Antonio Moresco – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 MUSICA STRANA – Intervista a Fabio Zuffanti https://www.carmillaonline.com/2016/12/20/musica-strana-intervista-fabio-zuffanti/ Tue, 20 Dec 2016 22:21:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35376 di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i [...]]]> di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i Pink Floyd, i Jethro Tull o i Deep Purple. Quella a cavallo tra anni Sessanta e Settanta fu una stagione creativa eccezionale (anche in Italia, a partire dai nostri Big Four: Area, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Orme) ma col passare del tempo i canoni esecutivi e compositivi del genere cominciarono a cristallizzarsi, specie dopo la crisi di fine anni Settanta, con l’affermazione del punk e della New Wave. Adesso progressive significava troppo spesso tempi dispari, inserti classicheggianti ed esibizioni autoindulgenti di virtuosisimo senza una reale tensione creativa. I cultori del genere si offenderanno ma la musica “progressiva”, col tempo, è diventata per molti sinonimo di scelte reazionarie piegate alla riproposizione e all’inseguimento di una mitica età dell’oro, anticipando la nostalgica conservazione che oggi investe tutto il rock “classico”. Per fortuna ci sono le dovute eccezioni, grazie a chi continua a pensare alla musica come un organismo vivente, che cresce affrontando nuove esperienze e si arricchisce senza star ferma in un recinto. È successo a livello mondiale con Steven Wilson e, in Italia, è sicuramente il caso di Fabio Zuffanti: un quarantenne genovese che del prog nazionale è un po’ il guru nonché il più popolare interprete, anche all’estero, con una carriera iniziata negli anni Novanta e ora nella massima maturità. Prolifico e mai fermo, Zuffanti è responsabile di band come i Finisterre o La Maschera di Cera, di progetti sinfonici sui generis come gli Höstsonaten, di rock opera, di innumerevoli collaborazioni e ovviamente di una produzione a nome proprio che comincia a farsi sempre più corposa e che annovera titoli di altissimo valore come La foce del ladrone e La quarta vittima.
Fabio: qual è il percorso che porta un ragazzo, negli anni Ottanta a decidere di suonare musica prog?
Credo sia stata una spinta inconscia, una sorta di attrazione, un tentativo di andare oltre le solite cose e cercare di esplorare mondi musicali diversificati. Sono cresciuto con un fratello maggiore che aveva una cameretta colma di dischi e libri. Erano gli anni Settanta e io ero bambino, i suoni che uscivano dalle casse erano spesso quelli di King Crimson, Genesis, Gentle Giant e altri similari. Musiche (e copertine, fattore che scatenava ancora di più la fantasia) delle quali subivo la fascinazione, pur non capendo bene chi o cosa fossero. Ma non solo, il fratello era abbastanza onnivoro musicalmente e verso la fine del decennio prese ad ascoltare anche Talking Heads, Clash, Joe Jackson e altra New Wave assortita. Ecco quindi che mi ritrovo a 14 anni, 1982, ad avere già assorbito un bel po’ di mondi musicali. Io dal canto mio all’epoca scoprivo il Battiato “pop”, i cantautori, altra New Wave di stampo più elettronico (Ultravox su tutti). Scatta anche la voglia di imparare a suonare la chitarra; il solito fratello era stato bassista in alcune formazioni cittadine e lo strumento campeggiava nella sua camera assieme ad alcune chitarre e a una pianola elettrica. Insomma, tanti strumenti e da parte mia la voglia di scoprirli. Così mi metto di buona lena e riesco a cavarne qualcosa. Per me il metodo DIY era, e resta, il più funzionale quando voglio imparare qualcosa, non ho mai avuto un maestro di musica o cose del genere. Mi ci butto e fino a che non riesco a trovare un modo per esprimermi non ne esco. Così ho fatto con gli strumenti. Alla fine tra tutti quelli che armeggiavo ha vinto il basso che reputavo il più affascinante, ritmo e note allo stesso tempo, un qualcosa anche di molto sensuale se vuoi, con quelle frequenze che ti prendono allo stomaco. A metà anni Ottanta al liceo scoppia la U2-mania. Da lì a mettere su una band per eseguire cover degli irlandesi il passo è breve. Ma a quel punto io sono già imbevuto di tonnellate di ascolti diversificati e ogni volta che si tratta di comporre qualcosa di personale ecco che scatta la