Anton Cechov – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Simenon: la maschera e il vuoto https://www.carmillaonline.com/2023/03/08/la-maschera-del-vuoto/ Wed, 08 Mar 2023 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76239 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare per generi e sottogeneri, è stato ricordato e/o celebrato soltanto per i 75 romanzi e i 28 racconti (scritti e pubblicati tra il 1931 e il 1972) che vedono come protagonista il celebre commissario Jules Maigret.

In realtà Simenon, autore tra i più prolifici, ha scritto, spesso utilizzando numerosi e svariati pseudonimi per poter pubblicare in contemporanea presso differenti editori, centinaia di romanzi e racconti che fuoriescono dal ciclo del commissario francese. Romanzi che spaziano tra storie d’ambiente piccolo borghese, se non proletario, e altre ambientate tra la ricca borghesia, sia della ville lumière che della provincia profonda della Francia del XX secolo. Con qualche deviazione spaziale verso il Belgio, in cui Simenon era nato, e altre parti del mondo.

Storie che, come vedremo anche a proposito del romanzo qui recensito, sono ascrivibili nella maggioranza dei casi al noir più classico, senza per forza con ciò voler definire un genere specifico di appartenenza. Piuttosto l’uso del termine serve, in questo caso, a delineare un ambiente psicologico e morale, prima ancora che sociale.

Tanto si è dibattuto nel corso degli ultimi decenni sulla sostituzione del romanzo realistico e sociale avvenuta per mezzo dei romanzi noir, ma anche se ciò è sicuramente vero, è vero altrettanto che non per questo i romanzi dall’anima nera debbano per forza descrivere ambienti sociali degradati economicamente (le periferie delle metropoli o la Marsiglia di Jean-Claude Izzo ad esempio) o le perverse trame del potere politico ed economico (come avviene nei romanzi di Dominique Manotti o Massimo Carlotto) oppure, ancora, gli ambienti e gli affari della “mala” (descritti puntualmente da André Héléna, Léo Malet o Auguste Le Breton).

Simenon ci guida a comprendere che il male del noir pur essendo, come del resto tutto, un prodotto sociale, può annidarsi ovunque. Come capita in questo romanzo, pubblicato originariamente nel 1960, che narra le vicende e l’inverno dello scontento di Jean Chabot: ginecologo di fama, comproprietario di una clinica per puerpere benestanti e responsabile della Maternità di Port-Royal, un appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne, una moglie, tre figli e una segretaria-amante, Viviane, che si è assunta il compito di «evitargli ogni minima seccatura».

Eppure, eppure…
Lo scontento e l’amarezza sono filtrati nella sua vita. Un goccio alla volta oppure per vaste crepe che sono andate aprendosi sempre più nel suo animo, soprattutto dopo l’aver appreso della morte per suicidio di una giovanissima inserviente della clinica, “l’orsacchiotto” del titolo, di cui lui aveva approfittato sessualmente diverse volte durante i lunghi turni di notte nella stessa, tra l’urgenza di un parto e quello successivo.

Ma non è un rimestamento morale legato al senso di colpa quello che accompagnerà il protagonista fino alle ultime, drammatiche pagine delle vicende narrate. No, sarebbe troppo semplice, soprattutto per un autore come Simenon, attento osservatore dei vizi privati e pubblici, altrui e propri.
Al massimo la scomparsa della giovane affogatasi nella Senna, dopo aver saputo di essere incinta e dopo esser stata cacciata dalla stessa clinica rimanendo senza lavoro, può costituire per Chabot una lieve riverniciatura di moralità e un blando senso di colpa destinati a mascherare il ben più profondo malessere che si annida nell’animo di un uomo che pur si è autenticamente fatto da sé.

E non costituisce un vero problema nemmeno l’enigmatica figura di un giovane, probabilmente coetaneo, fratello o amante, della giovane suicida, che perseguita il professore lasciando sul parabrezza della sua automobile dei biglietti sgrammaticati su cui sono scritte, solo e sempre, tre parole: «Io ti uciderò».
No, la vendetta dal basso non può preoccupare e non può spaventare un uomo che si sente morto da tempo. In cui anche i rapporti sessuali sono vissuti come compulsivi, destinati soltanto a riempire un vuoto esistenziale incolmabile.

Aveva preso dei farmaci. Li aveva provati tutti. Aveva persino cercato di distrarsi facendo sesso in modo compulsivo, e per un certo periodo non aveva fatto che andare a donne, approfittando di infermiere compiacenti, e due o tre volte di pazienti che si offrivano, il che gli aveva complicato l’esistenza. Questo era durato fino a Viviane e ogni tanto, se andava in crisi, ci ricascava1.

Vi è indubbiamente molto dell’autore, come per ogni scrittore che meriti davvero questo appellativo, nella figura di Chabot e, forse, proprio per questo Simenon riesce a portarci al cuore di ogni scontento, di ogni male, alla causa ultima di ogni azione registrata in un noir. Il vuoto dell’alienazione che scorre sul fondo della psiche, in maniera conscia o non conscia non importa ai fini dell’analisi ultima, di ogni individuo, maschio o femmina che sia. Insomma, parafrasando insieme Hannah Arendt e Raoul Vaneigem, “la quotidianità e la banalità del male”.

Alienazione che è sicuramente sociale e che è più profonda di qualsiasi semplice causa economica o politica. Nelle pagine dell’autore belga, così come in tutto questo romanzo, la separazione dell’individuo da se stesso e dalla sua vita, o da quella che egli riterrebbe dover esser tale, è totale.
Ed è totale proprio perché il protagonista, ma insieme a lui qualsiasi altro membro, grande o piccolo, del milieu cui appartiene, tutto sommato non sa con sicurezza cosa sia la sua “vera” vita e, soprattutto, cosa davvero vorrebbe al posto di ciò che già ha, o non ha.

