Antonio Franchini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 21 Apr 2025 22:01:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini https://www.carmillaonline.com/2024/05/07/il-fuoco-che-ti-porti-dentro-di-antonio-franchini/ Tue, 07 May 2024 19:45:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82428 Marsilio, Venezia 2024, pagg. 223 euro 18

di Mauro Baldrati

Questo libro fa star male. Potrebbe essere una versione del misterioso, pluricitato Necronomicon di Lovecraft, il libro nero che contiene il Male Assoluto. E cos’è infatti il male se non negatività allo stato puro, l’anti amicizia, l’anti amore, il disprezzo per la gentilezza, la tolleranza, il rispetto, la compassione?

Tutte queste (anti)qualità sono combinate chimicamente nel personaggio centrale del romanzo, Angela. Intorno a lei si muove un piccolo popolo di uomini e donne simpatici, grotteschi, paradossali, che l’autore ritrae con precisione proustiana, con ironia, sarcasmo talvolta, diciamo pure crudeltà, ma [...]]]> Marsilio, Venezia 2024, pagg. 223 euro 18

di Mauro Baldrati

Questo libro fa star male. Potrebbe essere una versione del misterioso, pluricitato Necronomicon di Lovecraft, il libro nero che contiene il Male Assoluto. E cos’è infatti il male se non negatività allo stato puro, l’anti amicizia, l’anti amore, il disprezzo per la gentilezza, la tolleranza, il rispetto, la compassione?

Tutte queste (anti)qualità sono combinate chimicamente nel personaggio centrale del romanzo, Angela. Intorno a lei si muove un piccolo popolo di uomini e donne simpatici, grotteschi, paradossali, che l’autore ritrae con precisione proustiana, con ironia, sarcasmo talvolta, diciamo pure crudeltà, ma non senza una forma di rispetto e persino di affetto.

Come introduzione al suo carattere, che più avanti prenderà il soprannome della superspia di Le Carré, La Talpa, dominato da “un risentimento oscuro che l’avvelena”, facciamo un salto nella sezione pre-finale del libro, a pag. 197. Il narratore Antonio Franchini, che tra le righe sprigiona una sommessa vibrazione materialistica-scettica, fa tracciare una scheda tecnica di Angela (il cui materialismo è aggressivo compulsivo) da suo cognato, buddista tibetano ortodosso allievo di un grande lama (Gangchen Rinpoche, scomparso il 18 aprile 2020?):

Mamma mia, e che c’è qua dentro? Tua madre è un generatore di oscurità! Io cerco di non mangiare più neanche le cose che cucina… Ci mette dentro tanta rabbia… tanta carica negativa, che poi non sto bene, mi accorgo che mi fa male! Qualche giorno fa, a tavola, le è venuta una collera, ma una collera… Gli occhi le si sono fatti… rossi, ma era un rosso, mi devi credere, che non esiste in natura: Era lo sguardo del male! Io certe cose le ho viste solo in frangenti estremi, mò non ti posso dire tutto… in certe azioni cerimoniali, c’erano in ballo cose gravi… Io credo che nelle vite precedenti lei abbia vissuto… che abbia fatto cose non belle, ma poi nella vita che tu fai ti si aprono delle porte e tu puoi decidere, perché noi abbiamo facoltà di scelta, quella c’è sempre, siamo noi che decidiamo dove andare a finire… ma una così dove va? E dove vuoi che vada? Quando andiamo di là le cose non sono facili, non sono belle… Quando tu fai certe scelte in questa vita, nell’altra poi… non è che va bene, capisci… Quando tu, dentro, di luce non hai niente, nemmeno una fiammella, quando hai prodotto solo tenebra e buio, dall’altra parte, poi, non è che te la passi bene… L’altro giorno ho fatto una seduta a tua sorella, nella mia stanza, e ho visto una cosa che… A un certo punto, dalla testa, le è uscito un corvo… un corvo nero! Uh, Maronn’! Per tutta la negatività che tua madre le ha caricato dentro… Vedi, lei ci ha dentro una rabbia che non si placa mai, perciò si aggrappa alla terra con le unghie e con i denti, con tutta la volontà! Nun vo’ murì! Non ha neanche idea di che cosa è la pace, sta sempre in guerra, è stata in guerra tutta la vita, che può trovare dall’altra parte? E’ terrorizzata. Io avevo questo maestro che ho perso un anno fa, un grande maestro, un Lama, sul lago Maggiore. Alla fine di un periodo di raccoglimento gli siamo sfilati davanti per salutarlo, e a ognuno di noi dava qualcosa. A me ha dato una rosa. L’ho portata a casa, l’ho poggiata sulla scrivania e l’ho lasciata là. Dopo tre giorni l’ho presa e l’ho infilata in una brocca d’acqua. Era stata sulla scrivania per tre giorni! E dopo un altro giorno è sbocciata una gemma, grande, bellissima. E’ veramente raro che succeda una cosa del genere. Ma se porti una rosa qua dentro, muore subito! Uh, Maronn’! Si secca all’istante!

