Antonio Lucci – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Armi e mura. Allegorie politiche post-apocalittiche ed etica della sopravvivenza in TWD https://www.carmillaonline.com/2017/11/14/41561/ Tue, 14 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41561 di Gioacchino Toni

George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di [...]]]> di Gioacchino Toni

George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di zombie, lo stesso Robert Kirkman, il creatore dell’universo di comic alla base della fortunata serie televisiva, non si esime dal concedergli un tributo diretto inserendo su un numero del fumetto un esplicito riferimento all’incipit di Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985).

Richiami, citazioni e tributi, più o meno di maniera, a parte, nel corso della serie Nemico (e) immaginario abbiamo avuto modo di vedere come l’immaginario offerto da The Walking Dead differisca da quello romeriano; Antonio Lucci nel suo “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), senza mezzi termini, giunge ad accusare la serie di aver ribaltato il valore culturale critico del genere in una normalizzazione conservatrice.

Sull’immaginario politico-ideologico riscontrabile in TWD si soffermano anche Dom Holdaway e Massimo Scaglioni nel libro The Walking Dead. Contagio culturale e politica post-apocalittica (Mimesis, 2017). Il primo capitolo del volume analizza TWD, secondo le modalità dei Film and television studies, come prodotto televisivo, indagando l’ideazione e la produzione della serie, il suo dialogare con il genere horror e la mitologia degli zombie. Nel secondo capitolo TWD viene invece analizzato con gli occhi dei Cultural studies al fine di cogliere tanto «le strategie di rappresentazione adottate dal prodotto in relazione alle dinamiche politico-sociali contemporanee», quanto «l’ideologia stessa che la serie incarna e veicola, fondata su una visione neoliberista, tesa a valorizzare l’utopia dell’eguaglianza di fronte alla minaccia dei non-morti e a “oscurare” differenze che riemergono, comunque, in maniera inconscia e imprevista» (p. 11). Nel terzo capitolo, attraverso i Media studies e le ricerche sui fandom, viene studiata la dimensione transmediale della serie e viene messa in luce la sua capacità di dialogare con i desideri del pubblico. Nel quarto capitolo, infine, attraverso i Production studies, ad essere presi in esame sono gli aspetti distributivi e di consumo di questa serie. Da parte nostra ci soffermeremo sull’analisi proposta da Holdaway e Scaglioni nel secondo capitolo del volume intitolato “Nuovo ordine post-apocalittico. Allegorie politiche ed etica della sopravvivenza”.

Indipendentemente dal fatto che The Walking Dead sia «politicamente innocuo “come una soap opera”, per dirla con Romero, o piuttosto in grado di mettere sul piatto, spesso senza risolvere, alcune delle questioni più urgentemente avvertite nelle società occidentali (l’ossessione nei confronti delle fortificazioni, delle mura, del diritto di rinchiudersi in “comunità sicure” e di difenderne i confini anche con l’uso della violenza preventiva; oppure il tema delle malattie epidemiche…)» (p. 7), resta il fatto che il successo ottenuto dalla serie ha sicuramente contribuito al rilancio della figura dello zombie.

Il libro di Holdaway e Scaglioni concede parecchio spazio all’analisi delle «allegorie politico-ideologiche contenute, intenzionalmente o meno, nel prodotto televisivo e nelle sue varie estensioni» (p. 8). I due studiosi colgono anche alcune curiose analogie tra le narrazioni di Game of Thrones (Il trono di spade, HBO, dal 2011) e The Walking Dead. «A conferma che sotto la coltre dei generi e degli immaginari della cultura popolare ritroviamo motivi più profondi e persistenti, che consentono di inquadrare e comprendere meglio l’identità di una Nazione e la complessità dei racconti che, da qui, riescono a viaggiare nel mondo, e a raggiungere le sue diverse periferie, diventando altrettanto e diversamente significativi» (p. 9).

I due studiosi pongono particolare attenzione anche sulla capacità del fumetto e della serie televisiva di estendersi su media e piattaforme differenti al fine di coinvolgere i fan nello strutturare una forma di complessità che sembra presentare peculiarità tali da differenziarla da quella di altre serie contemporanee.

Sul piano contenutistico, innanzitutto, TWD catalizza una varietà di fenomeni legati alla mitologia “zombesca” sviluppata, negli anni, dal cinema e più recentemente dalla televisione americana. Dal punto di vista televisivo, poi, il telefilm prende il testimone da Lost e da altre serie “complesse” degli anni 2000 nello sviluppare una forma di narrazione improntata alla “popolarizzazione del culto” e all’apertura potenzialmente infinita del racconto. Sul versante della rappresentazione e dell’ideologia, inoltre, il focus della serie si sposta progressivamente dalla centralità degli zombie (o del virus che “li produce”) come origine dell’apocalisse, all’idea di una rifondazione della civiltà umana che dà per scontati il pericolo continuo e la necessità di convivenza con i non-morti: in questo modo TWD presenta un’ampia e ricca casistica di dilemmi etico-esistenziali, problematiche politiche, interrogativi legati all’organizzazione sociale, alle questioni razziali e di gender. Infine [TWD] intercetta e mette in forma in modo originale alcune dinamiche tipiche dell’industria televisiva contemporanea, quali il dialogo intertestuale fra fumetto, cinema e TV, le esigenze “transmediali” di un sistema comunicativo sempre più “convergente”, la necessità di intercettare il gusto di un fandom sempre più globale, le opportunità di sfruttare pienamente il prodotto e le sue “estensioni” nei differenti mercati di distribuzione (pp. 10-11).

In TWD è ravvisabile un’esplicita allegoria della Rivoluzione Americana, tanto che nelle comunità dei fan sono numerose le analisi che insistono sui riferimenti allegorici al mito fondativo degli Stati Uniti. «Il riferimento alla storia americana funziona, in termini più generali e “macro”, come leitmotiv per l’intera serie, che ritorna di continuo sul tema della gestione politica tanto delle comunità quanto del conflitto, e segnala altresì la permanenza e la rilevanza del mito nella società americana contemporanea. A livello più “micro”, nelle pieghe del testo, il nesso con la storia si attiva attraverso piccoli dettagli, immagini e parole […] che adornano specifiche puntate e sfuggono facilmente allo spettatore meno attento» (p. 48).

Holdaway e Scaglioni individuano in TWD una serie di elementi che riguardano «la rappresentazione del sistema politico-sociale contemporaneo, le tensioni in atto nella politica americana e, in particolare, il conflitto fra “libertarianismo” (libertarianism), da un lato, e ideologia neo-liberista, dall’altro lato» (p. 49). La serie, le sue rappresentazioni e la sua retorica, devono per forza essere lette alla luce delle dinamiche socio-culturali che l’hanno prodotta e le allegorie che si possono rintracciare in TWD non sono che rappresentazioni delle paure comuni che toccano la società; il successo della serie deriva anche dalla sua capacità di individuare e insistere sulle ansie collettive del momento.

Numerosi studi nel corso dei decenni hanno proiettato sugli zombie paure comuni che vanno dalla perdita di controllo del corpo alla morte, declinandole in base al variare dei contesti. Kyle William Bishop (American Zombie Gothic: The Rise and Fall – and Rise – of the Walking Dead in Popular Culture, 2010) osserva, ad esempio, che il ricorso al genere zombie aumenta in concomitanza con i periodi di cambiamento e di disordine civile. Le produzioni incentrate sugli zombie sono infatti aumentate durante la guerra del Vietnam e quella in Iraq e non è difficile collegare, come propone Peppino Ortoleva (in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010), la storica pellicola White Zombie (L’isola degli zombies, 1932), in cui vengono messi inscena schiavi senza stipendio e identità, alla Grande Depressione e alla questione del razzismo.

La configurazione più riconoscibile dello zombie risale al primo film di George Romero, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), in cui non solo lo zombie assume le sembianze del morto camminante e cannibalesco ma inaugura anche due temi ancora attuali: «l’uso simbolico dell’identità dei sopravvissuti, in particolare delle donne e delle persone di colore, che vengono rappresentati in modo positivo» e, a differenza dei film pre-romeriani, «una certa voluta vaghezza a proposito dell’origine dell’apocalisse zombie» (p. 54). Romero inaugura una tipologia di film sugli zombie che insiste sulla critica nei confronti delle autorità e in generale riesce ad incarnare problematiche e paure diffuse all’interno della società americana dell’epoca. Col tempo la figura dello zombie «diventa manifestazione o effetto di una malattia epidemica (per esempio in 28 giorni dopo o La città verrà distrutta all’alba), del fascismo (Le lac des morts vivants, 1981; Dead snow/Død snø, 2009), di subculture devianti o bande (I Was a Teenage Zombie, 1987; Survival of the Dead – L’isola dei sopravvissuti, 2009), del ritorno di un colonialismo rimosso (Zombi 2, 1979) o addirittura del terrorismo dopo l’11 settembre, come accade nelle scene post-apocalittiche del remake di Zombi, intitolata (come l’originale in inglese) L’alba dei morti viventi (2004)» (p. 56).

Lo studioso Peppino Ortoleva sottolinea come gli zombie abbiano portato nella mitologia dei non morti un aspetto prima non trattato: «la morte proletaria, la morte di massa […]. Lo zombie è un morto massificato e anonimo in morte come, si suppone, lo era stato anche in vita. Un morto operaio, anzi una catena di defunti seriali» (Ortoleva in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010, p. 70). Dunque, sottolineano Holdaway e Scaglioni, lo svuotamento che subisce l’individuo divenuto zombie e la paura evocata dal contagio originano il timore nello spettatore che tutto questo possa accadere a chiunque.

Secondo i due studiosi, nonostante TWD sia, rispetto all’opera romeriana, oggettivamente meno critico nei confronti della società, non di meno la sua funzione allegorica risulta evidente e non può che dirsi politica.

Nella serie troviamo innanzitutto scene ambientate in alcuni luoghi ricorrenti, come negozi […], case e uffici di periferie e piccoli paesi […], chiese […], caserme con soldati e polizia antisommossa zombificati […], cui si aggiunge la prigione della terza e quarta stagione. La presenza di zombie in questi luoghi si presta evidentemente a una critica implicita di alcuni degli istituti fondamentali della società americana, suggerendo che i loro abitanti, seguaci, impiegati, clienti… non sono che un gregge di corpi automatizzati e acritici. La paura condivisa di malattie epidemiche è simboleggiata invece, in particolar modo, attraverso la rappresentazione del CDC (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie) alla fine della prima stagione […] Non si possono poi non ricordare le mura delle comunità di Alexandria e Woodbury, destinate nelle intenzioni a tener fuori gli zombie. Le loro immagini assumono una curiosa rilevanza storico-metaforica, poiché finiscono per dar corpo a quelle ansie xenofobe che hanno fornito carburante all’elezione di Donald Trump nel 2016. Negli stessi mesi della messa in onda di TWD, il candidato repubblicano faceva campagna elettorale puntando sulla promessa di costruire un muro lungo la frontiera che divide gli Stati Uniti e il Messico (pp. 57-58).

Rispetto al genere romeriano, TWD sposta lo zombie sullo sfondo al fine di concentrare l’attenzione sui sopravvissuti e ciò risulta funzionale alle lunghe narrazioni delle serie televisive, come ha spiegato Antonio Lucci (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), [su Carmilla]. Nel caso di TWD, sostengono Holdaway e Scaglioni, focalizzare il racconto «sui sopravvissuti permette, allo stesso tempo, di elaborare un’immagine molto più sfumata e complessa non solo di come si può reagire all’apocalisse zombie, ma anche di come ricostruire una società umana diversa da quella precedente. L’allegoria sviluppata dalla serie fa inoltre ampio ricorso all’idea della massa proletaria che Ortoleva riconduce al genere» (p. 59).

Serializzando e dilatando enormemente la narrazione, si è sviluppata una storia collettiva che mette in scena numerosi personaggi, comunità e luoghi, permettendo al fumetto, alla serie e alle varie estensioni da queste derivate, di divenire una sorta di laboratorio di reazioni all’apocalisse estremamente articolato e complesso. «Di conseguenza, è certamente possibile ricostruire le allegorie politiche presenti nella serie, sia che facciano parte dell’esplicita intenzione di Kirkman e degli altri autori, sia che esse siano, invece, implicite, attivate dal testo nel suo incontro con gli spettatori e nella sua circolazione culturale: è necessario però partire non soltanto dalle figure degli zombie, ma anche, e soprattutto, dalle vicende dei sopravvissuti» (p. 60).

In estrema sintesi, la prima stagione della serie segue l’itinerario di Rick Grimes che, risvegliatosi da un coma, parte alla ricerca della moglie e del figlio fino a giungere, al termine di un viaggio decisamente turbolento, ad Atlanta, ove il gruppo famigliare si riunisce in un campo di rifugiati presto distrutto da un attacco di zombie. A questo punto i superstiti tentano, invano, di rifugiarsi presso il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie. La seconda stagione è invece in buona parte ambientata nella fattoria di Hershel Greene ove trova riparo un gruppo di sopravvissuti alla ricerca di una bambina scomparsa. Un nuovo attacco di zombie costringe i protagonisti a fuggire e ad errare tra le abitazioni abbandonate della campagna circostante. La terza stagione e una parte della successiva sono ambientate in un riformatorio-prigione della West Georgia. Qua assistiamo allo scontro tra il gruppo di Rick e la comunità del Governatore della cittadina murata Woodbury. Nuovamente i protagonisti si trovano costretti a vagabondare per le campagne e sul finire della quinta stagione il gruppo di Rick troverà riparo nella fortificata Alexandria Safe Zone, nei pressi di Washington, che diviene una delle colonie che si aggregano per fronteggiare i Salvatori. Nel frattempo la serie (con alcune differenze tra comics e tv) presenta altre località-rifugio: Terminus, la chiesa di Padre Gabriel, l’ospedale Grady Memorial di Atlanta.

Sebbene TWD dimostri chiaramente che il crollo delle regole della nostra società può avvenire molto rapidamente, la rappresentazione della “radicalizzazione” degli esseri umani è mostrata come un processo più graduale e non sempre progressivo. Lo spostamento continuo del gruppo dei sopravvissuti tra i luoghi-rifugio or ora elencati ha una chiara funzione simbolica: marca l’inesorabile fallimento di un certo tipo di gestione sociale in seguito al progressivo, altrettanto inesorabile peggioramento etico dell’essere umano (p. 61).

Dalle prime stagioni, sottolineano gli studiosi, emerge chiaramente la difficoltà dei sopravvissuti di comprendere l’apocalisse.

L’enfasi è posta sui luoghi che simboleggiano e ricordano la vita quotidiana che precede il disastro […], oppure che, in qualche modo, sono legati alle istituzioni, alle autorità o alle forze dell’ordine […] E se il primo accampamento alla periferia di Atlanta è autogestito, è comunque il risultato di un gruppo di sopravvissuti uniti dalla ricerca condivisa di un campo profughi “ufficiale”, gestito dal Governo o dall’esercito. Il fatto che tutti quanti i rifugi si dimostrino alla fine fragili e poco sicuri segnala dunque con chiarezza, ai protagonisti come a noi spettatori, l’inefficacia delle istituzioni tradizionali dopo il crollo della società (p. 61).

Le tradizionali regole gerarchiche e comportamentali si rivelano presto inefficaci, come risulta evidente anche nella rappresentazione della prigione che, da luogo di rieducazione per chi aveva rifiutato le regole della società, diviene luogo di rifugio. Trasformatasi in una sorta di laboratorio sociale, la prigione diviene per il gruppo di Rick un luogo in cui sperimentare modalità di vita comunitaria. Dopo una fase di breve durata in cui viene tentata una sorta di democrazia sociale gestita da un consiglio di cinque individui, «la prigione crolla sotto il peso di un particolare tipo di corruzione e di un modello alternativo e minaccioso di governo, rappresentato dal Governatore e dal suo regime politico» (p. 63).

La comunità di Woodbury si presenta invece governata da una dittatura tirannica con un unico individuo al comando supportato da mercenari.

Oltre alla conferma della celebre osservazione di Walter Benjamin che “l’estetizzazione della politica converge sempre sulla guerra”, la comunità fascista del Governatore serve, sul piano simbolico, a dimostrare il cambiamento profondo dell’etica sociale. Infatti, la distruzione della democrazia quasi-utopica della prigione non a causa di forze contingenti – come la malattia – ma per via di una nemesi umana, rappresenta un evento capitale. I fatti insegnano ai protagonisti che nel nuovo ordine del mondo post-apocalittico la violenza deve necessariamente essere quotidiana (p. 63).

La comunità di Alexandria raffigura, per certi versi, nuovamente la situazione della prigione: «la sua leader, Deanna, era un membro del Congresso statunitense prima dell’apocalisse, e dunque rappresenta un capo democraticamente eletto. Pur di ripetere l’importanza della nuova etica sociale, la serie mette in contrasto il gruppo di Rick e quello di Alexandria, dimostrando che il secondo – protetto fortunosamente dalla realtà fuori le mura grazie a una grande cava che temporaneamente blocca migliaia di zombie – non ha ancora imparato la lezione: “uccidere o farsi uccidere”» (p. 64). Dunque, sostengono Holdaway e Scaglioni, la quinta e la sesta stagione hanno la funzione di far comprendere la nuova morale necessaria.

Ne caso della “trappola” Terminus, la serie insiste «sul fatto che un tempo il sogno di Terminus era autentico» ma poi coloro che reggevano la comunità sono stati corrotti e contaminati dalla violenza di stranieri giunti da fuori. Altre forme di governo riguardano la chiesa di Santa Sara e l’ospedale. In quest’ultimo caso viene prospettata una forma di autocrazia. «Qui si finge un ordine che rispecchia protocolli di comportamento pre-apocalittici, e a governare c’è una milizia armata: eppure, anche in questo caso, il risultato è la restrizione della libertà […] oppure la morte» (p. 65).

Se la critica della serie alle forme di autocrazia e dispotismo è chiara, non da meno mette in evidenza come siano fallimentari anche le forme utopiche di governo, destinate a corrompersi velocemente. «Se il modello della democrazia può ancora valere, deve necessariamente conservare un lato latente di sfiducia verso l’altro e l’estraneo, nonché di violenza pronta a essere esercitata: sembra questo il solo modo per garantire la sopravvivenza della comunità» (p. 65).

La base dell’etica post-apocalittica si sovrappone chiaramente all’ideologia del liberal-conservatorismo della destra americana, anche se nella serie essa viene portata alle estreme conseguenze. Se [è possibile identificare] nello storytelling progressista degli zombie movies di Romero una battaglia ideologica tra la fede nel governo e nelle istituzioni, da un lato, e il libertarianismo individualista, dall’altro lato, in TWD l’esito del conflitto sembra già deciso: il governo e le istituzioni politiche e sociali sono del tutto assenti. A trionfare è un certo tipo di libertarianismo: la protezione a ogni costo dei propri interessi (il rifugio, la famiglia), lo scetticismo e la diffidenza nei confronti dello straniero, dell’altro, dello sconosciuto (p. 65).

Dunque, secondo Holdaway e Scaglioni, la società dei sopravvissuti messa in scena da TWD può essere letta come un’allegoria della visione del liberal-conservatorismo americano e gli zombie come metafore delle paure nei confronti dell’immigrazione e del terrorismo propagandate da quell’immaginario di destra. «È senz’altro rilevante in questo senso l’ossessione della serie per le armi (oltre che per i muri), che rappresenta il fondamento di quell’esigenza, tutta americana, di doversi e potersi proteggere con una pistola» (p. 66).

Nello scenario post-apocalittico della serie la differenza tra i protagonisti e gli antagonisti pare essere di natura morale anche se decisamente fluida. «Da un lato, tra i personaggi che più precisamente aderiscono all’ideologia libertaria, infatti, ci sono degli esempi umani che la spingono verso le sue conseguenze estreme». In tali casi l’omicidio viene giustificato dalla necessità. «Dall’altro lato, troviamo tutti quei personaggi che fanno decisamente fatica a conformarsi al nuovo ordine, […] costretti a subire le conseguenze negative del proprio rifiuto di adattarsi» (p. 66).

Nella serie viene esplicitamente segnalato come chi incarna posizioni di pacifismo e umanesimo finisca per divenire vittima della violenza gratuita, «mentre il libertarianismo protettivo e la violenza ragionata non costituiscono degli argini nei confronti dell’aggressione arbitraria» (pp. 67-68). I limiti del pacifismo vengono esplicitamente manifestati nella figura di Carol che diviene nel corso del tempo sempre più contraddittoria.

Il punto più drammatico di esplicitazione del conflitto fra opzioni esistenziali diverse arriva nel confronto con un personaggio, Morgan, un altro pacifista, sebbene molto più combattuto. Alla fine della sesta stagione ritroviamo Morgan abbandonare Alexandria per paura di perdere la propria umanità a causa delle violenze necessarie alla sopravvivenza della comunità. Come Morgan – il cui irenismo per certi versi insostenibile esplode, infine, nella violenza gratuita e incontrollata ai danni di Richard, guardia del Regno – Carol non riesce allo stesso modo a sedare il suo lato intimamente violento, specie quando alla fine della settima stagione è chiamata a tornare, ancora una volta, a difendere Alexandria contro i Salvatori (pp. 71-72).

Insomma, secondo i due studiosi, dalla serie emerge chiaramente come il pacifismo risulti importante per la psicologia degli individui che si trovano a vivere situazioni estreme ma che la necessità di ricorrere alla violenza per difendere se stessi, la propria comunità e i propri beni, appartenga «a un “libertarianismo” che rimane ineluttabile» (p. 72).