voglia di metterci il cambio di tempo, l’assolo più lungo del previsto, la stranezza. Ma facevo ciò in maniera del tutto inconscia, solo non reggevo di fare quattro/cinque/sei pezzi sempre uguali e con la stessa struttura strofa/ritornello. Dovevo sempre mischiare un poco le carte in tavola, ma non per volere fare prog a tutti i costi, ma perché non amo le cose che sono sempre e solo uguali a loro stesse, ho bisogno di variazioni, di sorprese, di contaminazioni impreviste. Dopo il gruppo del liceo, ad inizio Novanta entro in una band chiamata Calce & compasso, di stampo blues/cantautorale. E anche lì, appena presa un po’ di confidenza, ecco scattare i miei input per allungare i pezzi, per mettere nella stessa canzone più elementi. Il gruppo nel 1993 cambia nome in Finisterre e a quel punto la metamorfosi è completa. Complice anche l’ingresso di Boris Valle, un tastierista imbevuto di classicismo, minimalismo e studio della contemporanea (Berio, Nono, etc.) i Finisterre diventano una band prog. Ma l’idea di base non è mai stata quella di rifare i Genesis, semmai quella di scardinare le strutture e inserirci dentro più elementi possibile. Non siamo  mai stati dei nerd del prog per cui o c’è il sinfonismo alla Genesis, Yes e EL&P o niente: ho troppe cose in testa, troppi ascolti e influenze variegate, per fermarmi a un solo aspetto del meraviglioso mondo progressive.
Perché il prog è stato considerato un genere “di destra”? Tu hai mai sofferto questa identificazione?
Assolutamente no; a Genova nei primi Novanta suonavamo spesso coi Finisterre in eventi organizzati dalla FGCI e nessuno di noi aveva idee destrorse, anzi, e mai nessuno ha osato tirarmi fuori discorsi sul prog di destra e cose del genere. Mi sarei arrabbiato molto. Il tutto nasce dal fatto che negli anni Settanta questa musica aveva una patina un poco ambigua, da una parte era seguitissima e molto apprezzata da tutti i giovani del Movimento, dall’altra raramente prendeva posizioni politiche. Spesso i testi erano favolistici, metaforici, psicologici. In realtà invece tutto ciò nascondeva grandi riflessioni nei confronti dell’esistenza, ma era un qualcosa che bisognava sforzarsi di andare a cercare, non era subito messo in evidenza. Da questo punto di vista vinceva chi mostrava in pieno la sua militanza, vedi gli Area. Avevano vita dura invece formazioni tipo il Museo Rosenbach: misero in copertina un collage nel quale spicca un busto di Mussolini. Il gruppo venne bollato come destrorso e la loro carriera ne risentì molto. Chiaramente sono aberrazioni, il Museo Rosenbach non intendeva certo fare l’apologia del duce, trattando però un concept sullo Zarathustra nietzschiano c’era di mezzo anche tutto un discorso sul potere, da qui il riferimento. Sono cose un po’ più sottili, alle quali accostarsi con un’adeguata apertura mentale.
Il prog come lo intendi tu è una musica effettivamente “progressiva”, secondo il significato originale del termine, senza barriere. Io oggi questa libertà però la vedo soprattutto in certo jazz e in tutte le esperienze musicali indefinibili, che fuggono programmaticamente un genere.
Il prog per me è una palestra che in primis mette in gioco me stesso e la mia apertura verso altri mondi, musicali e non. E la libertà che esprime è impagabile. Come dici tu, oggi come ieri, è il jazz che cerca sempre la contaminazione ma non credo che il prog abbia perso la sua voglia di abbattere steccati. Mi spiego: ascolto tanti demo e cd di gruppi giovani ed è vero che in molti casi questi cercano sempre di scimmiottare gruppi importanti, ma ci sono anche ragazzi che si trovano in sala e non si accontentano di fare la canzone da tre minuti e stop. Certo volte esagerano coi virtuosismi, con le seghe mentali e con strutture troppo complesse ma l’approccio è quello giusto: non fermarsi, andare oltre! Quindi è comunque un esercizio che fa bene, alle mani e alla testa. Poi c’è sempre tempo per affinare la proposta, cercare l’originalità e comporre musiche che arrivino veramente.