Fa stare male questo libro, anche se contiene dosi non avare di comicità che avvolge i personaggi, le situazioni, e certe performance apocalittiche della Talpa, un essere perfetto, senza una sbavatura, senza un minimo cedimento nella sua integrità negativa e ostile. Una specie di strega uscita da una fantasia medievale che aggredisce, maledice, disprezza le donne, che sono tutte zoccole, e gli uomini, poveri subalterni delle zoccole. Una madre che rovina la vita della propria figlia, umiliandola di continuo “per radere al suolo la sua immagine presso le compagne, estirpare le sue amicizie, razziare la sua intimità”. Fa stare male perché, come ci ha informato il cognato, questa donna è anche la madre del narratore. Così ha deciso il mistero della vita, ma ustionato, ferito da “questo stillicidio di egoismo e diffidenza” che gli arriva addosso per anni e anni, lo grida:

Che c’entro con questa donna? Che cos’ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto mi separa? (…) Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre.

Sua madre, che non gli risparmia quel disprezzo che non può fare a meno di dispensare a chiunque le capiti a tiro: “’O scrittore! ‘O scrittore d’ cazzo, chesto sì tu!”.

E con lui, con ‘O scrittore d’ cazzo viaggiamo nel tempo e nello spazio, condividiamo le atmosfere infuocate e furiose della sua famiglia; ci porta in viaggio nel sud degli anni Sessanta, inserisce nei dialoghi dosi di napoletanità, con l’uso di uno straordinario argot napoletano italianizzato, e si permette di innestare frattali di autobiografia nella biografia di Angela La Talpa, con la quale ha vissuto, subìto e combattuto fin dall’infanzia, protetto da un carapace di freddezza, di sopportazione, per poter sopravvivere.

E quando il flusso del racconto si avvia verso il crepuscolo, perché, come direbbe il cognato buddista ortodosso, tutto nasce, tutto scorre, tutto termina, il ritmo di Angela cala con l’età, e il corpo si corrompe (ma la mente resiste), il narratore inizia il processo di cauterizzazione della ferita, lo sbrego che si porta dentro fin dall’infanzia che ha continuato a suppurare nei decenni. Non si tratta di perdono, che è la forma classica del riscatto di una vita di conflitti e di fughe, ma di comprensione. Una nuova consapevolezza delle maschere che tutti indossiamo durante il nostro passaggio sulla Terra:

Lei voleva essere anticonformista, ha sempre perseguito una sua idea di diversità, di scarto dalla norma, la deriva di uno spirito ribelle. Non le piaceva il modello di madre e figlio che mettono in scena l’amore scontato che vedevamo nelle pubblicità degli anni Sessanta. L’attraeva l’idea di una madre e di un figlio che si amano mandandosi affanculo. Rispondeva meglio alla sua anarchia istintiva, al suo spirito contrario. Per alcuni anni, quando io ero un adulto e lei non ancora una vecchia, i nostri litigi furono vere e proprie messe in scena, un teatro rituale per noi, un intermezzo comico per amici e conoscenti che venivano a cena.

Un bilancio finale, una chiaroveggenza che tutti, in un modo o nell’altro, proviamo quando il cordone ombelicale con la nostra genesi finalmente – o inesorabilmente – si trancia: “Alla fine la sua tragedia è questa, non essere capaci di dimostrare l’amore. E forse è anche la mia.”

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No ai paradigmi https://www.carmillaonline.com/2021/04/08/no-ai-paradigmi/ Thu, 08 Apr 2021 20:30:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65770 Sul dibattito letteratura/editoria/mercato pubblichiamo la replica di Antonio Franchini al precedente intervento di Giulio Milani.

di Antonio Franchini

Ho accettato il confronto con Giulio Milani per due ragioni. La prima è che se qualcuno mi chiede un dialogo sui temi sui quali lavoro e rifletto da svariati decenni non vedo perché dovrei sottrarmi. Certo, se uno dei due, più che fare ragionamenti espone una serie di convinzioni tanto assolute quanto indimostrabili o indimostrate, il dialogo non è più tanto un dialogo, ma diciamo che questo rischio fa parte del gioco.