Chabot stava dunque fingendo? Il proprio viso lo affascinava. Continuando a guardarsi, levò il bicchiere e lo vuotò d’un fiato, con una smorfia sulle labbra.
Poi, tanto per vedere, per rendersi conto, lentamente tirò fuori di tasca la pistola, più lentamente ancora ne portò la canna alla tempia, l’appoggiò come si appoggia la lingua su un dente che duole.
Evitò di toccare il grilletto. Non aveva intenzione di sparare. Voleva solo fare una prova e, adesso che aveva fatto il gesto, credeva di sapere. Meglio non continuare, non indugiare lì nello studio; l’immagine successiva era il «dopo», con il suo corpo sul pavimento.
Rimise l’arma in tasca, la bottiglia nell’armadio e andò a prendere cappello e cappotto nel guardaroba. In boulevard de Courcelles non si cenava prima delle nove. Per il caffè, non occorreva arrivare prima delle dieci2.

Come teorizzava Anton Čechov a proposito del teatro, se un’arma compare nel corso delle vicende prima o poi sparerà e starà soltanto al lettore scoprire dove, quando e contro chi o cosa.
E’ «l’uomo nudo» quello di cui ci parla Simenon nei suoi romanzi. Nudo davanti a se stesso, prima di tutto, poiché, pirandellianamente, tutto sommato la società gli fornisce un’abbondanza di maschere dietro cui nascondere l’alienazione che lo pervade completamente.

Funziona la scrittura di Simenon, sia sul piano narrativo, secca e spogliata di qualsiasi banalità o parola non necessaria, ma soprattutto come “guida” al noir, di cui rivela implacabilmente come il male, che può nascondersi in ognuno e in ogni vicenda umana, non ha bisogno di complicate trame e complotti per esplodere e manifestarsi. E neppure ha bisogno di esser compreso attraverso descrizioni minuziose di ambienti degradati che finiscono col giustificarne le azioni e le esplosioni.

No, per Simenon basta la vita di ogni giorno.
E questa è la sua lezione più importante, dai romanzi di Maigret a tutti gli altri.
Compreso, naturalmente, quest’ultimo.


  1. G. Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, p. 83  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 85  

]]>
Suspiria e il chiodo di Cechov https://www.carmillaonline.com/2019/01/19/suspiria-e-il-chiodo-di-cechov/ Fri, 18 Jan 2019 23:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50638 di Walter Catalano

Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.

Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, [...]]]> di Walter Catalano

Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.

Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, è un po’ come voler riscrivere Casablanca o Mary Poppins: non si tratta necessariamente d’intoccabili capolavori, ma di film che hanno saputo fondare e definire un immaginario. Confrontarsi con simili opere è un’intenzione che richiede cautela, specialmente se si accarezza la velleità di trasformare Casablanca in La passione di Giovanna D’Arco e Mary Poppins in Il Settimo sigillo.

Argento, da onesto artiere senza velleità intellettuali, poteva ampiamente permettersi – almeno prima del suo precoce rincoglionimento, ci si perdoni l’irriverenza – di ignorare le lezioni del grande scrittore russo: il suo Suspiria non è niente di più e niente di meno di una psichedelica icona pop-gotica che ha turbato i sonni di generazioni intere. Qui la visione scavalca la scrittura, lo spasmo viscerale calpesta il guizzo cognitivo, la fantasmagoria sommerge la citazione erudita. Argento non ha affatto bisogno di Čechov, cioè della cultura, della costruzione rigorosa e razionale, della drammaturgia coerente. Invece l’iconoclasta incauto che osi infrangere il feticcio, che voglia coltivarne l’ambiziosa metamorfosi da puro incubo, miasma dell’inconscio, ad allegoria esistenziale, da trance de viande a trance de vie, allora sì che ne ha un bisogno assoluto: il passaggio da lodevole intenzione a compiuta realizzazione si bilancia come un fachiro sui chiodi di Čechov.

Guadagnino, palesemente più a suo agio con Melissa P. o con fanciulli gay altoborghesi che con le streghe, crede che l’efficacia dell’indigesto minestrone di Macbeth sia data non dalla qualità e dal dosaggio ma dall’accumulo degli ingredienti da rimestare nel calderone, e per la court-bouillon – non esattamente corta dal momento che impiega ben 2 ore e 32 minuti per riapparecchiare un film di 1 ora e 40 minuti – del classico argentiano, pensa bene di ammannire l’immaginario visuale di almeno tre tipologie filmiche diverse: il docu-drama fassbinderiano alla Deutschland im Herbst, con autentici ma posticci spezzoni televisivi sulla cronaca della lotta armata nella Germania degli anni ’70 culminanti nell’eccidio di Stammheim; il dance film, pieno di efebiche fanciulle piroettanti, in equilibrio fra Scarpette rosse e Flashdance; e ovviamente l’horror, indeciso fra il visionario-surrealista (gli incubi della protagonista), lo splatter-gore e il kitsch incondizionato (la ridicola tregenda da pretesa Walpurgisnacht finale). Tre film in uno: nessuno dei tre compiuto, nessuno dei tre omogeneo, nessuno in sintonia con gli altri due.

La bomboniera barocca e pop della Friburgo immaginata da Argento cede il passo alla Welthauptstadt degli slavati scenari berlinesi in stile Checkpoint Charlie, perfettamente in linea con la fotografia noir di Netflix (o Amazon, che è lo stesso), sempre uguale di film in film; i tanto criticati flat characters argentiani, piatti sì ma anche archetipici come nelle fiabe – dove bastano le streghe, per l’appunto, e le vittime delle streghe – prendono corpo nella forzata intellettualizzazione pseudo-realistica di Guadagnino, come vecchi psicanalisti post-Shoah, enigmatiche insegnanti di danza (incarnati entrambi dalla bravissima Tilda Swinton, nel primo caso en travesti, unica perla nell’ostrica avariata di questo film) o giovani danzatrici ribelli divenute fiancheggiatrici della Rote Armee Fraktion: non più archetipi ma stereotipi, ugualmente flat e soprattutto pretestuosi, irrisolti e scontati.