Seguendo per certi versi modalità tipiche dei disaster movie, in cui ci si chiede continuamente chi sopravviverà alla fine, anche TWD presenta numerose morti di personaggi rilevanti. Nel caso della serie presa in esame occorre anche tener presente che i meccanismi di suspense e imprevedibilità si relazionano con meccanismi di coinvolgimento e con le aspettative dei fan.

Si può cogliere il portato simbolico della morte nell’esempio […] di Tyreese, il cui decesso […] indebolisce inevitabilmente la convinzione che “le persone come me possono sopravvivere”. Il fatto che questa affermazione si riveli, alla prova dei fatti, falsa finisce per legare indissolubilmente l’atto di sopravvivenza con l’ideologia politica del libertarianismo. La morte, dunque, riflette in un certo senso l’incapacità di un personaggio di sopravvivere in una società dove le regole sono ormai cambiate radicalmente; la sopravvivenza, viceversa, segnala l’adattamento e l’“incorporazione” del “nuovo ordine del mondo” e le sue conseguenze etico-politiche (p. 73).

Certo, non sempre tutto è così meccanico e la morte di un personaggio può dipendere anche dall’intreccio che si viene a creare con altri comprimari o da esigenze più generali legate allo sviluppo della serie. Secondo i due studiosi è possibile identificare tanto un gruppo di uscite di scena eroiche (Beth, T-Dog, Lori, Oscar, Sasha…) quanto una serie di morti anti-eroiche (Dawn, il Governatore, i cacciatori-cannibali, i claimers di Joe…).

«In ognuno di questi casi, la morte del personaggio avviene perché esso rappresenta una minaccia per Rick e il suo gruppo, un ostacolo che va rimosso per far avanzare la storia nel suo complesso» (p. 74). Vi sono poi personaggi collocabili a metà fra gli eroi e gli antagonisti e personaggi perfidi che si redimono morendo o figure di eroi che nel corso del tempo si lasciano corrompere.

Sul fronte, invece, delle morti simbolico-politiche si possono individuare due tendenze generali, che servono al racconto per illustrare il nuovo ordine della società. In TWD troviamo moltissimi esempi di personaggi (soprattutto minori) scomparsi sostanzialmente per illustrare la gravità della situazione in cui i sopravvissuti si ritrovano. È, questo, un aspetto caratterizzante della serie [che indica] l’altissimo pericolo che si corre nella nuova società […] È chiaro come i bambini rappresentino l’innocenza e la naiveté: la distruzione di questo simbolo serve a sottolineare ripetutamente la totale mancanza di speranza in un mondo dominato da walking dead e assassini totalitari (p. 75).

Una seconda tendenza simbolica nella morte dei personaggi ha a che fare con gli omicidi che mettono in risalto il livello di corruzione morale di qualche individuo.

Insomma, le tante morti di TWD servono chiaramente a delineare il nuovo ordine del mondo e a definire le conseguenze etiche del suo avvento; sono senza dubbio, sul piano narrativo, l’esito delle azioni dei personaggi, ma rappresentano anche i tasselli che fissano lo schema morale del libertarianismo che la serie vuole rappresentare e, in un certo senso, problematizzare. La disponibilità a uccidere caratterizza la dinamica del potere, e funziona quasi come una forma di valuta di nuovo conio; al contrario, chi muore rappresenta sia i difetti di chi non è in grado di reggere i colpi della nuova società, sia un efficace strumento narrativo per illustrare tanto la difficoltà di sopravvivenza quanto la necessità di rivedere le proprie convinzioni, di adattarsi meglio alla dura realtà […] Gli omicidi e, in generale, la morte servono per evidenziare la corruzione morale di coloro che li perpetrano o ne sono la causa [inoltre] servono anche ad accentuare la sofferenza di personaggi buoni […] e un loro specifico percorso di cambiamento (pp. 76-77).

Secondo Holdaway e Scaglioni, se risulta abbastanza semplice individuare allegorie politico-sociali, per quanto mutevoli, nelle figure degli zombie, occorre dare la giusta importanza anche ai sopravvissuti intesi come «autentiche metafore viventi». Se i sopravvissuti di Romero possono essere letti come allegorie progressiste capaci di far riferimento a tematiche e timori propri dei momenti storici in cui i film sono stati girati, di certo non mancano critiche nei confronti della società americana contemporanea nemmeno in TWD. Se sulla questione razziale sia il fumetto che la serie televisiva sono stati accusati «di razzismo inconscio per la rappresentazione da “buon selvaggio” del personaggio di Michonne, e soprattutto per il tasso incredibile di decessi di uomini di colore, specie nelle prime stagioni» (p. 81), non mancano riflessioni sulle dinamiche di potere coinvolgenti uomini, donne, individui di colore e omosessuali. Secondo i due studiosi «in questo senso TWD riprende e aggiorna l’eredità dei film di Romero, rappresentando esplicitamente una supposta ideologia “post-razziale” e “post-gender”» (p. 81).

La questione viene affrontata sin dalle prime puntate della stagione iniziale, in particolare quando Merle, maschio e bianco, reagisce nei confronti di chi tenta di fermarlo dal suo sparare ai vaganti con frasi misogine e razziste contro ispanici, asiatici e neri. «È questo un momento fondamentale della serie, che introduce una serie di tematiche che saranno ricorrenti: Merle si proclama leader del gruppo, annunciando ironicamente l’inizio dell’“ora della democrazia”. Costringe tutti gli altri a votarlo come leader, minacciandoli con la pistola» (p. 81). La violenza di questo viene arginata dalla violenza di Rick in abito da sceriffo

anche se, a ben vedere, rappresentano più il “nuovo ordine” di quello vecchio. Quando infatti l’eroe minaccia di sparare, Merle lo prende in giro: “non lo faresti, sei uno sbirro”. Ma Rick è pronto a rispondere: “ormai non sono altro che un uomo che cerca sua moglie e suo figlio. Chiunque si metta in mezzo non potrà che perdere”. Come si nota da questo scambio, la famiglia rappresenta la base fondamentale della sua spinta alla sopravvivenza. Il discorso di Rick è particolarmente curioso, soprattutto per come declina l’idea di differenza: “allora Merle, le cose sono diverse ora. Non ci sono più negri, e non ci sono più nemmeno gli stupidi pezzi di merda bianchi dediti all’incesto. Rimane solo carne scura e carne chiara. Ci siamo noi e i morti. Sopravviviamo solo stando uniti, non separati!”. Nel discorso di Rick si definisce il codice morale che caratterizza l’intera serie. Le premesse le abbiamo già viste: l’idea del nuovo ordine, la necessità della violenza finalizzata alla protezione di sé e della propria famiglia, in linea con l’ideologia del libertarianism. Si aggiunge, qui, però, un surplus di politica identitaria: l’idea che non contino più le categorie o le vecchie etichette; la sola differenza che conta e che è fondamentale è quella tra morti e vivi. Poco dopo, il punto è reso ancora più esplicito: Rick e Glenn si coprono letteralmente delle viscere di uno zombie, nascondendo le differenze fisiche, per fuggire dalla massa di morti. L’ideologia alla base delle affermazioni e delle azioni di Rick in questa scena, e in particolare la nozione di uguaglianza, diventa qui concretamente utopica e ci riporta, oltre l’allegoria, alla società contemporanea: è la realizzazione della nozione neoliberista del soggetto, secondo cui le differenze sociali hanno perso di rilevanza (o dovrebbero farlo) (p. 82).

Nell’ambito del neoliberismo ad essere portato avanti è un vero e proprio processo di mercatizzazione della società che trasforma l’attività di governo da gestione politica a conduzione amministrativa con tanto di privatizzazione di tutti gli enti pubblici. In sostanza le regole del mercato finiscono con l’eclissare ogni altra possibile struttura sociale comportando l’assimilazione delle diverse identità alla categoria del capitale umano. Le diverse identità vengono così sostituite dalla “cittadinanza”, che, come scrive Wendy Brown (Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, 2015), viene ad essere considerata «solo in termini di appartenenza a una comunità in quanto “cittadini”, e nulla di più» (p. 83). È chiaro allora che «i soggetti che esistono “oltre la cittadinanza” (come i migranti) non rientrano nella definizione [e] tutti coloro che rientrano nel concetto di cittadinanza vengono assimilati» (p. 83).

La trasformazione che porta verso l’universalità dell’homo oeconomicus viene riprodotta in TWD attraverso la messa in scena dell’apocalisse.

Il confronto fra “mercatizzazione della società” e apocalisse non è, però, letterale, poiché le modalità di gestione della società neoliberista e di quella post-apocalittica sono molto diverse, e poi perché il capitalismo come forza propulsiva è un tema poco esplicitato nella serie. Il capitale in TWD è costituito dalla capacità di sopravvivere. Per questo vediamo emergere alcune ruoli-chiave nella nuova società: il cacciatore, il poliziotto, il costruttore/architetto, il leader, il medico. […] L’importanza dell’ultimo ruolo – quello del dottore – nell’economia della sopravvivenza è evidenziata almeno due volte nella serie. In primo luogo negli atti compiuti all’ospedale Grady Memorial da Steven Edwards, che uccide un altro medico per preservare la propria posizione. C’è poi Carson, ucciso brutalmente e ingiustamente da Negan, ma solamente perché sostituibile con il medico di Hilltop. È infatti chiaro che TWD insiste sia sulla presenza di rapporti intersoggettivi molto significativi e del tutto colour-blind, sia nel contrapporre continuamente agli eroi antagonisti razzisti, misogini o omofobi. Fra questi ultimi possiamo di nuovo citare il razzista Merle Dixon, nonché il marito di Carol, altro maschio apertamente misogino, che picchia sua moglie e minaccia le altre donne del gruppo. Si potrebbe citare anche il Governatore, specie per le tensioni di natura misogina e razzista che caratterizzano il suo rapporto con Michonne, e senz’altro Negan, per via della struttura gerarchica che impone alla comunità dei Salvatori, dove le donne sono re-inquadrate in ruoli e contesti tradizionali. È utile leggere queste diverse rappresentazioni attraverso la chiave interpretativa dell’ideologia neoliberista: la rappresentazione di un codice morale “sbagliato” si sovrappone all’emergere di differenze sociali (e della violenza che ne è l’esito) entro un quadro generale che avrebbe, al contrario, dovuto rendere insignificanti quelle stesse differenze, come asserito da Rick nel discorso sulla “carne bianca e la carne nera (p. 84).

I due studiosi evidenziano come in TWD i personaggi positivi capaci però anche di sopravvivere siano soprattutto donne, uomini di colore (o comunque non wasp) e omosessuali.

Tutti sono rappresentati come abili a sopravvivere, mentre le loro “differenze” vengono esplicitate solamente per indicare la liberalità delle varie comunità (come nel caso di Alexandria), oppure per marcarne l’utilità al gruppo […] Le diverse stratificazioni della metafora neoliberista si evidenziano in modo particolarmente interessante nel personaggio di Victor Strand, […] un tipo particolarmente furbo, capace di controllare gli altri, allo scopo di perseguire i propri obiettivi. Quando nel campo profughi conosce Nick, subito riconosce nel giovane tossicodipendente – altro soggetto scomodo nella società neoliberale, le cui capacità individuali lo rendono però “efficiente” dopo l’apocalisse – uno strumento utile per fuggire. In seguito, attraverso alcuni flashback narrativi, veniamo a sapere che l’amico e socio di Strand è anche il suo compagno. La sessualità di Strand, come la sua appartenenza etnica, non vengono mai esplicitamente dichiarate, ma soltanto inserite in una storia che “giustifica” il suo sfruttamento di altri esseri umani con l’obiettivo della propria sopravvivenza […] La sovrapposizione, tramite flashback, degli atti “amorali” di Strand nella società neoliberista (è, in fondo, un soggetto economico di successo!) e in quella post-apocalittica (qui è in grado di sfuggire agli zombie) è resa esplicita e giustificata dalla narrazione stessa. Nella scena in cui scappa di prigione, Nick si interroga sull’opportunità di liberare altre persone bloccate nella quarantena, ma Strand risponde: “non li aiuteremo, perché aiutarli potrebbe ferirci. Non c’è alcun valore aggiunto”. È inoltre molto interessante, allo stesso tempo, che gli uomini di colore di TWD sono quasi tutti molto diversi da Strand, e si collocano nella categoria dei personaggi più filantropici e pacifisti, ovvero quelli che sono meno disposti alla violenza […] In ossequio al dogma della serie, che detta l’incapacità dei personaggi più pacifisti e filantropi di sopravvivere, tutti quanti, tranne Morgan e Gabriel (che, comunque, devono dolorosamente “imparare la lezione”) fanno una brutta fine. La presenza e le morti dei personaggi di colore in TWD perciò rivela, alla fine, le tensioni che permangono sotto l’etichetta neoliberista del “post-razziale”. Da un lato, la serie presenta tutti quanti i personaggi come uguali di fronte agli zombie. Dall’altro, però, questa nozione convive con una caratteristica comune alle persone di colore, che è stata giustamente interpretata come una forma di razzismo implicito. Inoltre, in questa etica e politica della sopravvivenza è difficile non scorgere un’allegoria della società americana attuale, dove il movimento Black Lives Matter è nato proprio a partire dai numerosi casi di omicidi di persone di colore inermi. (p. 86).

Infine, la famiglia costituisce uno dei fondamenti principali dell’allegoria politica della serie e questo lo si evince, ad esempio, dall’insistenza con cui Rick evidenzia l’importanza della famiglia come elemento motivante il “libertarianismo” di una condotta che raggiunge vette di estrema violenza. Analogamente la perdita dei figli spinge Morgan e Carol ad alternare condotte decisamente violente a momenti di ripudio delle stesse, fino a ricorrervi nuovamente nella battaglia contro i Salvatori.

Tuttavia, come nel caso del razzismo inconscio della serie, anche l’enfasi sulla famiglia all’interno della politica di TWD può essere variamente sfumata. In fondo la definizione di famiglia che la serie propone è piuttosto flessibile: bambini di genitori morti diventano figli adottati da altre persone […] e spesso una comunità di persone necessariamente diverse si unisce per il sostegno e la difesa di tutti. Se l’ombra di un libertarianismo violento e quella di un’ideologia neoliberista che pretende di cancellare le differenze in nome di un’utopia livellatrice sono onnipresenti nella serie, l’idea di una comunità aperta non viene del tutto meno (p. 87).

La complessità politica del mondo di TWD suggerisce in controluce la complessità della società che fruisce della serie. «Nella finzione, così come nella realtà, ideologie contrapposte e tensioni insanabili ci interrogano su tematiche cruciali e sulle possibili soluzioni dei problemi che ci circondano e ci affliggono» (p. 87).


Serie completa diNemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. Metafore zombie: rimossi, tensioni e paure delle società di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2017/06/23/37271/ Thu, 22 Jun 2017 22:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37271 di Gioacchino Toni

horde12Sulla rivista “Trópos”, all’interno di un interessante numero dedicato a La morte nell’epoca della cultura digitale (nr. 2/2016), è pubblicato un contributo di Antonio Lucci intitolato “Metafore della non-morte. Riflessioni culturologiche sul potenziale metaforico della figura dello zombie” ove lo studioso, partendo dalla presa d’atto che la morte è un evento liminale e che quando si parla di essa non si può che parlare di “metafore della morte”, concentra la sua attenzione su una metafora di morte particolare che ha ampia diffusione nell’immaginario contemporaneo: la metafora dello zombie.

Lo zombie [...]]]> di Gioacchino Toni

horde12Sulla rivista “Trópos”, all’interno di un interessante numero dedicato a La morte nell’epoca della cultura digitale (nr. 2/2016), è pubblicato un contributo di Antonio Lucci intitolato “Metafore della non-morte. Riflessioni culturologiche sul potenziale metaforico della figura dello zombie” ove lo studioso, partendo dalla presa d’atto che la morte è un evento liminale e che quando si parla di essa non si può che parlare di “metafore della morte”, concentra la sua attenzione su una metafora di morte particolare che ha ampia diffusione nell’immaginario contemporaneo: la metafora dello zombie.

Lo zombie è una figura sospesa tra morte e non-morte che proprio grazie al suo essere figura di soglia assume una serie di significati particolari che meritano di essere indagati storicamente. L’ipotesi da cui prende il via l’analisi di Lucci – autore di cui ci siamo già occupati [su Carmilla] all’interno della serie Nemico (e) immaginario – è che «nell’immaginario culturale occidentale (soprattutto statunitense) e “occidentalizzato” (vale a dire, quello in cui le ondate mediatiche di interesse sviluppatesi in un contesto americano hanno la maggior possibilità di sviluppo) lo zombi ha nel corso degli anni ricoperto ruoli e posizioni diverse – per lo più marginali -, fino ad arrivare, nell’ultimo quindicennio, a ricoprire un ruolo fondamentale nel sistema di rappresentazione e metaforizzazione collettiva. Questo mutamento di posizione corrisponde a un mutamento interno alla figura dello zombie, che gli ha permesso di ricoprire più posizioni nello scacchiere psichico-rappresentativo del soggetto collettivo» (p. 102). Dunque, l’autore, evitando ogni suggestione ontologica, adotta un approccio culturologico volto a ricostruire le trasformazioni subite dallo zombie e le corrispettive funzioni metaforiche.

Corpi al lavoro e corpi perdigiorno. Dalla schiavitù all’inoperosità

Le radici dello zombie, sappiamo, lo vogliono un individuo indotto alla morte al fine di essere risvegliato come schiavo. Lo zombie originario è il prototipo dell’asservimento totale al lavoro cui nemmeno la morte pone fine; «il terrore che lo zombie incute non è (tanto) quello relativo alla pericolosità, quanto quello di diventare come lui: lo schiavo senza volontà che nessuno vorrebbe essere» (p. 103). Lo zombie, a differenza di altri essere mostruosi occidentali, è slegato da un orizzonte trascendente; è puro corpo. Inoltre è collegato a «una biopolitica immaginaria dei corpi dei lavoratori. In un orizzonte ove esiste solo la carne, solo il corpo, lo zombie è l’archetipo di una corporeità totale che viene messa al lavoro: pensata e (culturalmente, attraverso il rituale) “costruita” per il lavoro, e solo per questo, senza che essa possa avere accesso al godimento e alla ricreazione, tipici di una dimensione psichica che allo zombie è preclusa» (p. 104).

Vi è stato un vertiginoso aumento di produzioni cinematografiche statunitensi incentrate sugli zombie in concomitanza con i periodi di governo più reazionario e, sottolinea Lucci, il potenziale antisistemico dello zombie è stato raccolto anche dai movimenti come Occupy Wall Street che «hanno inscenato zombie-walks proprio incarnando la radicale – anticapitalistica – inoperosità racchiusa nella figura di questo particolare undead» (p. 108). Lo zombie post-romeriariano «distrugge l’ordine esistente non tanto e non solo perché uccide le persone, quanto perché è in grado, con un solo morso, di mutare un elemento attivo e produttivo della società in uno sciatto bighellonatore delle strade, indifferente alle mode (non a caso gli zombie sono quasi sempre vestiti in maniera trasandata) e a ogni forma di coercizione» (pp. 107-108).

Le origini diversamente ciniche. Dalla malvagità individuale al complotto sistemico

In Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero lo zombie non è più frutto della volontà perversa di un individuo malvagio (uno stregone) ma di un complotto a cui prendono parte scienziati, militari e politici. Nella sua prima opera sugli zombie Romero presenta ancora una spiegazione, seppur labile, dell’origine degli zombie: i morti vengono riportati alla vita dal malfunzionamento di un satellite e vengono tirati in ballo tanto il mondo scientifico quanto quello militare con le autorità intenzionate ad insabbiare la vicenda. Nonostante nelle opere successive il regista eviti di fornire spiegazioni circa l’origine del risveglio dei defunti la teoria del complotto non viene meno.

TheCrazies896A livello cinematografico il tema del complotto, nella sua versione moderna, viene fatto risalire da Lucci a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero, film non strettamente appartenente al genere zombie ma che mostra con esso evidenti parallelismi, ove al complotto si somma l’idea di epidemia. Qua l’infezione si è propagata a causa dell’accidentale precipitare di un aereo militare con a bordo armi batteriologiche e di fronte alla minaccia della perdita del controllo il potere affronta la popolazione in maniera tanatopolitca: la sterilizzazione della località e l’eliminazione dell’intera popolazione. Secondo lo studioso «l’essere soggetti a macchinazioni bio-tanato-politiche da parte del governo, e il sospetto che le istituzioni non stiano – nei momenti dello “stato d’eccezione” – dalla parta della popolazione, rappresentano due rimossi fondamentali della società americana, che trovano sempre maggiore espressione nelle figurazioni del mostruoso incarnate dalle narrazioni zombie» (p. 110).

Dalla rimozione/ritorno della morte alla malattia. Dalla medicalizzazione della società allo stato di natura

La serie di film sugli zombie inaugurata nel 1968 da George Romero introduce importanti differenze rispetto alle produzioni precedenti a partire dall’attenzione per la morte fino ad allora assente e dal fatto che, rispetto all’immaginario haitiano, all’idea di una malvagità esterna agli zombie che li manovra sembra sostituirsi una loro pericolosità intrinseca. Con Romero gli zombie diventano morti che risorgono e che vanno a caccia di esseri umani viventi per farli diventare a loro volta zombie. Con Romero, sostiene Lucci, lo zombie «riporta la morte al centro dell’attenzione collettiva, confronta i protagonisti con l’onnipresenza – attiva – della finitezza, della finitezza propria e di quella dei propri cari» (p. 105). Inoltre l’opera romeriana è esplicitamente un’opera di critica sociale ove vengono toccate tematiche come il razzismo, il militarismo, le questioni di gender, il mondo dei media e, soprattutto, la denuncia del complotto. Lo zombie romeriano, secondo lo studioso, «rappresenta nella forma più eclatante possibile l’idea freudiana che il rimosso sia condannato a tornare: laddove la morte rappresenta una rimozione basale per le società post-illuministiche […] il ritorno nella forma allucinatoria del morto vivente entro i confini della società rappresenta una elaborazione sul piano dell’immaginario collettivo di questa assenza concerta della morte» (p. 106).

