando alle «guerre al male», alle rese dei conti. Le storie sotto la storia impongono di riflettere, di ascoltare inquietanti implicazioni e assonanze, anche quelle che nessun libro di storia o sulla storia può esprimere – neppure questo – perché l’oggetto sfugge sempre più in là, e chi studia la freccia del tempo non ha mai abbastanza tempo. Bella proposta, allora, suggerire di scavare il passato, anche quello immediato, quello sotto i nostri occhi tutti i giorni, che spesso contraddice le retoriche ufficiali: «Ma è possibile questo – si chiede Prosperi – nella scuola “del merito”? Chissà. Un fatto è certo. È tempo che si ridia valore al potenziale della conoscenza storica nella formazione dei giovani che debbono orientarsi nel mondo globale in cui si muovono».

Questo libro in formato quasi da tasca, anzi da zainetto, si congeda lasciando una consegna:

Questa testimonianza di un molto anziano studioso di storia si deve chiudere qui. Gli si impone di riconoscere che è tempo di lasciare ad altri la riflessione sul nodo ieri-oggi-domani. Chi riceve oggi dal futuro che gli viene incontro il dono del tempo presente potrà – dovrà – usarlo per creare un futuro vivibile, un mondo umano migliore di quello che gli lasciamo.

Neanche la storia è più quella di una volta. Lo sa chi, oggi, sta ricevendo il presente e prova a trarne le conseguenze: se si fanno chiamare Ultima generazione, è perché sentono che negli scricchiolii dell’Antropocene c’è un ultimatum. La garanzia di un domani, quella che permette al protagonista dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar, guardando la cifra 1491 incisa su una trave, di invertire mentalmente le cifre leggendo 1941 con la certezza che quell’anno verrà, ecco, quella garanzia non è più salda. Quindi muta anche il ruolo dello storico. A lui, di solito, si chiede di spiegare il passato, di mettere ordine in un sapere, senza intromettersi nel futuro. Gli si chiede, cioè, di non provare a fare. Adesso bisogna chiedergli una mano per potercelo permettere, un futuro.

Cos’altro chiedere, allo storico? Un’altra cosa ci sarebbe, e affiora tenendo presente di nuovo Carr: «Quando cominciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto, e solo in un secondo tempo dei fatti che esso prende in esame»[4]. Anni dopo, Claudio Pavone approva e chiosa: «Ovviamente, la prima cosa da contestualizzare è lo storico stesso»[5]. Del resto «la storia è il “conosci te stesso” dell’umanità, la sua coscienza», scrive Johann Droysen, che ha chiara la sostanza: «Il miglior vanto dello storico non è l’“oggettività”. La sua giustizia sta nel cercare di intendere»[6]. Si potrebbe dire, dunque, conosci lo storico. E soprattutto conoscilo se lo dice Droysen, che è stato studiato e tradotto da Delio Cantimori, maestro di Prosperi. Sto facendo citazioni, come quelli che si schiariscono la voce prima di dire qualcosa di imbarazzante. Allora.

All’inizio del cammino dell’autore, cosa c’è? Quale scintilla, quale miccia? Un sottile odore di carne umana, un ritrovamento fortuito che altri avrebbero trascurato, frainteso, deriso? Qualcosa – ancora Le ricordanze – nel «caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor»? Ahimé, gli storici non sempre ce la raccontano tutta. Per me, ricordo un pomeriggio pisano, in un luogo di tracce culturali e risorgimentali, il Caffè dell’Ussero. L’ora la rischiarava un sole dal riflesso marino. Prosperi, per un caso favorevole, quasi un «farsi storico di quello che non ha storia» cui l’ombra di Camus sui lungarni avrebbe dato corpo, sciolse intensi ricordi personali. Lo sfondo potrebbe essere quello nei versi di Mario Luzi, Dal fondo delle campagne; il tempo, certi anni del Novecento; nel basso Valdarno, in un paese all’acquerello, un ragazzo coglie al volo la sua curiosità e il suo destino. Forse un giorno vorrà scriverne.

 

 

[1] Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1976, p. 131.

[2] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, pp. 46-47.

[3] Prosperi, Un tempo senza storia, cit., p. 114.