La cosa che più irrita di questo film è la pretenziosità e l’inconsistenza: il cinema italiano che si fa notare all’estero deve essere, evidentemente, pretenzioso e inconsistente. Luca Guadagnino ricorda fin troppo, nella perizia tecnica che non significa necessariamente stile come nel manierismo autoreferenziale, un altro recente premio Oscar italico: Paolo Sorrentino. Le tematiche scelte e il modo di narrarle da parte di entrambi i pluripremiati cineasti, sembrano dovere molto di più ai Big Data dell’algoritmo con cui Netflix e le grandi compagnie di produzione e distribuzione audiovisiva costruiscono a tavolino i loro show, che all’antiquata teoria romantica del Genio. Ma Stranger Things, con tutti i suoi limiti, è un prodotto quasi universalmente efficace perché esplicitamente dichiarato e venduto come tale: non siamo sicuri di poter dire altrettanto delle opere stucchevolmente “artistiche” dei succitati autori (con tutta la buona volontà di applicare alla lettera il masochistico “volontarismo dell’amore” della baziniana Politique des Auteurs).

Meno conformisti di noi però – che mai diremmo male di un artista di moda – gli americani hanno invece saputo trattare il nuovo Suspiria come merita: inserito nella classifica dei 10 peggiori film del 2018 da The Hollywood Reporter, è stato così commentato dal New York Magazine: «Due ore e mezza di streghe così logorroiche che Hänsel e Gretel si sarebbero gettati loro nel forno, pur di non starle più a sentire», mentre il New Yorker lo ha definito : «Un debole e sordido “holocaust kitsch” con un’eleganza da fanatico e la consistenza politica di una maglietta del Che». Nessun italiano ha osato tanto.

Per quanto riguarda chi scrive, che non partiva affatto prevenuto ma anzi incuriosito e addirittura ben disposto, la delusione, la noia e l’irritazione sono state forti. In un Suspiria che sia Suspiria (un possibile Suspiria degli infiniti presenti nella Cineteca di Babele), le streghe dovrebbero fare paura e non ciabattare di qua e di là come perpetue affollando la loro congrega come una riunione di condominio (e comunque alle riunioni condominiali di solito nessuno si taglia la gola all’improvviso come inesplicabilmente vediamo fare ad una delle signore presenti: l’evento non è perturbante, semplicemente incongruo); se oltre alle streghe ci si permette di tirare di mezzo il terrorismo, la Banda Baader Meinhof, il bleierne Zeit, e la strage di Stammheim, allora si presume che il testo vada letto in relazione al contesto (diventi anche politico, quindi) e che questo non sia solo pretesto: streghe e terroristi dovrebbero quindi entrare in contiguità metaforica e non solo circostanziale; se poi si insiste sulla provenienza della protagonista, la giovane ballerina americana interpretata da Dakota Johnson, da una famiglia Amish – e non Davidiana o Avventista del settimo giorno, o cattolica o ebrea – si ha ragione di cercare il motivo della scelta in qualcosa di più del possibile omaggio a Witness e a Peter Weir; infine che relazione si dovrebbe cercare fra danza e stregoneria e quale fra allieva e maestra: i saltelli faticosi dell’apprendista la cui elevazione è aumentata dall’insegnante Madame Blanc vampirizzando a vantaggio della giovane pupilla l’energia di un’altra danzatrice che collassa poco dopo, sono un segno ambiguo entro un sistema il cui contenuto ci sfugge; se il fondamento della vicenda è il passaggio di poteri cruento fra le Madri (Suspiriorum, pare, ma c’è una certa confusione), perché questo rinnovamento si snoda proprio intorno a un ballet e perché questo s’intitola proprio Volk ? Infine, se si vuole conferire centralità al personaggio dello psicanalista (che era poco più di una comparsa in Argento), perché il suo rapporto con quasi tutti gli altri protagonisti resta periferico fino alla fine del film, tanto da rendere ancora più immotivata l’apparizione, fittizia e indotta dalle streghe, della di lui moglie, dispersa nei campi di concentramento: un occasionale pretesto per evocare l’Olocausto (che fa sempre engagement) e per fornire un ruolo cameo a Jessica Harper, protagonista del vecchio Suspiria ? Troppi chiodi, nessun impiccato – direbbe Čechov.

Già la scena d’esordio stona: l’improbabile seduta analitica della ballerina “ribelle” che vorrebbe denunciare le streghe all’anziano terapeuta, il dott. Klemperer (Tilda Swinton irriconoscibile: anche questa scelta opinabile; tre ruoli di cui uno maschile a Tilda – per quale necessità a parte lusingare la giusta vanità dell’attrice ?), sembra una corsa a ostacoli, la ragazza si muove continuamente, si alza, si siede, passa da una stanza all’altra, raccoglie e depone oggetti (tra cui un testo junghiano, tanto per gradire), e intanto parla delle streghe (senza che ci si capisca nulla). L’analista, invece di sbatterla fuori a calci nel sederino, la sta a sentire pazientemente e, a quanto si evince dal seguito, qualcosa capisce (beato lui), mentre continua a tallonarla con fatica nelle sue deambulazioni, finchè lei non imbuca la porta d’uscita e se ne va. Un inizio più farraginoso non si poteva trovare.