Se si pensa alla tendenziale separazione, rimozione, sottrazione dei morti dalla vita quotidiana che si è sviluppata in Occidente in età contemporanea allora, sottolinea Lucci, il cinema horror può essere visto anche come modo, per quanto fantasmatico ed immaginario, di inclusione della morte nel complesso sociale e gli zombie si pongono all’origine di tale nuova inclusione della morte nell’immaginario collettivo sostituendosi ad altre figurazioni del mostruoso dominanti fino a quel momento.

[Con gli zombie] la più antica credenza metafisica dell’umanità, quella della vita dopo la morte, viene sradicata tramite un crudele inveramento […] I morti, infatti, risorgono e sono mostruosi, non portano in sé nulla di quello che erano prima della risurrezione, nessuna traccia di quella identità individuale che li aveva resi persone – ed in quanto tali uniche – in vita, nessuna beatitudine, nessuna redenzione. Lo zombie è una delle pochissime forme di mostruosità che rappresenta un cut deciso nei confronti della trascendenza che ormai non gioca più nessun ruolo: tutto è in mano agli uomini, che sia la sopravvivenza, la ricerca di una “cura”, la creazione di un senso. Il ruolo dei mediatori della trascendenza (sciamani, streghe, maghi, preti) che in altri tipi di narrazione della mostruosità avevano il ruolo di intermediari tra il mondo dei vivi e quello delle entità mostruose che andavano combattute e scacciate, viene preso da scienziati e militari, versioni secolarizzate delle figure precedentemente elencate (pp. 108-109).

Facendo riferimento al frammento Kapitalismus als Religion del 1921 di Walter Benjamin si può affermare, sostiene Lucci,

che lo zombie è la figura della trascendenza totalmente immanente che il capitalismo come religione provoca nell’immaginario quotidiano. Laddove il capitalismo come religione “kennt keine spezielle Dogmatik, keine Theologie”, bisogna glossare che esso non conosce pure alcuna forma di trascendenza, giocandosi tutto sul piano del culto (del capitale) e dell’immanenza. Lo zombie rappresenta il rimosso, lo scarto, del capitalismo come religione: figura dell’improduttività immanente, aggressiva e distruttiva, ben incarna l’assenza di trascendenza che una religione basata solo sul culto porta con sé. Laddove, infatti, la religiosità si riferisce alla pura immanenza, anche le forme di negatività ad essa collegate, come scarto rispetto alla “positività” che essa propone, rimangono sul piano immanente, esattamente come gli zombie rispetto al capitalismo. Anche nelle figurazioni fantasmatiche in cui gli zombie distruggono l’impianto socio-economico capitalistico […] essi ne mantengono e perpetuano l’assenza di orizzonte trascendente (p. 109).

A partire da 28 Days Later (28 Giorni dopo, 2002) di Danny Boyle gli zombie si trasformano profondamente; non sono più morti che tornano alla vita ma degli infetti. Alla rimozione ed al ritorno della morte si sostituiscono la rimozione ed il ritorno della malattia e dell’epidemia. Un esempio interessante di tale trasformazione viene indicato dallo studioso nel film I am Legend (Io sono leggenda, 2007) di Francis Lawrence, tratto dal celebre romanzo di Richard Matheson, ove i mostri nel film, così come avveniva in The Crazies, non sono propriamente zombie ma degli infetti e la paura che incutono, come per gli zombie haitiani, è di tipo proiettivo; il timore è di divenire come loro. In questi, così come in svariati altri casi recenti, «non è tanto importante che essi siano univocamente, ontologicamente, “zombie”, che rispondano a caratteristiche precise […] Sono zombie perché rientrano nello schema narrativo-evolutivo […] che ha spostato l’operatore semantico-zombie dalla paura fondamentale della morte a quella della malattia, della pandemia e dei risultati sulle strutture socio-istituzionali di questi stati di eccezione» (p. 111). Tale trasformazione dello zombie in infetto, secondo Lucci, si inserisce in un immaginario del tutto in linea con un mondo secolarizzato dal quale è bandito ogni aspetto trascendente; «la pandemia e la conseguente apocalisse non portano alcuna apocatastasi, ma lasciano i sopravvissuti in un mondo irredento, anche se totalmente cambiato» (p. 111). L’apocalisse assume le sembianze di un’apocalisse secolarizzata priva di orizzonte trascendente e le cause di ciò «rientrano nel complesso di colpa che – secondo Benjamin – caratterizza il capitalismo come religione: di solito è a causa di esperimenti e sfruttamenti eccessivi del bios e del mondo naturale che l’apocalisse ha inizio» (p. 111).

Dunque, a tale senso di colpa corrisponde una distruzione dell’esistente priva di progettualità politica e tutto ciò, continua lo studioso, porta alla riformulazione del paradigma zombie espressa dalla serie televisiva The Walking Dead (dal 2010) tratta dai fumetti di Robert Kirkman. Dai timori della medicalizzazione della società imposta dal potere si passa al relegare la figura dello zombie sullo sfondo come mero espediente narrativo utile ad indagare piuttosto la dimensione antropologica e morale dell’essere umano: «si è tornati a un hobbesiano stato di natura […] dove gli zombie sono solo l’espediente che permette agli autori di descrivere la loro visione di una società che si deve organizzare da zero, dopo che le strutture socio-politiche sono andate perdute a causa dell’epidemia […] sono le interazioni tra le persone e i gruppi umani a farla da padrone nella narrazione kirkmaniana» (pp. 111-112). Nella serie viene mostrata una situazione post-apocalittica ove le strutture sociali sono saltate ed ove vige la legge del più forte e di chi è in grado di adeguarsi alle mutate condizioni ambientali.


Qua l’intera serie Nemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. Processi di zombificazione ed umanità 2.0 https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/nemico-e-immaginario-processi-di-zombificazione-ed-umanita-2-0/ Wed, 22 Feb 2017 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35755 di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada [...]]]> di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada alcune caratteristiche di critica radicale presenti nel genere sin dall’inizio. Livio Marchese nel suo breve saggio “La fabbrica degli zombi: da Caligari al Grande Fratello”, contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già affrontato su Carmilla nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“], con un occhio di riguardo alle responsabilità dei media e dell’audiovisivo, indaga la trasformazione dalla figura del morto vivente alla luce di quella che può definirsi una mutazione dell’essere umano.

Lo scritto prende il via dall’analisi di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, opera che porta per la prima volta gli zombi sul grande schermo e può essere considerato il film archetipo del genere. In tale film gli zombi sono individui resi dominabili e sfruttabili come forza-lavoro da stregoni vudù che li mantengono in uno stato di morte apparente. L’atmosfera del film, sostiene Marchese, rimanda al cinema espressionista tedesco degli anni Venti ed in particolare a Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene. La relazione tra cinema e zombi, secondo lo studioso, non si risolve però in una mera predilezione tematica o iconografica ma potrebbe, addirittura, essere di natura ontologica.

In una sequenza del film di Wiene ambientata in una fiera all’interno di un tendone nella cui oscurità, che rimanda alla sala cinematografica, «gli spettatori borghesi assistono allo spettacolo del morto vivente e interrogano l’onnisciente sonnambulo sul loro futuro. La risposta è inequivocabile: “morte!”. Vista da questa prospettiva, la sequenza appare portatrice di un presagio agghiacciante: lo spettatore, cercando la risposta alle proprie domande esistenziali nei “morti viventi”, nelle vuote parvenze, ottuse e bidimensionali che infestano lo schermo, va incontro a un destino funesto, finendo per assimilarsi ad esse. In altre parole, il cinema, o meglio, “certo” cinema zombifica lo spettatore, rendendolo un inerte automa. Lo diceva Buñuel, l’immagine in movimento è un’arma potentissima, tanto meravigliosa, quanto pericolosa. Agendo sugli stati psichici più profondi, essa può liberare e prolungare lo sguardo, quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Il cinema è un’arte patogena, l’immagine una spora e il “complesso dello zombi” la malattia che affligge l’umanità del terzo millennio» (pp. 19-20). Da un certo punto di vista White Zombie, sin dai primi anni Trenta, mostra quel che sarebbe divenuta l’umanità.

Secondo Marchese la portata della mutazione dell’essere umano contemporaneo è esplicitata in maniera esemplare dal film The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della Terra, 1964) di Ubaldo Ragona / Sidney Salkow, ispirato al romanzo I am Legend (Io sono leggenda, 1954) di Richard Matheson. Nel film tutto risulta minaccioso e lo stesso dottor Robert, l’ultimo esemplare della vecchia umanità, pur immune alla contaminazione, «è destinato a soccombere ai nuovi mostri eterodiretti, in quanto rappresentante di un passato ormai superato e da cancellare […] La conclusione ultrapessimista del film, che fa di Robert quasi una figura cristologica, suggerisce la tragica considerazione della necessità ma, al tempo stesso, dell’inutilità del pensiero-azione, che nulla può di fronte a un cambiamento così epocale. Da questa prospettiva, L’ultimo uomo della Terra appare come un terrificante apologo sulla Grande Mutazione» (p. 21).

La figura dello zombi irrompe sul finire dei tumultuosi anni Sessanta grazie a Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero; da allora fino agli anni Ottanta del Novecento un certo cinema zombi mantiene la sua feroce critica nei confronti della società, del militarismo e di un certo uso della scienza. Successivamente ecco il rappel à l’ordre normalizzatore, ed al giro di boa del terzo millennio il genere zombie tende ad essere recuperato dal sistema in linea con «quella mutazione conformista che un po’ tutto il cinema di genere – e quello fantastico in particolare – sembra aver pagato all’apocalisse dello sguardo» (p. 22). Tutto ciò in linea con il rappel à l’ordre a cui è sottoposta l’intera società nel corso degli anni Ottanta.

28_DayDunque, sostiene Marchese, al filone haitiano-vudù, esauritosi, salvo qualche rara eccezione, attorno alla metà degli anni Sessanta, ed alla serie di film di (ed alla) Romero, contraddistinti da una feroce critica sociale, succede una terza ondata di cinema zombi inaugurata da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, film che non manca di richiamare The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero. Ad essere messa in scena nel film di Boyle è una realtà in cui gli esseri umani si trasformano in creature antropofaghe non appena venuti a contatto con agenti virali. Tale nuova ondata zombi è spesso associata al clima catastrofico, paranoico e d’incertezza diffusosi soprattutto dopo l’attacco alle Twin Towers, in cui entrano in causa anche l’invadenza dei media e la crisi economica.

Secondo lo studioso nella produzione cinematografica e televisiva dell’ultimo quindicennio, salvo rare eccezioni, la figura dello zombi ha perso tanto il fascino del filone haitiano, quanto la sferzante critica sociale e politica presente nell’ondata romeriana. Marchese accusa le produzioni più recenti di ripetere sostanzialmente il medesimo schema narrativo con poche varianti: l’irrompere dell’orrore nella quotidianità borghese, la catastrofe mostrata in diretta dalla tv, le città evacuate in un clima da fine del mondo, la pandemia, l’incubo del contagio e del contatto con l’“altro”, la dissoluzione di ogni ordine sociale, i problematici rapporti tra i superstiti…

«All’apice del suo successo planetario – la “zombitudine” ha valicato i margini del fotogramma ed è diventata una moda, quasi uno stile di vita (imperdibile l’interessantissimo documentario Doc of the dead di Alexander O. Philippe, 2013) –, bisogna rilevare come il cinema zombi post 11 settembre, sul piano etico ed estetico, si caratterizzi per una piattezza narrativa disarmante e per il conformismo delle soluzioni stilistiche, che sul piano strettamente iconografico appaiono spesso quasi ricalcate, in maniera a dir poco inquietante, sul modello delle riprese televisive di quel tragico evento» (p. 24).

Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di George Romero viene indicato da Marchese come un’interessante riflessione metalinguistica. La storia è quella di uno studente di cinema che, intendendo realizzare un film horror, finisce col trovarsi catapultato in un mondo in cui i morti tornano in vita attaccando i vivi e decide di sfruttare l’occasione per realizzare “un horror in presa diretta”. È il protagonista, Jason, ad essere un vero zombi: «malato di immagine e drogato di virtuale, si relaziona a un mondo che va in pezzi protetto dallo schermo della videocamera. Forte della convinzione di dover informare la gente su ciò che accade, ma non esitando ad aggiungere gli effetti sonori più sinistri al montaggio finale allo scopo di amplificare il terrore, perché “la verità a volte non basta”, Jason sconta il delirio d’onnipotenza e l’egomania di coloro che nutrono una fiducia ottusa nel virtuale, nella falsa democraticità della Comunicazione, credendo di poter salvar l’umanità postando l’ennesimo video su internet, seduti nel buio della loro cameretta» (p. 27). Il film coglie e restituisce il nauseante disorientamento derivato dall’eccesso di immagine a cui si è sottoposti nella società contemporanea contraddistinta da un’ossessione generalizzata per la registrazione di immagini e relativa condivisione attraverso i media.

«Diary of the dead è anche un interrogativo nichilista su cosa significhi fare cinema oggi, all’epoca dell’apocalisse dello sguardo, e su quale senso possa avere continuare a raccontare storie, a inventare immagini, a inflazionare con ulteriori cine-frammenti un mondo nel quale la verità e la realtà fattuale appaiono non più conoscibili e scomposte in innumerevoli e non verificabili ipotesi-di-realtà che si annullano a vicenda, affogando nel vortice costante di un rumore di fondo frastornante che ha come esito ultimo l’indifferenza di fronte al reale, il sonnambulismo percettivo, quella morte dello stupore che coinvolge ormai tutti quanti, produttori e fruitori d’immagini» (p. 28).

Marchese risulta molto severo nei confronti della produzione audiovisiva zombi più recente tanto da salvare quasi soltanto il buon vecchio Romero che, con opere come Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) e Survival of the dead (L’isola dei sopravvissuti, 2009), dimostra di saper ancora padroneggiare la metafora del morto vivente per riflettere sulla deriva della società e sulla condizione umana.

only-lovers-left-alive«Spia sintomatica del comune sentire dell’umanità del terzo millennio, il cinema zombi non va oltre la remunerativa ambizione di registi e produttori d’immagini di soddisfare il bisogno di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore, da parte di un pubblico che in essa trova sfogo catartico e compiacimento. A fronte di tanto eccesso di ostentazione, vedere tutto per non pensare a nulla, gli zombi più credibili, i Veri Zombi, sono quelli dell’ultimo capolavoro di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Che non si vedono quasi mai e che compaiono solo nei discorsi dei protagonisti, due raffinati vampiri che vivono isolati dal mondo, difendendo gelosamente il loro spazio vitale dalla contaminazione con gli “zombi”, gli esseri umani, che ritengono colpevoli di aver distrutto la natura, rinnegato la vera arte, pervertito la scienza e smarrito il senso del bello» (pp. 29-30). Dunque, gli zombi siamo noi nel manifestare «indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» (p. 30).

Secondo Marchese ormai il cinema che parla di “veri zombi” non ha a che fare tanto con i film, più o meno truculenti, che si ostinano a mettere in scena orrorifiche creature barcollanti, bensì è quello «che racconta gli effetti della Grande Mutazione sull’evoluzione della natura umana, spingendoci a riflettere in particolar modo sulla responsabilità dei media e dell’audiovisivo nel compimento della profezia caligariana» (p. 30) ed a tal proposito si sofferma su tre film: Benny’s video (1992) di Michael Haneke, Tony Manero (2008) di Pablo Larrain e Reality (2012) di Matteo Garrone.

L’opera di Haneke mostra gli effetti del bombardamento d’immagini sul comportamento umano. Benny, il protagonista del film, che mantiene i contatti con mondo quasi soltanto in maniera indiretta attraverso un monitor che riproduce la realtà esterna all’abitazione e passa buona parte della giornata visionando film horror, uccide una coetanea da poco conosciuta, anch’essa del tutto assuefatta alle immagini cruente. «Dopo aver trascinato il corpo inerte per la stanza, Benny asciuga il sangue sul pavimento con un lenzuolo. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Le immagini, nell’era della Comunicazione, scorrono in un flusso costante, amorfo e volatile, ma la loro eredità psichica ed emotiva è persistente ed esiziale» (p. 31).

Il film di Pablo Larrain è ambientato nel Cile di fine anni Settanta e racconta la storia di Raúl Peralta, un ballerino ossessionato dalla figura di Tony Manero protagonista di Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977) di John Badham. La macchina da presa segue Peralta «per le strade fatiscenti di una città avvolta da una cappa plumbea, opprimente e claustrofobica, in un contesto umano degradato, privo di tessuto connettivo e dedito solo alla sopravvivenza. Il punto di vista dello spettatore coincide con quello di Raúl, che come un animale braccato è indifferente a tutto ciò che non riguarda direttamente il conseguimento del suo scopo» (pp. 31-32). Il ballerino intende partecipare ad uno show televisivo in cui si premiano i sosia perfetti dei personaggi famosi e non esita ad uccidere chi sembra frapporsi alla sua identificazione con Tony Manero. «Identificarsi con i divi dello spettacolo, riprodurne gesti, movimenti e adottarne il look, rappresenta l’unica via di fuga in una società che non lascia spazio all’individuo. La massima mortificazione della libertà individuale provoca schizofrenicamente ulteriore desiderio di omologazione» (p. 32).

Anche nell’opera di Garrone siamo alle prese con un personaggio ossessionato dal raggiungimento della notorietà televisiva. Nel film, ambientato a Napoli, il pescivendolo Luciano decide di partecipare alla selezione per il Grande Fratello e nella snervante attesa di risposta il «sogno di fama e di successo s’impossessa di lui sotto forma di un’ossessione maniacale che può trovare sbocco solo nella dissociazione psichica. Da questo punto di vista, Reality è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure. Non è un film sulla realtà virtuale, ma sulla virtualità della realtà in un mondo dominato dal culto dell’Apparire, in cui il Grande Fratello ha sostituito Dio ed è la televisione a fornire quella speranza d’immortalità che un tempo era promessa dalla fede o dalle ideologie» (pp. 32-33).

È dunque questa “umanità 2.0”, totalmente plasmata dall’immaginario dei media a mostrare, secondo Marchese, i segni inequivocabili della zombificazione in atto, se non avvenuta.

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Nemico (e) immaginario. Mutazioni nell’immaginario dello zombi https://www.carmillaonline.com/2017/02/15/nemico-e-immaginario-mutazioni-nellimmaginario-dello-zombi/ Wed, 15 Feb 2017 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35731 di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» Antonio Lucci

Riprendiamo la serie “Nemico (e) immaginario” grazie ad alcuni spunti interessanti offerti dal breve saggio “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” di Antonio Lucci contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016), ove sono presenti anche scritti di Rocco Ronchi, Livio Marchese, Tommaso Ariemma, Tommaso Moscati, Emiliano Cinquerrui e Cateno Tempio.

Lucci ripercorre la trasformazione dell’immaginario degli zombi costruita dagli strumenti narrativo-mediatici contemporanei ripercorrendo al contempo il tipo di frames che tale immaginario veicola e rafforza. Nonostante George Romero trasformi, sin dalla fine degli anni Sessanta, decisamente la figura dello zombi rispetto alle sue origini haitiane, lo studioso individua tre elementi che restano sufficientemente costanti: gli zombi sono morti che tornano in vita,  sono sempre più di uno e sono una massa indifferenziata.

Lo zombi haitiano messo in scena dal film White Zombies (L’isola degli zombie, 1932) di Victor Halperin è esplicitamente vittima del sistema capitalista; è un morto che viene risvegliato da uno stregone che lo priva di volontà per renderlo schiavo impotente mancante di bisogni e desideri ed è impossibile da redimere. L’immaginario dello zombi haitiano è costruito sul terrore per una schiavitù che rischia di essere eterna, tanto che nemmeno con la morte l’individuo riesce ad emanciparsi da essa. Si tratta di un immaginario che prospetta uno stato atemporale in cui esiste soltanto il lavoro ed il comando.

«Questo elemento – lo zombi come paradossale controfigura dell’oppresso – resterà sempre, più o meno dichiaratamente, come elemento caratterizzante il frame-zombi. […] Gli zombi-drogati delle piantagioni della HASCO […] erano lavoratori senza forza-lavoro, in quanto per essere forza-lavoro, in una prospettiva marxiana, bisogna essere innanzitutto forza, ossia qualcosa che vive, e che vivendo eccede il lavoro, si ricarica delle proprie energie, della propria vitalità, dopo, malgrado e al di là del proprio impiego nell’attività produttiva. Lo zombi haitiano, privato anche di questa potenzialità produttiva, non è più né forza-lavoro (ma solo lavoro) né proletariato, in quanto privato persino della potenzialità di creare prole, di essere vita che perpetua sé stessa, ma pura morte, nuda morte che cammina: walking dead. Lo zombi – incarnazione visiva del ritorno del rimosso freudiano – si vendicherà di questa schiavitù preoriginaria nelle sue incarnazioni successive, che da un lato renderanno la figura dello zombi un emblema della critica al capitalismo, mentre dall’altro esso diventerà una macchina da riproduzione, un prole-tario nel senso letterale del termine: un ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione» (pp. 72-73).