[4] Carr, Sei lezioni sulla storia, cit., p. 27.

[5] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 117.

[6] Johann Gustav Droysen, Sommario di istorica, Sansoni, Firenze 1967, tit. orig. Grundriss der Historik, trad. di Delio Cantimori, capitoli Sistematica, p. 66, e Topica, p. 76.

 

 

 

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Sport e dintorni – Calcio e letteratura in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/sport-e-dintorni-calcio-e-letteratura-in-italia/ Thu, 13 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48612 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, romanzi, racconti e poesie, biografie e autobiografie, saggi di varia natura dedicati al calcio.
Grazie ad una minuziosa e rigorosa ricerca – a partire dalla raccolta di una vastissima gamma di documenti, padroneggiati con notevole competenza – Giuntini riesce pienamente nell’intento di fornire una mappatura ragionata delle relazioni tra dimensione letteraria e fenomeno calcistico che si inserisce nella storia socio-culturale del calcio italiano ovvero della disciplina sportiva che più di ogni altra cattura quotidianamente l’attenzione di milioni di persone.
Oltre a fornire molteplici spunti interpretativi, il saggio si segnala per la qualità della scrittura e per il solido impianto storico di un percorso che si snoda da fine Ottocento ai giorni nostri.

Il volume si apre con un capitolo sui primi manuali e regolamenti, mutuati principalmente dall’Inghilterra, che contribuiscono ad uniformare una pratica calcistica ancora disomogenea e con regole confuse. Nel contempo il football debutta sulle pagine della pubblicistica sportiva nella quale si distinguono testate come “La Gazzetta dello Sport” e il “Guerin Sportivo”. Inizialmente marginale rispetto ad altre discipline, il calcio conquista progressivamente uno spazio nei periodici, mentre nascono le prime riviste specializzate e fogli espressione di alcuni club calcistici.
Il panorama giornalistico si arricchisce anche grazie a due voci critiche: il “Corriere dello Sport Libero” – organo della Unione Libera Italiana del Calcio, sorta nel 1917 in alternativa alla FIGC con l’intento di diffondere il calcio tra le classi popolari – e “Sport e proletariato”, settimanale legato all’area socialista massimalista uscito nel 1923 e subito soppresso dal fascismo.
Giuntini segnala inoltre un episodio poco noto accaduto nel clima del “biennio rosso”. Nell’ottobre del 1920 le maestranze del “Guerin sportivo” occupano per alcuni giorni la sede torinese della rivista e danno alle stampe un’edizione autogestita nella quale denunciano l’autoritarismo del direttore e si propongono di dare al periodico un orientamento di classe. L’evento – unico nella storia della stampa sportiva italiana – si inscrive nel superamento dell’originario “antisportismo” socialista, in un contesto che vede la nascita di un associazionismo sportivo di classe promosso a Milano dai “terzinternazionalisti” vicini a Giacinto Menotti Serrati e a Torino dal gruppo de “L’Ordine Nuovo”. In questo quadro Giuntini dedica alcune pagine alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo.

Una parte rilevante della ricerca riguarda il periodo fascista, sul versante giornalistico e letterario.
Giuntini si sofferma inizialmente sul ruolo di Lando Ferretti e Leandro Arpinati – due personalità di primo piano del fascismo nonché dirigenti dello sport nazionale – nel dare impulso alla carta stampata sportiva e inquadrarla secondo le direttive del regime per la costruzione dell’”uomo nuovo” fascista.
Durante il fascismo il giornalismo sportivo cresce dal punto di vista quantitativo con una moltiplicazione delle testate, sempre più “calcistizzate”, e la copertura degli eventi sportivi da parte dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio e cinema). Tra i giornalisti che contribuiscono alla trasformazione della scrittura sportiva Giuntini indica in particolare due direttori de “La Gazzetta dello Sport”: Emilio Colombo, a cui si deve la nascita dello “sport epico”, e Bruno Roghi che fa scuola con il suo stile retorico ed enfatico e con il ricorso a metafore di matrice bellica funzionali all’esaltazione dei successi agonistici della nazione “guerriera e sportiva”.