Altre scene in verità sono efficaci, almeno se prese singolarmente. Una in particolare funziona davvero, quella in cui ogni movimento brusco della danza che la nuova venuta americana, sta provando in palestra produce una frattura sul corpo della collega cui ha sottratto il ruolo principale e che, in lacrime per la delusione, cerca di abbandonare la congrega: rinchiusa in una sala a specchi mentre le ossa le si frantumano pezzo a pezzo, la poveretta sbava e si orina addosso ridotta ad un tronco adunco e contorto. Meglio di Argento, ma è finita lì. Non ci sarà più niente di splatter (a parte l’immotivato autosgozzamento di cui si è già detto), non ci sarà alcuna atmosfera terrorizzante o misteriosa dal momento che le streghe sono spiattellate come tali fin dall’inizio (la prima riunione condominiale) – lo straniamento dato dall’accostare arcano e quotidiano, come ad esempio Polansky fece magistralmente in Rosemary’s Baby, è del tutto fuori dalle corde di Guadagnino. Invano si attenderanno sviluppi che mettano in relazione stregoneria e terrorismo giustificando finalmente la ridondanza dell’ambientazione, invano si cercheranno chiarificazioni sulle motivazioni e le relazioni tra i personaggi.

Si arriva così, dopo una masturbazione lunga due ore e mezza e scandita in sei inutili atti con tanto di titolo, al deludente e goffo finale: l’apparizione di Madame Marcos (ancora Tilda coperta di protesi in lattice): una scena che era il climax del film di Argento, e che qui non ha alcuna rilevanza perché in realtà di Helena Marcos quasi non si è mai parlato nel corso del film ed è perfettamente inutile tirarla fuori dell’armadio proprio ora. Ecco che Marcos decolla o quasi la rivale Blanc; poi Susie Bannon, l’allieva americana – in realtà, ma che sorpresa, è lei la legittima Mater Suspiriorum – trucida la Marcos mentre una sarabanda di ballerine nude saltella in giro e Susie si apre un buco sanguinolento fra le costole; poi una specie di Mostro della Laguna Nera, che dovrebbe rappresentare la Morte o il Diavolo o chissà cosa, compare sulla scena come il Commendatore nel Don Giovanni: alcuni muoiono, altri resuscitano, mentre le ballerine si accasciano, sempre dimenando tettine e chiappette in bella vista; lo psicanalista Klemperer, rapito presumibilmente per essere sacrificato, viene invece risparmiato (perché ?). Game over. Qualche giorno dopo Susie appare in camera dello psicanalista e gli spiega prolissamente le circostanze della morte della moglie in un lager nazista, poi gli dona l’oblio di tutto quanto (i lager bisognerebbe ricordarli per sempre invece, non dimenticarli: definire la morale di Guadagnino pericolosamente ambigua è dir poco…). Nella casetta di campagna dei Klemperer frattanto si trasferisce una giovane famiglia. Dettaglio su un cuore inciso sulla traversa della porta all’interno del quale forse – la mia attenzione da tempo è un po’ caduta e non sono del tutto sicuro – si leggono le iniziali presumibilmente dello psicanalista e della moglie. Dissolvenza. Fine.

All’ingiustificata gratuità della sceneggiatura corrisponde pienamente l’insussistenza della tanto decantata colonna sonora di Thom Yorke, leader del sopravvalutato gruppo rock dei Radiohead. Il film ha un soundtrack, o così dovrebbe essere, ma non ce ne accorgiamo, è come se non ci fosse. Se l’intenzione era fare il contrario dei Goblin ci si è riusciti perfettamente, ma i Goblin però si sentivano eccome ! Anche la musica dunque delude quanto tutto il resto e alla fine, se vogliamo proprio salvare qualcosa, restano solo le prove attoriali, della Swinton in particolare, perché tutti gli altri non spiccano particolarmente. L’algoritmo di Netflix evidentemente ha fallito; ha indicato ad autore e produttori una serie di parametri per aggiornare un vecchio film come un architetto scalcagnato rimodernerebbe un loft: Berlino (città di moda); Anni di piombo e Olocausto (riferimenti fighi); Radiohead (gruppo di moda); Tilda Swinton (attrice di moda meglio se multiruolo come Peter Sellers, altro riferimento figo); ballerine (meglio se nude); splatter (non troppo); e così via. Ma sembrare fighetti non basta. Il vero problema era tenere tutto insieme. Un chiodo dopo l’altro.

Se c’è un chiodo, a quel chiodo qualcuno si deve impiccare” – ecco prorompere minaccioso come Nemesi il povero Čechov, sovrapponendosi ai titoli di coda. Così ai troppi chiodi del Suspiria di Guadagnino chi finisce per impiccarsi è lo spettatore.

 

 

]]>
L’esilio in Siberia e le radici della rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2018/05/16/le-gelide-radici-della-rivoluzione-della-controrivoluzione/ Wed, 16 May 2018 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42660 di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il [...]]]> di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il disgelo e nella stagione estiva tende a sciogliersi soltanto in superficie, dando vita ad immensi acquitrini.

Nella lingua mongola, “Siberia” significa “terra che dorme” anche se costituisce circa i due terzi della Russia attuale e nell’estremo oriente del suo territorio si raggiungono le temperature più basse registrabili sull’intero pianeta, ad esclusione delle regioni artiche. Si estende dai monti Urali fino alle rive dell’Oceano Pacifico e dalle catene dei monti Altaj fino alle rive del mare Artico ed è straordinariamente ricca di minerali, contenenti quasi tutti i metalli preziosi e comprende alcuni dei più grandi giacimenti di nichel, oro, piombo, carbone, molibdeno, diamanti, argento, zinco oltre ad alcuni dei più importanti giacimenti mondiali di petrolio e gas naturali.