Se il film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero può essere interpretato in chiave antirazzista, con The Dawn of the Dead (Zombi, 1978) di George Romero è esplicatamene l’immaginario capitalista ad essere messo in discussione e, secondo lo studioso, in questo film mutano alcune caratteristiche fondanti del frame-zombi: «se, infatti, l’idea originaria per cui lo zombi porta in sé un potenziale critico nei confronti delle strutture di potere esistenti era già presente in nuce nella figura della mitologia haitiana (lì, come visto, la critica alla schiavitù si esprimeva indirettamente come critica nei confronti del malvagio stregone-schiavista, simbolo del padronato bianco), essa si presenta ora con una forza sempre maggiore nelle trasposizioni cinematografiche romeriane» (p. 74). In realtà già sul finire del primo film di Romero, al di là della critica al razzismo, si trovano alcuni elementi che resteranno costanti nella produzione romeriana, come la critica nei confronti di governanti e militari palesemente incapaci di proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo.

«L’inoperosità dello zombi diventa in questo film paradigmatica (gli zombi sono pura “potenza di non”, una potentia negativa per eccellenza, in quanto il loro agire non crea mai nulla, nessun prodotto, ma solo l’opposto di un prodotto, un non-prodotto, vale a dire la contraddizione in atto che è il morto vivente) assieme al rovesciamento della sua posizione proletaria. Se – come visto – lo zombi haitiano era deprivato sia della sua inoperosità (base di qualsiasi forza, anche di quella produttiva) sia della sua capacità procreativa di generazione e riproduzione, lo zombi romeriano – al contrario – rappresenta l’oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione: gli zombi romeriani sono (non-) morti che creano altri, potenzialmente infiniti, seguaci della loro stessa non-morte, portando così alle sue conseguenze estreme, critiche e massime il proprio potenziale prole-tario. Gli zombi, dunque, mutano con Romero – in maniera importante anche se non direttamente percepibile – le coordinate-base dei loro frames di riferimento: restano massa, ma da asservita diventano soggiogante, non sono più in potere di un padrone, ma fanno parte di un movimento eminentemente acefalo, collettivo e organizzato “dal basso” nella propria assenza di opera» (pp. 75-76).

28-days-laterUna nuova mutazione dell’immaginario zombi, sostiene Lucci, ha a che vedere con «la teoria del complotto e l’ansia sociale nei confronti dei possibili risvolti tanatologici (e tanatopolitici) della medicalizzazione sempre più evidente della cosa pubblica» (p. 76). Secondo lo studioso è a partire da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle che tale filone diviene il nuovo standard per il genere zombi, anche se in realtà nasce insieme alle prime opere di Romero, basti pensare a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973). «Fin dall’inizio, quindi, potremmo dire che nella testa del creatore dello zombi sul grande schermo, e più in generale nell’immaginario collettivo, lo zombi e l’infetto sono l’uno il Doppelgänger dell’altro, camminano – claudicanti – assieme» (p. 77).

Dunque se da un lato lo zombi è un morto che ritorna, dall’altro è un vivo malato. «Le due figure non possono mai totalmente coincidere: a livello cinematografico, infatti, vi è piuttosto una sovrapposizione iniziale che diviene poi una staffetta tra i due generi, per finire con una sostituzione praticamente totale […] lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte – sia nel dibattito pubblico che nelle angosce che dominano le rappresentazioni collettive – per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» (pp. 77-78).

A partire da 28 Days Later, sostiene Lucci, le narrazioni insistono nell’indicare l’origine degli zombi nella contaminazione da virus, solitamente derivante da un esperimento militare o da un atto terroristico, e ciò determina un allontanamento dell’immaginario zombi dalle sue origini ove veniva data importanza alla tematica della morte ed a quella del lavoro e della sottomissione. La variante contemporanea dello zombi tende piuttosto a concentrarsi sullo zombi infetto che spesso perde la proverbiale goffaggine e lentezza per divenire un corridore affamato, dunque una perfetta incarnazione dei valori della società capitalistica realizzata.

Lo zombi contemporaneo, lo zombi-infetto, non è più un morto che ritorna e se «il potenziale critico dello zombi-morto si esprimeva per contrasto metaforico (gli zombi erano gli schiavi, o le vittime incoscienti – e al fondo innocenti dell’innocenza propria dei morti – delle macchinazioni militari o governative), gli zombi-infetti sono sempre più spesso solo la molla d’innesco di film che hanno al proprio centro un’antropologia pessimistica, e che hanno come fine quello di mostrare come – in una società resettata, in cui le istituzioni collassano e tornano al punto zero, grazie a o per colpa degli zombi – l’essere umano sia il vero mostro» (p. 79).

Lucci sottolinea come nelle recenti produzioni audiovisive, nonostante lo zombi-infetto sia tale a causa di un virus propagato, più o meno volontariamente, da altri, l’accento tende ad essere posto non tanto sui rapporti tra esseri umani e zombi, quanto piuttosto sulle dinamiche intercorrenti tra i gruppi umani dopo l’apocalisse. «In questo modo, mostrando la crudeltà dell’animale umano allo stato di natura, il genere si rovescia da cultural-critico in conservatore: vengono, infatti, sempre più affermati i valori della famiglia, del gruppo, della leadership (un tormentone, nei film del genere, la domanda “Who is in charge?”, “Chi comanda qui?”), della violenza “giustificata”, della sopravvivenza del più “adatto”. In questo punto il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» (pp. 79-80).

Nella serie di fumetti The Walking Dead, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, vi è un momento in cui esplicitamente la narrazione dello zombi-morto finisce col coincidere con quella dello zombi-infetto: «nel mondo di TWD un’infezione dall’origine sconosciuta ha colpito tutti in potenza, ma il divenire-zombi si attualizza solo una volta che (non importa come) si muore. Dunque l’infezione (preoriginaria) e la resurrezione (necessaria e inevitabile, come in un’inevitabile realizzazione postmoderna del dogma cristiano) finiscono per coincidere in un’unica narrazione, dove la teoria del complotto fa da sfondo. TWD riesce così, da un lato, a rimanere una serie paradossalmente “mortalista” (dove cioè la morte svolge ancora un ruolo portante nella determinazione dello zombi, in pieno stile romeriano, anche se affiancata dall’idea della zombificazione come risultato di un virus), anche laddove […] la narrazione dello zombi-infetto sposta l’accento più sui rapporti umani e sulle implicazioni delle macchinazioni (complottiste) delle entità statali nell’epoca pre-apocalisse. Questo punto (il “mortalismo”) è di particolare rilevanza in TWD, perché, paradossalmente, fa “rientrare” lo stato d’eccezione che l’outbreak, per definizione, crea: nel mondo di Rick Grimes e della sua compagnia, infatti, gli zombi (ossia la presenza quotidiana della morte) sono la normalità, la morte che essi incarnano e rappresentano è inevitabile… così come necessariamente, anche per noi, la morte è, e non può che essere» (pp. 80-81).

A differenza di ciò che avviene nelle narrazioni romeriane, in The Walking Dead gli zombi sembrano essere divenuti parte della normalità. A tal proposito Lucci si sofferma sull’episodio intitolato “The Grove” (n. 14 – Stagione 4) in cui la piccola Lizzie, aggregatasi a Carol dopo aver perso la madre, si dimostra incapace di considerare gli zombi ontologicamente diversi dagli umani. Tale logica appare inconcepibile ai personaggi adulti e, attraverso essi, tende a risultare assurda anche allo spettatore. «In realtà, dal punto di vista logico, l’atteggiamento di Lizzie è perfettamente coerente con le coordinate ontologico-esistenziali del mondo in cui sta crescendo: gli zombi sono (in un modo del tutto peculiare, per noi inconcepibile) persone, fanno parte della realtà, di quella determinata realtà, è impossibile ignorarli, e – soprattutto per chi conosce solo quel mondo, come i bambini, appunto – ghettizzarli ontologicamente, come un’anomalia che non va accettata in alcuna maniera, appare parimenti assurdo. La paradossale figura di Lizzie rappresenta l’interiorizzazione parossistica delle categorie del mortalismo assoluto che la presenza della morte entificata (ossia dello zombi) porta nel proprio orizzonte logico». (pp. 81-82).

Nelle narrazioni delle serie televisive, che hanno tempi narrativi lunghi, le categorie logiche, ontologiche ed etiche, constata Lucci, mutano facilmente rispetto alla realtà pre-apocalittica ed il genere zombi (sia nella variante dead che in quella dell’infetto) non può che mettere in scena strutture sociali e morali trasformate mentre nei film, che hanno tempi di narrazione meno dilatati, ed il racconto tende a svilupparsi a ridosso dell’apocalisse, si possono più facilmente esporre elementi di critica culturale, mostrando gli esseri umani in balia di situazioni estreme. «Laddove l’apocalisse diventa uno stato acquisito, essa viene normalizzata, e la funzione della narrazione-horror quale esperimento mentale viene meno» (p. 82).

the-walking-deadFacendo riferimento alla puntata intitolata “Them” (n. 10 – Stagione 5) lo studioso si sofferma su una frase pronunciata da Rick Grimes: “We are the walking dead!”. Con tale affermazione si ha il superamento del dualismo tra zombi-morto e zombi-infetto; l’uomo e lo zombi finiscono col coincidere. E non è casuale, continua Lucci, che tale frase venga pronunciata dopo lo scontro tra il gruppo di Grimes e gli abitanti di Terminus, che intendevano sperimentare un’utopia post-apocalittica accogliente ed avendo dovuto far ricorso alla violenza per difendere la propria libertà, si sono poi trasformati in un gruppo militarizzato incline al cannibalismo.

Dunque, conclude Lucci, l’affermazione “We are the walking dead!” «è vera non solo perché ogni vivente, nel mondo di TWD, è già sempre infetto (senza contare che – anche prima dell’infezione – ogni vivente porta in sé la propria morte), ma anche e soprattutto perché in un mondo dove la resurrezione è avvenuta senza giudizio, tutti – vivi e morti – sono zombi, e tutto è permesso. I cannibali di Terminus, al fondo, così come Lizzie, sono abitanti perfetti di un mondo in cui le coordinate storiche ed etiche di riferimento non possono che essere mutate, e dove gli ancoraggi della morale pre-apocalisse (ad esempio concetti come “persona”, “comunità”, “fratellanza”, “onore”, ecc.) perdono tutto il loro valore. Anche qui, nella variante post-apocalittica e post-moderna dello stato di natura hobbesiano, il genere zombi perde il suo valore cultural-critico, normalizzandosi, e diventando anzi conservatore: vengono rimpiante quelle istituzioni che invece l’esperimento mentale dell’apocalisse metteva radicalmente in questione. Infatti, in un mondo dove tutto è permesso, dove non c’è Dio, e la prova di questa assenza è (al contrario di quello che sosteneva San Paolo) proprio l’avvenuta resurrezione dei morti, rimane solo la speranza che arrivi un qualche Leviatano (nella forma militarizzata dell’esercito o in quella tecnocratica di una cura), in quanto Deus ex machina, a salvarci» (p. 82).


Qua l’intera serie “Nemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. Il postumano tra soggettivazione emancipatoria e nuove forme di dominio https://www.carmillaonline.com/2016/08/30/nemico-immaginario-postumano-soggettivazione-emancipatoria-nuove-forme-dominio/ Tue, 30 Aug 2016 21:30:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32596 di Gioacchino Toni

mondi-altri-coverIn precedenza abbiamo affrontato il rapporto tra la figura del nemico e l’immaginario fantascientifico spaziando tra zombie, alieni e mostri vari [su Carmilla]. Abbiamo visto come il terrore umano nei confronti dell’altro e dell’ignoto messo in scena dalla finzione riprenda tanto paure ataviche quanto storiche, tanto autonome quanto eteronome e come tali paure possano anche rivelare un timore di sé. Ogni volta che, nella difficile sopravvivenza quotidiana, viene messa in discussione una qualche forma di lenitivo e consolatorio “stato di stabilità”, l’essere umano sembra patire una crisi d’identità [...]]]> di Gioacchino Toni

mondi-altri-coverIn precedenza abbiamo affrontato il rapporto tra la figura del nemico e l’immaginario fantascientifico spaziando tra zombie, alieni e mostri vari [su Carmilla]. Abbiamo visto come il terrore umano nei confronti dell’altro e dell’ignoto messo in scena dalla finzione riprenda tanto paure ataviche quanto storiche, tanto autonome quanto eteronome e come tali paure possano anche rivelare un timore di sé. Ogni volta che, nella difficile sopravvivenza quotidiana, viene messa in discussione una qualche forma di lenitivo e consolatorio “stato di stabilità”, l’essere umano sembra patire una crisi d’identità che lo conduce, non di rado, a provare l’esigenza di un nemico espiatorio. Ora, pensando ai processi di trasformazione/destabilizzazione dell’individuo e del pianeta, vale la pena soffermarsi sul dibattito sviluppatosi, soprattutto a partire dagli anni Ottanta attorno alle trasformazioni che hanno toccato l’essere umano relativamente ai processi di ibridazione che lo modificano attraverso protesi chimiche, meccaniche, elettroniche… e via dicendo fino alle tecnologie più recenti. Tale dibattito, come vedremo, si pone in maniera problematica la questione del “postumano”: stato di fatto od entità a venire? Processo di liberazione o nuova forma di dominio? Sol dell’avvenire o buia minaccia? Linea di fuga da imboccare o deriva di dominio a cui resistere? E, se nel postumano si individua un nemico dell’umanità, si tratta di un nemico reale o immaginario? Il cyborg è un nemico dell’umanità o l’umanità è già composta da cyborg?

Al fine di affrontare alcuni di questi interrogativi sulla realtà e sullo stato dell’umanità contemporanea, vale la pena ricorrere al denso saggio curato da Amos Bianchi e Giovanni Leghissa, Mondi altri. Processi di soggettivazione nell’era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia (Mimesis 2016). «In primo luogo, si tratta di esplorare il potenziale dell’utopia oggi, il significato che ha la facoltà di immaginare un mondo diverso in relazione al desiderio di vivere in un mondo più giusto ed equo. Il riferimento alla fantascienza resta centrale, ma si tratta anche di cogliere, là dove siano presenti, tutti quegli ambiti di riflessione che nascono dal bisogno se non di negare, almeno di mettere radicalmente in questione la realtà esistente […] In relazione a quali forme di assoggettamento oggi si diventa soggetti? Quali percorsi di libertà sono possibili entro la cornice del neoliberalismo? Come funziona un regime totalitario che, anziché imporre e reprimere, costruisce le architetture della scelta che spingono gentilmente gli individui verso percorsi di vita predeterminati?» (pp. 9-11).

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 anche in Italia, grazie a studiosi come il compianto Antonio Caronia, si apre un serrato dibattito sulle trasformazioni tecnologiche che stanno investendo tanto il sistema produttivo che il soggetto stesso. A tal proposito Giuliano Spagnul (“Distruggere l’utopia”) sottolinea come Caronia non parli di mutazione antropologica come conseguenza di una tecnologia intesa come agente autonomo; essendo la tecnologia figlia dell’attività umana, essa non può essere causa ma sintomo della trasformazione che avvolge l’essere umano. Ne consegue che non è possibile concepire l’ibridazione uomo-macchina o solo come minaccia o solo come promessa esaltante e ciò vale a maggior ragione per una contemporaneità che ha notevolmente ridotto la distanza tra naturale ed artificiale, tanto che quest’ultimo appare sempre più inglobato all’interno dell’uomo. «Caronia non rinnega l’interesse e la necessità di affrontare il nuovo e di accettare la sfida di un mondo in cui reale e immaginario sempre più sembrano fondersi; semplicemente, in una radicale scelta anti-utopica, ancora il proprio interesse a un presente che possa contenere in sé il futuro come possibilità e non come programma» (p. 24).

Per meglio comprendere la questione del postumano, vale la pena indagare quell’ambito che, meglio di ogni altro, da tempo si è posto tanto il problema del rapporto tra l’uomo e la tecnologia, quanto la proiezione del presente nel futuro: la fantascienza. Lo scritto di Domenico Gallo (“Una solitudine inespugnabile. Critica del presente ed elaborazione del futuro nella fantascienza statunitense”) si focalizza proprio sull’uso della fantascienza come strumento di elaborazione politica e sull’impatto delle scienze e della tecnica sull’organizzazione sociale. Lo studioso ricorda come a partire da fine Ottocento la tradizione dell’utopia come luogo isolato subisca una netta trasformazione. «Dalla critica all’utopia nasce il desiderio di costruire una società migliore combattendo all’interno dei luoghi dello sfruttamento occidentale […] È un passaggio importante quello che dall’idealizzazione letteraria conduce all’utopia come pratica, perché dimostra che anche le classi che erano state escluse dalla cultura e dalla lotta per il potere, e i cui desideri di pace e prosperità erano stati esclusivamente declinati dalla religione, potevano essere realizzati nella vita reale» (pp. 25-26). Dunque, contro l’idea tradizionale di utopia come luogo separato di molta letteratura americana «si schiera una cultura collettiva e urbana che, attraverso il sindacalismo, si sposta progressivamente dall’utopia al miglioramento quotidiano delle condizioni di vita e di lavoro. L’altra linea proviene dall’Illuminismo e dal mito del progresso scientifico e tecnologico, che ha supportato negli Stati Uniti la creazione di un ceto di tecnici sempre più numeroso e che ha giocato un ruolo ambivalente all’interno dei rapporti [di] classe» (pp. 26-27).

Negli Stati Uniti tecnologia ed utopia sembrano intrecciarsi decisamente e le riflessioni di David Noble (La religione della tecnologia) evidenziano come lo sviluppo tecnologico occidentale si leghi ad aspirazioni spirituali che ritroviamo in un immaginario americano fortemente plasmato dalla componente profetica dell’esperienza puritana. Gallo ripercorre le tappe principali dello sviluppo della fantascienza a partire dal 1926, quando «nasce come fenomeno sociale, codificandosi come letteratura autonoma, attraverso la pubblicizzazione del proprio nome (all’inizio “scientifiction”) e un’editoria dedicata (Amazing Stories)» (p. 30). Fin dalla sua nascita la fantascienza contribuisce alla creazione di un immaginario in cui si fondono tecnologia ed eredità utopica ed al tempo stesso si palesa una sua vocazione politica in quanto critica nei confronti del presente. Il ruolo della tecnologia nell’idea di trasformazione della realtà risulta centrale negli Stati Uniti e ricorda Gallo come secondo le idee del Tecnology Movement – in cui si intrecciano populismo americano, visioni elitarie ed elementi socialisti -, non solo la complessità moderna dovrebbe essere governata da esperti di tecnologie e scienziati, ma è l’intera società a doversi trasformare in una società di tecnici. «Nell’ideale tecnocratico il capitalismo è parzialmente messo in discussione, separando un uso positivo, se impegnato in ricerca e sviluppo, produttore di innovazione e progresso, da uno negativo che crea ricchezza per pochi attraverso la speculazione, accentrando il benessere e sfruttando il lavoro altrui» (p. 33). È interessante notare come anche la sinistra americana confidi nel ruolo positivo delle tecnologie nonostante l’introduzione delle macchine nei processi produttivi fosse stata letta da Marx come strumento di sfruttamento e di riduzione della forza lavoro.

«Nella visione tecnocratica la narrativa aveva lo scopo di collegare il lettore ai temi della ricerca scientifica e di orientarlo al lavoro tecnico, e di conseguenza il contenuto delle riviste pulp non era a predominante letterario, ma esprimeva un progetto di trasformazione politica e sociale. Ne consegue che, a differenza di altri generi letterari, si è instaurata un’interazione tra lettori, scrittori ed editori, che, attraverso rubriche, editoriali e lettere, tendono a condividere il progetto e a praticare un’intensa collaborazione. Nasce così quella figura un po’ strana del cultore della fantascienza, a metà tra l’appassionato e l’attivista» (p. 34). Si costituisce dunque un immaginario in cui la fantascienza celebra la modernità e propaganda un ruolo privilegiato per i cultori di tecnologia almeno fino a quando la Grande depressione non incrina l’ottimismo nella tecnologia e nella scienza ormai percepite come strumenti di sfruttamento. Se il Communist Party of the United States of America propaganda una visione positiva per la scienza, John B. Michel, Robert W. Lowndes, Frederik Pohl e Donald A. Wollheim, quattro giovani attivisti appassionati di fantascienza, contrastano tale impostazione e «Criticando dall’interno la tecnocrazia e l’elitarismo degli scrittori e delle riviste, osservando anche che la comunità degli appassionati, che si erano riuniti nella Science Fiction League, escludeva di fatto la working class, le persone di colore, le donne e gli immigrati più recenti, elaborano una teoria della fantascienza come una combinazione tra immaginazione, marxismo e cultura popolare» (p. 35).

Secondo Wollheim, abbandonato il positivismo tecnologico, il compito della fantascienza dovrebbe essere quello di recuperare e proiettare l’originale spirito utopista verso la costruzione di un immaginario antagonista di liberazione. Wollheim, sostiene Gallo, teorizza una “fantascienza sociale” attenta tanto alle relazioni tra esseri umani e tecnologie, quanto all’uso di queste da parte del potere. «In questo senso il gruppo di Michel, Lowndes, Pohl e Wollheim supera la visione strumentale e propagandista del realismo proletario, non limitandosi a una mera rappresentazione del comunismo futuro, ma incamminandosi verso modelli di speculazione sociale molto sofisticati. Nel mondo degli appassionati di fantascienza questo progetto estetico e contemporaneamente politico inizia a diffondersi sotto il termine di Michelism, riconoscendo a John Michel il maggior contributo elaborativo. Nell’idea di Michel, la comunità della fantascienza, modificando il proprio giudizio sulla scienza e accettandone la visione sociologica e critica, avrebbe costituito una avanguardia politica che lavorava all’interno della rete culturale comunista» (p. 36).