La ricostruzione di Giuntini spazia poi da Massimo Bontempelli, lo scrittore che esalta il «vitalismo tipicamente fascista insito nella modernità dello sport», alle prove di scrittura sportiva di Alessandro Pavolini, uno dei principali «gerarchi-letterati del “calcio e moschetto”», da La prima antologia degli scrittori sportivi (1934) che comprende tra l’altro le Cinque poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, alla narrativa sul calcio nella quale si distingue Novantesimo minuto (1932) di Francesco Ciampitti, «il primo autentico romanzo calcistico italiano», capace di uscire dai canoni dominanti del romanzo sportivo fascista. Nel corso del Ventennio questo genere conosce una notevole fortuna – esemplificata ad esempio da La squadra di stoppa (1941) di Emilio De Martino, un best-seller della letteratura italiana per l’infanzia – anche grazie alle vittorie internazionali conseguite dagli “azzurri” di Vittorio Pozzo e all’attenzione del fascismo per il calcio.

Negli anni della dittatura non mancano posizioni critiche nei confronti dello sport di regime. Antonino Pino Ballotta in Tifo sportivo e i suoi effetti sottolinea «l’esasperata sportivizzazione promossa dal fascismo»; Cesare Zavattini smitizza «la tronfia retorica staraciana dello sport in “camicia nera”» attraverso alcune pagine del suo I poveri sono matti; su “Giustizia e Libertà” Carlo Rosselli denuncia il fanatismo sportivo alimentato dalla dittatura e Carlo Levi interviene con una serie di articoli che rappresentano «un autentico J’accuse nei confronti della politica sportiva fascista».

Venendo al dopoguerra, il saggio analizza il ritrovato interesse per il calcio da parte di scrittori e poeti che se ne erano allontanati, disgustati dalla strumentalizzazione fascista dello sport.
Mentre Italo Calvino scrive di sport su “l’Unità” e Alfonso Gatto e Vasco Pratolini celebrano con i loro scritti «il rito domenicale della partita», «la unica vera “religione laica” degli italiani del secondo dopoguerra», negli anni Cinquanta Gianni Brera – il “Gadda spiegato al popolo” secondo Umberto Eco – si afferma come protagonista di una lunga stagione del giornalismo e della letteratura sportiva. Giuntini analizza puntualmente i passaggi che portano Brera verso la costruzione di un linguaggio straordinariamente originale. La sua scrittura «affabulatoria, gigionesca e straripante» è frutto di «un esercizio di inventività “parolibera” infinito, in un codice linguistico “onomaturgico” impregnato di metafore e neologismi entrati nel parlato comune»: da “centrocampista” a “goleador”, da “incornare” a “libero”, da “melina” a “palla-gol”, da “pretattica” a “rifinitura”, da “Bonimba” (Roberto Bonisegna) al “Barone” (Franco Causio).

In pieno “miracolo economico” esce un importante romanzo di Salvatore Bruno (L’allenatore, 1963), mentre lo juventino Mario Soldati e l’interista Vittorio Sereni fanno filtrare in alcune opere la loro passione per il calcio. Un amore che traspare anche nella narrativa di Luciano Bianciardi chiamato nei primi anni Settanta, alle soglie della morte, da Gianni Brera a collaborare al “Guerin Sportivo” e di Oreste Del Buono, incarnazione dello “scrittore-tifoso” che trova nel tifo una fonte di ispirazione per un capitolo del suo romanzo I peggiori anni della nostra vita (1971).
Tra i grandi intellettuali italiani è poi Pier Paolo Pasolini – tifoso del Bologna, appassionato praticante e attento osservatore del calcio – a scrivere pagine preziose sullo sport e in particolare sul pallone spingendosi fino a tentare una lettura semiologica del fenomeno calcistico con i suoi “elzeviristi”» (Gianni Rivera e Sandro Mazzola) e i suoi poeti e prosatori “realisti” (Giacomo Bulgarelli e Gigi Riva).

