Antonio Bocola – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 50 https://www.carmillaonline.com/2013/06/28/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-50/ Thu, 27 Jun 2013 22:01:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6933 di Dziga Cacace

Farmacia di turno, lucri sul nervoso (Elio e le storie tese)

ddv5001494 – La truffa e la fuffa di Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, USA 2004

Premetto: avevo mal di testa, ero stanco, mal disposto e seduto troppo vicino allo schermo. Aggiungiamo che lo sceneggiatore del film, girato dall’acclamato regista di videoclip Gondry, è quel Charles Kaufman che mi sta già parecchio sulle palle come responsabile dello script del perfuntorio Essere John Malkovich, commesso da Spike Jonze e a cui tanti avevano abboccato (spunto folle e geniale, ok, ma esaurito in un [...]]]> di Dziga Cacace

Farmacia di turno, lucri sul nervoso (Elio e le storie tese)

ddv5001494 – La truffa e la fuffa di Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, USA 2004

Premetto: avevo mal di testa, ero stanco, mal disposto e seduto troppo vicino allo schermo. Aggiungiamo che lo sceneggiatore del film, girato dall’acclamato regista di videoclip Gondry, è quel Charles Kaufman che mi sta già parecchio sulle palle come responsabile dello script del perfuntorio Essere John Malkovich, commesso da Spike Jonze e a cui tanti avevano abboccato (spunto folle e geniale, ok, ma esaurito in un quarto d’ora e amen). Anche questo Se mi lasci ti cancello (e complimenti vivissimi ai distributori nostrani per la scelta del titolo) gode già di fama clamorosa. Però io, dopo cinque minuti di proiezione, sono già “fuori” dal film, incapace di farmi coinvolgere, straconvinto dei miei pregiudizi. L’idea del film è intrigante: esiste una terapia particolare per rimuovere il ricordo di una persona cui si è legati affettivamente e Joel e Clementine (Jim Carrey, sottotono, e Kate Winslet, adorabile) vi hanno fatto ricorso. Solo che – attento allo spoiler – lo spettatore gonzo casca nell’abile tranello e scoprirà presto (o tardi, dipende dalla freschezza neuronale) che l’incontro tra i due piccioncini messo in testa al film è la conclusione, non la premessa, di quanto segue. I due si erano “cancellati”, ma in un immane e residuale sforzo mnemonico si erano dati appuntamento per il futuro, per ricominciare da capo. Mi sa che tanto per cambiare si sia rubacchiato dalle parti di Dick, ma calando l’intuizione in un racconto pretenzioso, dove ci si crede autori se ti si polverizzano i coglioni con dialoghi estenuanti e sopra le righe (cosa che nella testa di taluni fa tanto “artista”). La regia non mi colpisce granché, comunque, né i sussulti di montaggio gggiovane. Il film è piaciuto tantissimo, dicevo: alla critica specializzata e al pubblico hip e in America s’è parlato di capolavoro assoluto. C’è l’amore vero, unico, disperato, tenace etc. etc. E certo. Ora: siccome ho scritto con la destra mentre la sinistra mandava nemmeno troppo metaforicamente a cagare il regista, quale valore ha il parere di uno che ha vissuto tutta la proiezione come una tortura, dandosi del belinone perché già sapeva a cosa sarebbe andato incontro? Nessun valore! Oppure tantissimo, perché è ben questa vaccata presuntuosa che mi ha ridotto ulteriormente così, eccheccazzo, e non ritratto, no. Io sono un vecchio bilioso, ma se devo vedere un regista che fa i numeri, preferisco Godard e a un maldestro presuntuoso preferirò sempre un maldestro ignorante perché suo è il regno dei cieli. Ecco. Poi, mi sbaglierò perché mi pare di essere solo contro tutti e, anche se miliardi di mosche apprezzano la merda, io il dubbio ce l’ho sempre. Ma anche se sbaglio, dov’è la novità? (Cinema Mediolanum, Milano; 31/10/04)

ddv5002495 – L’immancabile Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet, Francia/Canada/Belgio 2002
La strana avventura di nonna Souza e del cane Bruno che, aiutati dalle trillanti Triplettes (trio canoro dedito al consumo di rane) finiscono in una Belleville americana per liberare il nipote ciclista Champion, prigioniero della mafia francese che lo fa correre per scommesse. Delirante trama che gioca coi luoghi comuni sui francesi (nasoni da avvinazzati, passione per le due ruote) e sugli americani (tutti grassissimi e ottusi), con ritmo e comicità assolutamente europei (e un po’ catatonici). Omaggi sparsi a Jacques Tati, Fausto Coppi, Eddy Merckx, Django Reinhardt, Glenn Gould, Josephine Baker e in generale al mondo innocente e swingante del dopoguerra. Disegnato con stile spigoloso e deformazioni fisiche caricaturali, Appuntamento a Belleville immagina città tortuose, caotiche, grottesche, “mordillane”, con tratto gradevolissimo, ricchezza cromatica, animazioni intelligenti e gag visive azzeccate. Film carino e inaspettato, molto autoriale nell’irriducibile lontananza dal gusto comune, per niente children friendly. E ciò nonostante mi è incredibilmente piaciuto. (Dvd; 9/11/04)

ddv5003496 – Il truccato Kiss Symphony The DVD, di due cialtroni, USA 2003
Cosa rende così irresistibile truccarsi con biacca e rossetto come dei vampiri spaziali e agitarsi su degli zatteroni? I Kiss devono averlo capito più di trent’anni fa, tant’è che, col loro hard rock piacevolmente banale, son riusciti a diventare un fenomeno (sub)culturale condiviso dai fan di mezzo mondo. Un pubblico entusiasta che aderisce al rito liberatorio e infantile della performance collettiva, dove lo spettacolo si consuma sia sul palco che in platea, tra spettatori mascherati che tiran fuori la linguaccia e fanno le corna. Stavolta il carico ce lo mette la Melbourne Symphony Orchestra, pittata al bacio per una folle notte di r’n’r, e il menu è completo: arrangiamenti roboanti, sangue finto a litri, esplosioni pirotecniche e trovate sceniche esagerate. In un tripudio visivo che, a voler essere molto generosi, rimanda al teatro kabuki o a una consapevolezza camp, le brave famiglie godono di tre ore di trasgressione soft, sottolineata dall’occhiuta regia (dei carneadi, per me, Jonathan Beswick e Victor Burroughs) che non tralascia alcun florido petto femminile offerto ai machissimi Gods of Thunder. Ma con consueta ipocrisia, il flashing non si concretizza, lo si suggerisce soltanto… maledizione! Mi prende male e noto talento imprenditoriale, faccia tosta e poca ironia, se no il gioco viene meno bene: praticamente Frank’n’Furter del Rocky Horror Show senza l’anima e il ragionamento, solo l’involucro esteriore. E la chitarra sfasciata nel finale non è sintomo della rabbia esistenziale di Hendrix o Townshend, ma solo l’esplicita metafora di ciò che è stato fatto alla musica. E vabbeh. Dvd consigliabile solo a fan sfegatati o insospettabili amanti degli zoccoloni seventies. Niente sottotitoli, ma francamente non si perdono grandi dialoghi. Film-concerto esagerato e artificioso e pezzo mio offeso e ingiusto – perché questi cazzoni alla fine mi son simpatici -, ma non ho altro da dichiarare. (Dvd; 18/11/04)