Sul finire degli anni ’30 nasce il Committee for the Political Advancement of Science Fiction, organizzazione comunista intenta a smascherare il fascismo presente all’interno del genere e ad indirizzare gli appassionati su posizioni di sinistra. A tale organizzazione succede, poco dopo, la Futurian Society of New York a cui si legano Isaac Asimov, Damon Knight, Cyril Kornbluth, Judith Merril e James Blish. Lo scoppio della guerra e le carriere individuali limitano l’azione dei Futurians e, nel dopoguerra, conclude Gallo, in un panorama totalmente cambiato, alla fantascienza tecnocratica inizia a sostituirsi una fantascienza più attenta ai temi sociali volti a criticare il processo liberticida in atto nel paese sull’onda della guerra al comunismo.

stelarc0099Tornando alla contemporaneità, Giovanni Leghissa (“Uscire dal Neolitico. Per un uso politico della nozione di postumano”) nel suo intervento intende verificare la nozione di “postumano” alla luce di una critica del presente e dei rapporti di potere che lo caratterizzano. Tale nozione, sostiene lo studioso, viene introdotta per «liberare la teoria sull’umano dalle ipoteche, pesantissime, di un veteroumanismo che pone i membri della specie umana in una posizione di superiorità rispetto a tutte le specie di animali non parlanti» (p. 44). Secondo la logica umanistica, proprio attraverso il “privilegio della parola”, l’essere umano conquista la possibilità di pensiero, dunque di liberarsi dalla bassa materialità del segno scritto, accedendo così alla dimensione dello spirito. Nella presunta liberazione dell’uomo dalla sua animalità è possibile leggere anche l’azzeramento delle differenze sessuali.
Caronia (Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale), a metà degli anni ’80, sviluppa il tema del cyborg conferendogli una doppia valenza: da una parte la spinta verso l’ibridazione uomo-macchina può essere letta come parte di un processo di soggettivazione emancipatorio e, dall’altra, nell’ibridazione con i mondi digitali si possono riscontrare nuove forma di dominio. Nel primo caso divenire cyborg può significare sottrarsi al potere abbandonando modelli di soggettivazione imposti dalla tradizione, nel secondo caso, invece, si può scorgere l’abilità del capitale nello sfruttare produttivamente le competenze acquisite dall’essere umano durante la sua immersione nel mondo virtuale durante il “tempo libero”. Comunicare, condividere pensieri e proposte in rete significa, infatti, non solo interagire con amici ma anche fornire informazioni al capitale consentendogli di affinare le strategie di consumo. «In stretta correlazione a ciò, va poi considerato il fatto che nello spazio digitale in cui sperimentiamo nuove identità virtuali apprendiamo a trasformare noi stessi in imprenditori della nostra identità, e in tal modo accogliamo il principale imperativo del dominio neoliberale» (p. 46).

Leghissa si sofferma, inoltre, su un paio di altri aspetti della retorica del cyborg che «impediscono di rendere il discorso postumanista un punto di partenza efficace in vista di una critica del presente» (p. 47). Il primo aspetto riguarda l’enfasi “futurista” di chi invita a considerare il futuro abitato dai cyborg come già attuale. Se «l’obiettivo è diventare in qualche modo immortali grazie alla trasformazione dell’uomo in cyborg, allora vuol dire che siamo in presenza di una mitologia e di una forma di spiritualità di tipo veteroumanistico, in quanto tutte le forme dell’umanesimo tradizionali proprio nella mortalità dell’animale uomo vedevano – e vedono – il limite da superare, la pietra d’inciampo che impedisce un pieno sviluppo dell’umano» (p. 47). Il secondo aspetto da cui distanziarsi, a parere di Leghissa, riguarda l’enfasi con cui ci si riferisce al superamento della dicotomia natura-cultura grazie alle tecnologie. Per certi versi il cyborg compare quando l’essere umano inizia a manipolare oggetti ed a trasmettere alla discendenza le abilità necessarie per gestire tali manipolazioni. «Risulta dunque assai poco persuasivo ritenere che la capacità tecnica, intesa quale capacità di produrre artefatti atti a modificare il mondo, sia sorta nel momento in cui è finita l’evoluzione biologica; quest’ultima, invece, in quanto interazione di homo (non solo sapiens) con il suo ambiente, comporta da sempre sia la produzione e l’uso di artefatti, sia la comunicabilità delle capacità necessarie per tale produzione e per tale uso […] essere postumani non significa dunque concepirsi come quei viventi che inventano la tecnica per aggiungere ciò che manca al bios, bensì significa comprendersi come quei viventi che da sempre inventano la propria posizione nel mondo sfruttando la propria capacità di interagire con la plasmabilità sia di se stessi che del mondo materiale» (p. 49).

Dunque, come definire l’essere umano contemporaneo? Ubaldo Fadini (“Post. A proposito di una discussione sul postumano”) prende spunto da alcune riflessioni di Pietro Barcellona (L’epoca del postumano) che mettono in luce la difficoltà di definire la specificità umana da quando l’integrazione uomo-macchina ha determinato una sorta di salto nell’evoluzione della specie. Il filosofo siciliano individua nel post-umano i caratteri propri del moderno, della sua aspirazione di potenza e di potere senza limiti; il «post-human si presenta quindi come prodotto tardo dell’ideologia moderna dell’“onnipotenza dell’autocostituzione della prassi e dell’immutabilità dell’essere”, un ennesimo discorso, in breve, sull’immortalità, su un destino di resa all’infinito dell’immagine dell’uomo soggetto di bisogni e del modo di produzione che meglio lo raffigura/ripresenta. [Dunque] si può insistere sul post-human nei termini di (espressione di) una radicalizzazione parossistica dell’immanenza del codice vivente al processo dell’evoluzione che taglia fuori qualsiasi rinvio a una trascendenza, a un fondamento, esaltando così una coincidenza di norma e fatto nell’ibridazione di vita e intelligenza artificiale, di uomo e tecnologia di rete» (p. 62).

Secondo Fadini è «rispetto a quella antropologia fondata sulla trascendenza, vale a dire: sul rapporto costitutivo dell’umano con l’extra-umano […] che si può cogliere l’importanza della rottura rappresentata dall’affermazione dell’antropologia dell’autocostituzione dell’umano come soggetto svincolato e assegnato completamente alla sfera del mondano […] in definitiva, si delinea un processo di derealizzazione del mondo, di disconferma della sua autonomia strutturale, che si traduce anche nella negazione dell’altro […] e nel trionfo di una onnipotenza di carattere narcisista. L’effetto più significativo di tale deriva consiste appunto, agli occhi di Barcellona, nel rigetto dell’essenziale “opacità” dell’essere altro, con la sua valenza di limitazione, di possibilità di rilevazione – ancora – del senso della misura, del limite, di un qualche principio di realtà che ridimensioni le presunzioni soggettive. Contrapporsi a tutto questo vuol dire riaffermare la finitezza e la parzialità singolare dell’essere nel mondo, una sorta di “mancanza” […] che si presenta però anche come “eccedenza”, capacità cioè di andare oltre l’“io”, nella sua veste attuale di presuntuoso soggetto assoluto» (pp. 62-63).

Secondo Barcellona, la visione postumanistica del mondo finisce col consegnare il futuro dell’essere umano alle dinamiche di ibridazione di macchine e corpo umano mentre quest’ultimo tenterebbe di resistere alla finale coincidenza di artificio e natura, di tecnica e cultura, e tutto ciò si deve al fatto che il corpo resta in grado di provare emozioni e di mettere in opera mutamenti. Confrontandosi con le tesi di Barcellona, Caronia ritiene che il filosofo siciliano resti convinto dell’esistenza di «processi “autenticamente umani” in grado comunque di “trascendere” il dato naturale/biologico, raffigurato appunto ideologicamente dalla pseudo-“naturalità” del nostro modo di vivere (“borghese”) e di produrre (“capitalista”). Ciò conduce all’affermazione di una sorta di “naturalismo” che pretende di identificare – tra l’altro – il soggetto (in effetti contingente, storicamente determinato) con una presunta “natura umana”, al fine di mantenere aperta una dimensione “antropocentricamente” postbiologica» (p. 65).

mano33Da parte sua Caronia manifesta contrarietà alla nostalgia umanistica contro l’avanzata postumana innanzitutto perché l’ibridazione dell’umano con l’artificiale è ineludibile ed è su questa realtà che si è strutturato l’immaginario del cyborg. «L’ibridazione con determinate tecnologie è infatti concretamente percepibile come una delle modalità di articolazione di pratiche di assoggettamento della vita degli esseri umani alle logiche della globalizzazione economica. Il “cyborg postfordista” rappresenta al meglio […] un processo di ricombinazione/ ricomposizione di una forza lavoro contraddistinta da frammentazione e da una esistenza divisa e dispersa ma comunque poi connessa e resa comunicabile anche e soprattutto sul piano della “virtualità”, ricollocata, sotto tale veste, all’interno dell’odierno processo di valorizzazione capitalista» (p. 67).
Secondo Fadini occorre pertanto insistere sulla base materiale del discorso del postumano alla luce del suo legame con le trasformazioni delle relazioni sociali.

Amos Bianchi (“Chi sono io? Soggettività nella società dell’accountability”) si sofferma sui social media individuati come elemento costitutivo del mondo occidentale e sulla nozione di “quantified self”, definita da Melanie Swan (The Quantified Self) come «individuo proattivamente impegnato in ogni quantificazione possibile di se stesso» (p. 74). Il quantified self, tuttavia, segnala Bianchi, è da intendersi come passaggio verso la costruzione del “self futuro”. Gli “entusiasti digitali” si esaltano di fronte alla prospettiva che «alla base sia dei social media sia del quantified self, vi è un soggetto contemporaneo impegnato a offrire se stesso alla macchina digitale, in forma di parametri numerici, immagini, testi o qualsivoglia altra modalità di espressione» (p. 75). Bianchi intende, invece, definire con “accountability digitale” quel processo di soggettivazione contemporaneo che diffonde se stesso nelle reti, mostrandone il potere e la pervasività di delineare «una nuova descrizione della società, alternativa alle società disciplinari e di controllo, che si intende definire società dell’accountability» (pp. 75-76). Dunque, lo studioso analizza le differenze tra “accountability tradizionale” ed “accountability digitale”, evidenziando come in questo ultimo caso, riprendendo Foucault, sia possibile delineare un’analisi critica che mostri come «essa trovi la propria genealogia nella confluenza, non dialettica ma semplicemente storica, di due processi immanenti al mondo occidentale: il discorso del padrone e il potere pastorale» (p. 78).

Alle trasformazioni del sistema educativo è dedicato l’intervento di Patrizia Moschella (“Genealogia e università. Profezie, scenario e utopie”) che mette al centro della sua analisi l’università. A partire da Nietzsche e Foucault, la studiosa adotta un approccio gnoseologico alla ricerca di una «“griglia di intelligibilità” applicabile alla lettura del contemporaneo e, in particolare, dell’università europea: nuovo soggetto nato con la riforma, assai controversa, nota come Bologna Declaration che sanciva nel 1999 la creazione della EHEA – European Higher Education Area» (p. 87). Moschella riflette su come il sistema educativo sia ormai divenuto parte integrante del mondo delle imprese e l’importanza di tale trasformazione è evidenziata sin dalla prefazione che apre il volume: «Entro una dimensione capitalista tradizionale, educare – almeno le élite – alla creatività e alla libertà serviva a generare quella mobilità dell’intelligenza senza la quale la distruzione creativa di cui parla Schumpeter non può aver luogo. In un contesto neoliberale, ove vige l’estensione generalizzata dell’accountability, si assiste invece all’estensione di una forma di dominio che passa attraverso un modellamento dell’immaginario la cui funzione precipua consiste nel rendere impossibile l’insorgenza di un pensiero critico» (p. 10).

L’integrazione dell’individuo nelle reti tenco-sociali è al centro delle riflessioni di Siegfried Zielinski (“Essere offline ed esistere online”). Lo studioso ricorda come la maggior parte dei dati personali custoditi nei device computerizzati siano a disposizione dei possessori di quei device e come tali applicazioni organizzino le vite degli individui. Secondo Zielinski le persone integrate nelle reti tecno-sociali sono individui solitari e connessi, individui alla ricerca di legami più forti rispetto a quelli di rete che il sistema definisce “amici”. Ma, sostiene lo studioso, quando «l’amicizia inizia a essere descritta come un dato statistico, i campanelli d’allarme dovrebbero ben attivarsi» (p. 101). Ragionando su tali questioni, lo Zielinski elabora un Manifesto “Contro la psychopathia medialis” ancora in via di definizione. Riportiamo di seguito i punti 18 e 19 che, nel dicembre 2010, chiudevano il Manifesto. «18. Essere permanentemente connessi e perpetuamente collegati affatica con rapidità la mente e il corpo […] Questo stato può essere paragonato a un paradiso artificiale prolungato, l’estensione del tempo che le droghe sole possono indurre ma le macchine solo simulare. “Il lungo ora” è un progetto osceno che è stato sviluppato da ingegneri e programmatori che vogliono giocare a essere dio» (p. 105). «19. Per evitare un’esistenza che è troppo alla ricerca del tempo e quindi paranoica, e per evitare all’opposto di non tener conto del tempo pensando di essere a casa sugli anelli di Saturno, in compagnia della malinconia e dell’amarezza, è principio utile praticare una divisione consapevole. Lavoriamo, organizziamo, pubblichiamo e divertiamoci nelle reti. Entusiasmiamoci, meditiamo, godiamo, crediamo, e coltiviamo la fiducia in situazioni separate, autonome, ciascuno per sé e talvolta con altri individui. Questo equivale a un equilibrismo: in una singola vita dobbiamo imparare a esistere online ed essere offline. Se non riusciamo in questo, diverremo mere appendici del mondo che abbiamo creato, le sue mere funzioni tecniche. Non dovremmo consentire che la cibernetica, la scienza del controllo e predicibilità ottimali, ottenga questo trionfo» (p. 105).

L’intervento del gruppo Ippolita (“Junkie cyborg”) ricorda come nonostante i cyborg popolino da tempo l’immaginario fantascientifico, la loro nascita si sia data in ambito medicale. Nel lontano 1960, in piena “urgenza spaziale”, M. E. Clynes e N. S. Kline (Cyborgs and Space) sostengono che «Alterare le funzioni del corpo umano per adattarlo all’ambiente extraterrestre sarebbe più logico che fornirgli un ambiente terrestre nello spazio» (p. 109). Si pensa pertanto di ricorrere a sostanze chimiche per superare la paura dello spazio profondo, per lenire l’angoscia della solitudine, per regolare il battito cardiaco e la temperatura corporea ecc. Gli anni ’60 e ’70 sono segnati dalla chimica tanto nell’ambito della psichedelia e dell’espansione delle coscienze, quanto nell’invasione farmacologica della vita quotidiana. Nello stesso periodo la tecnologia elettromeccanica invade l’ambito civile e di fronte a tali cambiamenti al cyborg chimico non resta che ritagliarsi qualche spazio di nicchia. Caronia sostiene che il sopravvento del cyborg elettromeccanico sul cyborg chimico si deve al fatto che l’idea «di una collaborazione intima, di una combinazione fra organico e inorganico è per certi versi figlia della prossimità con la macchina che si realizza nell’industria capitalistica, con la subordinazione del lavoratore ai ritmi e alle esigenze del macchinario introdotta dalla nuova organizzazione tayloristica del lavoro» (p. 111). L’ibridazione uomo-macchina, secondo Caronia, diviene però possibile con la comparsa delle tecnologie informatiche e digitali in quanto decisamente più duttili rispetto a quelle elettromeccaniche.

«Ed eccoci tornati ai giorni nostri. Il richiamo a una rinnovata attenzione per il corpo ci trova d’accordo. Ma quale corpo? Chi lo gestisce, questo corpo meticcio, e come? Non possiamo accontentarci di riflessioni profonde ma tutto sommato astratte, e un poco nostalgiche dell’epoca in cui tutto era più chiaro, chi erano gli sfruttati e chi gli sfruttatori. Soprattutto, il tecnoentusiasmo di fondo nei confronti delle “leggere” tecnologie informatiche rappresenta per noi una resa di fronte ai nuovi Padroni Digitali, una sorta di servitù volontaria. Vogliamo andare a scoprire dove stanno questi nostri corpi cyborg, come si costruiscono, come si relazionano fra loro. Ci piace pensare che l’informatica del dominio non sia l’unica via: è possibile un’informatica conviviale, ma teoria e pratica non si possono scindere, come se esistessero separatamente. L’autonomia nei confronti degli strumenti comincia dalla conoscenza degli strumenti stessi, mettendoci le mani sopra, e non solo quelle» (p. 111).

Rispetto ai decenni precedenti, negli ultimi tempi l’immaginario cyborg sembra essersi affievolito e ciò, secondo Federica Timeto (“Uno è troppo poco, ma due sono troppi. Ovvero il cyborg come non rappresentazione”), pare in buona parte dovuto al fatto che i media digitali sembrano proporre la virtualità come dimensione del reale. Secondo la studiosa, l’ambiente mediale contemporaneo è talmente ubiquo da mettere seriamente in discussione l’autonomia dei soggetti agenti ed il sistema di rappresentazione che li descrive. «Nei tecnospazi, sia la visione organicistica che quella meccanicistica del corpo si rivelano inadeguate, e soltanto un approccio performativo può adeguatamente rendere conto delle continue riconversioni, e dunque dell’apertura e del dinamismo, di corpi la cui forma attuale non esaurisce il loro divenire, la loro capacità di essere sempre altrimenti» (p. 121). L’informazione contemporanea modulata attraverso reti sia materiali che cognitive, impone, secondo Timeto, il recupero della teoria del cyborg come configurazione che incarna le condizioni di esistenza contemporanee nell’ambiente mediale e la costruzione ibrida della realtà tecnosociale.

La prima idea di cyborg si sviluppa attorno al paradigma cognitivista-rappresentazionale che immagina la mente come essenza racchiusa dentro un corpo, dunque, il cyborg come cervello racchiuso in un ambiente. «In questo tipo di immaginazione, l’intelligenza artificiale è una precondizione del funzionamento delle componenti della macchina. Pertanto, essa può esistere in un vuoto, disincarnata e inscatolata: l’idea di replicazione dell’essere umano, della sua intelligenza, nella macchina presuppone infatti un’umanità “purificata”, e vede l’ibrido solo come mistione di due realtà pure, ognuna astratta dai suoi posizionamenti multipli» (p. 125). Non è “tecnologizzando la biologia” o “biologizzando la tecnologia” che si supera il dualismo tra vita artificiale e biologica; «l’interfaccia non è ciò che separa, ma esattamente ciò che fa accadere, liberando delle “capacità” piuttosto che mettendole in pericolo» (pp. 125-126).

Videodrome-Gun«Laddove Caronia distingue ancora fra l’interrogativo epistemologico posto dall’androide, riguardante la conoscenza delle differenze fra due esseri di natura diversa, e quello ontologico del cyborg, che invece ci costringe a ripensare la natura stessa e la definizione dell’uomo a partire dal suo rapporto con la macchina, la mediazione radicale del cyborg, la sua realtà sempre situata, mostra come l’ontologia cyborg non possa essere scissa da un’epistemologia – e dalle implicazioni etiche di una simile epistemologia – che, avendo fatto a meno della totalità del soggetto e dell’oggetto della conoscenza, riparta dall’assunzione responsabile dei propri modi di essere e di vedere. Come scrive Kember, il cyborg contamina “la nozione di autonomia come ontologia, epistemologia ed etica del sé nella cultura tecnoscientifica” inserendosi in una sorta di “controtradizione” teorica in cui l’epistemologia si riconosce come già ontologica e viceversa. I corpi cyborg, però, vivono una condizione paradossale: quanto più eccedono ogni stabile identificazione, tanto più le dinamiche di produzione e riproduzione del tecnobiopotere li sottopongono a forme di controllo e contenimento che ne regolano i confini, capitalizzandone e codificandone le “capacità”. Per la genealogia “mostruosa” che lo lega allo spettacolo, all’esibizione, a una prodigiosità spaventosa e visibile, il cyborg è stato spesso oggetto di identificazione da parte di potenti macchine rappresentazionali, come gli apparati informatici o biotecnologici. Ma come il mostro, “processo senza un oggetto stabile” che letteralmente non può “togliersi di mezzo”, il cyborg non sta fermo, non è “forma”: informe, amorfo, non conforme, difforme, sia linguisticamente che visivamente, il cyborg non è confinabile dentro precise linee di contorno, anzi, è esattamente ciò che emerge dal loro cedimento. Né cosa né rappresentazione, dunque, il cyborg è piuttosto una figurazione, termine che nella teoria harawaiana indica “un’immagine performativa che può essere abitata”, e che pur non rifiutando la visualità, trasforma le relazioni di corrispondenza (rappresentazionali) in relazioni di coimplicazione (performative), mostrando come le configurazioni del mondo siano modi di vedere e conoscere mai innocenti o trasparenti, ma sempre materialmente situati» (pp. 130-131).