a4183923227_10Il mio essere onnivoro a volte ha fatto sì che avessi il desiderio di fare magari un passo indietro rispetto alle strutture “aperte” del prog e mi venisse voglia di fare il percorso opposto, ovvero provare a vedere cose succedeva se deliberatamente mi richiudevo entro le strutture della canzone tout court. È un modo come un altro da parte mia di abbattere uno steccato, solo che invece di combatterlo mi ci rinchiudo cercando di capire come posso cambiarlo da dentro. Con i Finisterre abbiamo sperimentato più volte con la forma-canzone e io in particolare le ho dedicato un intero album (La foce del ladrone, del 2011). Il disco è andato benissimo ma il responso da parte della frangia più oltranzista dei miei fan è stato disastroso. Non ci sono state nemmeno critiche negative, ma proprio disinteresse. Fortunatamente una parte del pubblico che mi segue è curioso, altri tirano su la testa solo quando leggono i nomi Höstsonaten, la Maschera di Cera, Finisterre, ovvero nomi sicuri e dalle quali non ci si vuole attendere sorprese. Mi dicevi di avere trovato in Autumnsymphony di Höstsonaten diversi elementi jazz che potrebbero non dispiacere a un ascoltatore di quel genere: quell’album è stato uno dei meno capiti di Höstsonaten. Detto ciò io comunque faccio la mia strada e se mi venisse voglia di fare un disco rap lo farei.
Tu sei molto attivo: pubblichi, produci, scrivi. Sei un punto di riferimento nel genere che suoni. Perché non si riesce ad aggregare tutte le energie che ci sono in giro? È un problema storico attuale o più una peculiarità negativa dell’Italia?
La tua domanda è il quesito del secolo per me. Ciò che posso dirti è che conduco da anni una lotta per l’abbattimento di molti steccati. Posso essere anche d’accordo con chi preferisce “schierarsi” a favore di un genere piuttosto che un altro e sposarne filosofia e peculiarità; il metallaro, il jazzofilo, l’indie rocker, il classicista, il dark e via dicendo. Ma ci deve essere anche una strada che inglobi tutte le direzioni, anzitutto perché di curiosi come me ce ne sono molti più di quanto si pensi e poi perché mischiare le carte fa sempre bene all’elasticità mentale. Invece è tutto molto chiuso e settoriale, lo vedo col progressive: ad ogni evento ci sono solo gruppi prog che si portano dietro il (selezionatissimo) pubblico prog e quindi non se ne esce. Invece sogno concerti dove ci siano artisti diversi a condividere lo stesso spazio in modo che sia chi sta sopra il palco sia chi sta sotto possano arricchirsi, a livello di conoscenze ed emozioni. Purtroppo prevalgono i compartimenti stagni, le piccole nicchie che non comunicano tra loro. Io cerco di rendermi più trasversale che posso, specie nella frequentazione e collaborazione con musicisti diversi che possano aprirmi a nuove esperienze. Non me ne frega nulla di chiamare Steve Hackett a farmi un assolo su un disco, è la cosa più banale e poco “progressiva” che potrei fare. La sfida è chiamare, chessò, Manuel Agnelli a cantare una suite da venti minuti. Vedere cosa ne ricavo io e cosa ne ricava lui, da questa unione. Solo mettendo assieme esperienze diverse, senza paura e con la giusta forma mentis si potrà creare qualcosa di grosso e uscire per una buona volta da questa impasse infinita. Ogni anno organizzo il mio Z-Fest e cerco di proporre proprio questo; trasversalità! È dura ma con il giusto impegno i risultati non mancano.
In Italia si riesce a vivere di musica, al di là dei generi?
Non posso parlare dei colleghi perché ognuno ha la sua storia, le sue esperienze, le sue esigenze e le sue fortune o sfortune. Personalmente, dopo anni di sacrifici, sono arrivato al punto di riuscire a pagare l’affitto, le bollette e quel poco che mi serve per vivere. Certo, propongo cose non proprio popolari, quindi un po’ questa fatica me la sono anche cercata ma questo è quello che il mio cuore mi dice di fare e questo faccio. Sopravvivo grazie alle vendite dei dischi, ai diritti d’autore, alle produzioni per altri artisti, ai libri e a tanti lavori in campo musicale. Più difficile, invece, vivere di solo live.
fabio-zuffanti-zband-20Chi è che racconta l’Italia di oggi, adesso, secondo te? Sono veramente i rapper?