ddv5004497 – Troppo poche Nine Hundred Nights, di Michael Burlingame, USA 2001
In un’oretta ricca d’interviste e immagini d’epoca, la parabola artistica e umana dei Big Brother and the Holding Company, il gruppo di San Francisco che, con l’arrivo di Janis Joplin, ebbe un improvviso e clamoroso successo, per poi finire nel dimenticatoio quando la cantante – dopo 900 notti assieme – decise di cambiare aria. Janis Joplin era una ragazzona texana di buona famiglia, butterata, insicura (anche sessualmente) e vogliosa di rivincita. A Port Arthur la definivano “il più brutto uomo del college”. E allora lei se ne andò a Frisco per cantare il blues con l’intensità e il dolore di una big mama nera, spesso ubriaca come un carrettiere e vestita come uno sguaiato troione. I Big Brother erano hippie volenterosi ma musicalmente un po’ pedestri: se riascoltate i bootleg del periodo, è un festival di scordature e stonature, note smangiate, entrate fuori tempo e fraseggi balbettanti. Però c’era del gran coraggio, quello che ti rende non un virtuoso, ma un artista sì, uno che prova a percorrere in modo diverso una strada magari vecchia: ascoltatevi l’alchimia inarrivabile della rilettura di Summertime di Gershwin, con due chitarre acide che si inseguono, mentre la biondona soffre e geme, ma veramente, come se si portasse sulla schiena una balla di cotone e il dolore esistenziale di tutti, non solo del popolo nero. I quattro maschiacci strafattoni, riuniti in una comune di Marin County si dimostrarono i comprimari perfetti per  Janis: ne venne fuori una musica rivoluzionaria, pulsante, viva e innovativa, che centrifugava tradizione ed elettricità, blues, gospel, country e psichedelia. Nelle belle clip di repertorio la Joplin incendia il palcoscenico: batte i piedi, urla, piange, ride, blatera, beve, ulula e tratta male i suoi compagni (e son momenti di imbarazzo vero). Li mollerà in braghe di tela, consegnandoli all’anonimato di dischi trascurabili. Lei andrà invece a Woodstock (performance non eccelsa tecnicamente, ma sofferta e vera) e morirà durante la registrazione del fenomenale postumo Pearl. Sad, sad story, come nelle più classiche dodici battute. Ma eccellente documentario (sottotitolabile), ricco di bonus sfiziosi. (Dvd; 28/11/04)

ddv5005498 – Doloroso e necessario, The Agronomist di Jonathan Demme, USA 2003
Serata libera. Con imprevedibile vitalità decido di uscire di casa e andare al cinema. Ma non c’è nulla che mi attizzi e allora scelgo l’impegno. L’agronomo è Jean Dominique, borghese creolo che ha dedicato la sua vita a denunciare la dittatura dei Duvalier padre e figlio, per finire ucciso nel 2000, in una Haiti “democratica” solo sulla carta. Commosso atto d’affetto nei confronti di un amico, The Agronomist è il frutto di anni di interviste ed è “il” documentario come andrebbe fatto: con partecipazione, humour e commozione, senza dimenticare che si sta raccontando una storia. Quella di un popolo schiavo, quella di un uomo libero e anche quella di un regista diviso tra Hollywood e impegno. Certo, Jean Dominique, era il soggetto ideale: comunicativo, spigliato, ironico, ma Demme ha saputo organizzare tutto senza risultare pedante o freddo. The Agronomist ci dice quanta paura faccia una piccola radio libera (era Radio Haiti Inter) in un paese svenduto alla casta militare allevata in USA. E, visto che ormai non si può neanche affrontare la questione della guerra in Iraq senza essere tacciati di estremismo, solleva qualche umile dubbio: lo Jean Dominique esiliato a New York ma testimone della connivenza di Washington con gli assassini di Port-Au-Prince, era forse un antiamericano? E Jonathan Demme, regista premio Oscar, con un film così rinnega forse la sua patria? Mah. Pessima proiezione trapezoidale e pubblico scarso in sala (eravamo appena in cinque; Haiti non è materia da seratona, francamente). E a proposito di libertà di stampa, giacché la calata negli inferi di Haiti sembra remota: Enrico Mentana (mica Andrei Zhdanov, dico Mentana) è stato silurato perché evidentemente non risulta controllabile come lo si vorrebbe. Al suo posto la cameriera Rossella: il pranzo è servito. (Cinema Eliseo, Milano; 29/11/04)