Questi i dati odierni, mentre il testo di Daniel Beer, pubblicato da Mondadori, descrive la storia della sua progressiva conquista nel corso dei secoli e del suo sfruttamento da parte dell’impero zarista. Una storia che per molti versi sembra ripetere o, meglio, anticipare l’espansione statunitense verso Ovest tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento. Compresa la sottomissione forzata delle tribù preesistenti, appartenenti quasi sempre allo stesso ceppo originario delle popolazioni amerindie. Soltanto specularmente rovesciata verso oriente e su un territorio ancora più vasto.

Svoltasi sostanzialmente tra la fine del XVI secolo e il XVIII, l’espansione nell’oriente siberiano fu inizialmente trainata, ancora una volta come nel caso del West americano, sia dalla necessità di ampliamento territoriale che dall’abbondanza di animali dalla pelliccia pregiata: volpi, scoiattoli, ermellini, martore e, soprattutto, zibellini.

“Le pellicce che i promyšlennikki (commercianti privati di pellame – NdR) riportavano dalla Siberia, spuntavano prezzi astronomici in Russia e altrove. Bastava una sola pelliccia di volpe artica per acquistare una fattoria di buone dimensioni,completa di cavalli, bovini, pecore e pollame.
Nella loro avanzata verso est, i russi usarono un insieme di incentivi e violenza per esigere tributi dalle popolazioni indigene della Siberia. Chi collaborava con i promyšlennikki poteva contare su denaro e protezione, mentre chi non lo faceva, oppure era sospettato di nascondere la propria ricchezza, pagava un prezzo terribile: torture, prese di ostaggi e omicidi erano all’ordine del giorno, e interi villaggi vennero distrutti. Alcune tribù, come gli ostiachi, già abituati a pagare tributi ai precedenti governatori mongoli, cercarono un accordo con i russi che avanzavano, restando sconvolti dall’avidità dei nuovi padroni. Altri, come i buriati, opposero fin dall’inizio resistenza all’invasione. Le tribù della Siberia, tuttavia, anche quando si dimostrarono capaci di unirsi in una difesa coordinata delle loro terre, riuscirono a presentare solo una resistenza sporadica. Nessuna era in grado di opporsi alla potenza di fuoco delle forze russe, e decine di migliaia di loro morirono per le malattie portate dagli invasori.”1

L’attrattiva esercitata da quelle terre rimaneva però limitata, ad esempio rispetto a quelli dell’Ovest americano, a causa del clima e delle difficoltà oggettive opposte dal territorio ad un’autentica espansione di carattere agricolo. All’inizio del XIX secolo, infatti, la popolazione siberiana ammontava a non più di un milione di abitanti, quasi tutti concentrati nella Siberia occidentale e in città che spesso non superavano le dimensioni di un grande villaggio. Problema che per certi versi permane ancora oggi, considerato che il territorio siberiano è attualmente abitato da un quarto della popolazione russa complessiva.

Era stata forse questa difficoltà ad aprire le porte di quello che sarebbe successivamente diventato il cuore di tenebra dell’impero per gli stessi russi “bianchi”. Un’autentica prigione a cielo aperto, grazie all’istituzione dell’istituto dell’esilio.

“L’esilio era un atto di espulsione. Ioann Maksimovič, vescovo di Tobol’sk e della Siberia, dichiarò nel 1708: «Così come dobbiamo eliminare dal corpo gli agenti nocivi, in modo che il corpo non muoia, lo stesso deve avvenire nella comunità dei cittadini: tutto ciò che è sano e innocuo si può tollerare, ma ciò che è dannoso va tagliato via». Gli ideologi dell’impero tornarono più volte sull’immagine della Siberia come di un mondo oltre le frontiere immaginarie dello Stato nel quale il sovrano poteva eliminare le impurità per proteggere la salute del corpo pubblico e sociale. Con il passare del tempo, le metafore cambiarono, ma rimase la convinzione di fondo che la Siberia fosse il ricettacolo d’ogni male che affliggeva l’impero”.2

Inizialmente usato per malfattori, assassini e prostitute ben presto l’istituto dell’esilio fu applicato ai contadini rivoltosi, ai nobili attratti dal pensiero democratico dell’Illuminismo e, successivamente e spesso soltanto come alternativa alla pena di morte, per i congiurati decabristi, i ribelli e i rivoluzionari polacchi, gli esponenti dei movimenti populisti e terroristi anti-zaristi, gli anarchici e gli esponenti del socialismo o, meglio della nascente socialdemocrazia russa.

Nobili, contadini, operai, studenti, malavitosi, soldati (russi e stranieri prigionieri), prostitute, rivoluzionari, terroristi, uomini e donne, russi, polacchi ed esponenti delle varie nazionalità oppresse dall’impero iniziarono ad affollare una terra desolata, dalle distanze incommensurabili, in piccoli villaggi, sperdute cittadine, campi di lavoro o fattorie isolate. Da cui era difficile fuggire non tanto per la solerzia dei funzionari o delle guardie, spesso facili da corrompere o dallo scarso ossequio nei confronti del dovere e delle norme, ma proprio a causa delle distanze, del freddo, della diffidenza degli altri abitanti.

Un autentico inferno bianco di cui Beer, professore associato di Storia presso la Royal Holloway dell’Università di Londra, traccia le drammatiche vicende, delineando ritratti, vite, disavventure di un foltissimo stuolo di personaggi. Tracciando però anche un percorso cronologico lungo il quale si delinea una sorta di continuità ideale tra le storie e gli ideali dei deportati, democratici, ribelli, populisti e rivoluzionari socialisti che mostra come la continuità di scelte e di pensiero che caratterizzò l’azione sia dei riformatori democratici che dei rivoluzionari russi avesse nell’esilio siberiano le sue radici “storiche”.