Mah, se il rapper sa raccontare bene e riesce a essere veramente lo specchio dei nostri giorni, come lo sono stati in diverse epoche molti altri autori, perché no? Ma il rapper deve essere tosto, io ad esempio amo molto Dargen D’Amico, uno che sperimenta con le parole e con la musica e quando rappa quello che dice colpisce: è intelligente, ha cultura e poesia. Oppure apprezzo certo rap militante (penso agli storici Assalti Frontali). Purtroppo il rap oggi è al 90% una cosa da ragazzini con storie da e per ragazzini. Anche quello è un modo di raccontare il mondo di oggi, quindi ci sta, però io non riesco ad ascoltarlo. Certo rap adolescenziale non lo ascoltavo a 16 anni, figurati ora. A parte poche eccezioni trovo i cantautori di oggi (specie quelli indie) molto deludenti, a volte dei poseur buoni solo per far breccia su un pubblico che si accontenta e segue la moda del momento. Bada: detto questo, non sono assolutamente oltranzista nei confronti dell’indie italiano. Anzi, è una realtà che mi incuriosisce assai perché nell’indie tutto sembra possibile, musiche “strane”, personaggi fuori dagli schemi, robe anti-classifica. È tutto più libero! Inoltre c’è un ottimo giro concertistico, bei locali, un pubblico folto, curioso, acculturato. Il rovescio della medaglia è che se non rispetti certe caratteristiche – anche proprio fisiche, di abbigliamento e atteggiamento – non puoi far parte di quel giro. Un giro fatto di etichette, siti e situazioni varie che rappresentano comunque una delle poche valide alternative al pop mainstream.
Gli artisti che apprezzo nel giro indie (e dei quali, in alcuni casi, sono amico e collaboratore) sono tanti. Te ne cito alcuni: Bachi Da Pietra, Beatrice Antolini, Alessandro Grazian, Colapesce, Fuzz Orchestra, Giardini Di Mirò, I Cani, Iosonouncane, Julie’s Haircut, Massimo Volume, Teatro Degli Orrori, Bologna Violenta, Mariposa… Tutta gente che come me ha un approccio che mette innanzi a tutto la voglia di esprimere qualcosa con qualsiasi mezzo e qualsiasi sforzo, prima della tecnica strumentistica. Loro sono un po’ dei figli evoluti del punk. E anche io mi sono sempre sentito facente parte di quella scuola. Però ho fatto prog che è un po’ un controsenso… ma io nei controsensi ci sguazzo: vuoi mettere la soddisfazione di quando riesci a fare qualcosa passando per la strada meno agevole?
C’è qualche esperienza prog italiana storica, tolti PFM, Banco, Orme e Area, che tu reputi straordinaria? Una chicca da consigliare ai nostri lettori?
Ne cito una per tutte, in quanto stella di prima grandezza: Ys del Balletto di Bronzo. Anno 1972, un album incredibile, tra sinfonismo novecentesco alla Bartok/Messiaen/Stravinskij, rock acido e delirante, atmosfere lugubri e opprimenti. Per me un must, uno dei dischi più rivoluzionari partoriti in terra italica.
Prima hai citato tuo fratello. E tuo padre come vedeva questa “tua” musica?
Anche lui suonava la chitarra e, ancora prima di mio fratello, mi ha insegnato i primi accordi. Era un grande appassionato d’opera ma non era chiuso ad esempio nei confronti del rock. Sapeva quali erano i suoi gusti e li coltivava, pur con le ristrettezze di mezzi della nostra famiglia, che lui sosteneva con il lavoro di operaio all’Italsider. Poi invecchiando forse non ha mai compreso bene quello che facevo, perché avessi compiuto scelte così impopolari a livello sociale (fare il musicista piuttosto che un altro lavoro più remunerativo) e soprattutto non capiva come mai, se facevo così tanti dischi e della gente mi stimava, non ero diventato ricco e famoso. Domande alle quali non sapevo rispondere, se non dicendo che faccio musica “strana”, particolare, per un pubblico di nicchia. Se ne è andato lasciandomi il rammarico di non avergli fatto capire a fondo a cosa hanno portato (nel bene e nel male, indipendentemente da fama e soldi) quei due accordi che mi ha insegnato quando avevo 13 anni.
Su cosa stai lavorando adesso?
In questo periodo sono molto concentrato sulla preparazione del mio nuovo album solista, previsto per l’autunno 2017. Con questo lavoro sto esplorando una via “rivoluzionaria” al concetto di prog ed è possibile seguirne lo sviluppo sulla mia pagina Facebook. Poi a gennaio uscirà un progetto a cui ho preso parte, promosso da Mox Cristadoro, nel quale, con altri amici musicisti, ci siamo divertiti a stravolgere e rendere prog, hard e psichedelici diversi pezzi di cantautori italiani storici. Inoltre ho in via di pubblicazione un album noise-metal con il progetto R.U.G.H.E., la registrazione di un reading assieme allo scrittore Antonio Moresco e un EP di canzoni “out” e a marzo sarò a Milano con la nuova edizione dello Z-Fest, il mio mini-festival, prima di partire per un tour in nord America. Non starò fermo, insomma!