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Sul dibattito letteratura/editoria/mercato pubblichiamo la replica di Antonio Franchini al precedente intervento di Giulio Milani.

di Antonio Franchini

Ho accettato il confronto con Giulio Milani per due ragioni. La prima è che se qualcuno mi chiede un dialogo sui temi sui quali lavoro e rifletto da svariati decenni non vedo perché dovrei sottrarmi.
Certo, se uno dei due, più che fare ragionamenti espone una serie di convinzioni tanto assolute quanto indimostrabili o indimostrate, il dialogo non è più tanto un dialogo, ma diciamo che questo rischio fa parte del gioco.

La seconda era curiosità. Avevo dato naturalmente una scorsa alle argomentazioni di Milani, ma frettolosa. Mi erano parse perlopiù farneticazioni e mi sembrava giusto approfittare dell’occasione per capire meglio e magari ricredermi.

Devo dire che più la conversazione andava avanti, più capivo, come diceva Totò, questo dove vuole arrivare, più mi mancava la voglia di continuare. E, come spesso succede in questi casi allo scoraggiamento dell’uno corrispondeva l’accanimento dell’altro e la foga di Milani è cresciuta di pari passo ai miei sorrisi rassegnati: l’interazione tra il “cinismo empatico” e l’”euforia apodittica” è difficile.

Sintetizzo il tambureggiante argomentare di Milani per come l’ho capito io: “Da qualche decennio a questa parte i grandi gruppi editoriali o fanno un editing con strumenti vecchi e spuntati forgiati da un postminimalismo di maniera o non fanno editing perché non lo sanno fare. Il risultato è che i libri sono tutti uguali, i lettori diminuiscono e i giovani non leggono. È l’effetto del “paradigma Rollo -Franchini, che ha imprigionato l’editoria italiana costringendola a vivacchiare. Invece l’editing va fatto, un editing nuovo che farà crescere il livello letterario degli scrittori, riavvicinerà anziani e giovani alla lettura e incrementerà in maniera esponenziale il numero dei bestseller. Naturalmente Giulio Milani saprebbe benissimo come fare questo editing palingenetico che salverebbe capra e cavoli, le sorti della letteratura italiana e i conti degli editori, solo che nessuno finora gli ha concesso l’occasione per farlo.”

Ora, con il passare degli anni io ho sempre dato meno peso alle riflessioni teoriche, che pure da giovane mi interessavano molto, e più alle opere creative o ai fatti nei quali le teorie si traducono. Se per esempio un critico elaborava un brillante sistema valutativo e poi sistematicamente ignorava o fraintendeva i suoi contemporanei, mi suonava un campanello d’allarme. E da allora i trattati di estetica e le dichiarazioni di poetica hanno cominciato ad appassionarmi molto meno, nel bene e nel male.

Una trentina d’anni fa, se uno mi scriveva una lettera accompagnatoria in cui si paragonava a Tolstoj o a Proust oppure annunciava la sua discesa nell’agone come l’evento che avrebbe modificato i destini della letteratura occidentale pensavo che si trattasse di un cretino e non andavo avanti. Adesso invece mi dico: vediamo, non si sa mai. In fondo, un grande poeta esaltato e un pessimo poeta esaltato spesso sostengono le stesse cose o cose simili, sono le poesie a essere diverse.

Con questo voglio dire che Giulio Milani potrebbe anche essere un buon editor, se si prescinde dalle sue teorie. E anche nelle sue teorie alcuni spunti sensati ci sarebbero, se non fossero a tal punto glassati da una spessa croppa di ideologia, propaganda, approssimazioni e falsità da risultare, almeno al mio sguardo, grottesche.
La politica, per esempio, ogni volta che la vedo evocata, come Milani fa assai spesso, assieme alla poetica come altro grande assente dall’editoria contemporanea, a me che sono, è vero, un uomo del Novecento, rammenta le ombre più sinistre del secolo a cui appartengo.

Altro che “prospettiva libertaria e dissidente”, quel che mi vedo scorrere davanti agli occhi sono i fantasmi di Andrej Zdanov e del Minculpop.

Diciamo che, leggendo con più attenzione i criteri ispiratori del “paradigma Milani”, non mi sorprende che la grande editoria non gli offra la chance che egli a gran voce invoca. Il che però è un peccato perché, costringendolo a lavorare, l’editoria non solo non si pregiudicherebbe la possibilità di risolvere, una volta per tutte, i suoi eterni problemi, ma impedirebbe a lui di infestare la rete con i suoi proclami.