ddv5006499 – L’artificioso e non così intelligente A.I. Artificial Intelligence di Steven Spielberg, USA 2001
Praticamente quello che ho visto è: Pinocchio ha un incontro del terzo tipo. Ad Oz. Spielberg prova a fare il Kubrick, ma regge manco un quarto d’ora, poi lo prende la fiaba e non riesce a non raccontarci tutto, a lasciare qualcosa di misterioso, alla nostra, di immaginazione. Se A.I. ha un grosso difetto è questo dover rappresentare ogni cosa, ogni snodo narrativo. La partenza e il finale, che mettono in relazione un essere artificiale e un essere umano, riescono – per vie traverse, ricatti emozionali, colpi bassi, ma anche una non disprezzabile analisi psicologica – a essere credibili e quasi commoventi, compiendo il miracolo di farci provare dell’affetto per David, un androide con la faccia da cazzo di Joel Osment (lo stesso inquietante rimbambito de Il sesto senso: voglio vedere quando diventa grande se gli danno ancora qualche ruolo. Goditela finché puoi, caro). Tutto il resto dell’odissea del protagonista, in fuga dagli umani, accompagnato ad altri robot, sa – ma guarda un po’ – di artificioso. Fotografia splendida, scenari grandiosi (e inventivi, come la Manhattan prima sommersa e poi congelata), tensione costante. Ma anche il progressivo distacco dalle emozioni (e dalle aspettative) provate nella prima parte del film. Quello che poteva e probabilmente doveva essere una riflessione sull’amore e sul potere della fantasia, pecca di superficialità e cade in cliché usurati, perdendo poesia in cambio di qualche effettaccio. A Spielberg succede troppo spesso perché sia casuale: peccato. Però c’è passato. (Dvd; 7/12/04)

ddv5007500 – Ingiudicabile, Fracchia la belva umana di Neri Parenti, Italia 1981
Qui siamo dalle parti della leggenda, quando effettivo valore del film e ricordi drogati confluiscono in un complotto della memoria… perché – e mi tolgo subito il dente – Fracchia la belva umana è una buona commedia, in alcune parti vicina alla perfezione, ma non è quel monumento che la mia infantile inclinazione pretendeva. Nel 1981 la spinta propulsiva di Paolo Villaggio s’era esaurita da un po’: Fantozzi contro tutti (1980) diretto da Villaggio stesso assieme a Parenti, era ancora divertente, ma si sentiva già che era venuta a mancare la mano di Luciano Salce, regista intelligente e arguto. Neri Parenti – a suo modo anche lui un intellettuale, appassionato del cinema muto – si dimostra invece sciatto nel mettere in scena in maniera approssimativa, senza minimamente curarsi del ritmo e della qualità delle gag. Il cinismo degli sceneggiatori (tra cui ancora una volta Benvenuti e De Bernardi) rasenta l’incredibile: si ricicciano situazioni vecchie almeno un decennio (il confronto tra Fracchia e il direttore Gianni Agus), se ne riciclano a pacchi da Fantozzi (pari pari, congiuntivi sbagliati compresi) e addirittura si fa ricorso all’omaggio/furto con Chaplin (la scena della bomba che s’infila nella giacca del protagonista, vecchia di sessant’anni e già ripresa ne Il secondo tragico Fantozzi!). La trama però non è niente male: il timido e pavido Fracchia ha un improbabile doppio: è identico al nemico pubblico numero uno, la Belva Umana. Il quale ha due talloni d’Achille: è allergico al cacao e ha una madre sicula troppo espansiva (il grandissimo Gigi Reder). Avversario della Belva il gigantesco commissario Auricchio, il ruolo della vita per Lino Banfi. Questo commissario ottuso e dalla parlata isterica, perseguitato dal povero appuntato De Simone, è uno dei punti di forza del film. Peccato che il ritmo sia altalenante per tutto il primo tempo. Il film è tutto in discesa soltanto dopo la notevole scena ambientata al ristorante “Gli incivili” (ove si possono delibare saltinculo alla mignotta): qui, Banfi viene accolto dall’immortale stornello E benvenuti a ‘sti frocioni e se non vi commuovete lì mi chiedo come abbiate passato i vostri anni Ottanta. Notevoli, oltre alla “ex puttanazza prostituta palermitana” che imbottisce di cibo il povero Fracchia, anche “gli apostoli della rapa” Neuro (Francesco Salvi) e Pera (Massimo Boldi) e un grandioso confronto (anche attoriale) tra la Belva e Auricchio, a casa del protagonista. Alla fine il film, per quanto inattaccabile, è imperfetto ed è un peccato, perché poteva essere un modo per allontanarsi dal fagocitante modello fantozziano che ha fatto recitare Villaggio come il suo ragioniere da allora sino ad oggi. L’unica differenza tra Fracchia e Fantozzi è che il primo ha un vago (e incongruo) accento genovese e non tiene famiglia. Uguale tutto il resto, anche l’amara conclusione che ci ricorda ancora una volta che non sarà nell’aldilà che otterremo giustizia. Ma dette tutte ‘ste fregnacce e tornato in me stesso… no, capolavoro no, ma quasi. Dài, sì. (Dvd; 14/12/04)

ddv5008501 – Abbiamo ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003
Ritorno al mio amato cineclub, il Lumière di Genova, per presentare Fame chimica nell’ambito della rassegna su cinema e urbanistica organizzata dalla soul sista Hilda e appendice della manifestazione Urban Regeneration, del cui concorso per cortometraggi sono giurato. Scopro, dal librone delle firme e dei commenti presente alla cassa, che cinque anni fa avevo annunciato al compianto Marco Polese che Fame chimica era ormai scritto e che presto lo avrei presentato nella nostra amata grotta, umida e buia. Il destino ha voluto che il film fosse realizzato in tempi biblici e che Marco non potesse vederlo. Peccato: la serata è per lui. Ci sono solo una settantina di persone, ma per il Lumière è un incassone. Il film parte e Paolo e io andiamo a berci una cosa con Claudio ed Enrico, i due sodali che dirigono la sala da anni, in attesa del consueto dibattito. Finiamo in un curioso bar nei dintorni, gestito e frequentato da rumeni. Sembra di essere alla periferia di Bucarest e gli avventori cantano Celentano e i Ricchi e poveri. Dopo la straniante esperienza (ma non male!), torniamo in sala in tempo per rivedere il finale del film: mi commuovo e dopo i titoli ci sottoponiamo alle domande di rito. Il pubblico genovese è freddo e riservato come da tradizione e sono i familiari e gli amici ad animare la serata. Piacevole discussione, ma la magia delle liti infuocate, della curiosità e della partecipazione di dieci anni fa s’è persa. Solo il critico Claudio Bertieri, fiammeggiante polemista, osserva il condivisibile difetto del film (la reiterazione dei finali e la debolezza della chiusura). Per il resto si parla della crisi del cinema italiano e mondiale e, fatalmente, anche della morte dei cineclub, strozzati da spese insostenibili (affitti, SIAE, cassieri, proiezionisti, pulizie) e dall’impossibilità a mantenersi con la seconda visione (stroncata dall’avvento del Dvd). E poi la mia generazione s’è ritirata e non è stata sostituita da nessuno. È la vita! Rimane solo la resistenza delinquenziale: cineclub clandestini come TAZ, dove proiettare Dvd fottendosene del diritto d’autore. Intanto, sul fronte critico, un’ultima novità: l’annuario di Cineforum dedica poche righe a Fame chimica e Stefano Savio liquida un film che vanta inviti, partecipazioni e vittorie in diversi festival stranieri, con l’accusa di provincialismo nell’indugiare sulla lingua parlata dei protagonisti. Mah! Una vocina mi dice: sii sportivo, Cacace! Impara a incassare le critiche! Elabora! Okay, elaboro. E rispondo con la signorilità che mi è stata riconosciuta da tanti avversari in estenuanti diatribe critiche: amici che scrivete di cinema sulla carta patinata di Cineforum, vi prego: prendete coraggio e affrontate la vita vera. Uscite dalle sale dove vi rovinate la vista e andatevene tutti affanculo! (Cineclub Lumière, Genova; 15/12/04)