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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I Quaderni Quadroni di Rrose Sélavy – Intervista a Massimo De Nardo https://www.carmillaonline.com/2015/08/09/i-quaderni-quadroni-di-rrose-selavy-intervista-a-massimo-de-nardo/ Sun, 09 Aug 2015 04:01:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24330 di Simone Scaffidi L.

toposognatore_m[Massimo De Nardo è il responsabile editoriale di Rrose Sélavy, casa editrice di Tolentino (MC) che si occupa di narrativa illustrata, vincitrice nel 2014 del Premio Andersen per il miglior progetto editoriale].

Cominciamo dal nome, come nelle peggiori interviste. Rrose Sélavy è uno degli eteronimi utilizzati da Marcel Duchamp per firmare alcune sue opere, nonché l’anagramma fonetico di “Eros c’est la vie”. Quali connessioni esistono tra Rrose Sélavy Editore, Marcel Duchamp e il suo eteronimo? Quali i punti in comune e le divergenze tra [...]]]> di Simone Scaffidi L.

toposognatore_m[Massimo De Nardo è il responsabile editoriale di Rrose Sélavy, casa editrice di Tolentino (MC) che si occupa di narrativa illustrata, vincitrice nel 2014 del Premio Andersen per il miglior progetto editoriale].

Cominciamo dal nome, come nelle peggiori interviste. Rrose Sélavy è uno degli eteronimi utilizzati da Marcel Duchamp per firmare alcune sue opere, nonché l’anagramma fonetico di “Eros c’est la vie”. Quali connessioni esistono tra Rrose Sélavy Editore, Marcel Duchamp e il suo eteronimo? Quali i punti in comune e le divergenze tra le vostre creazioni letterarie e l’opera dell’artista francese?

Marcel Duchamp ha estremizzato a tal punto la concettualità dell’arte che ha reso possibile tutto ma allo stesso tempo ha reso tutto più difficile. Dopo cento anni dal suo “orinatoio-fontana”, l’arte è ancora oggi troppo duchampiana. Marcel Duchamp è il nostro nume tutelare, però con i Quaderni quadroni non c’è alcuna “connessione”. Scrittura e immagini quando raccontano qualcosa a qualcuno e producono buone sensazioni vanno bene con qualsiasi “ismo”. Nasciamo come associazione culturale, e, come vuole la tradizione, c’era da trovare un nome. Rrose Sélavy era un nome già bell’e pronto, come un ready made (duchampiano, appunto): nome di donna, nome con anagramma, nome tutto un programma. Un omaggio, comunque, a quel signore francese molto british, grande giocatore di scacchi e, da non sottovalutare, amico fraterno di Man Ray, un altro che ci piace assai. Rrose Sélavy, perché no? La doppia erre fa finire in spam non poche email, ma va bene lo stesso.

In due anni avete sfornato otto titoli, tutti di narrativa illustrata. Sette dei quali inseriti nella collana “Quaderni quadroni” e uno nella collana “Quaderni cartoni”. Il formato e la fattura delle vostre pubblicazioni sono piuttosto inconsueti e originali, le dimensioni del libro sono infatti di 23×27 cm e spiegano in parte il nome dato alla collana più feconda, mentre pagine e copertine sono realizzate in carta usomano e stampate in quadricromia. Insomma tenete alla forma oltre che ai contenuti.

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I Quaderni Quadroni

Quadrone, cioè grande quadro – per via delle illustrazioni a piena pagina e a pagina doppia – è l’anagramma di quaderno. Il formato 23×27 (chiuso) è certo più da quaderno che da libro. O da rivista. Anni fa pubblicavano una rivista (ne parliamo dopo?), Rrose(non poteva chiamarsi con un altro nome), e 23×27 centimetri era il suo formato. La carta “usomano” è una “magnifica-brutta bestia” per chi stampa: alla prima prova assorbe il colore quasi a spegnerlo, e allora bisogna star lì, con dei bravi tipografi, a seguire, evidenziare, aumentare, diminuire (macchinari hi-tech da mandare in gloria il vecchio Gutenberg). Il risultato però è di grande raffinatezza. Ne sanno qualcosa gli illustratori. Teniamo alla forma perché oltre ad essere l’involucro della sostanza coinvolge subito lo sguardo. Un po’ come un amore a prima vista. Ci piacerebbe che fosse così: amore a prima vista.

Spiegaci cosa c’è dietro e dentro a un Quaderno quadrone: come lavorate con narratori/trici e illustratori/trici, come li “accoppiate” e come avviene la scelta delle storie da raccontare.

Dietro ad ogni Quaderno quadrone c’è la giornaliera normalità: desideri, ansie, rapporti con i librai, conti da far quadrare, copie da spedire, recensioni da acchiappare con fatica, pubbliche relazioni, editing, concorsi, festival, aggiornamento del sito, facebook, twitter, email, studio della concorrenza. E molta lettura (libri, giornali, riviste di settore, internet), molta curiosità.

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Illustrazione di Gianluca Folì

Nei progetti, continuiamo con la nostra iniziale linea di condotta: coinvolgere scrittori che non hanno scritto (o scritto poco) per ragazzi. L’80% dei nostri libri sarà ancora così. Stiamo preparando altri “Quaderni cartoni”, dedicati ai più piccoli. Ne abbiamo uno, per il momento, Re Micio di Roberto Piumini (una storia di amicizia in quaranta quartine), illustrato dal bravissimo Gianluca Folì (già qualche riconoscimento negli USA). Dobbiamo raggiungere quel 20%, tutto dedicato ai più piccoli, senza tuttavia avvicinarci ai “primi passi”, verso i quali bisogna essere molto preparati e attrezzati.