Per ognuno di quegli esiliati le premesse potevano essere infatti diverse per tempo, classe sociale di appartenenza, lingua, nazionalità, credo politico o religioso, ma tutto finiva nel confluire in una pentola, in costante ebollizione, di odio e disprezzo nei confronti dello zarismo e delle sue istituzioni. Così, nonostante le morti, le rese o i pentimenti necessari alla sopravvivenza, la Siberia divenne davvero il luogo, oltre le frontiere immaginarie dell’impero, dove si andò formando la negazione politica e ideologica del corpo sociale edificato dagli czar e la reale coscienza della necessità del suo superamento.

Tutti i rivoluzionari russi, o almeno quelli sopravvissuti alle forche, passarono da lì. Tutti lasciarono un segno, una traccia. Fosse anche soltanto la guardia uccisa per poter fuggire o quelle intimorite dagli attentati in difesa delle condizioni di vita dei prigionieri, messi in atto soprattutto dopo la repressione dei moti rivoluzionari del 1905.3 Tutti impararono qualcosa ed ebbero modo di riflettere. Tutti insegnarono qualcosa ai nuovi venuti. Se non a parole, almeno con l’azione o il comportamento individuale.

La trasmissione della memoria storica e politica, imprescindibile per qualsiasi movimento rivoluzionario, si era fatta concreta. Si potrebbe dire che facesse parte dell’esperienza dell’esilio e dei lavori forzati. Le idee si erano trasmutate in carne e sangue dei deportati e le loro stesse vite finirono col diventare snodi di una rete infinita di comunicazione delle esperienze, concrete ed ideali allo stesso tempo.

Sarà per questo, forse, che l’istituzione successiva dei gulag, soprattutto a partire dal periodo staliniano, fu caratterizzata da quella che venne definita come “ingegneria delle anime”,4 cioè dall’azione costante e determinata tesa ad estirpare nell’esiliato/detenuto qualsiasi velleità critica o di costruzione di un consenso altro da quello stabilito dal regime. Il prigioniero doveva infatti perdere qualsiasi caratteristica individuale, qualunque capacità di pensiero autonomo, per concentrarsi esclusivamente sulla propria sopravvivenza e sulla propria colpa, così come dimostrano opere letterarie straordinarie come i Racconti della Kolyma di Varlan Salamov oppure Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn o, ancora, molti romanzi di Victor Serge.

Così, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, proprio per gli ideali di liberazione individuale e collettiva più alti che collegano, per linee apparentemente invisibili, gli esiliati della scuola di rivoluzione siberiana alle vittime della Siberia della controrivoluzione stalinista e successiva (basti dire che la Prigione centrale per i lavori forzati di Tobol’sk, costruita a metà Ottocento, è rimasta attiva come istituzione penale fino al 1989), la letteratura rimane uno strumento validissimo e indispensabile per ricostruire e comprendere l’immaginario politico e i fenomeni sociali di ogni società, passata o presente che sia. Come restano a dimostrare anche capolavori quali Memorie dalla casa dei morti di Fëdor Dostoevskij (cui si ispira il titolo del testo di Beer), Resurrezione di Lev Tolstoj o, ancora, la cronaca del viaggio in Siberia di Anton Čechov: L’isola di Sachalin.

Opere di cui l’autore inglese ha sicuramente tenuto conto nella stesura di un testo importante e leggibilissimo allo stesso tempo.


  1. D.Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, pp.22-23  

  2. Beer, pag. 25  

  3. A tal proposito si veda: Jurij Trifonov, I riflessi del rogo. Vita e morte di un rivoluzionario sovietico, Mursia 1981  

  4. Si vedano in proposito, tra le tante opere sull’argomento: Frank Westerman, Ingegneri di anime, Feltrinelli 2006 e Oleg V.Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi 2006  

]]>
Alle origini della narrativa europea dell’homo epistemologicus https://www.carmillaonline.com/2015/07/03/alle-origini-della-narrativa-europea-dellhomo-epistemologicus/ Fri, 03 Jul 2015 21:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22901 barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i [...]]]> barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i parametri alla base delle diverse epoche culturali.

Occorre iniziare da una questione terminologica: il termine “contemporaneo” viene utilizzato dall’autore per evidenziare come la produzione narrativa trattata nel saggio si differenzi rispetto alle proposte proprie dell’epoca moderna. Altrove, Barilli propone un ampliamento della nozione di “postmoderno”, fino a renderlo paritetico al termine “contemporaneo”, estendendolo sino a farlo partire dal finire del Settecento. (Tutto sul postmoderno, 2013). Vale la pena, in questo caso, mantenere ancora il tradizionale ricorso al termine contemporaneo, come d’altra parte decide di fare lo stesso autore sin dal titolo del saggio.
La distinzione tra moderno e contemporaneo, sottolinea l’autore, risulta evidente se si prende in esame la rivoluzione epistemologica che porta a modalità totalmente nuove di concepire il comportamento umano nei confronti della realtà esterna. Ad un homo oeconomicus, caro alla modernità, in omologia al positivismo ed alle forme narrative proprie del realismo-naturalismo, succede un homo epistemologicus, intento ad indagare la sua soggettività profonda. All’analisi della produzione narrativa dell’homo oeconomicus, l’autore ha dedicato Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna (2003) e La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj (2010), all’attuale testo spetta di affrontare la produzione narrativa europea dell’homo epistemologicus.
L’attenzione rivolta agli eventi minimali del vissuto, alla corrente di coscienza in evidente omologia con l’elettromagnetismo dell’età contemporanea, sancisce la fine dell’esigenza moderna di orientare gli atti di coscienza verso finalità positive: “Succede allora che, nello statuto della narrativa contemporanea, quello che secondo la Poetica aristotelica sarebbe pur sempre il primo ingrediente, l’azione, la diegesi, il mito (…) fa un passo indietro, mentre prevale l’ethos, cioè appunto l’analisi coscienziale, con la conseguente esclusione che si possa raggiungere un esito finale”. Come avviene ai coetanei in ambito tecnico-scientifico, i narratori contemporanei possono tralasciare i “grandi” avvenimenti, differenziandosi così dalle modalità moderne.
Nell’introduzione, l’autore non manca di motivare diverse esclusioni eccellenti tanto tra i predecessori ed i coetanei degli autori analizzati, come ad esempio Gabriele D’Annunzio, Henry James, Joseph Conrad e Thomas Mann, quanto i limiti “in avanti”, oltre ai quali non si spinge la trattazione.