Secondo Marina Naestrutti e Claudio Tondo (“Tra umano e postumano. Cyborg e forme di vita emergenti”), nonostante la tecnologia venga spesso percepita come rischio da controllare o come destino inevitabile per un’umanità obsoleta, esiste anche un approccio teorico, pur vario e contraddittorio, che considera la tecnica come elemento connaturato all’attività umana ed animale. Secondo tale impostazione è proprio grazie alla tecnica che la specie umana si evolve dal punto di vista fisico, cognitivo e morale. Il «divenire-cyborg dell’umano, se da un lato si pone in continuità […] con la specie umana che si modifica da millenni attraverso l’educazione, l’acquisizione di nuovi tratti culturali e le pratiche corporee estetiche, sportive, religiose, simboliche, dall’altro pone il problema degli esiti del processo di ibridazione» (p. 136).
Un approccio al postumano che lo vede come risultato di una transizione che sostituisce l’evoluzione artificiale alla evoluzione naturale, si fonda su una visione basata sulla semplice sostituzione del corpo con la macchina, dunque si pone in continuità con un approccio antropocentrico disinteressato all’ibridazione. «Se negli ultimi decenni del Novecento il cyborg si configurava – almeno nella lettura fornita da Caronia – come “cyborg postfordista”, e dunque come simbolo di nuove forme di asservimento che infrangevano le barriere tra tempo di lavoro e tempo di vita, ora, all’inizio del nuovo millennio, è la vitalità stessa nella sua dimensione somatica e molecolare a essere oggetto di interventi biotecnolgici e, più in generale, a essere incorporata nelle dinamiche bioeconomiche. Il corpo e le sue parti (organi, tessuti, cellule, sequenze di DNA) sono – e non in senso metaforico – un’essenziale fonte per l’estrazione “del valore latente nei processi biologici, un valore che è contemporaneamente quello della salute e quello della crescita economica”» (p. 138).

Donna Haraway scrive, a metà anni ’80, nel suo A Cyborg Manifesto, che i cyborg possono scardinare quelle categorie tradizionali antropocentriche che hanno legittimato diverse forme di dominio: «la fascinazione per il cyborg deriva dalla sua ontologia mista, multipla, dinamica e nomade, dalla possibilità di definire, nelle pratiche materiali di liberazione così come nel lavoro della fantasia, identità e processi di soggettivazione mobili, irrobustiti dalle contaminazioni a diversi livelli con ogni forma di alterità animale e macchinica. La soggettività postumana richiede, contro Descartes, il superamento dell’antropocentrismo e una rivalutazione del pensiero spinoziano come sfondo filosofico di riferimento. Saranno forme di vita ispirate al cyborg e alla relazionalità con altri “compagni di specie”, sostiene Haraway, a indicare all’umano “una via di uscita dal labirinto di dualismi” in cui si è perso» (pp. 139-140).

Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline, nel loro Cyborg and Space del 1960, segnalano come da sempre l’evoluzione dell’umanità si basi sull’adattamento graduale del corpo umano alle condizioni ambientali, dunque, ricorrendo ad alterazioni biochimiche, fisiologiche ed elettroniche, è possibile accelerare il processo di adattamento del corpo umano: «si tratta di completare l’essere umano per consentirgli di esistere come uomo, senza cambiare “la sua natura umana che si è evoluta fino a qui”» (p. 142). Al di là dei viaggi spaziali, l’umanità si è sempre data l’obiettivo di rendere più ospitale la vita sulla terra; «il cyborg scientifico non è solo un’ipotesi futura per astronauti, è una realtà concreta che già abita il nostro presente. Fino a ora, le tecnologie hanno avuto lo scopo primario di trasformare l’ambiente, di costruire sfere di abitabilità. Con il cyborg, tuttavia, ciò che richiede attività di trasformazione e miglioramento è l’umano stesso, nella sua dimensione somatica così come in quella psichica» (pp. 143-144). Secondo Naestrutti e Tondo, il fatto che l’immaginario cyborg sia modellato su figure fantascientifiche contribuisce ad impedire di riconoscere il “processo di cyborgizzazione diffuso” (si pensi all’ottimizzazione e potenziamento sportivo o alla gestione della malattia). Secondo alcuni studiosi «il cyborg non rappresenterebbe il “marchio” della postumanità presente e futura, non incarnerebbe una discontinuità forte che reinventa radicalmente l’umano conducendolo oltre la sua attuale condizione; al contrario, il cyborg ci collocherebbe in una prospettiva dalla quale osservare le forme di vita emergenti (inimmaginabili senza la presenza di pratiche tecnologiche) alla luce di un’originale riscrittura della nostra storia profonda» (pp. 148-149).

Se quella attuale può dirsi un’epoca in cui l’immaginario si sostituisce al reale (immagini di esperienze al posto di esperienze), allora secondo Antonio Lucci (“Corpi postumani, mondi postumi. Le distopie morbide di Michel Houellebecq”) le opere letterarie di Michel Houellebecq si pongono del tutto in linea con i tempi contemporanei; i turisti che popolano il romanzo Piattaforma (2001), ad esempio, sembrano più interessati a provare cose diverse che a conoscerle. Preso atto che nelle diverse opere dello scrittore si ravvisano alcune costanti come una concezione materialistica del piacere e nichilista dell’esistenza, l’analisi delle patologie della società e l’ossessione per il tempo che passa, Lucci si concentra soprattutto sul romanzo Sottomissione (2015). L’opera descrive la cronistoria politica in una società “post-storica”, ovvero in una società per certi versi postumana, in quanto avrebbe abdicato a «tutte quelle passioni “costruttive di avvenire” che in precedenza avevano portato alle grandi conquiste dell’umanità sul piano sovraindividuale, politico e sociale» (p. 160). Il romanziere, continua Lucci, rovesciando per certi versi l’aspirazione di Kojève, di metà anni ‘40, alla creazione di un “impero latino” basato su basi culturali, religiose, storiche e sociali comuni, immagina che, una volta morte le passioni politiche, la società si trovi in balia di forze conservatrici legate al fondamentalismo religioso. In un Occidente immobilizzato nella sua incapacità di “costruire futuro”, «è solo la violenza di una religione storica che può cambiare le sorti della politica» (p. 161). Al posto dell’impero latino di Kojève, Houellebecq prospetta «un impero islamico, su basi latine e con strutture politiche e impianto burocratico ereditato dalla modernità occidentale» (p. 161). La “post-storia” diviene “post-politica” messa in scena da «il ritratto di una società che si è sottomessa volontariamente a chi le indica una direzione qualsiasi, piuttosto che continuare a vagare nell’anomia e nel nichilismo in cui è sboccato il cammino storico dell’umanità occidentale» (p. 162). L’essere prospettato dal romanziere è davvero lontano parente di quello che è stato definito “umano” lungo il corso di tutta la storia della cultura e per certi versi può dirsi davvero “postumano”.

t77uiAnalizzando invece le peculiarità della cultura telematica che vede l’utente potenzialmente sempre collegato alla rete globale, Roy Ascott (“C’è amore nell’abbraccio telematico”) si chiede quale sia il suo contenuto. L’odierna facilità di passaggio dal reale al virtuale genera confusione culturale, valoriale ed identitaria. «La questione del contenuto nell’arte planetaria di questa cultura telematica emergente è quindi la questione dei valori, espressi come ipotesi transitorie, piuttosto che come finalità, testati nell’immateriale […] Il processo telematico, come la tecnologia che esso incarna, è il prodotto di un desiderio umano profondo di trascendenza: essere fuori dal corpo, dalla mente, oltre il linguaggio. Lo spazio virtuale e lo spazio di dati costituiscono il dominio, in precedenza fornito dal mito e dalla religione, ove la fantasia, il desiderio e la volontà sono in grado di riattivare le forze dello spazio, del tempo, e della materia nella battaglia per una nuova realtà» (pp. 177-178).

Pierluigi Cappucci (“La specie dei simboli”), nell’indicare nella capacità simbolica la ragione principale dell’evoluzione della specie umana, sottolinea come ciò rappresenti tanto un orizzonte a cui gli umani tendono, quanto una sorta di limitazione. La capacità simbolica ha permesso agli umani di conoscere e gestire l’ambiente ed allo stesso tempo di stabilire una sorta di “distanza di sicurezza” dal mondo fisico. Sempre grazie al simbolico gli esseri umani hanno «creato una conoscenza condivisa separata dalla sostanza della realtà fenomenica. Hanno creato un laboratorio in cui, attraverso l’elaborazione di modelli simbolici, è possibile sperimentare delle ipotesi e simulare il loro impatto sul mondo, dando origine a una progettualità in grado di produrre artefatti e dispositivi di crescente complessità. Sul simbolico si fondano l’astrazione, le ipotesi, la coscienza, l’immaginazione, lo scambio e la condivisione delle conoscenze, grazie al simbolico le dimensioni del passato e del futuro nascono e divengono oggetto di narrazione. Mediante i simboli le conoscenze, le esperienze e i valori vengono raccolti, discussi e trasmessi» (pp. 182-183).
Dunque, sul simbolico si fonda la capacità cooperativa della specie umana e l’incremento della velocità dell’evoluzione culturale e dell’informazione. Analoga accelerazione, sottolinea Cappucci, si è data nella diffusione dei media e delle immagini. Oggi tutti sono «raccoglitori, modificatori, divulgatori e condivisori di informazioni» (p. 186).

La comunicazione interattiva non è, continua lo studioso, una conquista contemporanea ma è una costante umana e, più in generale, degli organismi viventi, visto che ogni essere vivente interagisce, da sempre, con l’ambiente in cui vive. «Prima delle immagini e della scrittura la comunicazione simbolica, fondata sull’indicalità e sull’oralità, è stata principalmente diretta e interattiva. Con la comparsa delle immagini, circa 40 mila anni fa, e con l’invenzione della scrittura, 5 mila anni fa, gli umani hanno sistematicamente registrato, in forme non interattive e mediate, le loro conoscenze al di fuori del corpo. Dunque, l’eccezione è la comunicazione non interattiva e mediata, comparsa molto più tardi nell’evoluzione umana» (p. 186). La comunicazione mediata non interattiva espande il potere dei simboli al di là della presenza fisica, tanto che la conoscenza umana in buona parte si fonda su essa (libri, foto, tv, cinema…) ma, visto che la comunicazione interattiva risulta fondamentale, sono stati creati sia surrogati di interattività (come la presenza del pubblico nelle trasmissioni televisive) che tecnologie che permettono l’interattività.

Attraverso l’acquisizione simbolica, continua Cappucci, gli esseri umani «hanno sviluppato l’interiorità, l’introspezione, la consapevolezza di sé, creando le condizioni per superare i vincoli fisici dell’hic et nunc, generando dei mondi paralleli e inventandosi delle narrazioni da cui sono originati i riti, le mitologie e le religioni […] Di fatto viviamo nel futuro, una parte rilevante dei nostri pensieri, progetti, delle nostre azioni, attività, idee, è rivolta al futuro» (p. 187). Ciò dimostra come gli esseri umani siano consapevoli del tempo e di come tentino di governarlo. Oltre a tentare di agire sul tempo, dunque sul futuro, gli esseri umani hanno esteso la loro esistenza ad una Seconda Vita. «Attraverso i media e i new media questa vita simbolica è passata da una ristretta dimensione sociale locale a un habitat planetario, facendosi mondo: una Natura Seconda a cui dedichiamo sempre più tempo. Proviamo a sommare il tempo che in un giorno passiamo a parlare, a telefonare, a scrivere, a usare il computer, a essere sui social network, a leggere, ad andare al cinema, a spettacoli teatrali, a mostre d’arte, a eventi culturali, a presentazioni e concerti, a guardare la televisione, i graffiti, i segnali, le indicazioni, le insegne luminose, gli striscioni, i cruscotti, gli schermi, i supporti…» (p. 188). Il futuro potrebbe rendere più naturale l’interazione del corpo e dei sensi con simulazioni più sofisticate. «È sempre più dentro a questa Natura Seconda, estesa e complessa, scaturita dal simbolico e potenziata dai media, dentro a questi habitat simbolici capaci di allontanare i malanni, le delusioni, la noia, il dolore, le asprezze del reale e persino la morte, che noi oggi viviamo e vivremo in futuro. Da quando l’umanità utilizza la comunicazione simbolica l’ambiente è divenuto un ibrido in cui il reale e il virtuale si compenetrano e convivono, uno spazio che può essere vissuto sia fisicamente che simbolicamente» (p. 189).

La dimensione simbolica, continua Cappucci, «è un universo in continua espansione e ristrutturazione. Questo universo della simulazione può confondersi col mondo reale fino a sostituirlo del tutto. Gli artefatti e le macchine che gli umani hanno inventato scaturiscono dall’impiego dell’intelligenza simbolica e spesso, come nel caso dell’Intelligenza Artificiale, derivano dal tentativo di simularla o di emularla. Ciò che gli umani chiamano “tecnologia” è il loro destino, la loro peculiarità, la loro attitudine» (pp. 190-191). Le tecnologie ormai fanno parte della biologia umana e sembra si sia ormai prossimi ad «assistere a un’estensione del concetto di vita anche oltre l’organico. Non è una cosa nuova, fin dall’antichità l’umanità ha cercato di simulare o emulare il vivente e ricreare la vita, costruendo entità similviventi, simulacri della vita umana e animale, per partecipare al mito della creazione: dal Talos greco al Golem ebraico, agli automi medievali, rinascimentali e settecenteschi, al Frankenstein ottocentesco, fino ai robot novecenteschi, agli androidi, ai Cyborg e ai replicanti di molta letteratura, ai sofisticati robot sociali e industriali contemporanei, alle macchine che sono su Marte» (p. 191). Ci si avvia così alla Terza Vita, cioè a forme di vita derivate dagli organismi creati dalla cultura umana. «Grazie alla dimensione simbolica gli umani hanno sviluppato un’ampia varietà di estensioni della mente, dei sensi e del corpo, che si sono evoluti in organismi/entità, organici, inorganici e ibridi sempre più complessi e autonomi, che potrebbero essere definiti in una certa misura come viventi» (p. 192).

Se l’evoluzione naturale è priva di finalità e si fonda sul presente, l’essere umano ha la tendenza a proiettarsi sul futuro. «L’ipertrofia della dimensione simbolica ha dato origine a un enorme numero di varianti, appartenenze, religioni, credenze, valori, a delle pseudospecie che perseguono finalità diverse e contrastanti. L’evoluzione culturale rende la specie umana un membro anomalo del Pianeta, l’ultimo ramo rimasto del genere Homo, conquistatore di ogni ambiente, oggi sfruttatore di un’unica immensa nicchia ecologica di cui sta dissipando, intensivamente, le risorse. Non sarà così per sempre» (p. 192). Potrebbe essere che tale ipertrofia simbolica porti alla fine della specie umana: «la sua magnificenza culturale la causa della sua estinzione. La sua biologia e buona parte dei suoi oggetti, dispositivi e artefatti nel volgere delle ere geologiche saranno riassorbite in fretta dalla biologia del Pianeta. Alla breve parabola umana sopravviverà, forse, una parte della sua cultura: le forme di vita che ha creato da sé, la sua vera eredità, il suo genio» (192-193).

Gabriela Galati (“Significante fluttuante, inconscio tecnologico e soggetto digitale”) delinea il rapporto tra il digitale ed il materiale, tra quello che viene definito “significato fluttuante” e l’“inconscio tecnologico”. Riprendendo Charles S. Peirce, la studiosa parte dall’idea che vi sia una componente del segno che non significa ed una dimensione non simbolica del mondo intraducibile in linguaggio. È dunque a coprire questa assenza che viene in aiuto il “significato fluttuante”.
Walter Benjamin, riprendendo Freud nell’intendere le innovazioni tecnologiche come protesi sviluppate dall’umanità, sostiene che la fotografia “allargando il potere della vista”, crea un “inconscio ottico” del tutto simile all’inconscio del soggetto «perché evidenzia un nucleo, in questo caso nelle capacità dell’occhio, che non è accessibile al soggetto» (p. 196). Se la teorizzazione di Freud dell’inconscio può essere vista come avvio del processo di sgretolamento del “soggetto umano liberale”, analogamente l’inconscio ottico può rappresentare quella parte della vista sconosciuta all’occhio nudo. È su tale linea che Caronia introduce l’idea di “inconscio digitale”.
Galati ricorda anche come lo studioso John Johnston (The Allure of the Machinic) dimostri il ruolo fondamentale della teoria cibernetica nella teorizzazione di Jacques Lacan relativa ai tre registri dell’Io (simbolico, immaginario, reale). «Così le basi per la teorizzazione, da un lato, di un inconscio ottico, e più tardi di un inconscio tecnologico, erano già state stabilite nel 1925 da Freud e nel 1955 da Lacan. Inoltre, come è stato dimostrato, anche Derrida aveva già scritto nel 1967 circa la concettualizzazione dell’apparato psichico come macchina in termini di metafora: una metafora non necessaria, ma comunque una metafora. Così, in un certo modo, tutta la confusione e la successiva discussione su l’attribuzione di “human agency” alle macchine avrebbe potuto essere evitata, come dimostra Katherine Hayles. Hayles illustra che non solo Lacan, ma anche in seguito Deleuze e Guattari, hanno concepito la cognizione umana e la psicologia come intrecciate con processi macchinici» (p. 198).

5555Galati, con l’avvento dei nuovi media, giunge ad ipotizzare la nascita di un “soggetto digitale”, un soggetto “incarnato nel digitale”. «In questo senso, se si accetta seguendo Deleuze che il soggetto è costituito dal “punto di vista” e dalla costruzione della sua dimora e considerando che nel cyberspazio non esiste un punto di vista, perché non c’è un vero spazio, allora l’inconscio tecnologico può essere assimilato a un campo di immanenza in cui il senso circola attraverso il significante fluttuante: il significante fluttuante è il sito, il luogo, che costituisce ogni volta un diverso punto di vista per la configurazione del soggetto digitale» (p. 205).

Lo stesso termine “cyberspazio” può essere inteso come esempio di “significato fluttuante”; Galati ricorda come la stessa definizione proposta in un primo tempo da William Gibson (Neuromante) sia poi stata svuotata di significato dallo stesso scrittore, giunto a confessare di aver scelto il termine soltanto in quanto suggestivo. «Naturalmente, Gibson intende che ciò che gli piaceva era come suonava la parola non essendo sicuro di cosa significasse; tuttavia […] il cyberspazio è strettamente legato al significante fluttuante» (p. 207). Anche se lo spazio del computer viene percepito come omogeneo e continuo, è in realtà dato da un aggregato di oggetti nel “vuoto”. Il computer è privo di uno spazio nel senso di medium. Galati propone di sostituire il termine cyberspazio con “spazio elettronico” al fine di indicare «una sorta di luogo, di spazio pubblico in cui la prossimità è spesso concettuale, o psicologica, sempre mediata, e non necessariamente, anzi di rado, fisica. Ci sono luoghi digitali che sono rappresentativi, come i videogiochi, come l’agonizzante Second Life, come gli ambienti di realtà virtuale; ci sono altri, non meno simbolicamente carichi, dove interazione, incontro, dimensioni sociali si evolvono, e tuttavia non possono essere riconosciuti come rappresentazioni di qualsiasi realtà “fisica”» (p. 208).

Si hanno luoghi digitali rappresentativi (es. i videogiochi) ed altri luoghi digitali ove «interazione, incontro, dimensioni sociali si evolvono, e tuttavia non possono essere riconosciuti come rappresentazioni di qualsiasi realtà “fisica”. Tra questi, si possono trovare, naturalmente, tutti i social network, chat, molte applicazioni, e simili. Questi spazi elettronici funzionano infatti come luoghi di agency e di generazione di senso nella stessa misura di una agorà fisica. In questo senso, si propone che l’inconscio tecnologico funziona come un piano d’immanenza in cui il significato è generato e diffuso» (p. 208). «Se l’inconscio tecnologico è il piano di immanenza, qual è quindi il legame tra l’inconscio tecnologico come piano di immanenza e il significante fluttuante? Nel piano d’immanenza, il significante fluttuante ha il ruolo di costruire un punto di vista […] Il punto di vista è un punto di vista in una variazione, in un cambiamento, in una metamorfosi, ma non cambia con il soggetto: è il soggetto che deve venire al punto di vista. Questo è il fondamento del prospettivismo, e più in particolare della prospettiva barocca» (p. 209). Nell’inconscio tecnologico «il punto di vista deve essere costruito dal significante fluttuante per la costituzione di un soggetto (digitale)» (p. 210). Dunque, secondo la studiosa, occorre chiedersi quale tipo di soggettività, di soggetto digitale, possa derivare da tali tipi di interazioni. «È attraverso la generazione di questi diversi punti di vista che il senso può essere generato, può circolare, nell’inconscio tecnologico/piano d’immanenza, che, è importante non dimenticare, funziona indipendentemente dalla volontà del soggetto, proprio come la dimensione simbolica dell’inconscio lacaniano. In questo caso, il significante fluttuante non deve essere erroneamente considerato come immagine, o come una sorta di miraggio. Il soggetto non sta proiettando in esso alcun desiderio, ma egli effettivamente vi abita, occupandolo, perché solo un soggetto può fare del punto di vista la sua dimora» (p. 212).

Simone Guidi (“Virtuale, téchne, natura. Da Aristotele a Lévy, con Antonio Caronia”) inizia col sottolineare che se il digitale è virtuale, quest’ultimo non si esaurisce di certo nel digitale ma riguarda un campo ben più ampio. Thomas Maldonado (Reale e virtuale) contrappone il virtuale al reale ed al naturale, lo indica come sua rappresentazione illusoria. Si tratta di una realtà ma di carattere artificiale, illusorio. Caronia (Archeologia del virtuale) contesta tale opposizione tra reale e virtuale ed insiste sulla realtà del virtuale, proponendo un’estensione del concetto di realtà anche ai mondi sintetici ed artificiali parimenti in grado di provocare attività sensoriale e percettiva nell’essere umano.