Stiamo ricevendo manoscritti e illustrazioni da giovani autori, proposte che valutiamo a prescindere dal nome e cognome. Vorremmo essere più “sperimentali”, ma ancora non si può. Anche con scrittori e illustratori non proprio inediti (in senso ampio) l’azzardo c’è comunque. A noi il gioco d’azzardo non piace, ma mettersi in gioco sì.

Le storie da raccontare le sceglie chi scrive. Noi chiediamo solo che nel racconto ci siano delle piccole sorprese, delle violazioni. Sono dei racconti, e quindi qualcosa deve accadere già dalle prime pagine. La qualità della scrittura va da sé, deve essere di qualità “per sua natura”. Poi decidiamo chi potrebbe essere l’illustratore, sulla base delle atmosfere che il racconto ha suscitato. Piena libertà anche per lui. Senza escludere qualche nostro suggerimento. Diamo molto valore anche alle introduzioni, che chiediamo a scrittori già noti (Stefano Bartezzaghi, Lidia Ravera, Sandra Petrignani, Beatrice Masini, Grazia Verasani), che con le loro riflessioni aggiungono qualità ai Quaderni. I nomi in copertina – autori, illustratori e prefatori – hanno tutti democraticamentelo stesso corpo tipografico.

Siete riusciti a coinvolgere nella realizzazione dei vostri “Quaderni quadroni” narratori e illustratori affermati nel panorama letterario italiano: Franco Arminio, Loredana Lipperini, Bruno Tognolini, Roberto Piumini, Carlo Lucarelli, Antonio Moresco, passando per Tullio Pericoli, Paolo d’Altan, Simone Massi, Gianluca Folì, Mauro Cicarè, e arrivando all’ultima freschissima pubblicazione di Paolo Di Paolo illustrata da Gianni De Conno e con l’introduzione di Mario Martone. Come avete fatto? Seppur di qualità siete una realtà ambiziosa ma editorialmente piccola.

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Illustrazione di Tullio Pericoli

Breve cronistoria. Una buona combinazione mi ha fatto conoscere Tullio Pericoli, che ringrazierò sempre. Il nostro Che mestieri fantastici! è ormai esaurito. Con questo unico Quaderno siamo stati ospiti nella trasmissione di Corrado Augias, Le storie. 2 aprile 2013. Un bel colpo, ma non di fortuna, perché molto più realisticamente quando facemmo la proposta ad Augias c’erano pur sempre le immagini di Pericoli, immagini che gli avevamo chiesto in prestito: ci servivano le sue nuvole, i suoi libri volanti. Come accennavo, pubblicavamo una rivista, Rrose, sulla creatività. Il Quaderno dei “Mestieri fantastici!” doveva essere una sorta di inserto straordinario, un fuori collana. Tant’è che questo Quaderno self-publishing (self, nel senso più autentico, perché i mestieri sono due miei racconti, Il riparatore di nuvole, Il cercatore di parole) è stato per parecchi mesi l’unico progetto. Che è piaciuto, molto apprezzato – come si dice – dalla critica e dal pubblico. Così abbiamo continuato, ma senza programmi editoriali, indagini di mercato e previsioni. E investimenti vicini allo zero. Tutto il contrario di quello che dovrebbe essere. E quindi la fatica è colossale. Abbiamo fatto una proposta a Franco Arminio e poi – una volta letti i suoi brevi racconti che parlavano di animali che parlavano a noi e di noi – a Simone Massi (del quale conoscevano le video-storie), che ha disegnato in modo superlativo quegli “animali di paese”. Anche Franco, per noi, è stato un “apri pista”. Poi abbiamo chiesto un racconto a Loredana Lipperini, e lei ha scritto la storia di una dolce e battagliera Pupa (sua mamma), illustrata splendidamente da Paolo d’Altan. E fin qui, due scrittori che non avevano mai scritto per ragazzi. Avevamo tre Quaderni, davvero nulla anche per una piccola casa editrice. Aver coinvolto due scrittori non per ragazzi ha in qualche modo caratterizzato Rrose Sélavy. Nell’editoria di questo genere, da un lato ci sono i cartonati, e certo non puoi competere perché sono per la maggior parte prodotti poco editoriali e molto merchandising (nascono prima in tv), e dall’altro lato ci sono i romanzi per gli adolescenti, e anche qui non puoi competere (gli editori hanno giornali e televisioni per le promozioni). Non abbiamo cercato “originalità” a tutti i costi, ma solo provato a dare forma a quello che in parte già avevamo e che ci piaceva. Poi è arrivato il Premio Andersen per il progetto editoriale. Aiuta a presentarsi con un biglietto da visita non più scritto su un post-it. E cominci a crescere, a raccogliere esperienza (l’esperienzaccia, come dice un nostro caro amico che fa il prof alla Sapienza). Tutto rose (una sola erre) e fiori? No. Quando investi strada facendo (quasi una combinazione da automobil-club) puoi solo andare avanti a piccolissimi passi, e sembra di trovarsi nello stesso punto. Ma noi di Rrose Sélavy siamo testardi, sognatori, ingenui e appassionati (eros c’est la vie). «Se puoi sognarlo puoi farlo» diceva Walt Disney. Vale anche per noi.