ddv5009502 – L’infelice Stagione 5 di Sex and the City, di Aa.Vv., USA 2002
È la serie girata durante gli ultimi mesi del 2001 e risente decisamente del clima post 9/11. Gli episodi sono stati ridotti (8 contro i consueti 18) e ne è venuta fuori una stagione minore, attendista, che mette poca carne al fuoco non avendo il tempo per svilupparla. Succedono comunque cose gustose: Carrie diventa autrice letteraria e i suoi articoli sono raccolti in un libro di successo; l’avvocato Miranda cresce il piccolo Brady tenendosi a distanza, ma non troppo, dall’adorabile Steve; la P.R. Samantha, divorata dalla gelosia, lascia l’allupatissimo uomo d’affari Richard (James Remar, l’Ajax de I guerrieri della notte!); la brava ragazza Charlotte ottiene il divorzio e comincia una love story col più improbabile dei pretendenti: un coinvolgente e bruttissimo legale. Come andrà a finire? Qui, rispetto al passato sono accentuate le situazioni sessualmente esplicite. C’è molto nudo e un episodio (il quarto) è un compendio sulle possibilità del rapporto orale. Tutto molto divertente e liberatorio, sempre tenendo presente che siamo nell’ambito della trasgressione commerciabile per le masse: sesso e famiglia, cementate dall’ipocrisia, vendono sempre, e non è un caso che parallelamente alla rivendicazione della loro libertà sessuale, le quattro amiche perseguano a ogni costo un tranquillizzante matrimonio o il grande amore romantico. Ma chi sono io per giudicare? Tra le guest star della serie l’elegante Candice Bergen, amore dei miei 15 anni, e la bollente Heather Graham. (Dvd; 16, 26, 28, 30/12/04)

Shrek503 – Il fiacco Shrek 2 di Andrew Adamson, USA 2004
L’Orfeo – già il cinematografo “con lo schermo più grande d’Italia” – riapre i battenti dopo alcuni mesi di lavori, con due nuove sale aggiunte. Decidiamo al volo di andare subito a vederci un bel cartone per bimbi grassi, come ormai siamo diventati (ma Barbara è incinta). Risultato? Mah! Shrek 2 è clamorosamente blando, con scarsa densità di situazioni e battute. In originale, l’eccezionale cast di voci ha probabilmente supplito alla mancanza di dialoghi brillanti, ma per noi italiani rimane solo un testo anemico che fa (colta e fredda) satira sulle fiabe e su Hollywood, moderna città delle favole. Rispetto al primo episodio, Shrek 2 perde in irriverenza e cattiveria, regredendo infantilmente e limitando la sfrontatezza a scorregge e caccole. Eccellenti disegno e animazione, ma manca un po’ la vicenda. Peccato. A Cannes il film è stato osannato, non essendo evidentemente conosciuti il progenitore della saga e i tanti cartoni “adulti” della Pixar: cari criticonzi da quotidiano, pagherete tutto, pagherete caro. A fine film, luci accese una frazione di secondo dopo il “nero” del primo titolo, nonostante ci sia una scena aggiuntiva due minuti dopo, scena che siamo costretti a vedere a luci accese (e non valeva niente). Sintomatico che i cinema si rinnovino, salvo che nei confronti dello spettatore: odore di vernice, ambienti freddissimi, stesse cassiere rincoglionite di sempre. Francamente era meglio prima. Era sempre meglio prima, comincio a credere. (Cinema Orfeo, Milano; 17/12/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 50)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 03/04) – 48 https://www.carmillaonline.com/2013/05/22/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0304-48/ Tue, 21 May 2013 22:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5865 di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare [...]]]> di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan
Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare le prese scart senza far casino e alla fine ce la faccio. Infilo una vecchia videocassetta, schiaccio rec e già che ci sono mi vedo pure il film in diretta. Ed è un buon prodotto dove si racconta un periodo solitamente travolto dalla semplificazione storiografica, punitiva e negazionista, che preferisce parlare di generici Anni di piombo o che, in perfetta e speculare banalizzazione, li sputtana beandosi del riflusso (come col fazioso Anima mia, e de li mortacci sua). Era una stagione ricca, di lotta politica, certo, e di generosità, dove la voglia di confronto e di esperienze erano lontane da ciò che la società voleva imporre. Reducismo e vittimismo hanno fatto un cattivo servizio alla memoria ma il bel documentario di Rastelli – che utilizza materiali diversi, tra cui i famosi nastri di Alberto Grifi – evita questi sentieri fuorvianti e restituisce il sapore di quell’elettricità raccontando il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro del 1976. Si parla di ideologia, di utopia e della sua morte. Nudi verso la follia però non è un film concerto e la musica è un mezzo di comunicazione politica e sensuale. Tra gli intervistati Stefania Maggio (che all’epoca era giovanissima, autonoma, e naturalmente nuda), Fabrizio Passarella (uno degli organizzatori), Alberto Camerini, Eugenio Finardi e lo splendido Patrizio Fariselli degli Area. Bello! La mia testolina passa repente ad altro: ieri è morto Ronald Reagan, un mio nemico. Non vinse affatto la Guerra Fredda, come titola Repubblica, con una falsificazione emblematica (non son sicuro di cosa, ci devo pensare). Era invece un caprone manicheo, un assassino, un bugiardo, uno spione e pure un attore cane. Però aveva nel suo staff dei buoni battutisti: “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro. La depressione è quando tu perdi il tuo. La ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”. Non mi mancherà per niente: adesso aspetto sulla riva del fiume la Thatcher e Andreotti e poi posso spirare tranquillo. (Diretta su Canal Jimmy; 6/6/04)