Di sport scrive anche Giovanni Arpino cimentandosi in un’attività giornalistica che lo porta tra l’altro a seguire per “La Stampa” diverse edizioni delle Olimpiadi e dei Mondiali di calcio. Sarà l’ingloriosa eliminazione della nazionale italiana ai Mondiali tedeschi del 1974 ad ispirare il suo Azzurro tenebra (1977) – secondo Giuntini «il più importante romanzo, tra il reportage e il pamphlet, di questo scorcio di anni» – nel quale si esprime «una forte requisitoria contro la decadenza materiale e umana del football italiano».
Una denuncia che è al centro di Calci e sputi e colpi di testa (1978) di Paolo Sollier, militante dell’organizzazione della sinistra extraparlamentare Avanguardia operaia, uno dei calciatori più “politicamente scorretti” nella ridotta schiera degli “irregolari” del calcio, tra i quali si possono annoverare il calciatore-poeta Enzo Vendrame e Carlo Petrini con i suoi libri, pubblicati vent’anni dopo, su un football sempre più ossessionato da una ricerca esasperata del risultato e condizionato dal doping, dalle scommesse clandestine e dalle partite truccate.

Tra gli anni Ottanta e Novanta un profluvio di titoli e un impoverimento linguistico segnano «la mediatizzazione selvaggia vissuta dal calcio sempre più malato di “biscardismo” e di quel gigantismo sfrenato inaugurato con gli sprechi di “Italia ‘90” e proseguito con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e l’invasione delle pay-tv di Rupert Murdoch». L’antidoto al “biscardismo” è affidato alla penna di autori che tentano l’impresa «quasi folle e utopica di frenarne, con una buona letteratura, la grave decadenza umana e morale».
Ecco allora Dov’è la vittoria? Cronaca e cronache dei Mondiali di Spagna (1982) del dantista Vittorio Sermonti che avverte precocemente gli effetti nefasti della deriva biscardiana e qualche anno dopo, ai tempi del mondiale italiano degli affari e delle speculazioni e della craxiana “Milano da bere”, Il calciatore di Marco Weiss, un romanzo di formazione a sfondo calcistico, e Finale di partita, raccolta di scritti alla quale partecipano autori del calibro di Dario Bellezza, Gianni Celati, Franco Fortini, Cesare Garboli, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Antonio Tabucchi e molti altri.

Tra i tanti autori e titoli citati e commentati da Giuntini nel capitolo sulla scrittura come risposta culturale al “biscardismo” e sulle tendenze più recenti della letteratura a tema calcistico, spiccano per valore letterario e impegno civile La solitudine dell’ala destra di Fernando Acitelli, una storia del calcio in versi; alcune poesie di Loi, Giudici, Sanguineti e Roversi; Manlio Cancogni sulle tracce dell’”eretico” Zeman con il suo Il Mister, che Giuntini valuta come uno dei tre romanzi da ricordare nella storia della letteratura italiana sul calcio insieme a Novantesimo Minuto di Ciampitti e Azzurro tenebra di Arpino; Il portiere e lo straniero di Daniele Santi, un’opera tra storia e romanzo intorno alla figura dell’intellettuale-portiere Albert Camus; La farfalla granata, il libro di Nando Dalla Chiesa su Gigi Meroni. E ancora Edmondo Berselli che in Il più mancino dei tiri propone attraverso il calcio una rivisitazione politica, sociale e di costume dell’Italia e delle sue contraddizioni irrisolte, i romanzi sul calcio e i sentimenti di Roberto Perrone, Rembò di Davide Enia, Addio al calcio di Magrelli, Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo, la produzione sportivo-letteraria di Darwin Pastorin e le esperienze di scrittura sul calcio al femminile.

Oltre ad offrire una panoramica sulla ripresa degli studi storici sul calcio e sulle opere sociologiche e letterarie dedicate al tifo ultrà, in chiusura del volume Giuntini dedica due capitoli ad una sintetica rassegna sul calcio nel cinema e nel teatro, suggerendo altri spunti di riflessione e indicazioni per ulteriori approfondimenti.
Utile è anche la bibliografia posta in appendice al volume, mentre è discutibile la scelta editoriale di non avvalersi di un apparato di note, uno strumento che sarebbe stato prezioso per i lettori interessati a risalire puntualmente dalle numerose citazioni alle loro fonti. Un limite che comunque non inficia il notevole valore di una ricerca che rappresenta uno dei più importanti contributi recenti agli studi storici sullo sport.

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