Vi definite una casa editrice per ragazzi e per bambini – e per ragazze e bambine, aggiungiamo pure – ma le storie che proponete hanno un respiro ampio, difficilmente incasellabile fra due confini anagrafici. Segnalando Pupa, il Quaderno quadrone scritto da Loredana Lipperini e illustrato da Paolo d’Altan, Alberto Prunetti ha colto nel segno scrivendo: «Non so se passarlo a mia sorella perché lo legga al mio nipotino (3 anni) o se passarlo a mia mamma perché lo legga a mia nonna (95 anni)». Questa massima, tanto evidente in Pupa, può senza dubbio essere estesa alle altre vostre pubblicazioni. Credete davvero di essere una casa editrice esclusivamente per ragazzi e ragazze, bambini e bambine?

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Illustrazione di Paolo d’Altan

Spero che il bravo Prunetti (che ha colto davvero nel segno) abbia passato Pupa a tutta la famiglia: nonna, mamma, sorella e nipotino, senza scegliere questo o quel parente. Faremo nostro il passa-Pupa di Prunetti. Anche gli altri Quaderni quadroni sono un po’ per piccoli e un po’ per grandi: le belle storie sono dedicate a tutti. Comunque, servendo una immediata definizione, siamo una “casa editrice per ragazze e ragazzi, bambine e bambini”. Fermo restando che alla fine è l’adulto che acquista il libro. Un dato di fatto, questo, che banalizza il concetto.

Abbiamo chiesto a molti librai di suggerirci il costo di copertina dei nostri libri. A conti fatti, riusciamo a non pesare troppo sulla spesa famigliare. Ecco, l’acquisto di un libro dovrebbe essere una normale voce di spesa in una normale famiglia: più o meno ogni giorno al supermercato, e almeno una volta al mese in libreria.

]]> Antonio Moresco: La lucina https://www.carmillaonline.com/2013/05/16/antonio-moresco-la-lucina/ Wed, 15 May 2013 22:01:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5305 di Mauro Baldrati

MorescoMoresco ha definito La lucina “un libricino”. Forse lo è, se paragonato ai precedenti romanzi: Gli esordi (673 pp), Canti del Caos (1092 pp), Lettere a nessuno (728 pp). Eppure, con le sue 167 pagine (foliazione sulla quale alcuni autori nostrani ci farebbero su una trilogia, giocando con le pagine di cartone, i caratteri e i margini), questo romanzo breve è tutt’altro che “ino”. Non che sia di per sé un difetto, o una minorazione. Moresco ha il gusto del piccolo, del minuscolo, lui che esplode con romanzi espansi, a tratti violenti, deflagranti. Il bambino ha le “manine”, [...]]]> di Mauro Baldrati

MorescoMoresco ha definito La lucina “un libricino”. Forse lo è, se paragonato ai precedenti romanzi: Gli esordi (673 pp), Canti del Caos (1092 pp), Lettere a nessuno (728 pp). Eppure, con le sue 167 pagine (foliazione sulla quale alcuni autori nostrani ci farebbero su una trilogia, giocando con le pagine di cartone, i caratteri e i margini), questo romanzo breve è tutt’altro che “ino”. Non che sia di per sé un difetto, o una minorazione. Moresco ha il gusto del piccolo, del minuscolo, lui che esplode con romanzi espansi, a tratti violenti, deflagranti. Il bambino ha le “manine”, con le quali lava i piatti, mette in ordine, fa le pulizie nella “casina” dove vive. Quella casina dove, appunto, ogni sera si accende la “lucina” che il protagonista, seduto davanti alla sua, di casina, su una sedia con le gambe di metallo che affondano nella terra, osserva con curiosità, con inquietudine. Chi abiterà in quella parte di bosco, dove la vita umana sembra bandita?