Gli studiosi come Maldonado procedono partendo dall’identificazione del virtuale con l’illusorio ed identificano quest’ultimo con un reale di “secondo ordine”. La natura viene intesa con Aristotele «come una macchina dal funzionamento assolutamente chiuso, in cui una realtà attuale “emana” logicamente una molteplicità di potenze, di cui una parte viene riassorbita nell’attualità, e un’altra parte resta rinchiusa nell’inconsistenza ontologica. Il che permette una riduzione della mimesi tecnica a operazione pressoché meccanica, una riattualizzazione contingente di un quid astratto, preso solo nella sua possibilità determinata» (pp. 220-221). Dunque, si chiede Guidi, «come pensare il mondo, la téchne e la virtualità fuori da questa categoria di possibilità, fuori dallo schema che oppone reale e illusorio?» (p. 221). Una possibile risposta viene dalla rielaborazione proposta da Pierre Lévy (Il virtuale) del concetto di “virtuel” di Gilles Deleuze (Le bergsonisme) che vuole il virtuale non contrapposto al reale ma all’attuale «di cui la virtualità è non l’ennesima configurazione ma la dischiusura, la deterritorializzazione, la problematizzazione che lo apre, trasformandolo in un territorio nuovamente percorribile e articolabile» (p. 221). Così inteso il virtuale «dichiara del reale (e, diremo, del naturale) il carattere non esclusivamente attuale, in un’esperienza di continuo passaggio dall’interno all’esterno degli oggetti che Lévy definisce “effetto Mœbius”» (p. 221).

Il digitale come forma tecnologica predominante della contemporaneità è stato concepito come attuazione di un “secondo mondo”, di una “seconda natura” e di una “seconda vita”, e da questo punto di vista può essere collocato tra le forme di tecnologie dell’illusorio. Il predominio di Facebook ed Instagram rispetto a Second Life, sostiene Guidi, deriva probabilmente dalla capacità di connettere nella rete le vite reali «offrendo, come risvolto di un processo ancora attualizzante, quella virtualizzazione dell’identità di cui si discute ogni giorno di più» (p. 223). Dunque il digitale «apre il reale per tradurlo in dato, per riattualizzarlo nuovamente in una forma unificante e ordinante che è tipica della metafisica aristotelica e che, nel fenomeno dei Big Data, trova la sua espressione massima. Ma nella dischiusura tecnica − ben più offensiva di quella, autolimitante giacché auto-tecnologica, di una Second Life − essa dà luogo a una realtà frammentaria e proteiforme, di cui ci sembra si possa individuare una struttura-base» (p. 224).

Secondo Caronia «l’esito dell’odierna tecnologia è la contraddizione sempre in termini di una realtà aumentata, intesa questa non come una realtà statica a cui viene aggiunto, quasi algebricamente, l’artificiale, ma come realtà estesa, frammentazione continua e irrimediabile di ciò che attualmente è in una miriade di microdispositivi che aprono, interconnettono, virtualizzano e problematizzano il corpo stesso della natura. È dunque quel cyborg − quel corpo virtuale, appunto, nel senso di una sua realtà inattuale − che Caronia aveva così profondamente tematizzato, a catalizzare lentamente, ogni giorno di più, un processo di tecnologizzazione la cui fase di apertura siamo ora legittimati a pensare come processo ontologicamente parallelo a quella di chiusura» (p. 225). In conclusione, sostiene Guidi, occorre concepire il virtuale come un aspetto strutturale del reale e la dimensione tecnologica come parte di quell’animale virtuale che è l’essere umano.

Massimo Viel (“Quello che riconosciamo”) si sofferma su come nella cultura della globalizzazione l’essere umano sia tendenzialmente docile ai cambiamenti e ciò, secondo lo studioso, in quanto il soggetto fatica ad accorgersi di essi preso com’è dal concentrarsi sulla figura e non sullo sfondo che muta con gli individui. «Siamo pronti ad abbracciare abitudini che mai avremmo accolto se avessimo avuto la possibilità di scegliere, perché costretti dalla deriva dei riconoscimenti, ben pilotata da chi controlla la statistica di ciò a cui siamo esposti» (p. 236). Viel sostiene che le strategie di liberazione si trovano a dover seguire il percorso dei riconoscimenti opponendosi a quelle identità; non è sufficiente essere disponibili all’altro, è necessario neutralizzare «la potenza oggettivante dei processi coercitivi di formazione identitaria e di soggettivazione […] Bisogna dunque recuperare la responsabilità verso le nostre operazioni di distinzione guidandole verso obiettivi che siamo alternativi a quanto ci propongono i media e, se possibile, attuare strategie di sovversione percettiva» (p. 237).

Simonetta Fadda (“Egemonia del cinematico”) si occupa del regime visivo governante l’ambiente percettivo e culturale dello spazio sociale contemporaneo delle immagini di provenienza analogica, digitale e sintetica. Nel riferirsi a tutti i tipi di immagine accessibili attraverso uno schermo, la studiosa ricorre al termine “cinematico”, evidentemente derivato dalle teorie del film anglosassoni, ove “cinematic” indica ciò che riguarda il cinema (film, attori, generi…), a differenza di “cinematographic” che invece si riferisce alle tecniche. Il termine “cinematico” a cui ricorre Fadda designa pertanto un ambito ben più allargato rispetto all’originale anglosassone, indicando con esso immagini eterogenee che danno accesso agli spazi mediali. «Sono proprio queste diverse forme ibride d’intelligenza con cui ci misuriamo costantemente, capaci di costruire ambienti e fare azioni indipendentemente da noi, ad aver portato chiunque di noi a introiettare la logica cinematica, la sola capace di attivare il rapporto col medium, rendendola operativa» (p. 241). Attraverso il cinematico è divenuto possibile parlare di espropriazione dell’esperienza umana del visivo, dal momento che la visione umana pare sussunta dalla visione tecnologica che «diventa l’unico orizzonte visivo del mondo. La visione diventa “evento visivo”, il risultato di un’interazione multipla che vede agire contemporaneamente segnale visivo, tecnologia che supporta quel segnale e osservatore» (p. 242).

Se i media hanno sempre inciso profondamente sui contenuti culturali ed artistici, a maggior ragione ciò avviene con i nuovi media. A tal proposito Emanuela Patti (“L’ibridazione tra le arti nella prospettiva postmediale ”) parte dall’assunto che le arti nascono come estensione del medium artistico che le ha precedute per poi svilupparsi attraverso la relazione con le “arti sorelle”. Da sempre nelle produzioni artistiche convivono linguaggi artistici diversi ma è grazie alla diffusione del “meta-medium” internet che l’ibridazione delle arti ha avuto un fortissimo sviluppo. Inoltre, sottolinea Patti, è bene ricordare come il digitale abbia contribuito a moltiplicare la contaminazione tra le arti ed i media. A partire da tali considerazioni, diversi studiosi, recuperando McLuhan, hanno enfatizzato quanto i nuovi media agiscano sui contenuti culturali. «In quest’ottica, ciò che è emerso con forza è la natura mediale, dunque tecnologica, di tutta l’arte, che ha spinto a riconsiderare che ogni medium artistico è un assemblamento di diverse tecnologie» (p. 253). Nell’età di internet ogni arte viene a trovarsi in una “fase postuma” rispetto alle sue originali specificità. Negli ultimi decenni è stata presa coscienza del rapporto che lega ogni arte al suo medium e la studiosa propone di parlare di “medium artistico”.

Sean Cubitt e Paul Thomas (Relive. Media Art Histories) sostengono che ogni medium deriva da evoluzioni scientifiche, estetiche e politiche connesse tra di loro. «Se questo tipo di metodologia è del tutto compatibile con uno studio delle ibridazioni tra le arti in una prospettiva storico-tecnologica, va tuttavia precisato che il concetto di “media art”, dando per scontata la convergenza tra arti e media, rende implicito il concetto di ibrididazione, tendendo quasi a farlo scomparire. Sembra invece importante capire in che modo una tale consapevolezza sui media artistici ci permette di rileggere la storia delle arti come una storia di confini e trasgressioni» (p. 255).
Per molti secoli, sostiene Patti, il rapporto tra un’arte ed un’altra è stato affrontato in termini di competenze o di comparazione (somiglianza/distinzione) e se in alcuni momenti storici è stata valorizzata la contaminazione tra le arti, è col Novecento che l’ibridazione tra esse ha avuto il massimo impulso. Secondo la studiosa le trasgressioni dei limiti imposti dai canoni istituzionali dei movimenti d’avanguardia hanno ormai totalmente perso la loro vocazione estetica e politica originaria e lo sperimentalismo si è trasformato in esibizione dei meccanismi e dei codici che producono le arti e le relative teorie.

ibridazioni particolariEsaurita anche l’epopea del postmoderno, sostiene Patti, non solo servono nuove definizioni per le pratiche artistiche ibride più recenti basate sulle tecnologie digitali, ma occorre interrogarsi anche a proposito del senso dell’operazione artistica: come e cosa esprime l’arte oggi? Le aspirazioni postmoderne che volevano la morte dell’autore, la non linearità e l’apertura del testo sembrano ormai essersi date. «L’arte di oggi dunque esplora i legami tra testo e immagine, tempo e spazio, il tessuto tra queste dimensioni. In questo senso, il concetto di interart/intermedia, facendo leva sul nuovo paradigma testuale dell’interazione tra arti e media, indica anche un potenziale percorso di significato nell’interconnessione dei linguaggi, identità, soggettività come discorsi alternativi sul presente» (p. 261).

Francesco Monico (“L’eterodossia accademica come pratica controambientale della libertà dell’essere al condizionamento tecnico. Una postfazione su Antonio Caronia”) chiude il volume passando in rassegna il pensiero di Caronia e segnalando come nella sua opera al soggetto si sostituisce il processo, l’ibridazione della specie che porta a «desoggetivizzare ogni essere e ogni cosa, perché venendo meno i confini dell’uomo con l’altro da sé, il soggetto precipita in balia del capitale e dell’automazione del codice. Così l’unica difesa possibile del soggetto postumano non può che coincidere con una strategia di consapevolezza, che rende urgente un recupero delle complessità della teoria del cyborg come una delle figurazioni più riuscite» (p. 265).

Dunque, secondo Monico, la proposta di Caronia diviene il “cyborg del codice”, «essere che vive un corpo aperto che attraversa i cedimenti di confine – uomo/animale, organismo/macchina, fisico/non fisico – e si pone nel mezzo, incarnando l’attraversamento stesso. Con l’avvento dell’informatica distribuita, il corpo del “cyborg del codice” è diventato uno spazio indeterminato che, trascina fuori di sé il soggetto e pone in primo piano la questione dell’interfaccia. Secondo la visione cibernetica una interfaccia in grado di interagire con l’ambiente circostante è garanzia del buon funzionamento di un sistema. L’unione con la tecnica è quindi fondativo e teleologico. Il cyborg diventa così “modello operativo” perché il problema sono le nuove pratiche e accettare la versione cibernetica, vuol dire abbracciare un principio di similitudine, secondo il quale il rimedio appropriato per l’impossibilità di conoscere sarebbe la stessa impossibilità del conoscere. Tale “conoscenza”, funziona come “principio omeopatico”, ovvero una volta individuata l’impossibilità del conoscere, l’ermeneutica del soggetto produce un processo di conoscenza negativa/omeopatica: non si può infatti essere consci della propria ignoranza senza avere già parzialmente intravisto cos’è che non si sa. In quest’ottica l’episteme non è basato su una forma di razionalità bensì su una forma di legame tra il corpo, e oggi con il corpo di questo cyborg distribuito. Così gli esseri umani possono essere visti come dei cyborg naturali perché sono dotati di un’architettura ormonale che li predispone a rappresentare e ad accogliere materiali non biologici per l’esecuzione di performance comportamentali e cognitive. In ultima analisi il cyborg non rappresenta il “marchio” della postumanità, non rappresenta una discontinuità e una reinvenzione radicale dell’umano; al contrario, il cyborg ci lascia un’originale riscrittura della nostra storia profonda» (pp. 265-266).

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Eversione politica ed insurrezione espressiva https://www.carmillaonline.com/2016/06/29/eversione-politica-ed-insurrezione-espressiva/ Wed, 29 Jun 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30940 di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. [...]]]> di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e insurrezione espressiva, Ombre Corte, Verona, 2016, 202 pagine, € 18,00. Tale testo si snoda lungo una successione tripartita che prende il via con alcuni contributi (Parte prima) che indagano la matrice politica di Burroughs, prosegue poi (Parte seconda) presentando tre scritti dello scomparso Antonio Caronia (autore di importanti studi a proposito di cyberpunk, mutanti, androidi, virtuale, postumano, ibridi uomo-macchina ecc.) e si conclude (Parte terza) con alcuni interventi che analizzano le tecniche di scrittura di Burroughs ed il suo rapporto con i media.

Da parte nostra passeremo in rassegna il volume seguendo un ordine differente: inizieremo dai contributi di Caronia, proseguiremo con i saggi che trattano William S. Burroughs tra cut-up, remix, musica underground, lingua teatralizzata, sonic weapons, shotgun paintings ed audiovisivi “infetti”… e termineremo con gli scritti che si concentrano su “Burroughs ed il politico”.

I tre interventi di Antonio Caronia raccolti in questo volume sono stati prodotti dallo studioso tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. Il primo scritto, “Il sistema dei media nell’universo della fantascienza” (1990) [originalmente in: C. De Stasio, M. Gotti, R Bonadei (a cura di), La rappresentazione verbale e iconica: valori estetici e funzionali. Atti dell’XI Congresso nazionale dell’A.I.A., Bergamo 24-25 ottobre 1988, Guerini, Milano, 1990] individua nella scrittura burroughsiana la capacità di intercettare le trasformazioni sensoriali, individuali e sociali determinate dalla comunicazione elettronica. In tale intervento Caronia sostiene che del sistema dei media della seconda metà del Novecento, «di questa rete di audiovisivi che connette il pianeta via etere e lo trasforma in villaggio globale (o in una metropoli locale, il che forse è la stessa cosa), Burroughs coglie un carattere fondamentale, quello della trasparenza. Attraverso il collegamento punto-a-punto della radio e della televisione le distanze si annullano, il tempo si relativizza e noi riusciamo a vivere in un eterno presente, espanso a inglobare il lontano e il vicino, il passato e il futuro. Il mondo diviene trasparente, e questa trasparenza è per noi una garanzia della realtà del mondo» (p. 77).

Nella social science fiction, sostiene lo studioso, i mass media risultano metafora del potere, strumenti attraverso cui vengono create realtà artificiali che imprigionano l’essere umano attraverso pratiche di disciplinamento dei corpi. Tale intuizione, da parte della fantascienza più orientata verso la critica sociale ed antropologica, secondo Caronia, esprime «la consapevolezza del processo che vede i media costituirsi come vero e proprio corpo sociale complessivo a detrimento dei corpi individuali» (p. 78). Ad esempio, nel racconto di James Ballard In The Intensive Care Unit (Riunione di famiglia, 1977), viene presentata una società futura ove i corpi non possono entrare in contatto tra loro; tutti i rapporti debbono essere filtrati dal video. Anche nei racconti di Philip Dick il tema dell’espropriazione del corpo risulta ricorrete e viene affrontato soprattutto attraverso la figura dell’androide, come nel celebre Do Androids Dream of Electric Sheep? (Il cacciatore di androidi, 1968).

scanners009A proposito della capacità di certa fantascienza di percepire la problematica dello “statuto del corpo” nell’ambito delle trasformazioni produttive e sociali che attorno alla metà del Novecento iniziano a palesarsi, Caronia, oltre alla narrativa, fa riferimento anche ad una celebre produzione televisiva degli anni Ottanta: Max Headroom (1987-1988) di Annabel Jankel e Rocky Morton, opera che pone la questione del “corpo immateriale” nell’epoca dell’immagine elettronica.
Ancora una volta, secondo Caronia, «la fantascienza, più che veicolo di anticipazione, più che discorso futurologico divulgativo, usa il presente, lo scava, ne estrae le tendenze e caratteristiche sotterranee, in una competizione/emulazione inviabile fra parola e immagine» (p. 80), come ben testimoniano le produzioni cyberpunk. William Gibson, in particolare, «nei suoi romanzi introduce una nuova figurazione che sta già diventando convenzione narrativa, quella del cyberspace, lo spazio virtuale interno al computer nel quale si muovono gli operatori più abili connessi alla macchina per via neuronale» (pp. 80-81). Parola ed immagine, da questo punto di visto, a queste latitudini, ci parlano di un “nuovo corpo sintetico” dato dall’intrecciarsi sempre più inestricabile di naturale ed artificiale.

Caronia, nel suo secondo intervento, “Immaginari a confronto: William S. Burroughs e James Ballard” (1992) [originalmente in: A. Caronia, Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001], propone un’analisi comparata dei testi di William S. Burroughs e di James Ballard soffermandosi soprattutto su Naked Lunch, opera in cui lo studioso individua «l’irreparabile urgenza di rappresentare, nella sua incontenibile virulenza, i processi di degradazione della carne, la purulenta carne del tossicodipendente, sui cui destini si esercitano le violentissime guerre del potere nell'”universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga» (p. 76).
In questo scritto viene sottolineato come Naked Lunch, nonostante la sua destrutturazione narrativa e la mescolanza di stili differenti, riesca a coinvolgere il lettore grazie soprattutto al suo saper trasmettere una «stringente sensazione di necessità» (p. 83). In tale romanzo non viene ancora fatto ricorso al metodo del cut-up e l’effetto straniante, che comunque lo contraddistingue, deriva, secondo lo studioso, dall’urgenza della scrittura. «Quello che Il pasto nudo ci offre è insomma uno sguardo sull’universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga. Da qui prende l’avvio quella particolarissima “continuità” che lega l’uno all’altro tutti i libri di Burroughs almeno fino a Nova Express […] e che ruota attorno al tema del controllo e del complotto» (p. 84) e, continua lo studioso, le «”aree psichiche” esplorate da Burroughs diventano qui delle aree geografiche in senso letterale, paesi fantastici che servono da sfondo e da commento alle azioni dei personaggi» (p. 84). Dunque, la galleria di figure che scorre davanti agli occhi del lettore «è innanzitutto la loro carne malata di droga in continua trasformazione, e le parole che la descrivono, un flusso di parole in caduta libera» (p. 85). Naked Lunch, attraverso la magmaticità del linguaggio, mette in scena il decadimento, la trasformazione, la dissoluzione e la perdita del corpo umano. In Burroughs però, sostiene lo studioso, non vi è alcuna visione romantica dell’innocenza originaria del corpo; il corpo è malato in quanto tale e lo è irreparabilmente.

James Ballard, una decina di anni dopo l’uscita di Naked Lunch di Burroughs, è alle prese con i suoi condensed novels poi raccolti in The Atrocity Exhibition (1970), tradotti in italiano soltanto nel 1990 proprio da Antonio Caronia con il titolo La mostra delle atrocità. A proposito di tale raccolta, sostiene lo studioso, «non c’è altro testo, forse, che sollevi temi analoghi e che possa stare al pari del libro di Burroughs quanto a intensità e lucidità della visione» (p. 87). Da una costola di questo libro di Ballard nasce il romanzo Crash (1975) che ha nella mutazione del corpo il suo nucleo fondamentale. In questo caso la mutazione viene indagata «attraverso una violenta e catastrofica variante del matrimonio tra corpo e tecnologia: la compenetrazione del corpo e della macchina nell’incidente automobilistico» (p. 87). In Ballard, dunque, interno ed esterno del corpo, corpo e mondo si compenetrano diventando «un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa, la fine della modernità» (p. 87)

nl_cronembergNel terzo intervento, “Il pasto nudo. Storia di un testo” [scritto per il saggio Naked Lunch messo in cantiere da Telemaco Edizioni nel 1992 ma mai pubblicato], Caronia ricostruisce brevemente la faticosa genesi del celebre romanzo di Burroughs a partire dalle difficoltà nel trovare un editore e, soprattutto, una diffusione in America a causa dei tanti problemi di censura.

La parte di Saccheggiare il Louvre che si occupa del rapporto di Burroughs con le arti mediali prende il via con il contributo di Vito Campanelli, Lieterary Cut-Ups. Le radici letterarie della cultura del remix”, in cui lo studioso intende verificare se la figura di Burroughs può essere collocata tra i fondatori di quello che oggi è divenuto un vero e proprio fenomeno di massa: la “cultura del remix”. Se è pur vero che ogni epoca ha fatto ricorso a frammenti di produzioni precedenti, è indubbio che mai come nell’età contemporanea si può parlare di cultura del remix come tratto distintivo. La diffusione di strumenti di post-produzione che permettono di campionare e sovrapporre fonti diverse, la moltiplicazione delle fonti a cui si può accedere ovunque ed in ogni istante e la tendenza a riversare in formato digitale quanto prodotto precedentemente dalla cultura analogica, sono alcuni dei motivi che permettono alla cultura del remix di caratterizzare la contemporaneità. Inoltre, le ingenti quantità di informazioni a disposizione richiedono memorie artificiale in grado di contenerle in maniera modulare, dunque immediatamente disponibili ad operazioni di remix.
Campanelli, che segnala come le radici della tecnica burroughsiana del cut-up possono essere individuate nelle sperimentazioni della poetica dadaista di inizio Novecento, sottolinea come ricorrendo al “gioco modulare” dei frammenti, Burroughs possa «andare oltre la definitività, quasi la sacralità, dei testi per aprire ad opere e visioni che non possono mai dirsi finite, concluse, appunto, definitive […] Anche i concetti di autorialità ed originalità sono messi fortemente in discussione attraverso i cut-up» (pp. 101-102). L’operazione burroughsiana contribuisce ad esplicitare come innovazione ed originalità non siano ormai più possibili.