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472 – Sempre un piacere, Angel Heart, di Alan Parker, USA 1987
Questo è un mio personalissimo cult: all’uscita lo vidi tre volte in sala. La prima con Pier Paolo, dopo il Natale 1987. Poi, poco dopo, con Ferro e l’ultima volta a Champoluc, con la consueta compagnia di amici vacanzieri: degenerò in lite finale su senso e qualità del film. La vicenda, all’epoca, ci sembrava un rompicapo, oggi è limpidissima, quasi lampante nella sua evidenza, ma il film non ha perso un briciolo del suo fascino malato, ricco di temi visivi ossessivi: scale, ventole, pioggia, sangue. Harry Angel è di Brooklyn e non sopporta i polli: a New Orleans lo aspettano tip tap sinistri e incesto, l’aspra cultura cajun e il potere ambiguo della radice di Guglielmo il Conquistatore. Siamo catapultati in una Louisiana umida e sensuale, al suono del blues, tra riti voodoo e patti col diavolo: cosa voglio di più? In più c’è un cast da infarto: De Niro – manierato, sardonico, inquietante – si presenta subito come Louis Chyphre, citando i Rolling Stones. Lisa Bonet è di una bellezza stratosferica e cancella ogni ricordo televisivo dei Robinson: il destino le riserverà qualche pestaggio da parte di Lenny Kravitz e l’oblio, purtroppo. E infine c’è Mickey Rourke, l’attore in cui avevamo riposto ogni fiducia: un corpaccione pesante, ancora lontano da chirurgia estetica e orchidee selvagge. Diede presto segni di squilibrio consegnandosi alla Cavani per il tremendo Francesco e la conferma che c’era qualcosa di sbagliato arrivò con la strampalata carriera pugilistica. Ma era e rimane un grande, anche suonato. Il film è un pastiche di diversi generi (noir, thriller, horror), ma funziona ancora e pur conoscendolo a memoria (e non lo vedevo da 15 anni!), m’è filato veloce come un treno. A voler essere pignoli, forse Lucifero poteva escogitare un modo più semplice e veloce per ottenere il tributo dovutogli, ma evidentemente gli piacciono le cose ben fatte e adesso Harry Angel brucerà all’inferno (arrivandoci in ascensore). Visto in lingua originale: grandissimo film e grandissimo regista, capace sempre di lavorare su più registri. (Dvd; 16/6/04)

ddv4803473 – Molta Sympathy For The Devil, ci mancherebbe, di Jean-Luc Godard, Gran Bretagna 1970
Credo in poche cose e Keith Richards è una di queste. Giusto per chiarire. Poi: ho cominciato da poco a scribacchiare delle veloci recensioni per un mensile chiamato Rodeo che si occupa di fashion e arte e viene distribuito gratuitamente a Milano. Il diretùr è Massimo Torrigiani, lo stesso di Boiler, magazine estremamente hip dove invece vengo tradotto in inglese e distribuito su scala planetaria a fianco di contributors come Pete Townshend e Madonna: Massimo mi ha chiamato e anche stavolta non ho saputo dire di no. Ecco cosa gli ho rifilato. “L’estrema coolness del rock: Keith Richards. Pantalone di velluto attillato, piedi nudi, foulard, collana e sigaretta perennemente in bilico dal labbro. E la chiara visione di come dev’essere inciso un brano leggendario. Jean-Luc Godard, uno che non batte mai strade risapute, mette in parallelo la nascita di uno dei capolavori del rock, l’inno Sympathy For The Devil, con le istanze cinemarxiste di fine anni Sessanta. Ne esce un film logorroico, confusionario ed estenuante, tra piani sequenza interminabili e inafferrabili discorsi concettuosi. Ma poi arrivano i nostri e Jagger insegna gli accordi a un Brian Jones visibilmente stordito. Il pezzo non decolla e allora Keith imbraccia il basso e in mano a Bill Wyman lascia le maracas. Il Fender Precision diventa il propellente ritmico del pezzo che ormai è un sabba musicale sottolineato dalle voci degli amici che fischiano “woo wooo” come un treno. Ciliegina sulla torta, un assolo bruciante che esce da una Les Paul Black Beauty. Film indigeribile per molti, ma di straordinario appeal visivo e sonoro. Come nasce la Rivoluzione? Come nasce un capolavoro? Ineffabile, anche Godard alla fine avrà canticchiato It’s Only Rock’n’Roll”. Un po’ leccatino, eh? Vabbeh: qualcos’altro da aggiungere a questa miniatura? Se non è già abbastanza chiaro, gli sproloqui di Jean-Luc risultano micidiali: ho resistito mezz’ora poi ho lasciato il mezzo svizzero al suo delirante collage sonoro e ho smesso di vedere, guardavo soltanto: una fotografia notevole al servizio delle interminabile inquadrature; un’edicola come paradigma del consumo contemporaneo; tanti black panthers arrabbiati; Anna Wiazemsky intervistata che risponde per monosillabi; slogan come “Freudemocracy” e “Sovietcong” scritti per le strade. Film antinarrativo, non è sottotitolato, ma non vedo come potrebbe. In settimana volo per lavoro a Roma e seduto due posti davanti a me c’è l’onorevole Ugo Intini, un acerrimo nemico dei miei vent’anni, quando era ogni sera in tivù a commentare entusiasticamente ogni uscita del cinghialone. Oggi è eletto nelle fila dell’Ulivo. Vorrei aprire uno sportellone e buttarmi giù. (Dvd; 2/7/04)