Tra gli autori passati in rassegna da Barilli, Anton Cechov risulta essere forse il più problematico da inserire nella compagine di narratori entrati a pieno titolo tra i fondatori della narrativa europea contemporanea. Più giovane di un paio di decenni rispetto agli altri protagonisti trattati dal testo, Cechov può essere considerato un autore di transizione che mantiene ancora qualche legame con le caratteristiche tipiche del moderno, come ad esempio la persistenza di tracce dell’universo pauperistico ottocentesco ma, al contempo, non manca di fare i conti con “questioni contemporanee” come la difficoltà di amare e di dar vita e mantenere rapporti di coppia. Barilli sostiene che mentre “l’amore spontaneo” rappresenta una dinamica psicologica tipica della stagione moderna del naturalismo, in ambito contemporaneo si assiste all’intervento di una sorta di “freno autocritico” che porta l’individuo ad indagarsi allo specchio: l’atto di amare diventa un’impervia scalata che sottopone ostacoli a ripetizione, soprattutto interni. A proposito della permanenza, nel russo, di questioni pauperistiche, occorre dire che, nei suoi racconti, egli si limita però ad indicare genericamente la causa degli ultimi, senza mai giungere ad una critica sociale esplicita e puntuale. I suoi personaggi possono anche lasciarsi andare ad un minimo di empatia per i deboli ma, dopo averlo fatto, si rifugiano nel dibattito interno, psicologico, in linea con le caratteristiche dell’homo epistemologicus, dell’età contemporanea: “l’impegno verso fini sociali può solo essere agitato, enunciato a livello programmatico, ma mai imbracciato come effettiva via da percorrere”. Sul versante teatrale, se Cechov può dirsi contemporaneo per l’abilità nell’analisi del vissuto psichico, dunque a livello contenutistico, molto meno può esserlo per questioni formali; il teatro cechoviano fatica a reggere il confronto con le grandi prove del teatro novecentesco, non raggiungendo mai, sostiene Barilli, i livelli pirandelliani, pur se, ad onor del vero, conseguiti dall’italiano successivamente alla scomparsa del russo.

Con tutti questi “limiti” che lo rendono, per alcuni aspetti, in bilico tra moderno e contemporaneo, il suo inserimento nel gruppo indagato, si rivela utile a Barilli per poter introdurre gradualmente il ben più innovativo James Joyce, a partire dall’analisi delle analogie e delle differenze tra i due. Non mancano, infatti, analogie tra gli scritti di Cechov e la prima opera in prosa di Joyce, Gente di Dublino. Sebbene l’Irlanda non conosca la servitù della gleba, e dunque l’irlandese, a differenza del collega russo, non sia tenuto a fare i conti con la tematica ottocentesca del pauperismo, se si confrontano i protagonisti, le somiglianze di certo non mancano. In Cechov domina un ceto medio composto da ex proprietari andati in malora ed eterni studenti ed, a ben guardare, tale mondo non è molto diverso da quello dei personaggi mediocri ad un passo dal fallimento, che si rifugiano nell’alcool, che popolano Gente di Dublino. Tanto il russo quanto l’irlandese si guardano bene dallo “sporcarsi le mani” con i grandi eventi delle rispettive terre; i due preferiscono non dare troppo rilievo a tale ambito. In linea con la logica della narrativa contemporanea, così come Cechov evita di battersi contro la burocrazia statale e per il riscatto delle classi subalterne appena uscite dalla servitù della gleba e Joyce si sottrae dal prendere parte alla battaglia per l’indipendenza contro gli inglesi, anche Marcel Proust si mostra refrattario a lasciarsi coinvolgere dall’affaire Dreyfus che scuote la Francia dell’epoca. In tutti tre i casi le grandi questioni vengono tenute sullo sfondo preferendo a queste l’indagine psichica dei personaggi o il perdersi nella narrazione dei dettagli. In fin dei conti i grandi eventi storici finiscono per essere abbassati al ragno di dettagli che, mestamente, prendono posto tra altri dettagli: sono presenti ma pari grado alle inezie. A tal proposito, sostiene l’autore, “L’homo oeconomicus, che dominava la scena dell’ottocentesco teatro ‘moderno’ non aveva tempo per concedersi questi spazi fuori rotta, non così il contemporaneo homo epistemologicus che sa bene come il qui e ora sia solo una provvisoria e momentanea cresta dell’onda, incalzata da altre onde passate e future che si succedono senza tregua”.

Mentre la logica dell’homo oeconomicus è di tipo selettivo, nell’Ulisse joyciano, coerentemente con la logica contemporanea dell’homo epistemologicus, si intende afferrare la totalità degli accadimenti. A tal proposito Barilli indica un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo William James, volto a dare il massimo rilievo alla nozione di flusso di coscienza in opposizione all’economicità moderna. La narrativa moderna impone una selezione rigorosa, volta a cogliere ed a dare rilievo soltanto agli elementi utili all’affermazione del singolo, al soddisfacimento dei suoi bisogni materiali, collocando in subordine gli effetti psicologici, da tutto ciò “deriva anche la necessità di costruire un andamento, una sequenza delle occasioni, dei passi da compiere, il che corrisponde a quanto viene definito usualmente coi termini della trama, del ‘mythos’ nell’accezione originale aristotelica”. Nella narrativa antieconomica contemporanea, pertanto, alla logica lineare e consecutiva ne subentra una a “gorgo”. Se nell’epistemologia di James si vuole che la totalità di sentimenti e percezioni si presenti qui e ora, in Henri Bergson, invece, viene introdotto “un asse verticale-diacronico”, come a dire che molte di quelle sensazioni, le epifanie joyciane, vengono immagazzinate in una sorta di inconscio freudiano dal quale possono essere recuperate “solo se sollecitate da qualche impressione rinvenibile nel qui ed ora”.