Intanto l’uomo conduce la sua esistenza, in ritiro assoluto dal mondo, una sorta di eremita che passeggia per i boschi. Osserva la complessa, intensa, “pazza” vita animale e vegetale che fiorisce intorno a lui. Una vita cruenta, con aspetti di violenza che hanno fatto parlare alcuni commentatori di natura leopardiana. Ma lo stesso Moresco ha chiarito che la sua non è la concezione di Leopardi: a prevalere non è l’aspetto crudele, predatorio, quanto il mistero, insondabile, delle varie forme di vita e del loro comportamento. Sembra di sentire la canzone di Vasco: “Voglio trovare un senso a tante cose/anche se tante cose un senso non ce l’ha”. Che senso ha la vita della “lucina”, la lucciola, che per poche notti all’anno non fa che volare con l’intestino che pulsa di luce, con l’unico scopo di accoppiarsi per poi morire? E le rondini, creature ipercinetiche che sfrecciano e gridano tutto il giorno sfiorandosi l’una con l’altra, senza mai confliggere? Possibile che non si fermino mai, un solo minuto? Perché? Si chiede. Perché questa luce, questo spazio, perché questo tempo? Perché questa vita? Sono le domande ancestrali, eterne, che si pone l’uomo di fronte al mondo e all’inconoscibile.

Ma la bravura di Moresco, la sua genialità, sta nell’economia perfetta della scrittura, né minimalista né ridondante, senza il minimo spreco di descrizioni, o di riflessioni filosofiche. Usa una tecnica collaudata ma delicata, quella di fondere la scrittura col paesaggio, quasi non esistesse il concetto di narrazione, ma di scrittura che diventa parte della realtà stessa, una sua emanazione, una sua variante. Scrittura materialistica, verrebbe da definirla, di materia solida, vegetale, organica, minerale. Sembra un paradosso, eppure alcuni scrittori riescono in questa impresa con precisione millimetrica. Un altro autore che sa gestire questa tecnica è, per esempio, il ligure Marino Magliani.

Intanto noi sappiamo. Noi lettori. Sappiamo come procede, prima di voltare pagina. Sappiamo che il narratore andrà a curiosare, si avventurerà per un sentiero impervio con la sua macchina scassata, senza tempo né marca, per scoprire chi accende la lucina.

Non crediamo di sconfinare nello spoiler se riveliamo la sua identità. Durante le presentazioni del libro Moresco si sofferma più volte sul bambino. E già a metà del racconto sappiamo che si tratta di un bambino. Morto. Un bambino morto risorto. Un sopramorto, lo definirebbe Chiara Palazzolo, anche se non divora i suoi simili. E’ un bambino che vive completamente solo nella casina. Ha la testa rapata, lava i piatti in piedi su una cassetta, per arrivare al secchiaio, e fa i compiti. Perché va a scuola, nel piccolo, sperduto paese, dove vanno anche i bambini vivi, ma in una classe a parte, notturna, riservata ai bambini morti, con un bidello morto. Tira fuori il quaderno da una “cartella”, di quelle che andavano una volta, negli anni Sessanta. Una matita, una gomma, e si applica con impegno, con lentezza, con la testa china sul foglio.

Il narratore è stupefatto. E attirato. Affascinato. Cerca di entrare in contatto, quando il bambino ha un po’ di tempo libero. Riesce a fare amicizia, a farsi raccontare la sua storia di emarginato, di bambino scarsamente abile, tonto quasi, eppure così tenace, così assolutamente ostinato, fino alla rabbia.

Noi lettori sappiamo. Perché Moresco mette i codici, i segni. Sappiamo, perché l’ha rivelato lui stesso, che è tutto vero. Ha veramente trascorso un periodo in totale isolamento in una casa tra i boschi, in montagna. Ha veramente incontrato quella sorta di hellhound con le gambe spezzate, che l’ha seguito fino a casa. Sappiamo che c’è un rapporto stretto tra l’uomo e il bambino morto. Che il confine tra la vita e la morte è più stretto di quanto non sembri. Che prima o poi troverà il punto di unione, mentre il racconto marcia spedito verso il suo finale.

Un finale che ha stupito, e spiazzato, più di un lettore. Forse perché è duro da accettare. E’ complicato. E’ ancestrale. Perché ci obbliga a prendere in considerazione che quell’esplosione di vita furiosa, sotterranea, alata, vegetale, che circonda e avvolge i due personaggi, e non cessa di stupire, e forse di spaventare l’uomo, mentre il bambino sembra farne parte, come le rondini e le lucciole, ingloba anche la morte. Proprio come la scrittura si fonde con le pietre, i rampicanti, gli insetti, le volpi, la morte si intreccia con la vita.

La morte della storia, attraverso l’uomo, il narratore.
Ammesso che un tempo, nel suo tempo perduto di bambino, sia mai stato davvero vivo.

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