ddv4804474 – Nido di vespe, una vaccata di Florent-Emilio Siri, Francia 2002
È il colpo perfetto: un deposito nella banlieue di Strasburgo, pronto da svaligiare. Santino, Nasser e company si sentono già ricchi quando, inseguito da una milionata di balcanici incazzati e armati fino ai denti, arriva un blindato con dentro quattro flic e il loro preziosissimo prigioniero: il boss totale della mafia albanese. Diventa Fort Apache, con rapinatori e “buoni” che devono unirsi per salvare la pellaccia. Sparatorie, adrenalina e una discreta costruzione. Però il film crolla quando dovrebbe tirar fuori le palle: gli assediati costruiscono una sorta di fortino con dei container e questo momento epico viene buttato via, dimenticando la lezione di tutti i film d’assedio. E fin qui, passi. Ma lo scempio si compie con la liberazione. Secondo i sacri manuali tutto il film dovrebbe essere una lenta e sapiente costruzione dell’orgasmico “arrivano i nostri”. L’intelligenza del bravo sceneggiatore sta nel saper giocare con la prevedibilità della ricetta, inventando qualche variazione e aggiungendo qualche ingrediente nuovo. Qui – oltre a rubacchiare fin troppo da Carpenter – si fa presto: si evita la liberazione e si vede direttamente il dopo, dovendoci bastare il sacrificio di uno dei resistenti che si immola ammazzando un po’ di avversari. E chi sa se li ha fatti fuori tutti o no. Boh: la polizia è arrivata e i nostri eroi sono pronti per il ricovero. Zero psicologia, zero relazione tra i personaggi, neanche qualche banale legame o chimica interpersonale, niente. E i dialoghi fanno paura per pigrizia inventiva. Peccato. Film a parer mio scarsuccio, di cui ricordo invece ottime recensioni da parte di critici distratti o disperati. In questi giorni ho anche visto diversi episodi di Friends: c’è stato uno scambio tra drogati (con Nuria, che ha ricevuto i miei Sex and The City) e ho messo le mani sui Dvd della prima serie dell’epocale sit-com. Con la scusa dell’esercizio linguistico e qualche non meglio precisato interesse professionale del sottoscritto, Barbara e io abbiamo polverizzato i 4 dischetti. Oggi, delle ultime serie del telefilm, m’importa poco: vicende stanche e ripetitive, chiaramente aggrappate al bisogno di soddisfare l’audience e onorare contratti milionari. Conosco la solfa: the show must go on e Misery non deve morire. I protagonisti sono diventati insopportabili, ma nel 1994 erano dei twentysomething – non sempre credibili – alla ricerca di un lavoro e di una posizione sociale e sessuale. Gli episodi sono scoppiettanti e il kick off è da manuale: la viziata Rachel è in fuga dal matrimonio e piomba a New York, dall’amica Monica, il cui fratello Ross è appena stato lasciato dalla moglie scopertasi lesbica. Di contorno gli altri tre amici: il professionista Chandler, l’attore Joey e la scapestrata hippie Phoebe. I tic, le manie, i sogni, i timori di sei ragazzi che rappresentano perfettamente la nazione americana, eterna fanciulla che rifiuta di crescere e deve fare i conti con l’età adulta. E che la rappresentano anche come vorrebbe essere: sempre giovane, generosamente ingenua, bianca, lavoratrice, positiva, felice. Anche se nella versione originale le risate sono molto presenti, ci si abitua presto e – vi assicuro – è una gioia ottusa ridere in tanti. (Dvd; 11/7/04)

ddv4805475 – Keep calm, raga, ma ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003, stavolta a Mantova
Mentre a Milano Fame chimica resiste in sala, la demenziale logica distributiva della Lucky Red è continuamente smentita dalle richieste di rassegne e cineclub: stasera sono assieme al regista Paolo a presentare il film a Mantova, in un attivissimo cinema d’essai, il Mignon. Lo anima Agostino, vecchio amico del mio mentore Davide Parenti, col quale anni fa organizzava rassegne. In qualche modo sembra di tornare a casa e la proiezione è all’aperto, con uno schermo che ricorda quello di Strategia del ragno. L’atmosfera è del resto bertolucciana fin dall’entrata del Mignon, con le foto di scena di Novecento, girato nei dintorni. Assieme ad Agostino c’è Claudio, suo compagno di ricognizioni cinematografiche. Questa è gente che vive di cinema: lo mangia, lo respira, lo sogna e non s’è ancora disillusa, nonostante distributori, produttori e spettatori distratti provino a rendergli la vita impossibile in ogni maniera. La sala resiste ed è un gioiellino, dove non è solo di prima qualità la scelta dei titoli ma anche la proiezione e il sonoro. E i mantovani devono saperlo: la città è deserta e fa un caldo sudanese, ma non c’è un posto libero. Durante la proiezione andiamo a mangiarci una pizza con gli organizzatori e si parte coi classici racconti da cineclub: le pellicole non arrivate o sbagliate, le tipologie di spettatori e le modalità di visione, gli abbagli critici, quell’esilarante volta che… e così via. Non posso esimermi dal raccontare della traduzione simultanea dei gelidi film tedeschi al Lumière (l’interprete, con la cadenza del Gabibbo, ci metteva una partecipazione nulla e aveva sempre la stessa intonazione, sia che fosse una scena comica o una sparatoria) o della volta che ho visto Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulesov con le didascalie in cirillico e la voce affranta da fondo sala che continuava a chiedere: “ma non c’è qualcuno che sa il russo?”. Torniamo in tempo per i titoli di coda e il dibattito, quanto mai piacevole. Pubblico attento, curioso e pieno di domande. Ed è bello, perché si conosce della gente e le loro motivazioni: come si viene a sapere di un titolo, perché si decide di vederlo, come lo si commenta. Viva il pubblico, perché suo è il regno dei cinema! (Cinema Mignon, Mantova; 20/7/04)