Sono diversi anche i musicisti sperimentali contemporanei che hanno contribuito a diffondere la cultura del remix; si pensi alle pratiche di campionatura che rendono l’opera mai davvero conclusa in quanto chiunque può riprendere il lavoro e modificarlo ulteriormente. Proprio ai musicisti lo studioso concede un ruolo privilegiato nella diffusione di tale cultura perché più che alle fonti dell’avanguardia artistica è al mondo musicale che si deve la comprensione profonda del remix. Campanelli ricostruisce brevemente i punti salienti della storia del remix musicale a partire dalle pratiche dei DJ giamaicani che, a fine anni Sessanta, utilizzano basi ritmiche preregistrate per poi riarrangiarle. È in queste pratiche musicali che si devono ricercare le radici della cultura del remix e non nell’avanguardia dada primonovecentesca o nel cut-up burroughsiano. A suffragio di tale ipotesi nello scritto vengono riportate le riflessioni della studiosa statunitense Rosalind Krauss (L’originalità dell’avanguardia) che vede nelle avanguardie storiche il permanere del mito modernista dell’originalità; «l’originalità avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a partire da niente. Un concetto questo che è incompatibile con la prospettiva del remix che si fonda proprio sul riutilizzo creativo del passato» (p.103). A differenze delle avanguardie storiche, la contemporaneità avrebbe una maggior consapevolezza di come il concetto di originalità sia ormai completamente andato in frantumi a causa dei processi di automazione nella produzione, riproduzione e distribuzione oltre che, a parere nostro, a causa di pratiche di esproprio, di appropriazione, votate ai commons, alla conquista ed alla condivisione di beni comuni in ostilità all’industria culturale ed al concetto di proprietà autoriale.

Se la rivoluzione del remix ha fatto saltare le rigide distinzioni tra autore e fruitore, tra emittente e ricevente, sostiene Campanelli, il mercato dell’arte ha reagito a ciò “commercializzando l’aura”; «Nell’attuale mercato dell’arte, infatti, ciò che si vende e si compra è l'”aura”, ovvero la possibilità di definire qualcosa come arte e in tale ottica, l’originalità dell’opera, la possibilità di attribuirne la paternità al genio solitario del presunto artista di turno, diventa l’aspetto nodale» (p. 104).
Secondo lo studioso «la cultura del remix rappresenta l’approdo finale di quel processo di sgretolamento di quel mito modernista dell’originalità che, sotto una serie di spinte concentriche (economiche, sociali, culturali e tecnologiche), giunge al pieno compimento con il diffondersi su scala planetaria dei media digitali» (p. 105).
I cut-up burroughsiani sembrerebbero un tentativo di sottrazione ai ruoli prescritti dalle principali istituzioni: famiglia, scuola, azienda, moda e comunicazione dei media. Attraverso operazioni di remix, come il cut-up, si possono sperimentare strade differenti da quelle tracciate ma, sottolinea Campanelli, «Il problema diventa, in ultima analisi, quello di capire quali condizioni devono verificarsi affinché le pratiche remixatorie attuali possano sottrarsi a quelle forme di creatività indotte dalla Rete, omologanti, massificanti al massimo grado, come nel caso delle memi, le idee-virus che si diffondono con enorme rapidità nel Web. In definitiva, quali sono le condizioni perché il remix possa accogliere l’eredità dei cut-up letterari divenendo una pratica per sottrarsi agli stampi prefabbricati dell’auto-identità?» (p. 106).

Bacon-Studies-Self-PortraitNel contributo The cut-up up the cut the up cut. Le rivoluzioni linguistiche e metodologiche di William S. Burroughs” di Linda Barone e Gerardo Guarino, gli autori si soffermano soprattutto sul rapporto tra Burroughs e la musica, mettendo in luce come una parte non irrilevante della scena musicale underground «in pieno stile cut-up, abbia tagliato frammenti del messaggio e dell’opera di Burroughs e se li sia cuciti addosso sotto forma di citazioni, tecniche del cut-up e fold in, dreamachine, ma soprattutto imparando il suo linguaggio, facendo propria la sua cultura, ergendosi spesso a parte attiva e spinta rinnovatrice diventando veicolo di un cambiamento con l’obiettivo di ricostruire il sistema sociale» (p. 108).

Il concetto di parola/lingua come strumento di controllo compare in molta della produzione burroughsiana e, secondo lo scrittore americano, se le droghe, il potere ed il sesso attivano un controllo sul corpo, la lingua esercita il suo controllo sulla mente ed è perciò necessario ricorre a tecniche come il cut-up al fine di sottrarsi a tale controllo. Gerardo Guarino, riprendendo le riflessioni di Matteo Boscarol (William Burroughs, Rock and Roll Virus. Conversazioni con: David Bowie, Patti Smith, Blondie, Devo) sottolinea come «le tematiche dell’eccesso, delle droghe, del viaggio psichedelico da una parte e quelle del controllo, dell’alienazione, della mutazione e dello spazio, dall’altro, come rifugio per l’essere umano, via di fuga dal controllo e dal condizionamento della pattumiera dell’establishment che reprime l’uomo sono topoi, luoghi, quartieri (boroughs in altre parole) centrali in certi ambienti musicali» (p. 122). Tra i musicisti che, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta, sono stati influenzati, seppure in modo diverso, dalla cultura burroughsiana lo studioso cita: David Bowie, Patti Smith, Lou Reed, Mick Jagger, Bob Dylan, John Cage, Philip Glass, Laurie Anderson, Frank Zappa, Ian Curtis, Nick Cave, Kurt Cobain, Lydia Lunch, David Johanesen, Tom Waits… e gruppi come: Blondie, Devo, Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, Ramones, Sonic Youth, The Future…

Vincenzo Del Gaudio, nel suo “Il segno e il caso: William S. Burroughs tra scrittura e teatro”, affronta il processo che porta la parola scritta dal foglio alla voce trasformandola in suono declamato ed udito. La tecnica del cut-up in Burroughs, dopo aver frantumato e fatto esplodere la consequenzialità del discorso-potere, ha lo scopo di creare una nuova lingua e come prerequisito il principio della teatralizzazione della parola che «non è una semplice operazione di rappresentazione, ma ha come scopo principale rendere la lingua creata non una mera lingua rappresentabile, ma una lingua teatrabile, ovvero, da ultimo, una lingua declamabile» (pp. 128-129). La teatralizzazione in Burroughs richiede «un’attivazione sonora della lingua, attraverso un teatro della voce senza attore, attraverso una messa in presenza della lingua» (p. 129). Dunque, sostiene Del Gaudio, «La lingua di Burroughs è un corpo teatrale, un corpo teatro, una scrittura dove “non c’è più spettacolo possibile, ci sono soltanto lo scontro, la mischia con il mondo, le attrazioni e le repulsioni” [Jean-Luc Nancy, Corpo teatro]» (p. 129). La scrittura burroughsiana, per dirla con Roland Barthes (Variazioni sul tema), è una “scrittura ad alta voce”, legata al respiro, alla vita, che «biologizza la macchina di scrittura» (p. 130).

A partire da tali premesse, Del Gaudio passa ad analizzare lo spettacolo The Black Rider: The Casting of Magic Bullets, realizzato da Burroughs insieme al regista Robert Wilson ed al musicista Tom Waits, andato inscena per la prima volta ad Amburgo nel 1990. Tale spettacolo è descritto dallo studioso come «un’eroica messa in vita operativa della lingua che si fa suono e respiro e che diventa una lingua teatralizzata, un’oscena voce oscura che proviene dalla black box, una voce metallica filtrata da un megafono: “Ascoltate le mie ultime parole in qualsiasi luogo”» (p. 134).

crocif_bacon005Stefano Perna, in Mixes by Bill. Tape experiments, armi sonore”, si occupa invece del rapporto tra Burroughs e le tecnologie di registrazione, manipolazione e riproduzione del suono, viste dallo scrittore americano come strumenti dotatati di possibilità rivoluzionarie in termini conoscitivi e di decondizionamento mentale. Perna individua nel cut-up non solo un procedimento artistico ma anche la modalità di funzionamento del sistema media elettronico, dunque, secondo lo studioso, l’artista può, attraverso tale pratica, produrre «uno sfasamento “denarcotizzante, la riappropriazione critica di una routine già implicita nel funzionamento stesso dell’ecosistema mediale» (p. 138).

Le tecniche di sperimentazione di Burroughs e compagni variano dalla sovrincisione di suoni su registrazioni preesistenti (drop-in) ai rimaneggiamenti di una “frase sonora” al fine di sfruttare tutte le possibilità combinatorie, dalle manipolazioni dello scorrimento del nastro durante la fase di registrazione (inching) alla registrazione simultanea di fonti differenti provenienti da vari media ecc. Alcuni di questi procedimenti sono simili a quelli utilizzati da compositori come Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Pierre Schaeffer e Pierre Henry ma, sostiene Perna, «sebbene le procedure e alcuni risultati possano sembrare per certi versi simili a quelli dei compositori, i presupposti da cui prendono le mosse gli esperimenti di Burroughs erano estremamente differenti. Mentre i compositori di area avanguardistica con le loro manipolazioni e decostruzioni tramite nastro erano alla ricerca di nuovi metodi per generare mondi sonori sconosciuti o inauditi, sui quali esercitare però un pieno e totale controllo espressivo, una sorta di ampliamento delle loro possibilità di azione e composizione della materia artistica, l’orizzonte di Burroughs era completamente diverso, semmai più vicino all’utilizzo delle tecnologie mediali fatto da John Cage» (pp. 139-140). Per Burroughs si tratta di ricavare zone/ritagli di tempo sottratti a quel “fluire normale” degli eventi attraverso cui viene esercitato il controllo: «frammenti di realtà depurati dalle manipolazioni che la macchina del controllo impone su tutti i discorsi e i contenuti prodotti e riprodotti dal linguaggio e dai media» (p. 140). I media sonori sono pertanto per Burroughs vere e proprie armi da utilizzare ed indirizzare al meglio, visto che lo stesso esercito americano non ha mancato di condurre ricerche sulle cosiddette sonic weapon, «armi che, producendo suoni nello spettro ultra- o infra-sonico, puntano a provocare effetti deflagranti e allo stesso tempo invisibili sulle persone, andando ad agire direttamente sui “ritmi” interni del corpo e della percezione» (p. 144).

Nell’intervento di Costantino Vassallo, “William S. Burroughs e i lineamenti di una pittura autografa”, viene presa in esame l’attività pittorica di Burroughs attuata ricorrendo alla pratica degli shotgun paintings. Se nel caso del cut-up la scrittura è trattata in forma plastica, come il materiale in pittura od in scultura, all’opposto, sostiene lo studioso, Burroughs sembra trattare la pittura come la scrittura: «i dipinti scrivono. Raccontano e predicono storie» (p. 151), afferma lo stesso Burroughs (The Third Mind). Lo scrittore americano sostiene che la pittura, a differenza della scrittura, può trasmettere serie di immagini e storie contemporaneamente, dunque «lo sparo per Burroughs permetterebbe il deliberasi di una precipua quanto particolare simultaneità narrativa in buona parte promossa per via automatica» (pp. 151-152).

Mario Trino, nel suo scritto Junker’s Movies. Il cinema infetto di William S. Burroughs”, analizza il rapporto tra lo scrittore americano e gli audiovisivi a partire delle esplorazioni della tecnica del cut-up in ambito audiovisivo da parte dello stesso Burroughs insieme a Brion Gysin, Ian Sommerville ed Anthony Balch. In The Cut Ups (1967), ad esempio, la durata dei fotogrammi viene calibrata, durante il montaggio, in modo che le immagini vengano percepite dallo spettatore senza che questi abbia il tempo di analizzarle in profondità. Se il cut-up nella scrittura permette di realizzare testi liberatori che rompono la linearità del testo, «espongono al pubblico la metodologia del controllo e la distruggono» (p. 158), in ambito audiovisivo le medesime tecniche «invece di liberare lo spettatore, ne impegnano le risorse cognitive con immagini intermittenti, che alimentano disturbi percettivi e fisici» (p. 158). Si intende così «rinegoziare la natura dell’esperienza mediale e i termini della costruzione e, quindi, della percezione del reale: esattamente come nelle opere letterarie, ma con processi e tecniche tipiche del cinema sperimentale, il loro obiettivo primario consiste nel mettere in discussione la “natura della realtà percepita”» (p. 160).

saccheggiate_louvre_Burroughs_coverSe c’è un cineasta influenzato da Burroughs, questo è David Cronemberg. Molte delle sue produzioni sono popolate da corpi mutanti e tecniche di controllo esercitate su di essi e sulla mente, si pensi a film come: Rabid (Rabid – Sete di Sangue, 1977), Videodrome (id., 1983), The Fly (La mosca, 1986), Scanners (id., 1981), The Dead Zone (La zona morta, 1983), Dead Ringers (Inseparabili, 1988). In Nake Lunch (Il pasto nudo, 1992), Cronemberg decide di «utilizzare il testo di partenza per creare una sorta di intertesto, un Naked Lunch che è nella stessa misura intessuto di sostanze burroughsiane, eppure le oltrepassa verso una dimensione audiovisiva autonoma in un processo acutamente definito “a dialectis intoxication”» (pp. 163-164). Il risultato è un nuovo Naked Lunch, in forma cinematografica, che può essere inteso come un’espansione dell’immaginario di Burroughs.

Oltre al regista canadese, Trino passa in rassegna anche alcune produzioni di Guns Van Sant che sicuramente derivano dall’immaginario burroughsiano, così come alcuni corti d’animazione e cartoon realizzati da Nick Donkin, Melodie McDaniel, Malcom McNeil, Gerrit van Dijk. Non mancano nemmeno opere audiovisive in cui Burroughs è coinvolto come attore-icona ed opere documentarie. Lo studio di Trino analizza, inoltre, la genesi di Blade Runner: A Movie (1979), opera realizzata da Burroughs ispirandosi al romanzo Bladerunner (1974) di Alan E. Nourse. Ad inizio anni Ottanta Ridley Scott è alle prese con una sua versione cinematografica del romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) e decide di acquistare i diritti d’uso del titolo (non dei contenuti) delle opere di Nourse e di Burroughs per il suo film. Nonostante il lungometraggio di Scott derivi dal romanzo di Dick, sostiene Trino, sono evidenti i debiti del regista nei confronti dell’immaginario iconografico burroughsiano.

I contributi relativi a “Burroughs ed il politico” si aprono con lo scritto di Giso Amendola, “Saccheggiate la Banca centrale. Dal controllo al debito, senza tacer d’eccedenti mostruosità”, in cui lo studioso individua nell’opera burroughsiana una topografia del controllo. È lo stesso Gilles Deleuze ad associare il concetto di controllo allo scrittore americano: «Sono le società di controllo che stanno sostituendo le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs propone per designare il nuovo mostro e che Foucault riconosce come il nostro prossimo avvenire» (p. 25). Amendola, dopo aver ricostruito il pensiero di Foucault in merito al superamento della società disciplinare ed all’avvento di quella di controllo, evidenzia come la produzione burroughsiana si leghi a tale nuovo tipo di potere: «La sua concezione del controllo non è iscrivibile nella lunga tradizione delle distopie, non c’è traccia di Grandi Fratelli, e nemmeno di panottici […] La società del controllo è un piano dinamico […] il controllo non si esercita sopra i soggetti, né li osserva: ma attraversa i soggetti stessi, li modifica e ne è costantemente modificato. In Burroughs, la concezione del controllo non passa affatto fuori dal soggetto: lo stesso tema della dipendenza sposta tutto sul campo della produzione di soggettività. La società del controllo taglia fuori qualsiasi culto ideologico del potere» (p. 28).

Il potere è dunque una relazione che attraversa e costituisce i soggetti e Deleuze spiega come l’uomo non sia più rinchiuso ma indebitato. «Il ruolo dell’indebitamento si comprende solo guardando ad una società il cui intero corpo sociale è diventato estesamente produttivo, in cui il welfare, i servizi, la vita stessa, tutta intera, delle persone diventano fonte di estrazione del valore» (p. 31). Secondo Foucault e Deleuze la resistenza non avviene (non può avvenire) a partire da “un fuori” (che non esiste); essa si produce all’interno della relazione di potere, trasformandola. Qualcosa di analogo, sostiene Amendola, avviene in Burroughs ed in lui il controllo è sempre anche una macchina di resistenza e per questo motivo intende portare la rottura dentro il linguaggio attuando pratiche di desoggettivazione e di fuoriuscita dal linguaggio al fine di cercare una via di fuga da esso. «La macchina non è più il mezzo di produzione a noi esterno, ma è intelligenza, sapere, linguaggio: è incorporata dentro di noi e dentro le forme della cooperazione sociale. Così il lavoro, potenza della liberazione umana e insieme origine della sua miseria – la croce dei Grundrisse – si dà ora finalmente come produttività sociale ampliata, dove la macchina è ormai incorporata nella vita di uomini e donne: una potenza diffusa che però continua a incontrare il comando della valorizzazione capitalistica, sempre più parassitaria e estrattiva» (p. 35). È dall’interno della cooperazione sociale che la resistenza può oltrepassare le identità imposte.

nl_cronemberg_008Claudia Landolfi, nel suo “Non potere più dire ‘sono questo’. L’Apocalisse in/di parole di William S. Burroughs”, inizia col collocare Burroughs tra coloro che Timothy S. Murphy (Up the Marks: The Amodern William Burroughs) etichetta come scrittori “amoderni” pur restando per certi versi anomalo anche all’interno di questa categoria. Landolfi individua in Burroughs una radicale critica al capitalismo ed al suo sistema di controllo attuata attraverso le sue sperimentazioni linguistiche con cui è alla ricerca di una linea di fuga dalla catena “capitale-soggettività-linguaggio”: «l’indagine sulle forme paranoiche del controllo capitalistico della società americana che trasforma le soggettività attraverso il linguaggio-virus che usa (e dunque controlla) il corpo umano è ben chiaro da Junky (La scimmia sulla schiena, 1953) a Naked Lunch» (p. 43). In generale, sostiene Landolfi, il limite politico delle opere di Burroughs è ravvisabile nel fatto che, pur ingaggiando una resistenza al controllo votata al cambiamento sociale, non sembrano andare oltre alla negazione dello status quo, mancano di prospettare nuove forme di organizzazione sociale.

Education is a virus from outer space: elementi di anatomia politica” di Alfredo Di Tore parte dalla constatazione di come l’opera burroughsiana mostri «in filigrana, come il filo rosso che lega linguaggio, corpo e mutazione sia oggetto di una deliberata confusione di piani e livelli, di una ibridazione mistificante. Più propriamente il legame tra linguaggio e corpo umano è il frutto dell’attività di quella che Giorgio Agamben definisce la macchina antropologica, un artificio che propone incessantemente una distinzione fittizia tra umano e non umano attraverso un processo arbitrario, ideologicamente orientato, di inclusione/esclusione. Secondo lo studioso in tutta l’attività di Burroughs è possibile rintracciare un tentativo, costante ed efficace, di smantellare la macchina antropologica» (pp. 50-51). Attribuendo al linguaggio la natura di virus, Burroughs dà corpo al linguaggio conferendogli una dimensione parassitaria. Il corpo funzionerebbe dunque come un decodificatore che reagisce al virus del linguaggio. Il rapporto identità/corpo/ambiente è, in Burroughs, un esercizio di potere che deve essere fatto saltare e l’ultima parte dell’intervento di Alfredo Di Tore analizza come la mutazione, in Burroughs, sembri offrirsi come possibilità.

locandina_saccheggiate_louvre_003Concludiamo questa lunga disamina di Saccheggiare il Louvre, con il contributo di Antonio Lucci, “Sciarada gattesca. Schizotecniche della scrittura in William Burroughs”, che prende il via da alcune riflessioni sulle “tecniche culturali” sviluppate dalle Kulturwissenschaften tedesche, in particolare dal filosofo viennese Thomas Macho e dallo studioso tedesco Friedrich A. Kittler. Lucci riprende gli studi di Macho a proposito della “divisione del soggetto” alla base delle “pratiche di solitudine”, tra cui ha un posto eminente la scrittura, mentre da Kittler recupera l’idea che «il soggetto è creato dal sistema di media che utilizza, nella misura in cui ne fa uso» (p. 64). A partire da tali linee guida, Lucci analizza l’opera burroughsiana evidenziandone la «funzione di raddoppiamento, quindi di sdoppiamento e di Spaltung, che assume la scrittura […] andando a vedere come a questa funzione di sdoppiamento scritturale faccia pendant una serie di contenuti narrativi opposta e parallela, vale a dire quella della moltiplicazione, proliferazione ed ibridazione dei soggetti della nella narrazione, che si pone come un affollato e brulicante “brodo primordiale” da cui escono, per poi ricadere nel calderone della scrittura libera e magmatica, figure allucinatorie, allunanti e allucinate, tipiche di una dimensionalità simbolica altra, atta a segnare i (non-) confini di un cosmo anumano» (p. 65).
L’analisi di Lucci si concentra su The Cat Inside (Il gatto in noi, 1986), opera tarda di Burroughs, in cui la funzione del doppio assume la massima evidenza. Secondo lo studioso le tecniche culturali della scrittura, la distruzione del soggetto-scrittore, della scissione della soggettività, costitutive della scrittura burroughsiana, sembrano, in questo testo, essere superate «grazie ad un equilibrio soggettivo ritrovato, attraverso una discreta, magica, sospesa, presenza della dimensione dell’alterità radicale, tanto estranea quanto vicina […]: quella dell’animale domestico, che dà a Burroughs il senso e la dimensione esistenziale e affettiva di una comunità tra i viventi non più vissuta con ferocia critica, ma con l’empatia della compassione» (p. 71).

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