Se fossi un editore visionario e ardimentoso offrirei a Milani la possibilità di esprimersi. Tuttavia, per concludere, una cosa vorrei aggiungerla: se fossi uno scrittore, oggi come in futuro, pregherei gli dèi perché non mettessero mai sul mio cammino un editor con la testa di Giulio Milani.

(Foto di Avedon)

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Chi comanda in letteratura? https://www.carmillaonline.com/2021/04/01/chi-comanda-in-letteratura/ Thu, 01 Apr 2021 20:21:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65583 Entriamo nel dibattito su letteratura/editoria/mercato con un contributo dell’editore di Transeuropa e fondatore del gruppo Imperdonabili (M.B.).

di Giulio Milani

Come e perché operare un assalto ai protocolli delle scrittura industriale.

Nel mio match con Antonio Franchini, di cui si può leggere qui una sintesi parziale, è emersa una questione decisiva, per chi come me si occupa di ricerca letteraria: la grande industria editoriale del nostro Paese non ha un piano culturale, lavora troppo e si affida alla fortuna, vivacchiando su risultati di piccolo cabotaggio che non implicano [...]]]> Entriamo nel dibattito su letteratura/editoria/mercato con un contributo dell’editore di Transeuropa e fondatore del gruppo Imperdonabili (M.B.).

di Giulio Milani

Come e perché operare un assalto ai protocolli delle scrittura industriale.

Nel mio match con Antonio Franchini, di cui si può leggere qui una sintesi parziale, è emersa una questione decisiva, per chi come me si occupa di ricerca letteraria: la grande industria editoriale del nostro Paese non ha un piano culturale, lavora troppo e si affida alla fortuna, vivacchiando su risultati di piccolo cabotaggio che non implicano né producono nessuna questione di poetica né di politica. Sono cose che sapevamo, è vero, ma sentirlo ammettere con tanto candore è un elemento su cui riflettere, forse addirittura una buona notizia. I mezzi di produzione sono saldamente in mano a un’industria familistica di stampo otto-novecentesco e a una compagine di letterati editori – Franchini, Rollo, Repetti e i loro allievi –, che si limitano in modo arreso e spesso consapevole a una ricezione passivo/aggressiva dell’esistente.

Riprendo qui i punti salienti delle mie contestazioni:

1. Come Imperdonabili abbiamo parlato, fin dai primi manifesti, di paradigma o per meglio dire “paradogma” Rollo/Franchini, affiancando al direttore editoriale della narrativa italiana di Mondadori (oggi in Bompiani) l’altro letterato editore a capo della narrativa Feltrinelli più o meno negli stessi anni. Questi sintomatici guardiani dell’accesso sono letterati novecenteschi, che hanno lavorato e insegnato con strumenti, saperi, tecniche alle volte vecchi di cinquant’anni. In particolare, hanno impiegato soprattutto il protocollo di scrittura industriale del “minimalismo all’italiana”, ovvero una scrittura piatta, banale, completamente serva, questa sì, di una narrazione sempre epigonale, mai innovativa, sulla base di modelli come il minimalismo statunitense, appunto, che alla fine è soprattutto un protocollo di scrittura industriale codificato dagli editor di quel Paese e buono per qualunque genere. Con questo, non rimprovero agli editor di una grossa industria editoriale di fare scrittura industriale, ma di non essere riusciti a fare la differenza neanche dal punto di vista commerciale, visto che queste soluzioni non hanno conquistato una nuova generazione di lettori, ma producono la lontana eco di un valore letterario defunto presso un pubblico sempre più vecchio e svanente, nella più completa indifferenza di quella generazione che va dai venti ai quarant’anni, per esempio, o della working class – assolutamente sottorappresentata. Dunque i Nostri continuano a imperversare, occupando ogni frequenza disponibile, nonostante le loro proposte siano carenti anche dal punto di vista degli obiettivi commerciali per cui teoricamente lavorano.

2. Questi esiti non sono solo il risultato dei ridotti margini di manovra dell’industria editoriale italiana, ma alla fine rappresentano l’esercizio di una vera e propria scelta, che potremmo chiamare il pregiudizio estetico minimalista: i summenzionati editor, scrittori in proprio, hanno fatto in modo di togliere autorialità agli scrittori veri, mandando avanti (o al macello, il più delle volte) scriventi un tanto al chilo che durano una stagione e poi vivacchiano con le comparsate ai festival, i corsi di scrittura per begonzi, gli articoli addomesticati, accumulando dal punto di vista editoriale una serie di ribollite sempre più indigeste. Invece hanno riservato per le loro opere personali un profilo basso, laterale, con editori piccoli ma stimati, come a segnare una differenza rispetto all’apparato mainstream da loro stessi colonizzato e depotenziato. Di questo aspetto, che balza agli occhi, è consapevole anche una parte del vecchio pubblico di lettori, che oggi ignora o snobba le loro proposte per manifesta mancanza di un’autentica rappresentatività letteraria.