ddv4806476 – Il fragile Unbreakable di M. Night Shyamalan, USA 2000
Se non l’avete visto, non leggete oltre. David (Bruce Willis) vive come narcotizzato: non comprende il mondo che lo circonda, è ai ferri corti con la moglie, non riesce a stabilire un ruolo nei confronti del figlio. Ed è l’unico sopravvissuto in un incidente ferroviario con un pacco di morti. Il culo, eh? Lo rintraccia un collezionista di fumetti (Samuel L. Jackson) che crede che la mitologia dei comics abbia più di qualche aggancio alla realtà e gli chiede quanti infortuni abbia avuto in vita sua. E David si rende conto che non è mai stato male. Il suo interlocutore, invece, è il più debole possibile: lo chiamano Mr. Glass perché le sue ossa si spezzano soltanto a guardarle. David non vuole essere scocciato da questo matto, ma il dubbio è stato instillato: e se fosse veramente un super eroe, come insinua l’uomo di vetro? Perché, quando sfiora qualcuno, ha delle premonizioni e capisce se faranno del male o no? È pura suggestione? È vero che anche lui ha un punto debole (l’acqua), come l’epica (anche fumettistica) insegna? Shyamalan tenta una cosa molto difficile: ragionare sui meccanismi della narrazione popolare costruendo al contempo una vicenda che possa essere fruita come tale, secondo gli archetipi della cultura media, comprensibile da tutti. Gioca con le ossessioni americane, con la cultura popolare yankee, con le leggende metropolitane, col Caso che non è mai casuale. Il film risulta più sciocco delle idee che lo animano e ha alti e bassi (una certa lentezza, tra l’altro), ma l’idea mi piace, per cui lo promuovo. Forse David è un super eroe: potrebbe, gli elementi ci sono tutti. Ma forse no: l’unico momento che non ha giustificazione logica è quando intuisce che l’addetto alla pulizia della stazione dei treni è un assassino. Tutti gli altri casi (quando individua un attentatore o sospetta di altri) risultano plausibili, vuoi per intuito, fortuna o mera possibilità: questo invece è il solo momento in cui la regia non trova una motivazione attendibile per l’operato del protagonista. E quindi il dubbio rimane: non è un errore, è un’incertezza voluta, direi. Bruce Willis è abbastanza ligneo, come da trademark, pur tuttavia simpatico in questi ruoli dolenti, dove soffre perché non capisce che cazzo ci stia a fare lì, con un regista che una volta lo fa morto e l’altra superman. (Dvd; 24/7/04)

ddv4807477 – Neanche troppe, Sei donne per l’assassino, di Mario Bava, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1964
Siamo a Brisino per una settimana, prima di dedicarci al Tour de Corse, e le serate sono perfette per quella straordinaria invenzione che è il Dvd. Considerato sia il primo body count che il primo slasher della storia del cinema, Sei donne per l’assassino è una sinfonia di morte, colori e musica clamorosamente orchestrata dal talento visivo di Mario Bava. Il plot è lineare e perverso ed è stato concepito e sceneggiato da quel Marcello Fondato già co-autore di Tutti a casa e poi insuperato regista di …Altrimenti ci arrabbiamo (un uomo, un genio, insomma): in una fashion house romana vengono fatte secche una modella dopo l’altra. Chi è stato, tra i tanti (uomini) che razzolano l’ambiente? Il mistero attizza e Bava sa come tenerti sulla corda: ogni uccisione è inventiva e raggiunge un nuovo grado di efferatezza. Dario Argento deve essere cresciuto su questo sacro testo che usa tutto alla perfezione per costruire un universo allucinato veramente de paura. Due anni fa mi aveva colpito l’incredibile irrealistica fotografia de La frusta e il corpo; qui il lavoro di Ubaldo Terzano è a livelli spaziali e ogni inquadratura è studiata nei minimi particolari cromatici, una tavolozza accesa da rossi violentissimi ma anche ammorbidita da luci di contrasto perfette. Rustichelli poi sottolinea il tutto con una musica inquietante e ineludibile. Certo, gli attori non son granché e la storia va via veloce, ma che pacchia per gli occhi e le orecchie: Bava si dimostra uno stilista eccezionale. Satisfaction! (Dvd; 25/7/04)

ddv4808478 – Il capolavoro, cosa te lo dico a fare?, Rear Window, di Alfred Hitchcock, USA 1954
Questo La finestra sul cortile me lo rivedo ogni volta che posso e la versione restaurata in lingua originale su Dvd è occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Il film è splendido e intelligentissimo (io molto meno e potrei contestare solo due o tre scelte di montaggio, con delle giunte sgradevoli) ed è molto più di un semplice thrilling. È un’incontestabile difesa della scopofilia: Jeff (James Stewart), altrimenti fotoreporter scavezzacollo, è immobilizzato su una sedia a rotelle e passa il tempo osservando i suoi vicini di casa che gravitano sul cortile del retro. È insofferente, vuole liberarsi del gesso e ricominciare a girare per il mondo. Ma c’è un altro ostacolo: l’altolocata ed elegantissima fidanzata Lisa (Grace Kelly) vuole impalmarlo e addomesticarlo. L’ossessione guardona distoglie la coppia dai bisticci: la massaggiatrice Stella e Lisa sono all’inizio indignate della curiosità di Jeff, poi vengono tirate dentro: c’è un delitto da smascherare! Ma il delitto è l’occasione per riflettere anche sul matrimonio e sui rapporti di coppia. Tutti i vicini rappresentano una diversa tipologia di vita condivisa (o meno): c’è la triste donna sola; ci sono gli sposini che ci danno dentro, la petulante zitella e la desideratissima ballerina. E poi c’è Burr che risolve il suo matrimonio in maniera drastica, dandoci letteralmente un taglio. Hitchcock è malizioso e tutto il rapporto tra Jeff e Lisa è attraversato da una forte tensione erotica. Lei se lo magnerebbe vivo, ma lui è immobilizzato, impotente, ingessato. E il premio per l’intraprendenza di Lisa (che aiuterà a risolvere attivamente il caso) saranno ben due gessi, con Jeff (forse) definitivamente prigioniero. Hitch misogino? Mah! Forse sul set, ma nei suoi film si divertiva un mondo a prendere per il naso il pubblico maschile, blandendolo e compiacendolo, per poi dimostrargli l’incontestabile superiorità femminile. Certo: la coppia Kelly/Stewart è un po’ improbabile… lei è una macrognocca, angelica nell’aspetto ma col fuoco nelle vene. Lui un vecchio gatto di ghisa, dal ciuffo tinto, per nulla ipotizzabile come avventuroso fotoreporter. Com’è possibile che lei sia innamorata di lui? E com’è che di fronte a questa irreale possibilità, lui, impiazzabile sul mercato, offra ancora delle titubanze? Che gran cosa il cinema! Film superlativo, buon Dvd, ottimi extra. (Dvd; 26/7/04)