Proust, pur essendo un autore molto diverso da Joyce, vanta con esso alcuni elementi in comune. In linea con la cultura contemporanea che intende ricavare “fiumi di energia” anche dal frammento minimo di qualsiasi materia, entrambi si focalizzano sul materiale d’esperienza che meglio conoscono; Joyce insiste sul piccolo mondo di Dublino, mentre Proust sul mondo salottiero parigino. Così come Barilli individua un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo James, analogamente, riscontra un’omologia tra il pensiero di Bergson e la trama di idee su cui si basa la Recherche di Proust. Nell’ambito della medesima epistemologia contemporanea, volta a superare la logica selettiva e narratologica moderna, che raggiunge il culmine nel corso dell’Ottocento, le coppie James-Joyce e Bergson-Proust, rappresentano, secondo Barilli, due differenti procedure. La prima coppia adotta un criterio di “attualismo assoluto”, costretto, inevitabilmente, a fare i conti con una perdita del vissuto che può, però, essere richiamato. L’urgenza di questi recuperi induce Joyce a procedere per brevi attimi, adottando tecniche di registrazione che giungono a spezzare le frasi ed a sperimentare il ricorso alle onomatopee e le pratiche del cislinguismo finendo col negare, in definitiva, ogni possibilità diegetica. La via Bergson-Proust risulta decisamente differente. In James il dato irrilevante resta a premere nelle retrovie ma può riaffiorare nel presente, in Bergson il dato irrilevante affonda lungo l’asse verticale celandosi alla vista e lasciando il primo piano alle condotte abituali. In Bergson una parte della memoria involontaria, le sensazioni inutili ed antieconomiche, sottratta al controllo dell’intelligenza, si deposita in un sottofondo remoto, simile all’inconscio freudiano, mentre in primo piano, a livello orizzontale, domina una “memoria in atto” che fa corpo con i nostri gesti, che, nella scrittura proustiana si traduce nel ricorso a lunghi tratti di narrazione “simil-moderna”. Proust non ricorre alla registrazione diretta, prelinguistica, joyciana, egli struttura un’architettura narrativa complessa e labirintica pur parimenti antieconomica nel mirare alla riemersione di momenti di assoluta gratuità. Joyce, in linea con la logica di James, in funzione dell’immediatezza, deve ricorrere a testimoni, Proust, invece, alla meditazione individuale.

Ai citati narratori pienamente contemporanei, Joyce e Proust, il saggio aggiunge Virginia Woolf e Robert Musil. Nel, 1922, con l’uscita de La stanza di Jacob, si compie la svolta che porta la scrittrice ad entrare con la sua opera pienamente in ambito contemporaneo. La moltiplicazione dei soggetti percipenti permette alla Woolf di accumulare un’ampia massa di dati ove si mescolano elementi ambientali con altri di natura antropologica. Il contatto con Thomas Stearns Eliot risulta importante non solo per le suggestioni che ne riceve, ad esempio dal suo processo di ibridazione tra prosa narrativa e poesia ma, sostiene Barilli, anche per il collegamento, seppure indiretto, che la scrittrice finisce per avere con la produzione filosofica di Francis Herbert Bradley, grazie al fatto che questa era stata studiata da Eliot. Una filosofia che “predica una immersione totale nell’esperienza come in un bagno unificante, in cui spariscono i confini tra i soggetto e l’oggetto, i due momenti mescolano le loro acque in un tutto unico, che può essere una pienezza di dati o anche una notte oscura, comunque qualcosa di ultimativo e finale”.
A Musil tocca chiudere la rassegna degli autori trattati dal saggio ed, a differenza degli altri, egli è in effetti l’unico a stabilire un collegamento diretto con una delle figure fondamentali che segnano il passaggio dal moderno al contemporaneo; si tratta dell’epistemologo Ernst Mach. Musil, infatti, stende la sua tesi di dottorato proprio sulla produzione filosofica di Mach. In questo caso la presenza fissa e costante dell’oggetto lascia il posto ad uno sciame di frammenti. Musil ne deriva una concezione in cui oggetto e soggetto risultano inscindibili, essi diventano “funtivi di un’azione unica, collegati da un nesso relazionale”. In L’uomo senza qualità, del 1925, il protagonista dell’opera risulta essere, secondo la lettura barilliana, “il portatore privilegiato ed esemplare di ogni possibile concomitanza con la grande rivoluzione epistemologica di fine Ottocento”. Si giunge davvero ad un passo da una “puntuale applicazione dell’empiriocentrismo di Mach e, assieme ad esso, di ogni altra concezione fondata sul principio di indeterminazione, tale da ‘porre a casa’ l’universo e le sue fondamenta”.

.

]]>
War! https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ Mon, 09 Sep 2013 23:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9243 di Sandro Moiso

Strangelove“War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della [...]]]> di Sandro Moiso

StrangeloveWar / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.

Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.

Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.

Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.

Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.

Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.

Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.

Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.

 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.

Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.

Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti […]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra […]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue […] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.

Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.

Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.

Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.

Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.

Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.

L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).

E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).

Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.

Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.

Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.

La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.

L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.

La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.

Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.

Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .

Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.

Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa detrminante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.

Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.

Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.

Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.

 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).

 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.

 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21

 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3

 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

]]>