3. In definitiva, non hanno consentito all’industria editoriale di rinnovare le proprie file in base al merito, tenendo sempre le difese immunitarie altissime, evitando con cura di inserire possibili competitor nella loro comfort zone, allevando giovani funzionari ammaestrati e lavorando solo in base alle relazioni di spogliatoio, come si dice con un termine calcistico, e alla loro idea fallimentare di scrittura.

Ciò detto, per ribadire una prospettiva di conflitto inconciliabile con questo agonismo facile e autoriferito, questo perenne giocare in un campo dove l’arbitro e il giocatore sono le stesse persone, Davide Bregola ha trovato una definizione perfetta per la poetica del paradogma Rollo/Franchini, che poi è anche un programma politico della sinistra della ZTL: il cinismo empatico. Poiché la sinistra è ormai questo, una costola della destra: da una parte ha interiorizzato il cinismo dell’apparato tecnico-industriale, dall’altro finge di interessarsi ancora dei problemi delle persone, ma lo fa da una prospettiva ventriloqua e populista, la stessa che adesso mette in campo la narrazione sulla “salute come bene supremo” solo per sublimare il concetto destrorso di sorveglianza, decoro & sicurezza, che erode tutti i nostri diritti a partire da quello al consenso. Una forma di ipocrisia totale, insomma, che oggi rappresenta una frattura antropologica tra narratori covidisti e resistenti, mentre in termini di mercato consiste per esempio nello scegliere temi, personaggi e scrittori che possano essere spesi nell’ambito del pandemic & politically correct e della morale già bell’e cotta.

Questo è il motivo per cui ho sottoposto all’attenzione degli addetti ai lavori un riferimento al modo in cui lavora oggi l’industria cinematografica, che invece non ha gli stessi problemi di sotto-rappresentanza sociale, politica e generazionale, o comunque non ha gli stessi problemi di natura commerciale, e ha saputo rinnovare il proprio repertorio tecnico. Almeno questo, voglio dire, l’industria cinematografica ha saputo farlo: rendere la propria offerta ancora più ricca di occasioni di semplice intrattenimento, o di cassetta, ma anche di film più sperimentali, innovativi, vicini al sentire dell’arte. L’una si nutre delle innovazioni dell’altra, alzando l’asticella della produzione media. Per farlo, l’industria cinematografica ha allargato o reso possibile l’incremento del numero e delle competenze delle figure che intervengono nella parte alta della filiera della produzione industriale, quella artistica: si pensi alle case di produzioni indipendenti, alle parternship internazionali e alla figura dello showrunner come delle writers’room, che vengono in soccorso ai registi o agli sceneggiatori per alzare la qualità media delle produzioni. E se alzi l’asticella della produzione media, puoi ottenere la squadra che valorizzi anche l’autore vero, quello che emerge dall’industria con tutti i suoi valori artistici pressoché inalterati. Insieme a Netflix, infatti, convive Mubi, e su Mubi come su Netflix è possibile avere un osservatorio di quanto più ampia e diversificata sia la ricerca internazionale dell’industria cinematografica rispetto a quella editoriale. Il fatto che lo stesso discorso si possa applicare anche all’industria editoriale degli Stati Uniti, come risulta da questo prezioso contributo di Martina Testa sull’omologazione letteraria all’estero, rappresenta a mio avviso la dimostrazione della tesi: abbiamo un problema ai vertici, prima che alle basi della produzione letteraria.

In conclusione, emerge una volta di più la necessità di pensare al modo più appropriato per vivere la sfida del proprio tempo in maniera non succube delle dinamiche industriali, ma critica, allargata e determinata a incidere nel software culturale del Paese da una prospettiva libertaria, dissidente. Questo è il motivo per cui sto lavorando, con gli Imperdonabili, a un progetto editoriale che sia capace di cambiare le modalità di produzione e di distribuzione dell’opera letteraria, una specie di assalto ai mezzi della produzione culturale e ai protocolli di scrittura vigenti che tenga conto, senza ipocrisie, delle caratteristiche del teatro operativo: in letteratura comandano gli editor.

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