ddv4809479 – Purtroppo, L’amore è eterno finché dura, di Carlo Verdone, Italia 2004
La residenza estiva a Champoluc viene santificata con una visitina al cinema che mi ha regalato capolavori come Fantozzi, Anche gli angeli mangiano fagioli e …Altrimenti ci arrabbiamo. L’unico film decente è l’ultimo di Verdone e andiamo a subire una cocente delusione. Intendiamoci: in quasi due ore di film ci sono almeno cinque scene molto divertenti, perché Carlo sa far ridere, eccome. Però punta più in alto: non gli basta il comico, vuole la commedia di contenuto, che sappia indagare il costume. Ci prova, ma non gli riesce: dopo la prima azzeccata mezz’ora L’amore è eterno… va spegnendosi, come il rapporto tra Verdone e la moglie Laura Morante, che è (tanto per cambiare) isterica, bidonata e imbidonita. Verdone la lascia e trova una nuova compagna (Stefania Rocca). Ma anche lì non filerà tutto liscio, perché le relazioni affettive sono terribilmente complicate. Verdone è attore fantastico, capace di tic, facce, espressioni assolutamente comiche. Come regista però è meno felice: musiche, montaggio, fotografia, direzione degli attori e soprattutto controllo della sceneggiatura e del ritmo della messa in scena sono molto discontinui, con frequenti cadute di tensione. Peccato. E da carogna noto anche l’utilizzo mal dissimulato di tappo di sughero in testa. Durante il mese d’agosto, mentre eravamo in Corsica, abbiamo anche visto la cerimonia olimpica inaugurale ad Atene, con invenzioni scenografiche semplici ma d’effetto. Emozionante la sfilata degli atleti: io mi commuovo sempre anche perché credo ancora a cazzate come la pace nel mondo, la solidarietà, l’onore sportivo etc. Poi, una sera abbiamo visto mezz’ora di Paz! e ci è parso tremendo, tutto sopra le righe: la regia insegue la geniale anarchia fumettistica di Andrea Pazienza. Ma se ci sono i fumetti che sono dei capolavori, che senso ha rifarli – e male – al cinema? Potrà mai venire bene un balletto di Béjart scolpito? (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 18/8/04)

ddv4810480 – Maestosi Rush In Rio, di Daniel E. Catullo III, Brasile/Canada 2003
Siccome a metà settembre i Rush arrivano in Italia, mi metto avanti col lavoro, guardandomi un recente doppio Dvd che li riprende in concerto. Musicalmente è eccezionale, da un punto di vista produttivo è invece troppo montato. Il palco è buietto e non sempre la definizione è al massimo, ma è tale il coinvolgimento che chi se ne frega? A corredo c’è il bel documentario The Boys in Brazil che racconta come sia nata questa tournée carioca. Conosciamo la segreta alchimia del gruppo (al trio piace la zuppetta!), gli hobby personali e come venga vissuta l’estenuante routine del tour. Tra stadi zeppi, acquazzoni tropicali e commossi fan argentini e cileni, un bel modo di raccontare la musica. Ma chi sono i Rush? Eccovi il pezzo che scriverò tra un mese per Rolling Stone dopo averli visti in concerto a Milano (è un cortocircuito spazio-temporale, lo so: faccio miracoli, embeh?). “È l’ultima sera d’estate e 8000 persone hanno deciso di passarla assieme: sono progster, metalhead e nerd assortiti. Sono fan dei Rush: non una band, una fede. Cieca. Come dimostra anche il passato atteggiamento sartoriale del trio canadese: kimono, caffetani, pantacollant, vezzosi foulard e eyeliner. Oggi vestono come persone normali e vantano un’invidiabile autoironia, sconosciuta ad altri dinosauri del rock: si presentano sul palco con delle lavatrici (!), a centrifugare trent’anni di un repertorio che spazia schizofrenicamente dall’hard anni 70 fino al nu-rock (qualunque cosa significhi) del nuovo millennio, avendo costeggiato il pop synth anni 80 e soprattutto il progressive più fantascientifico. Geddy Lee è forse il frontman meno glamourous della storia del rock: brutto come pochi (sembra la strega Nocciola), segaligno e dotato di una voce incredibile, come se avesse i testicoli in una pressa. Mette subito le cose in chiaro: “suoneremo un milione di canzoni”. Lo accompagnano il pingue e pacioccone chitarrista Alex Lifeson e il very cool Neil Peart, tecnicissimo batterista attorniato da un kit rotante che sembra una centrale termoelettrica e farebbe la gioia di una decina di garage band. Amati in USA, di culto in Europa, i Rush devono la loro gloria a concept visionari (talvolta amabilmente cialtroni) e a una miriade di canzoni, ormai classici, decisamente imprevedibili. Come quella che racconta della lite nel bosco tra aceri e querce, per dire. Bellissima. Ma la vita è dura e al buon Peart, nel giro di un anno sono morte figlia e moglie. Dopo una comprensibile pausa lavorativa i tre amici si son guardati in faccia: questo san fare, suonare. E allora, via!: vai di tour, dischi e dvd. Loro si divertono e il pubblico – a giudicare anche dal successo della data milanese – anche di più: un vero show, generosissimo, divertente, vario, ricco di luci e immagini dai mega schermi. E tra i tanti loghi della band ne spunta anche uno vecchio come loro, ma altrettanto attuale: fate l’amore, non fate la guerra. Ed eviterete l’estinzione.” Bel Dvd, grandissimi musicisti e belle persone. Ma occupiamoci dell’Italia, va’! Cesare Battisti s’è dato alla macchia e ci son grandi polemiche, con la sinistra che – adesso – se la piglia con Castelli perché non è stato abbastanza cane da guardia. Siamo proprio un paese di merda. In Iraq è stato assassinato il prigioniero italiano Enzo Baldoni, pubblicitario, traduttore di fumetti, blogger, viaggiatore, reporter, volontario. Una persona curiosa che si intuisce splendida dal ricordo addolorato di tutti gli amici e conoscenti. Il foglio di merda che è Libero si distingue come al solito e non nasconde la soddisfazione che un pacifista sia finito ammazzato, un “amico dei terroristi”, uno “che se l’era andata a cercare”. Uno, aggiungo io, che il giornalista non lo faceva dalla poltroncina al soldo del padrone e con le agenzie embedded, ma andandoci, in Iraq, anche e soprattutto per aiutare. E à la guerre comme à la guerre, tutte le vite dei giornalisti di Libero non valgono dieci minuti dell’esistenza di Baldoni. Con rancore. (Dvd; 23/8/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 48)

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